Psicoterapia e counseling. Assonanze e distanze

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Punti di Vista



Paolo Chiappero

Psicoterapia e Counseling Assonanze e distanze


Prima Edizione: 2013 ISBN 9788898037018 © 2013 Edizioni Psiconline - Francavilla al Mare Psiconline® Srl 66023 Francavilla al Mare (CH) - Via Nazionale Adriatica 7/A Tel. 085 817699 - Fax 085 9432764 Sito web: www.edizioni-psiconline.it e-mail: redazione@edizioni-psiconline.it Psiconline - psicologia e psicologi in rete sito web: www.psiconline.it email: redazione@psiconline.it I diritti di riproduzione, memorizzazione elettronica e pubblicazione con qualsiasi mezzo analogico o digitale (comprese le copie fotostatiche e l’inserimento in banche dati) e i diritti di traduzione e di adattamento totale o parziale sono riservati per tutti i paesi. Finito di stampare nel mese di Febbraio 2013 in Italia da Atena.net - Grisignano (VI) per conto di Edizioni Psiconline® (Settore Editoriale di Psiconline® Srl)


INDICE

Premessa Introduzione Capitolo 1: La psicoterapia 1.1 La psicoterapia dopo Freud

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Capitolo 2: La psicoterapia ad indirizzo psicodinamico 2.1 Il processo psicoterapeutico e i fattori di cambiamento 2.2 Interpretazione e altri contributi di tipo espressivo 2.3 Il ruolo della relazione nel processo e negli esiti della Psicoterapia 2.4 Conoscenza o cambiamento? O tutti e due? Gli obiettivi della Psicoterapia 2.5 Per concludere

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Capitolo 3: La ricerca di un punto di incontro. La storia di Chiara

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Capitolo 4. Il Counseling 4.1 Il Counseling Rogersiano (Dott.ssa Cristina Fiore) 4.2 Il Counseling Psicofilosofico (Dott.ssa Sara Merlo) 4.3 Il Counseling Sistemico-Relazionale (Dott. Cristiano Trentini)

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Capitolo 5. Psicoterapia e Counseling. Un confronto 5.1 Counseling rogersiano e Psicoterapia 5.2 Counseling Filosofico e Psicoterapia 5.3 Couseling Sistemico e Psicoterapia

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Capitolo 6. Per non concludere

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Bibliografia

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PREMESSA

A Giulia

La mia vittoria più grande è stata quella di essere capace di convivere con me stessa, di accettare i miei difetti. Sono molto lontana dall’essere umano che vorrei essere. Ma ho deciso che non sono tanto male, dopo tutto. (A. Hepburn) Questo libro deve il suo risultato finale a molti colleghi e amici che, in diversa misura, mi hanno stimolato, corretto, sostenuto e “interrogato” su quanto andavo scrivendo. Oltre a chi ha collaborato attivamente nella stesura (i tre colleghi counselor che si sono occupati dei tre rispettivi capitoli) devo ringraziare le seguenti persone: Davide Sacchi, filosofo, per il confronto incessante (che va oltre il progetto di questo libro) su alcuni temi filosofici ed epistemologici; Tonino Di Giorgio per le sue competenze legate alle professioni d’aiuto; Lino Missio e altri docenti e collaboratori delle Scuole di Counseling con cui sono entrato in contatto in questi anni, per le appassionate discussioni e confronti sulla tematica oggetto del presente testo; Giuseppe Principato e Giuseppe Massari per il loro continuo incoraggiamento e stimolo; il collega Giorgio Meneguz per le informazioni editoriali che mi ha fornito; gli psicoterapeuti Ful7


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vio Respini ed Enrica Anfossi per il confronto pluriennale sulla clinica e la tecnica psicoanalitica; la Dott.ssa Anna Dondero per avermi dato la possibilità di progettare iniziative formative su temi quali la psicopatologia e la psicoterapia, in cui alcuni degli argomenti di questo mio lavoro sono stati trattati e dibattuti. E infine due ringraziamenti particolari: a Cristiano Trentini che, oltre ad essere l’autore di uno dei tre capitoli, ha letto, commentato e fornito suggerimenti utilissimi per il mio manoscritto e a Manuela, la mia compagna, per il suo sostegno morale in questi anni in cui, tra varie pause e ripensamenti, questo testo ha corso il rischio di rimanere inconcluso e restare nel “mitico” cassetto di quei progetti che desidereremmo realizzare, ma a cui non diamo la possibilità di concretizzarsi. Infine, doveroso, il mio ringraziamento va a tutti i pazienti e i colleghi che ho incontrato sulla mia strada professionale e umana, e senza i quali non avrei potuto avere esperienza e argomenti sufficienti per “dire la mia” sulle tematiche contenute in questo libro.

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INTRODUZIONE

Se si vuole spiegare l’umanità, bisogna coglierla nel suo vivente operare e nella sua attività globale (E. Mounier, Il Personalismo, 1949) Perché un libro su Psicoterapia e Counseling? Per esporre ambedue i processi di cura in modo esaustivo? Per capire se, ed eventualmente come, i due approcci possono interagire, sommarsi, integrarsi o, al contrario, non incontrarsi mai, o addirittura dover stare a debita distanza l’uno dall’altro? Per trattare aspetti legislativi, istituzionali, di mercato (perché esiste anche il “mercato della sofferenza”)? Sicuramente chi leggerà troverà nel testo anche queste tematiche, ma trovarle trattate, in modo più o meno ampio, non significa che siano la motivazione che sottende il presente scritto. La motivazione, che si collega allo scopo del testo di cui parleremo tra pochissimo, nasce sul campo. Nasce dalla frequentazione professionale di uno psicoterapeuta con colleghi psicoterapeuti, con counselor, come pure con psicologi-counselor e con psicoterapeuti-counselor ed è in buona parte legato all’esperienza di anni di insegnamento e supervisione in Scuole di Counseling 1

1 Nei capitoli redatti dal sottoscritto verranno impiegati i termini americani “counseling” e “counselor”, piuttosto che quelli inglesi di “counselling” e “counsellor”, perché maggiormente recepiti e diffusi nella letteratura italiana in materia.

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(oltre all’insegnamento e la supervisione con colleghi psicoterapeuti). Ma è sufficiente questo per scriverci un libro? No. È quello che ne “facciamo” di queste esperienze professionali ed umane che ci può spingere a scrivere, confrontarsi, dibattere, polemizzare, ecc…. e dato che tutte queste ultime cose, sul rapporto tra Psicoterapia e Counseling, le avevo già “fatte”, mi sono accorto che mancava lo “scriverne”. Sì ma scriverne perché? E torniamo alle domande iniziali sul motivo/scopo del libro. A parole è facile: provare a mettere nero su bianco pensieri e parole (come diceva Lucio Battisti), su analogie e differenze tra queste due grandi aree di intervento “psi”. Si badi bene: tra le due aree e non tra le figure professionali che hanno il compito di fornire il proprio aiuto professionale. Soltanto stabilendo che cosa è la psicoterapia e cosa è il counseling si può successivamente pensare a quali requisiti formativi e formali siano necessari per attuare rispettivamente questi interventi. Indubbiamente la Psicoterapia, e la figura dello psicoterapeuta, sono stati legalizzati (poco più di vent’anni fa in Italia), mentre sul Counseling e sulla figura professionale del counselor (inteso come “non psicologo” e “non psicoterapeuta”) esiste una situazione legislativa, e conseguentemente dei processi formativi riconosciuti legalmente, ancora poco definita. 2

2 Proprio mentre scriviamo apprendiamo che il Tribunale ordinario di Milano, con sentenza del 26/5/2011 proibisce l’insegnamento di materie psicologiche a chi psicologo non è o non frequenta un Corso di laurea in Psicologia. La sentenza recita che è fatto divieto di insegnare “l’uso degli strumenti conoscitivi e d’intervento (...) in ambito psicologico”. Si tratta di una sentenza che è stata giudicata “storica” da molte Associazioni di colleghi, Scuole e Ordini Regionali. La maggior parte di essi ha declinato questo giudizio positivo in termini di lotta alla concorrenza verso figure professionali che userebbero strumenti psicologici per competere con gli psicologi e gli psicoterapeuti. Per chi scrive di storico c’è ben poco. Se non in negativo. Nel tentativo di arginare possibili concorrenti nel “mercato della sofferenza”, si impedisce di trasmettere sapere, cultura, conoscenze a tutti gli operatori delle relazioni d’aiuto! E si trattano gli “strumenti conoscitivi” alla stregua di formule magiche che, se insegnate, porterebbero i “non psicologi” a possedere chissà quali “poteri” nei confronti dei cittadini. In definitiva una separazione

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Ma sarebbe troppo facile, perdonate la presunzione, rimanere sul terreno superficiale del solo “chi deve fare che cosa”, o “chi fa quella cosa lì e chi non può farla perché non ne ha il titolo”. Qui si tratta di partire dal: “che cosa sono queste cose che chiamiamo psicoterapia e counseling”. Un percorso più complesso, più lungo e irto di ostacoli (pensiamo solo alla difficoltà di definire precisamente gli ingredienti del nostro lavoro concreto con il disagio psichico). Un percorso serio e scientifico, in quanto alternativo al confrontare banalmente delle denominazioni, al confrontare semplicemente dei titoli di studio, al confrontare famelicamente nicchie di mercato con l’intento di accaparrarsene qualcuna in più, soprattutto in periodi di “vacche magre” come l’attuale. Troppe sono le variabili che concorrono alla formalizzazione legislativa di ambiti e figure professionali. Variabili scientifiche, politiche, di mercato, culturali, lobbistiche. Lo si è già visto con la Legge 56/89 sugli Psicologi (vedi nota precedente) e poi sull’istituzione delle Scuole di Psicoterapia per creare una nuova figura: lo psicoterapeuta. 3

dei saperi e una visione degli stessi anti-scientifica e oscurantista. Pensiamo soltanto a cosa accadrebbe se ogni studente di qualsiasi disciplina non potesse attingere dal sapere di scienze limitrofe, pena il rischio di possedere un sapere che “non gli spetta” e del quale potrebbe farne un uso nocivo. Ma, di questi tempi, le logiche di mercato in tempi di crisi hanno la meglio. Con buona pace della ricerca scientifica, dell’integrazione tra saperi e della collaborazione tra operatori. E non dimentichiamo i corsi e ricorsi storici del mercato: soltanto nel 1986 gli psicologi statunitensi ottennero la possibilità di accedere al fornire servizi di psicoterapia, a causa dell’ostilità della classe medica. Oggi, negli Usa, anche gli assistenti sociali possono esercitarla, come del resto avviene anche nel Regno Unito ed in altri Paesi. Per non dire delle vicissitudini legislative della nostra stessa legge di istituzione della figura di psicologo e di psicoterapeuta, che rappresenta in realtà un compromesso tra le richieste poste in quegli anni dalla classe medica, da un lato, e degli psicologi dall’altro. 3 Nuova soltanto perchè legalmente riconosciuta e nuova per il nostro Paese, in quanto esistevano già degli psicoterapeuti, nel senso sostanziale di chi operava nell’ambito della psicoterapia. Pensiamo soltanto agli psicoanalisti (o psicoterapeuti psicoanalitici) rappresentati in Italia anche da colleghi che hanno contribuito alla diffusione della Psicoanalisi sul nostro territorio, alla loro pratica psicoanalitica, al rapporto con la Cultura e con la comunità scientifica del nostro Paese.

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E quindi ritorniamo all’incipit di questo testo: un confronto tra due aree di intervento (a loro volta molto eterogenee al loro interno), basandosi sull’esperienza diretta di chi scrive, sul dialogo con tanti operatori delle relazioni d’aiuto e sulla letteratura in materia. Si potrebbe pensare che l’esperienza sul campo avrebbe dovuto dissipare dubbi, incertezze, necessità di chiarire (e chiarirsi). Nulla di tutto ciò. A meno che con la bella parola, che fa molto à la page nel nostro settore, di “esperienza sul campo”, non si intenda una sorta di lasciapassare, o patente acquisita, che permette di passare dall’esperienza sul campo all’essere “esperto sul campo”. Purtroppo sovente la seconda la si vuole necessariamente figlia della prima. A me come a tanti colleghi che stimo succede qualcosa di diverso. Quanto più lavoro in un settore, quanto più approfondisco certi temi, e (non dimentichiamolo mai) quante più persone incontro, indipendentemente dal loro status di psicoterapeuti, counselor, pazienti, clienti, ecc..., quanto meno mi sembra di avere certezze. “Grande è la confusione sotto il cielo, la situazione è perfetta”, diceva Mao Tze-tung. Non vuole essere l’elogio della confusione (che nella nostra cultura ha sempre un alone di negatività), ma della complessità. E dove c’è complessità c’è incertezza, difficoltà e soprattutto impossibilità a categorizzare nettamente ciò che osserviamo e mettiamo in pratica. Perché si tratta di una complessità intrisa di fattori umani, biografici, contestuali, relazionali che rende difficoltose le definizioni, soprattutto quelle di tipo categoriale (sì/no, bianco/nero e quindi anche: psicoterapia/counseling) Ci troviamo così di fronte a due movimenti contrapposti (spesso anche compresenti): proprio la complessità ci dovrebbe far vedere con sospetto i tentativi di classificazione, riduzione, definizione (“definire è uccidere” sosteneva il poeta francese Mallarmé), ma proprio la complessità ci spinge a cercarli, e dato che 12


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il buon senso popolare dice: “chi cerca trova” (ma lo dice anche l’epistemologia della scienza contemporanea seppure con parole diverse) cosa succede? Che le troviamo davvero le “certezze”! Per carità, se aiuta che male c’è. E vi assicuro che aiuta, eccome se aiuta, avere una pronta definizione su cosa è la Psicoterapia e il Counseling, su chi sono e cosa dovrebbero fare lo Psicoterapeuta e il Counselor. Così, quasi incidentalmente, siamo arrivati allo scopo del testo. Perché è proprio questo. Capire di cosa realmente parliamo quando parliamo di queste professioni d’aiuto. Il punto è distinguere le nostre astrazioni e definizioni sintetiche (che hanno una loro dignità, ci mancherebbe...) da quello che veramente si dovrebbe fare e si fa. In altre parole: se abbiamo bisogno di qualche stampella va benissimo. L’importante è non confondere la stampella con la gamba! Perché finisce che la gamba ce la dimentichiamo, non la utilizziamo più e non ci accorgiamo neppure che esibiamo una stampella, perché la rendiamo più vera della gamba stessa. Fuor di metafora: le nostre relazioni d’aiuto si trasformano in una definizione, mentre la realtà del nostro lavoro, intessuta di relazioni, emozioni, pensieri e comportamenti (e necessariamente anche “pratiche”, atteggiamenti, tecniche e metodi) diventa qualcosa che chiudiamo in una stanza. Ma non una stanza qualsiasi. La stanza di analisi, o di psicoterapia, o di counseling, cioè quella stanza in cui “due persone parlano”. C’è il rischio che qualcuno dica: non aprite quella porta! Allora ricapitoliamo: un testo sulle analogie/differenze tra Psicoterapia e Counseling che cerchi di andare oltre le definizioni sintetiche, manualistiche, schematiche, ma anche (udite! udite!) corporative e di mercato. Un testo che non ha preoccupazioni di esaustività. Anzi, forse, creerà più incertezze che certezze, o più domande che risposte. Insomma, il lavoro che seguirà non contiene probabilmente niente di nuovo sia in termini di argomenti trattati, sia in termini 13


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di scopi generali. Forse, spero, in termini di punti di vista. Ma non ne sono sicuro. Chissà quanti, in questo momento o prima, hanno pensato le stesse cose che sono scritte qui, le hanno messe nero su bianco, e lo hanno fatto anche in maniera più efficace del sottoscritto. Il vero motore, il vero scopo, l’unica variabile su cui mi piacerebbe si potesse esprimere un giudizio, da parte di chi legge, è sul metodo adottato. Trattare dei temi della Psicoterapia e del Counseling, definendo: 1. di “quale” Psicoterapia parliamo (visto che ne esistono più di mezzo migliaio di approcci) 2. di “quale” Counseling parliamo (anche in questo caso il numero di approcci non si contano) 3. non arrestarsi su definizioni brevi e solo teoretiche, ma corredarle di esempi clinici 4. confrontare le varie posizioni, rimanendo il più possibile aderenti a “ciò che veramente si fa” (e spesso non si dice) nelle stanze in cui lavoriamo. Sarebbe enorme soddisfazione per chi scrive se anche una sola persona, dopo aver letto queste pagine, chiedesse a voce alta, quando si discutono questi temi: <<Ma di quale Psicoterapia si stà parlando? Di quale approccio al Counseling? Ma lei “cosa fa” realmente con i suoi pazienti? E lei, sì anche lei, “cosa fa” con i suoi clienti?>>. Insieme all’identificazione di un ruolo (per altro nel caso dello psicoterapeuta anche normativizzato legalmente), alla volontà di rivestirlo ed esercitarlo, e alla indiscutibile legittimità di poter dire: “io sono e faccio lo psicoterapeuta” e “io sono e faccio il counselor”, non possiamo dimenticare che cosa accade, volenti o nolenti, nella stanza di lavoro. Gli esempi che seguiranno, proprio per le caratteristiche intrinseche al problema affrontato, non possono e non vogliono essere esaustivi. Ma vogliono, e speriamo possano, dare un con14


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tributo ad una seppur parziale decostruzione delle definizioni teoriche, tecniche, legali, istituzionali di queste “buone pratiche”. In parole diverse: non si tratta soltanto di mostrare una serie di “vignette cliniche”, spesso fini a se stesse nella letteratura psicoterapeutica (che rischiano di cadere in quel “clinicismo descrittivo” di cui parla in modo giustamente critico lo psicoanalista Pier Francesco Galli), ma un tentativo di rimandare, e attraverso la parte teorica, e attraverso quella clinica, al gioco di rispecchiamento e rapporto dialettico che ci deve essere tra teoria e prassi nel nostro mestiere. 4

Quindi provare a riflettere sul lavoro del sottoscritto e dei colleghi psicoterapeuti e counselor, cercando differenze ed analogie, sul versante degli obiettivi prefissati, del metodo utilizzato, e degli scopi che si ritiene realmente conseguiti. 5

Siamo consapevoli che anche le esemplificazioni cliniche hanno notevoli limiti per poter dare luogo a generalizzazioni euristiche, perché non ci sarà mai una psicoterapia uguale ad un’altra e un percorso di counseling uguale ad un altro. Perché un’altra variabile irriducibile alle definizioni e alla predittività scientifica è quella del “matching” (come si dice negli USA) tra quell’o4 Citiamo direttamente le parole del collega e maestro per molti di noi, sui rischi di un uso non euristico del materiale clinico che si presenta in letteratura. <<(...) si inaugura quella fase di “clinicismo descrittivo” che caratterizza molta parte della letteratura psicoanalitica attuale. Vengono in auge controtransfert, empatia, soggetto, e comincia la descrizione (...) dei vissuti lamentosi dell’analista, delle comunicazioni da rotocalco (...) dell’analista che racconta al paziente di quando ebbe il morbillo (...) In sostanza, così come prima circolava l’analista misterioso, adesso trionfa l’analista in mutande>> (Galli, 2006) 5 In questo caso uso i termini “obiettivi” (prefissati) e scopi come sinonimo di risultati attesi, che non devono essere necessariamente misurabili, standardizzabili e circoscritti (es. la remissione del sintomo), ma molto più ampi e meno facilmente definibili (ad es. la capacità di auto-osservazione del soggetto, oppure un miglior utilizzo delle proprie risorse personali, ecc...). È una precisazione importante perché, sempre a causa di confronti e valutazioni astratte e superficiali, il solo utilizzare la parola obiettivi o risultati, fa pensare ad un approccio alla psicoterapia di tipo efficientistico e meccanicistico. Quando invece anche una psicoterapia senza obiettivi sarebbe una psicoterapia che ha un obiettivo: non averli. E sull’adesione a questo obiettivo cercherebbe delle conferme continue per auto-validarsi.

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peratore Pinco e quell’utente Pallino. Ovverossia quell’incontro, quel lavoro di coppia, quella dimensione intersoggettiva, non replicabili e non (del tutto) generalizzabili. Ma il progetto del seguente testo nasce anche dal non potersi accontentare di sentire dire: “Io faccio Psicoterapia”, e avere come risposta “Invece, io faccio Counseling” (o viceversa). Come se si dicesse: “Io vendo pesce”... ”Ah sì, io invece vendo frutta e verdura”. Tanto più che tra metafore su gambe e stampelle e su pesce e verdura, rischiamo di dimenticarci che qui parliamo di “persone in carne ed ossa”. Infine, alcune considerazioni sulla composizione del presente scritto. Ognuno degli estensori (il sottoscritto in qualità di psicoterapeuta, i tre colleghi in qualità di counselor) hanno presentato un modello di lavoro e un caso clinico. 6

Per restringere un campo, quello delle relazioni d’aiuto, già di per sé vastissimo, si è preso in considerazione solo il setting individuale con pazienti adulti. Alla parte sulla Psicoterapia psicodinamica con caso clinico annesso, segue una breve sezione introduttiva sul Counseling, che ha lo scopo di anticipare alcune problematiche che poi verranno messe a fuoco più precisamente dai counselor stessi nei loro capitoli. Questo capitolo sul Counseling si basa su quel “knows a thing or two” (espressione idiomatica inglese per dire “con sincera modestia”) sul Counseling che mi sono formato sia attraverso la letteratura sul tema, sia attraverso il lavoro di docenza e supervisione con colleghi counselor (psicologi e non). Proprio per evitare che il tutto si esaurisse in una sorta di: “Counseling. Vediamo che ne pensa lo psicoterapeuta”, a questo 6 Uno dei tre colleghi, il Dott. Cristiano Trentini, oltre che svolgere la professione di Counselor attraverso una formazione specifica in tal senso, è anche Psicologo.

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capitolo si aggiungono i già citati tre contributi relativi rispettivamente a tre approcci (tra i molti) all’esperienza di counseling: counseling rogersiano, counseling psicofilosofico, counseling sistemico. La scelta dei tre approcci è molto semplice da esporre, ma rilevante. Non ho privilegiato alcune teorie su altre (quindi gli approcci non inclusi non derivano il fatto di non comparire per una personale scelta “scientifica”). Ho semplicemente, coerentemente con lo spirito di questo lavoro, scelto tre colleghi, piuttosto che tre teorie. Tre colleghi che conosco personalmente, stimo professionalmente, eticamente ed umanamente, e so avere sufficiente esperienza teorica e pratica sul Counseling per poterci comunicare riflessioni ed esperienze profonde ed autentiche. Colleghi che, a loro volta, non hanno alcuna responsabilità scientifica sulle opinioni espresse dal sottoscritto, a cominciare dai commenti ai loro stessi contributi che appaiono qui. Infine, seguirà una parte conclusiva che, fondandosi sia sul “modello” di Psicoterapia delineato dal sottoscritto, sia basandosi sulle argomentazioni dei colleghi, trova esposte le mie considerazioni su ciò che unisce o divide Psicoterapia e Counseling. Sono più le differenze o le analogie? Le differenze sono qualitative/categoriali o quantitative/dimensionali? E quindi: possiamo parlare di un continuum tra i due percorsi di cura o di aree che, pur con tratti in comune, si situano su livelli di relazioni d’aiuto differenti? E ancora: alcune risposte alle domande precedenti non potrebbero differire a seconda di “quale” approccio psicoterapeutico e di “quale” tipologia di Counseling prendiamo in considerazione? Per non parlare del modo concreto di interpretare tutto questo da parte dell’operatore, da cui scaturisce un’ulteriore domanda: non potrebbero esserci psicoterapie cha “assomigliano” più di altre al counseling, e viceversa? 7

7 Lo psicoanalista inglese Bion (1970) sostenne che: “Non credo che ciò che separa tra loro gli scienziati sia la differenza delle loro teorie. Non mi sono mai sentito “separato” da qualcuno che professa teorie diverse dalla mia; non mi sembra che ciò

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Per tacere del fatto che non stiamo parlando di modelli “puri”, ma di contaminazioni che agiscono in ogni modello metodologico (quindi soprattutto sul piano della prassi clinica). Non esiste una psicoterapia psicoanalitica, per fare un esempio, pura al 100%, ma un processo terapeutico che, a seconda delle caratteristiche personal-professionali del terapeuta, a quelle del paziente e alle fasi/momenti del percorso terapeutico, si distinguerà per atteggiamenti differenti dello stesso terapeuta con lo stesso paziente: interpretativi, chiarificatori, confrontativi, ma anche supportivi, emotivamente rispecchianti, gratificanti, ecc... E last but not least, ma solo per non tediare oltre misura chi sta leggendo, non potrebbero alcune psicoterapie, in virtù dell’apporto soggettivo di “quello” psicoterapeuta insieme a “quel” paziente, caratterizzarsi più come una relazione duale assimilabile al Counseling e, al contrario, qualche esperienza di Counseling avere una caratterizzazione coppia-specifica che la rende più assimilabile ad una Psicoterapia? 8

E così, in attesa di andare avanti, torniamo al punto di partenza. Quindi una ri-partenza, perché il punto d’avvio è ancora e resterà lo stesso: di quale Psicoterapia e Counseling stiamo parlando? Cominciamo con la prima... offra un criterio per misurare la profondità della frattura. Per converso, mi sono sentito assai distante da alcuni che, in apparenza, professano le stesse teorie che professo io. Di conseguenza se la “frattura” deve essere misurata, dovrà esserlo in un campo che non è quello della teoria” (Il corsivo è nostro). 8 A proposito proprio delle note in calce. Se ne troveranno molte nel presente testo e sono pienamente d’accordo con Racamier (1980) quando sostiene: <<Voi sapete quanto siano importanti le note a piè pagina: là, in caratteri minuscoli, gli autori riconoscono il loro debito verso qualcuno a cui in larga parte si ispirano; là ancora riassumono in tre righe chiare ciò che hanno imbrogliato in tre pagine o in trenta; là, infine, esprimono volentieri le loro idee più originali>>. Ho cercato nelle note di fare un po’ tutto questo e in aggiunta anche due utilizzazioni delle note con questi scopi: a) sintetizzare, ad un livello di minor complessità, alcuni concetti o pensieri di autori, nel caso in cui chi legge non ne fosse a conoscenza; b) approfondire alcuni temi attraverso le note per non appesantire il testo centrale.

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LA PSICOTERAPIA

La relazione terapeutica non deve essere un'educata conversazione o una chiacchiera da salotto, ma deve avere il carattere dell'immediatezza: L'analista non deve mai mentire, né cercare di compiacere o impressionare. Deve restare se stesso, il che significa che deve aver lavorato con se stesso. (E. Fromm, L'arte di ascoltare, 1991) La psicoterapia comincia là dove finisce l’efficacia del buonsenso. (O. Kernberg, Disturbi gravi della personalità, 1984) Il cammino per accostarsi alla meta fu di una lentezza estrema. Passarono mesi, prima che fosse possibile anche solo attaccare seriamente il discorso e giungere ad una discussione sostanziale (H. Hesse, Narciso e Boccadoro, 1930) Il termine “Psicoterapia” nasce dalle parole greche psyché (anima) e therapìa. 9

9 In Italia soltanto con la legge 56 del 1989 si è disciplinata la professione di Psicologo e, conseguentemente, di Psicoterapeuta. In netto ritardo rispetto agli altri Paesi europei e non solo, quindi. Successivamente, È stato istituito l’Albo degli Psicologi, su articolazione regionale, e definiti i criteri per la professione di Psicoterapeuta (art. 3 e art. 35 della Legge suddetta). La legge italiana non prevede, formalmente, un vero e proprio Albo degli Psicoterapeuti.

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Una cura dell’anima allora? È meglio dire: qualsiasi intervento a scopo curativo che si basi su mezzi psichici, sia intenzionale e scientificamente fondato e svolto da un professionista abilitato del settore (lo psicoterapeuta). Altri elementi che restringono ulteriormente il campo sono: la strutturazione e continuità della relazione psicoterapica (che quindi non è occasionale e/o casuale) e l’utilizzo di tecniche e strategie che rendono più o meno strutturato questo tipo di rapporto. Tecniche e strategie che, a loro volta, scaturiscono da un corpus teorico e da esperienze cliniche. 10

Esiste una differenza di grande interesse tra Psicoterapia propriamente detta ed effetti psicoterapeutici. In quest’ultimo caso ci riferiamo a tutte quelle situazioni interpersonali (amicali, volontaristiche, gruppali, ludiche, ecc...) e non (l’effetto di un farmaco, ma anche di un hobby, di una lettura, ecc...) capaci di determinare cambiamenti, considerati positivamente sul piano psicologico, in un soggetto. Cambiamenti che possono avere durata permanente. In questa sede tratteremo della Psicoterapia propriamente detta in cui la discriminante, rispetto ad altre circostanze che possono avere “ricadute” terapeutiche, è data dal fatto di essere condotta da uno psicoterapeuta riconosciuto formalmente e legalmente come tale e dall’uso (in forma più o meno esplicita e strutturata) di riferimenti teorici e metodologici. Per quanto riguarda coloro che sono psicologi si può consultare l’Albo degli Psicologi e verificare tra essi a chi è consentito l’esercizio della psicoterapia. Essa dovrà comunque avvenire sulla base di una formazione specifica, almeno quadriennale, presso Scuole di Specializzazione pubbliche o private (queste ultime riconosciute dal Ministero competente, il MIUR). 10 Nell’antica Grecia la psyché/anima era raffigurata come un essere alato, in quanto il termine stesso di psyché rinvia al significato originario di “respirare”, “soffiare”. In questo senso essa assume anche il significato di “respiro vitale” e quindi di vita. Nel pensiero platonico con questo termine si indica l’anima “razionale”, che diversamente dall’anima psichica (di cui Platone tratta in opere come Fedro e il Simposio), non conosce la pluralità dei significati e l’uso del simbolo (aspetti peculiari nella Psicoanalisi, ad esempio) ma significati univoci, basati sul principio di non contraddizione e dell’oggettività dell’essere stesso (ontologia). Per un raffronto tra l’uso di questi concetti in Psicologia, Psicoanalisi e Filosofia vedi ad es. Galimberti (2005).

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Il collega Piero Porcelli, nella Presentazione del libro di Lorenzo Giusti “Il terapeuta imprevedibile” (2010), sostiene: <<Se ci riflettiamo un po’ ci accorgiamo che - dopo oltre un secolo denso di affermazioni e di teorie - [la psicoterapia] è ancora un oggetto proteiforme e sfuggente, imparentato con mille altre pratiche che rifiutiamo di considerare psicoterapia, come un colloquio ad ampio raggio con il medico di base, lo sfogo con un amico o la confessione con il sacerdote>>. Figuriamoci se questa relazione di parentela non debba esistere con fenomeni ancora più vicini alla nostra pratica psicoterapeutica, come le varie relazioni d’aiuto professionali esistenti. Quindi abbiamo parentele più vicine e più lontane. E sovente è con i parenti più stretti che abbiamo i conflitti maggiori e le più marcate ambivalenze... Quanto all’esistenza e alla legittimità scientifica della Psicoterapia esse nascono dalla considerazione che esistano patologie psichiche, non solo nelle loro manifestazioni (sintomi), ma nelle loro cause vere e proprie. Ma ciò non basta a definire la psicoterapia una volta per tutte in modo univoco, e soprattutto a ritenere che ne esista una sola forma possibile e scientificamente accreditata. In realtà, se prendiamo in analisi la definizione più generale di “cura della psiche” troveremo lungo tutta la storia dell’umanità dei tentativi, più o meno scientifici, di “fare” della psicoterapia, anche senza usare questo termine (a noi noto soltanto dagli inizi dell’800). Pratiche magiche e religiose per liberare i malati dall’infermità mentale o fisico-mentale sono sempre state attuate, nelle forme più disparate, in tutte le culture e in tutti i tempi. Anche in questi casi ad avere l’esclusiva di determinate tecniche e/o rituali erano solo alcuni individui della comunità, tribù o società. Esiste quindi da sempre una corrispondenza tra “atto di cura” e “persona che cura”, “cura della psiche” e “curatore della psiche” dunque...

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psicoterapeuta e Psicoterapia.

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Nella sua versione moderna la Psicoterapia, chiamata come tale, nasce con le metodologie basate sull’ipnosi e sulla suggestione di Mesmer (1734-1815). In queste applicazioni pionieristiche di metodi psicologici di cura l’intento era ancora quasi esclusivamente sintomatico: la soppressione o riduzione dell’evento morboso (sintomo). Ma il fatto che, anche attraverso il rapporto interpersonale medico-paziente, si tentasse di curare le “malattie dell’anima” ci consente di annoverare questi primi tentativi come Psicoterapia. Il cosiddetto “mesmerismo” (o dottrina del magnetismo) faceva leva sul presupposto dell’esistenza di un fluido vitale tipico di ogni individuo e capace di produrre cambiamenti tra gli esseri umani. Questo “fluido magnetico” sarebbe appannaggio anche di alcuni minerali, da qui l’applicazione congiunta di minerali (ad es. il ferro) e metodi psicologici come l’ipnosi. Mesmer teorizzò una fisiologia in cui il corretto funzionamento dell'organismo è garantito dall’armonia del “magnetismo animale” mentre malattie e disfunzioni sarebbero dovute a blocchi o irregolarità dello stesso. Con il passare del tempo Mesmer si occupò soprattutto di malattie psichiche e fu un precursore del metodo ipnotico. Il periodo di maggior diffusione del mesmerismo fu alla fine del XVIII 11 Un bell’esempio in letteratura viene riportato dalla scrittrice australiana M. Morgan in “E venne chiamata due cuori” basato sulla sua esperienza tra gli aborigeni australiani e dove si parla della “donna dello spirito” che sa ascoltare e sa interpretare i sogni degli altri membri della comunità (Morgan, 1991). La necessità dell’ascolto e di un rapporto esclusivo, la possiamo trovare anche nel rapporto con oggetti materiali: nella mitologia persiana, ad esempio, troviamo il “sang-e sabur”, una pietra che si tiene accanto per confidarle tutti i propri segreti e pensieri più reconditi. Sempre a proposito di oggetti “antropomorfizzati” nel film del 2000 “Cast Away” (del regista Robert Zemeckis) abbiamo il protagonista, novello Robinson Crusoe, che dialoga e stabilisce una profonda relazione affettiva con un pallone, da lui battezzato “Wilson”. Con un altro salto all’indietro nel tempo possiamo ricordare gli oracoli della Grecia antica, ai quali le persone si rivolgevano per le loro pene d’anima e per altri problemi della loro vita quotidiana. L’oracolo occupava un posto preciso, che era un luogo sacro e che ci fa rammentare, come psicoanalisti, la “sacralità del setting”.

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secolo a Parigi, ma si trattò di un lasso di tempo molto breve: osteggiato dalle autorità mediche ed ecclesiastiche lo studioso di origine tedesca riparò prima in Svizzera e poi in Austria. Credo che sia degno di nota il fatto che, la Commissione Regia di Francia che si occupò di sfatare le sue teorie, trovò come argomento avverso allo studioso tedesco l’utilizzo di “pratiche suggestive”, un’accusa che troveremo molto spesso nella storia della psicoterapia, anche sotto la dicitura di: “effetto placebo”. 12

Dopo Mesmer, sempre in Francia, fiorì la pratica dell’ipnosi, già nota in ambito medico e popolare, ma fino a quel momento confinata ai margini della scienza ufficiale. Uno dei punti d’avvio furono le riflessioni del medico oculista inglese Braid (1795-1860), che introdusse il termine «ipnotismo» (dal greco hypnos = sonno) che usò per indicare lo stato di sonno lucido animale. Al suo pensiero si rifece il francese Liébeault (1823-1904) che sostenne il ruolo della suggestione nei fenomeni ipnotici. A quest’ultimo si aggregò il connazionale Bernheim (1840-1919), ed insieme diedero luogo alla Scuola di Nancy che gettò le basi della concezione dell’ipnosi come metodologia psicoterapeutica, ma è più corretto dire che a quell’epoca essa “era” la Psicoterapia tout court. Un altro studioso dell’ipnosi fu Charcot (1825-1893; celebre neurologo francese che operava nel noto ospedale della Salpêtrière a Parigi). Questi cercò di confutare le teorie della Scuola di Nancy, asserendo che l’ipnosi fosse una condizione fisiologica 12 L’effetto placebo fu scoperto dal medico americano H. Beecher durante la II Guerra Mondiale, sul fronte del Pacifico. Sostanze inerti, iniettate al posto di potenti analgesici non disponibili, sortivano un effetto anestetico nei soldati feriti nel conflitto. Oggi si ritiene che a concorrere all’effetto placebo siano presenti variabili soprattutto socio-ambientali, insieme a predisposizioni genetiche del singolo. I circuiti neuronali coinvolti sarebbero gli stessi di quelli attivati dai farmaci. L’effetto placebo è stato evidenziato nelle ricerche sugli psicofarmaci. Allo stesso effetto placebo (detto in questo caso “negativo”) si deve imputare il fenomeno di diminuzione di effetto dei farmaci, nel caso in cui l’aspettativa è negativa o si crede che si tratti di una sostanza inerte. In psicoterapia potremmo adottare il termine di placebo in quelle ricerche in cui falsi terapeuti risultavano efficaci con pazienti che ritenevano di trovarsi di fronte a psicoterapeuti veri e di esperienza (Strupp e Hadley, 1979, Rioch 1963, Gendlin, 1967).

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alterata del sistema nervoso, provocabile con modalità meccaniche e in persone nevrotiche (soprattutto nei casi di isteria), una sorta di “nevrosi sperimentale”. Queste teorie furono accettate dalla comunità scientifica dell’epoca perché fornivano un substrato fisiologico alla pratica ipnotica ma, una volta confutate efficacemente dallo stesso Bernheim, furono tralasciate e persero di attualità scientifica. Ancora una volta, come vedremo in seguito per quanto concerne la Psicoterapia dei giorni nostri, ci fu chi sostenne che o l’ipnosi era un fenomeno somatico rientrante nella medicina generale ed ufficiale oppure essa andava trascurata dalla scienza! Così, all’epoca, ipnosi era equivalente di Psicoterapia essendo questo l’unico trattamento psicologico esistente nella medicina europea. Fu in questo contesto scientifico-culturale che Sigmund Freud (1856-1939), durante il suo soggiorno a Parigi del 1885, apprese le tecniche ipnotiche di Charcot. E proprio dall’abbandono della tecnica ipnotica da parte di Freud (alla fine del secolo XIX) nasce la Psicoanalisi come prima forma di Psicoterapia propriamente detta. 13

13 Negli intenti di Freud essa era nello stesso tempo: a) un metodo esplorativo dei processi mentali inconsci, solitamente inaccessibili. b) un insieme di conoscenze teoriche costituitesi in dottrina psicologica (metapsicologia psicoanalitica) c) una tecnica psicoterapeutica. Per quanto attiene al termine, useremo l’iniziale maiuscola (Psicoanalisi) per l’insieme del corpus teorico e metodologico (punto b) e l’iniziale minuscola per gli altri due significati. Chi scrive ritiene che la psicoanalisi rientri nell’insieme più ampio delle psicoterapie (un altro termine molto usato, seguendo questa opzione, è quello di “psicoterapia psicoanalitica”). Quindi nel presente testo si userà psicoanalisi e psicoterapia come sinonimi, per quanto verrà sottolineato e approfondito come esistano varie forme di psicoterapia, alcune che si richiamano esplicitamente alla psicoanalisi e altre no. Per il tema psicoanalisi/psicoterapia (analogia e differenze) si può leggere il contributo di Migone (1992) e quello ormai classico di Gill (1984). Inoltre, l‘ambito psicoterapeutico è a sua volta parte di un sistema ancora più esteso che è quello delle “professioni d’aiuto” (vedi ad es. Chiappero, Vicentini 1996 e successivamente nel presente testo).

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Parlare della storia del pensiero psicoanalitico esula dai fini del presente volume. Ci soffermeremo su alcuni contributi fondamentali del pensiero freudiano e post-freudiano, con l’intento di ravvisarne l’importanza nello sviluppo di ogni forma di psicoterapia attuale. E con lo scopo di fornire un modello teoricotecnico di riferimento adottato da chi scrive (così come faranno successivamente in questo testo i colleghi counselor nell’esplicitare il proprio modello teorico e clinico). Freud seguì per alcuni anni gli insegnamenti di Charcot tesi a dimostrare come l’ipnosi potesse essere un metodo terapeutico efficace nei casi di isteria. In collaborazione con Breuer (1842-1925) il padre della Psicoanalisi sostenne che i sintomi isterici avessero un preciso significato psicologico, ancorché di tipo simbolico (Breuer, Freud 1892-1895). Quando i pazienti di Freud e Breuer, durante lo stato di trance indotto dalla terapia ipnotica, rievocavano determinati episodi traumatici i sintomi scomparivano. La ricerca di questo nesso tra sintomo e trauma divenne così l’obiettivo della terapia stessa. In seguito Freud abbandonò l’ipnosi, concludendo anche il sodalizio con Breuer. L’ipnosi si era rivelata non applicabile a molti pazienti, mentre per la maggior parte di coloro che ne avevano avuto giovamento si trattava in realtà di una guarigione temporanea: spesso i sintomi ricomparivano con le medesime caratteristiche assunte in precedenza. 14

Fu così che Freud passò ad un metodo innovativo, la cui applicazione possiamo fare coincidere con l’inizio della psicoanalisi come terapia: il metodo delle libere associazioni. Al paziente ve14 Oggi, soprattutto dopo gli studi e le applicazioni di Milton Erickson, il metodo ipnotico è stato reintrodotto nella comunità psicoterapeutica, con una serie di modificazioni. All’ipnositerapia si ispirano in qualche modo anche le tecniche della Programmazione Neurolinguistica (PNL). Per una breve sintesi della psicoterapia ipnotica odierna vedi Granone (1988).

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niva richiesto di esprimersi verbalmente nella maniera più libera possibile, consentendogli così di portare alla luce pensieri che, nella loro illogicità apparente, erano in realtà legati a contenuti inconsci. Questo legame, tra verbalizzazione conscia e materiale inconscio, veniva colto (attraverso le interpretazioni) dallo psicoanalista stesso. Non si trattava più, dunque, di ricordare traumi rimossi ma bensì di rimettere il paziente in contatto con i propri contenuti affettivi e conflittuali più profondi. Per la prima volta si era trovata una via di accesso, sistematizzata in una tecnica e attraverso una figura professionale (lo psicoanalista), al mondo interno del soggetto. Un metodo (quello delle libere associazioni) che poneva altresì il paziente in una posizione “attiva”, rispetto al ruolo di soggetto passivo e oggetto di osservazione proprio della Psicopatologia classica e descrittiva. Come si può vedere nell’opera iniziale di Freud troviamo già i due concetti principali che formano il nuovo contributo scientifico rappresentato dalla psicoanalisi per il suo tempo: il concetto di inconscio e quello di rimozione. 15

L’inconscio freudiano è l’istanza psichica in cui possiamo ritrovare sia le esperienze e gli affetti rimossi dal soggetto, sia gli istinti primordiali (pulsioni). Esso è topico, in quanto parte della psiche individuale e differenziato da altre istanze (Conscio e Preconscio) e dinamico, perché dotato d’una forza attiva che si esprime nei sintomi, nei sogni e in molti comportamenti quoti15 Del concetto di inconscio si era già occupato il pensiero filosofico europeo: attraverso il pensiero di Leibniz, Fichte, Schelling, Schopenauer, per citarne alcuni. Lo stesso Freud considerava il filosofo Schopenauer un suo precursore. La “volontà inconscia” del filosofo tedesco può essere equiparata per alcuni aspetti alle pulsioni freudiane. Anche Nietzsche (1884) afferma, ad esempio, che <<la massima parte delle nostre esperienze è inconscia e agisce>>. Freud, dunque, non “scopre” l’inconscio, ma la dialettica tra inconscio preconscio e conscio, tra inconscio e razionalità, analizzandole e inserendole tra i pilastri del proprio edificio teorico e terapeutico. E proprio qui sta, ad esempio, la differenza con la filosofia di Schopenauer: per Freud dalla malattia psichica si può guarire. Il fondatore della Psicoanalisi non ha “scoperto” l’inconscio, ma le regole che lo governano e la possibilità di agire terapeuticamente su di esso.

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diani come le dimenticanze, i lapsus, certi errori, ecc... (Freud, 1901). La rimozione designa il processo (più propriamente il meccanismo di difesa) che respinge nell’inconscio, con l’intento di mantenerli fuori dalla coscienza, pensieri, immagini, ricordi ed affetti non accettabili dal soggetto (per le loro implicazioni morali ad esempio, o per altri motivi che li rendono “pericolosi” per il proprio equilibrio psichico e la propria immagine di sé). La teoria psicoanalitica della rimozione è quindi inseparabile dal concetto di inconscio e viceversa. Ambedue i concetti sono alla base della Psicopatologia freudiana classica in quanto: le rappresentazioni rimosse continuano ad esistere a livello inconscio e tendono a riaffiorare sotto forma di sintomi, cioè in una veste simbolica. Il sintomo diventa così il “sostituto” di ciò che è stato rimosso dalla coscienza dell’individuo, attraverso il meccanismo difensivo della rimozione (anch’esso inconscio, quindi da differenziare dalla “repressione” consapevole di pensieri che avvertiamo come disturbanti). All’epoca si intendeva con contenuti rimossi prevalentemente aspetti legati alla sessualità. Questo, come è facile immaginare, ebbe un violento impatto con la cultura viennese di fine ‘800. 16

Ben presto, all’isteria, si affiancarono nella nosologia freudiana altre “psiconevrosi” quali: le fobie e le ossessioni. Per lo psicoanalista viennese si trattava sempre di malattie della psiche che avevano origine da conflitti relativi alla sessualità, ed in particolare alla sessualità infantile. In seguito le sue teorie si arricchirono di nuovi concetti e tecniche psicoterapiche anche se è sempre mancata una vera e propria sistematizzazione del pensiero freudiano (uno dei rari esempi è una delle sue ultime opere “Il compendio di psicoa16 Freud lavorava nell’ospedale di Vienna dal 1881 e, dopo la parentesi quinquennale a Parigi da Charcot, vi fece ritorno e lì visse e lavorò fino ad un anno prima della sua morte, avvenuta a Londra nel 1939.

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nalisi” del 1938). Così continuarono a convivere, negli scritti di Freud, ipotesi e teorie a volte contrastanti e che furono alla base delle varie “correnti” future della Psicoanalisi, ognuna delle quali si richiamava a qualche aspetto della teorizzazione freudiana escludendone altri. Lo vedremo in seguito a proposito delle varie forme di psicoterapia psicoanalitica. Ma prima di ogni considerazione sull’opera freudiana va detto che il suo stesso autore considerava i suoi concetti come elementi che <<(...) non costituiscono la base della scienza sulla quale poggia tutto il resto; solo all’osservazione spetta questa funzione. Essi non sono le fondamenta, ma piuttosto il tetto dell’intera costruzione e si possono sostituire e asportare senza correre il rischio di danneggiarla. È quel che sta accadendo anche alla fisica contemporanea, le cui vedute di fondo relative alla materia, ai centri di forza, all’attrazione e così via, sono poco meno dubbie delle corrispondenti vedute della dottrina psicoanalitica>>. Freud articolò il suo pensiero attraverso quella che chiamò Metapsicologia, che racchiudeva i punti di vista dinamico, topico-strutturale ed economico. L’aspetto dinamico sottolineava il fatto che i conflitti psichici sono risultanti di forze contrastanti. Quello topico-strutturale proponeva un modello tripartito della psiche ormai noto come: Conscio, Preconscio ed Inconscio a cui (nel 1922) si aggiunse, integrandola, un’altra tripartizione con l’individuazione delle tre istanze psichiche corrispondenti a: IoEs e Super-Io. Con il punto di vista economico Freud voleva 17

17 La seconda tripartizione è detta “teoria strutturale” ed è la nota ripartizione della psiche nelle tre istanze menzionate. Nel modello topografico precedente, che per altro venne integrato da quello successivo e non sostituito, il conflitto psichico era tra Conscio e Inconscio. Freud si accorse che anche molti meccanismi difensivi che si opponevano alle pulsioni inconsce erano anch’essi non consapevoli. Così come alcune emozioni frutto di conflitti inconsci, come il senso di colpa. Una semplice contrapposizione conscio vs inconscio era limitativa. Nella nuova tripartizione (che non è una reificazione nella struttura neurofisiologica del cervello ma è solo rappresentativa di funzioni psichiche) vennero individuati: l’Es, serbatoio-contenitore delle pulsioni istintuali libidiche ed aggressive e governato dal “principio di piacere”; l’Io, con il compito di mediare tra le “richieste” perentorie dell’Es e la realtà esterna e depositario di funzioni cognitive, percettive e mnemoniche; il Super-Io, che si forma attraverso l’interiorizzazione delle regole parentali ed è frutto del complesso edipico (che è un aspetto prototipico delle regole con

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rimarcare come le “forze” presenti nell’apparato psichico individuale fossero soggette ad una carica e scarica energetica, quindi con una intensità che ne costituiva la dimensione quantitativa. Da quanto detto precedentemente il modello freudiano classico richiede che ogni aspetto della mente umana, sia normale che patologico, sia compreso attraverso i tre punti di vista che compongono la metapsicologia, con l’aggiunta di un quarto punto di vista, chiamato “genetico”, che sottolinea la sua storicità e le sue origini. Per Freud alla base della psicopatologia nevrotica, oggetto del trattamento del metodo psicoanalitico, stava il “complesso edipico” (a quell’epoca la Psicoanalisi non veniva considerata uno strumento terapeutico per le psicosi). 18

In realtà nelle prime teorizzazioni freudiane un ruolo fondamentale nell’eziologia nevrotica era rivestito dal trauma sessuale. Freud, prima del 1897, pensava che la mente del paziente nevrotico fosse stata danneggiata dall’esterno, cioè da accadimenti traumatici. In seguito anche sulla scorta delle sue scoperte sulla sessualità infantile e sul complesso edipico il padre della Psicoanalisi modificò radicalmente la sua teoria, sostenendo che il suo divieto di unirsi sessualmente al genitore di sesso opposto, spodestando quello dello stesso sesso). Come in molte altre concettualizzazioni, non solo freudiane, possiamo ritrovarvi elementi filosofici più antichi. È il caso dell’Io, che Freud paragonerà ad un cavaliere che deve domare un cavallo (l’Es) e che ci riporta alla metafora dell’auriga suggerita da Platone nel “Fedro”, come capacità razionale di dominare le passioni del corpo (raffigurate a loro volta dai cavalli che l’auriga cerca di domare). 18 Freud riteneva che nella psicosi non fosse in atto un conflitto tra Io ed Es o tra Io e Super-Io o tra Es e Super-Io (le tre istanze psichiche, quindi un conflitto cosiddetto “intersistemico”) ma tra Io e mondo esterno. Nella psicosi la realtà veniva stravolta dal soggetto e rimodellata in forme allucinatorie e deliranti. Lo psicotico investiva nella realtà i contenuti del proprio Io ed era incapace di un vero e proprio transfert. Si riteneva che il paziente psicotico non potesse sviluppare la relazione di transfert a causa del grado di narcisismo presente in questi pazienti. Successivamente altri clinici, tra cui Sullivan (1962) e Federn (1952), dedicarono buona parte del loro lavoro terapeutico con pazienti schizofrenici. Oggi si riconosce, in questi pazienti, l’esistenza di forme di transfert, sebbene più intensi e distorti rispetto alla realtà, tali da giustificare il termine di “psicosi di transfert” anziché “nevrosi di transfert”.

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l’eziologia della nevrosi non fosse “esterna”, ma interna. Alle esperienze traumatiche reali, come cause di patologia, si sostituirono le fantasie sessuali ed i conseguenti conflitti del bambino a causa di esse. Freud (così come il collega e amico Breuer) giunge così alla conclusione che i suoi pazienti non soffrono di reminescenze dolorose, conseguenti ad eventi traumatici. In una celebre lettera (21 settembre 1897) all’amico e collega Fliess il padre della Psicoanalisi sostiene che le seduzioni di cui parlano i suoi pazienti sono irreali, frutto di impulsi incestuosi e aggressivi (Freud, Fliess 1986). Se da un lato si “perde” la visione interpersonale (l’importanza delle relazioni esterne e i loro dati di realtà) dall’altra è proprio con questa fondamentale “svolta” del pensiero freudiano che si pongono le basi della Psicoanalisi stessa. Proprio un anno prima, nel 1896, il termine “psicoanalisi” viene utilizzato per al prima volta da Freud nello scritto: “L’ereditarietà e l’eziologia delle nevrosi”. 19

La nuova visione della mente umana è ora quella di un apparato permeato di forze in conflitto tra loro e capace di produrre significati personali inconsci. La soggettività ha la meglio sui dati oggettivi, di realtà, e si assottiglia anche il confine, in precedenza netto, tra normalità e patologia. 20

19 <<Devo i miei risultati all’impiego di un nuovo metodo di psicoanalisi, al procedimento esplorativo di Josef Breuer, metodo un po’ sottile ma che si è dimostrato talmente fertile, da risultare insostituibile nell’illuminare le oscure vie dell’ideazione inconscia>> (Freud, 1896). Prima di questo scritto Freud aveva usato espressioni quali: “analisi psichica”, “analisi clinico-psicologica”, “analisi psicologica” e più genericamente “analizzare”. 20 Questa diventerà la teoria eziologica freudiana delle nevrosi da cui Freud non si distaccherà più. A rendere, in quegli anni, ancora più esplicita questa svolta sarà lo psicoanalista tedesco Karl Abraham (1907) attribuendo alla tendenza infantile alla seduttività l’origine di ogni fantasia traumatica e quindi della successiva nevrosi. Nel mainstream psicoanalitico una voce contraria ed autorevole risulterà Ferenczi (1932) con un suo celebre scritto, ancora oggi pietra miliare della letteratura sull’abuso degli adulti nei confronti dei bambini, che reintroduce il fattore traumatico e l’importanza delle relazioni reali adulto-bambino nella psicoanalisi. Per alcuni aspetti critici del cambiamento di paradigma teorico in Freud si possono consultare Masson (1984) e Mitchell (1988). Il primo in particolare ha dedicato molto

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Potremmo sintetizzare il pensiero freudiano sull’eziologia della nevrosi come una reazione (la nevrosi) derivante da un conflitto intrapsichico relativo ad esperienze sessuali infantili (nel senso globale di: percezioni, fantasie, desideri e comportamenti). Il conflitto nascerebbe tra le forze che spingono al soddisfacimento e le forze contrarie che vi si oppongono (da cui anche la locuzione del sintomo come “soluzione di compromesso”). La modalità con cui si affronta il conflitto ed il tipo di meccanismi di difesa (Lingiardi, Madeddu 2002) utilizzati dal soggetto daranno luogo a tipologie specifiche di nevrosi. Da qui la nosografia freudiana che distingue tra nevrosi isterica di conversione, nevrosi fobica e nevrosi ossessiva. Successivamente Freud integrerà alcune delle sue concezioni sulla Psicopatologia con il ruolo che hanno in essa le tre istanze psichiche concettualizzate dagli anni ’20 in poi: Io, Es e Super-Io. Ma come si curavano le nevrosi al tempo di Freud?

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Abbiamo già evidenziato il passaggio dal metodo ipnotico a quello delle “libere associazioni” (la “talking cure”, cioè “cura delle parole”, come venne definita da Anna O., una delle prime pazienti di Breuer, maestro e collaboratore di Freud). Freud si era ben presto accorto che non era necessario utilizzare l’ipnosi per “arrivare” al trauma (ricordiamo che siamo ancora nella fase di sviluppo del pensiero freudiano in cui l’eziologia delle nevrosi è di tipo traumatico, cioè legata a fattori esterni al soggetto). Poteva essere sufficiente chiedere anche con insistenspazio, anche in termini di ricerche storiche e bibliografiche, ai cambiamenti nella teorizzazione freudiana di quegli anni. Masson sostiene che il cambiamento nella teoria eziologica freudiana delle nevrosi sia stato causato dai timori del padre della Psicoanalisi sia per le ricadute sull’opinione pubblica della stessa (trattando di seduzioni reali avvenute nell’infanzia dei pazienti) e per l’avversità del mondo accademico dell’epoca, sia per una difesa inconscia legata alle possibili seduzioni sessuali della propria infanzia. 21 In realtà la Psicopatologia odierna ritiene che molti dei pazienti dell’epoca pionieristica della Psicoanalisi non appartenessero al quadro delle nevrosi, ma a categorie diagnostiche di maggiore gravità.

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za al paziente di esprimersi liberamente, cercando di mettere da parte ogni atteggiamento critico, per osservare come e quando nascevano difficoltà o interruzioni in questa forma “terapeutica” di espressione. Il soggetto aveva così una parte attiva nella cura, come abbiamo già premesso, diversamente dalle concezioni terapeutiche dell’epoca in cui il paziente rivestiva un ruolo passivo (come nella terapia ipnotica ed in altre forme di psicoterapia sviluppatesi in quel periodo storico a cavallo tra i due secoli, XIX e XX). 22

Ma ben presto Freud si accorse che si evidenziavano delle “resistenze” cioè tutto ciò che, nel corso della psicoanalisi, impedisce l’accesso all’inconscio attraverso la violazione della “regola fondamentale”: le libere associazioni. Accadeva, infatti, che i pazienti mostrassero difficoltà ad aderire alla consegna (semplice all’apparenza, difficile nella pratica…) di “dire tutto e solo dire”. Blocchi nell’eloquio, tentativi di razionalizzare ciò che veniva alla mente, ecc… Eppure a “resistere” (inconsciamente) era lo stesso paziente che aveva richiesto l’aiuto dell’analista! Fu uno dei primi e fondamentali contributi freudiani mettere in luce questa ambivalenza del paziente verso la Psicoterapia: ricercata consapevolmente da un lato, per alleviare le proprie sofferenze psichiche, e avversata inconsciamente dall’altro nel timore dell’emergere di desideri, fantasie ed impulsi inaccettabili. 23

Quando Freud si accorse dell’importanza e onnipresenza delle resistenze durante il lavoro terapeutico, e della loro caratteristica inconscia (il che rendeva vane le armi della persuasione e dell’autorevolezza dello psicoanalista), la cosiddetta “analisi 22 In effetti nella Psicoanalisi il paziente era protagonista, attore della terapia. Le sue libere associazioni, la dinamicità del suo apparato psichico (rappresentata in modo eclatante dalle dinamiche inconsce) e la stessa relazione transferale con il medico, erano ben lontane dagli interventi suggestivi ed ipnotici dell’epoca, che lo vedevano soggetto passivo a fronte dell’attività del medico. 23 Ricordo che un maestro indimenticabile come il compianto J. Cremerius amava dire che <<il paziente vorrebbe lavarsi senza bagnarsi>> (Cremerius, 1991).

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delle resistenze” divenne una parte fondamentale della terapia analitica: al paziente dovevano essere segnalate ed “interpretate” le resistenze che si opponevano alla sua libera espressione verbale. Nel celebre “L’interpretazione dei sogni” (Freud, 1899) troviamo scritto che <<Tutto ciò che perturba la continuazione del lavoro [di analisi] è una resistenza>>. Ma ad assumere ben presto un rivoluzionario significato nel modo di intendere e praticare la psicoanalisi fu la teorizzazione freudiana del transfert. Nella sua versione originaria esso viene definito come lo spostamento, nel senso appunto di trasferimento, verso la persona dello psicoanalista di atteggiamenti, tendenze, sentimenti e comportamenti che il soggetto ha avuto, o ha, verso figure affettivamente significative della sua vita. Si tratta di un processo inconscio per altro universale, nel doppio significato di: comune ad ogni essere umano e onnipresente nella vita dell’individuo (quindi non confinato solo nel contesto psicoterapeutico). La sua presenza ed intensità nella situazione analitica crea la possibilità di osservare “in vivo” aspetti emozionali ed interpersonali del paziente che, in caso contrario, sarebbero soltanto deducibili dalle sue verbalizzazioni, con tutte le distorsioni e rimozioni che esse inevitabilmente contengono. Il destino del transfert, come Freud colse ben presto (Freud, 1912a), fu di diventare l’ aspetto centrale della terapia psicoanalitica sia per il suo ruolo di resistenza (nella misura in cui il paziente “ripete” con il terapeuta modelli interpersonali patologici, e non legati al contesto terapeutico, in quanto modelli relazionali collegati a rapporti con “altri significativi”) sia come uno dei “motori” della cura, in quanto permette, attraverso il suo realizzarsi, la sua interpretazione e la successiva presa di coscienza del paziente, di comprendere meglio il proprio mondo interno e le proprie esperienze emotive ed affettive presenti e passate. Il tutto all’interno del “qui ed ora”, quindi della relazione (cognitiva ed emotiva) con il proprio analista. 33


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Nel pensiero freudiano classico il fattore d’efficacia della terapia è l’interpretazione. Attraverso essa il terapeuta permette al paziente una presa di coscienza (cognitivo-affettiva) per quanto concerne le sue fantasie, pulsioni e affetti inconsci, nonché le sue resistenze a questo stesso processo di consapevolezza. Le interpretazioni e le successive “elaborazioni” di esse (o “working through”) sono particolarmente efficaci quando hanno come oggetto il transfert perché permettono di svelare significati legati al presente, all’hic et nunc della seduta, con una maggior rilevanza emotiva rispetto alle interpretazioni cosiddette extratransferali (vedi Strachey, 1934). 24

Anche dal punto di vista della tecnica psicoanalitica Freud fu avaro di sistematizzazioni. Come abbiamo visto egli partì dal metodo ipnotico per passare a quello delle libere associazioni, ma il sua apparato concettuale, relativamente all’eziologia del disagio mentale, presupponeva ancora che all’origine del disagio mentale ci fosse un trauma. All’epoca si riteneva, quindi, che l’affetto legato al trauma, rimasto inconscio, dovesse liberarsi dalla rimozione e “scaricarsi”, diventando cosciente e verbaliz24 Questa “presa di coscienza” viene definita come “insight” in Psicoanalisi. Il termine inglese indica una forma di comprensione immediata e nitida, di tipo più intuitivo che logico-deduttivo. Il fenomeno dell’insight non è mai solo intellettuale, ma formato da componenti emotive. Richfield (1954) ha distinto tra “insight ostensivo”, che implica anche un vissuto emotivo, e “insight descrittivo” cioè una presa di coscienza che nasce soltanto da riflessioni razionali o intellettuali e secondo la Psicoanalisi classica non avrebbe efficacia terapeutica (anzi è destinato ad aumentare difese del paziente quali l’intellettualizzazione, la razionalizzazione e l’isolamento). Per quanto riteniamo più preciso adottare il termine insight quando esso è “ostensivo” (per dirla con la terminologia di Richfield), altre forme di terapia (ad es. la terapia razionale emotiva o RET, così come molte forme di psicoterapia cognitiva) hanno dimostrato che anche l’altra tipologia di insight (e quindi le interpretazioni che li determinano) possono avere efficacia mutativa. Anche nella psicoterapia psicoanalitica sono contemplati interventi di questo tipo, a volte preparatori, altre volte “consolidanti” interpretazioni miranti ad un vero e proprio insight cognitivo-affettivo. Al di là delle sue concettualizzazioni l’insight è un’esperienza più comune di quanto si creda il che fa sostenere a Pier Francesco Galli che: <<È interessante notare come, sul piano del vissuto, ogni addetto ai lavori, ma lo stesso uomo comune, sappia benissimo in che cosa consista l’insight, pur non avendo la possibilità di formalizzare in termini soddisfacenti il concetto>> (Galli, 1999, il corsivo è nostro).

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zabile (tecnica dell’abreazione). In seguito, con il mutamento radicale delle concezioni freudiane sull’eziologia delle nevrosi, diventa importante investigare il mondo interno del paziente per comprenderne i moti pulsionali e le fantasie ad essi associati che sono stati rimossi perché ritenuti colpevolizzanti e/o pericolosi per l’integrità psico-fisica del soggetto. Gli scritti cosiddetti “tecnici” di Freud sono compresi tra il 1910 e il 1914 e fornirono un esempio della tecnica psicoanalitica che rimase, almeno teoricamente, sostanzialmente invariato nel pensiero freudiano. In realtà si potrebbe dire che “Freud non era freudiano” in quanto egli stesso si discostava spesso e volentieri dai propri precetti tecnici (con il tempo diventati una vera e propria “ortodossia”...). Una serie di resoconti frutto delle memorie di suoi pazienti hanno gettato una luce nuova sul modo “reale” del fondatore della psicoanalisi di condurre una terapia analitica. Vedremo oltre come, al di là della tecnica freudiana, è sempre presente nella storia dello Psicoterapia uno iato, più o meno ampio, tra ciò che si teorizza rispetto alle metodologie e tecniche dei vari approcci psicoterapeutici e ciò che realmente fanno gli psicoterapeuti “in carne ed ossa”. 25

Ma proviamo a vedere più da vicino quali fossero i principali 25 Vedi ad esempio lo scritto di Cremerius “Freud al lavoro: uno sguardo al di sopra delle sue spalle. La sua tecnica nel resoconto di allievi e pazienti” (1985), oppure il libro di Roazen (1975) in cui vengono intervistati alcuni pazienti di Freud divenuti poi celebri. Ma può essere anche utile uno stralcio del pensiero di Freud stesso, a proposito degli effetti dei suoi scritti teorici sulla tecnica psicoanalitica: << Mi pareva che la cosa più importante fosse sottolineare quello che non si deve fare (...) Lasciai al “tatto” tutto ciò che di positivo si dovrebbe fare (...) È accaduto, per tutto risultato, che gli analisti docili non hanno afferrato l’elasticità delle regole che avevo proposto, e vi si sono sottomessi come se si trattasse di altrettanti tabù. Un giorno o l’altro tutto questo andrà riveduto, senza che gli obblighi di cui ho parlato debbano però andare ignorati (...) Naturalmente non si possono dare regole di misura: la decisione dipende dall’esperienza e dalla normalità dell’analista.>> (lettera di S. Freud a S. Ferenczi del 4 gennaio 1928 in Freud, Ferenczi, 2000).

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assunti tecnici secondo Freud. Tecniche che diventeranno i capisaldi della prassi psicoanalitica (ancorché spesso sotto forma di veri e propri “dogmi”) e costituiranno un modello con il quale ogni trattamento, anche non psicoanalitico, si è confrontato nel bene e nel male. Tanto che, come vedremo anche nei contributi successivi sul Counseling, alcuni aspetti della tecnica psicoanalitica sono stati recepiti da altri approcci psicoterapeutici e del counseling. Qualche volta questo è stato fatto esplicitando il contributo psicoanalitico, altre volte vecchi concetti sono stati travestiti da nuove denominazioni. Alcuni principi della tecnica psicoanalitica furono teorizzati molto presto. Già alla fine del XIX secolo troviamo negli scritti freudiani una serie di norme tecniche più o meno esplicitate e non vanno dimenticati gli stessi “casi clinici” pubblicati da Freud che rappresentano, attraverso una modalità di scrittura spesso avvincente, utilissimi approfondimenti su come venivano “realmente” condotte le prime psicoanalisi. Quando si fa espressamente riferimento agli “scritti tecnici” di Freud ci si riferisce al periodo 1911-1914 e agli scritti seguenti: “L’impiego dell’interpretazione dei sogni nella psicoanalisi”, “Dinamica della traslazione” (cioè del transfert), “Consigli al medico nel trattamento psicoanalitico”, “Inizio del trattamento”, “Ricordare, ripetere e rielaborare” e “Osservazioni sull’amore di traslazione” (Freud, vedi oltre e bibliografia). Già dagli esordi del trattamento psicoanalitico Freud si concentrò su alcuni aspetti metodologici: l’uso della tecnica delle libere associazioni, della posizione supina del paziente sul lettino, la regolarità e l’alta frequenza delle sedute (fino a sei sedute settimanali quindi giornaliera!), ecc... ma solo nel secondo decennio del XX secolo Freud si occupò esplicitamente della prassi operativa collegata al suo metodo. Va chiarito che, la tecnica psicoanalitica, è sempre stata inscindibile dalla teoria, almeno nel pensiero freudiano originario. 36


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Fu negli anni successivi a Freud che l’establishment psicoanalitico la elevò a vera e propria ortodossia. 26

Già nel 1908, dopo il Congresso psicoanalitico di Salisburgo, sulla scia della progressiva diffusione della Psicoanalisi come terapia e degli allievi e collaboratori che la esercitavano, Freud fu indotto a sistematizzare la tecnica psicoanalitica. Il progetto venne rinviato per vari motivi fino al 1910, anno in cui Freud si accinse a preparare il primo di questi saggi. Non si trattava di un compito facile in quanto la Psicoanalisi, così come molte forme di psicoterapia che ad essa fanno riferimento in modo più o meno esplicito, non è una terapia psicologica standardizzata, cioè formata da tecniche invariabili e sistematizzate, con una procedura rigida e temporalmente predefinita (per quanto riguarda il fattore durata, un caso a parte è rappresentato dalle psicoterapie psicoanalitiche “brevi”). La connota una forma di dialogo “aperto”, basti pensare alla già citata “regola fondamentale” delle libere associazioni che è quanto di più destrutturato possibile (Bollas, 1995) e che si compenetra con l’atteggiamento del terapeuta di “attenzione fluttuante”. 27

26 Soprattutto dalla seconda metà del secolo scorso la tecnica psicoanalitica venne sempre più trasmessa come un corpus metodologico che prescindeva dal contesto teorico di appartenenza (contesto teorico a sua volta sempre più eterogeneo con la nascita di nuove scuole e correnti psicoanalitiche). Nacque così la “Tecnica”, qualcosa di autonomo, autarchico e immodificabile, pena l’accusa di: “non essere psicoanalisti”. La cosiddetta tecnica classica (o più realisticamente “tecnica ortodossa”) era divenuta la base di un pensiero dogmatico e tecnocratico. Non più tecnica, quindi, ma Tecnocrazia. Così scrive lo psicoanalista statunitense R. Schafer (1983): <<Se una scuola prende le proprie costruzioni letterarie per dei miti, le altre scuole appaiono in errore, semplicistiche, perverse, fuori moda e pericolose, vengono disprezzate e derise. Anche all’interno delle singole scuole non è infrequente, quando un collega presenta un caso, sentir commentare: “Questa non la chiamerei analisi”>>. Notare che questi ostracismi non riguardano soltanto le Associazioni internazionali psicoanalitiche originate dal movimento freudiano (come l’IPA), ma la maggior parte delle scuole di pensiero psicoanalitico. A cominciare da quelle che si sono distaccate dal mainstream psicoanalitico proprio per la sua rigidità e dogmatismo, soprattutto tecnico. Come si suole dire: si nasce incendiari e si diventa pompieri! 27 In realtà la definizione più precisa è attenzione “ugualmente” fluttuante. La definizione freudiana, ripresa da Laplanche e Pontalis (1967), è: <<modo in cui, secondo Freud, l’analista deve ascoltare l’analizzato: egli non deve privilegiare a priori nessun elemento del discorso dell’analizzato, il che implica che egli deve lasciar funzionare il

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Lo stesso padre della Psicoanalisi iniziava uno di questi scritti dicendo: <<Chi voglia imparare sui libri il nobile gioco degli scacchi si accorgerà ben presto che soltanto le mosse di apertura e quelle finali consentono una presentazione sistematica esauriente, mentre ad essa si sottraggono le innumerevoli svariatissime mosse che si succedono dopo l’apertura (...) A limitazioni analoghe soggiacciono senza dubbio le regole che possono essere fissate per l’esercizio del trattamento psicoanalitico>> (Freud, 1913). Quanto ai rischi di intendere il lavoro psicoanalitico come una tecnica didattica, intellettualizzata, sempre negli stessi anni Freud sostiene: <<È un concetto da lungo tempo superato e derivante da apparenze superficiali, quello secondo il quale l’ammalato soffrirebbe per una specie d’insipienza, per cui, se si elimina questa insipienza fornendogli informazioni (sulla connessione causale della sua malattia con la vita da lui trascorsa, sulle esperienze della sua infanzia, e così via) egli dovrebbe guarire. (...) Se la conoscenza dell’inconscio fosse tanto importante per il paziente quanto ritiene chi è inesperto di Psicoanalisi, basterebbe per la guarigione che l’ammalato ascoltasse delle lezioni o leggesse dei libri. Ma tali misure hanno sui sintomi della malattia nervosa la stessa influenza che la distribuzione di liste di vivande in tempo di carestia può avere sulla fame>> (Freud, 1910a) (vedi anche quanto detto in precedenza a proposito del concetto di insight). Freud non ritenne conveniente organizzare in modo sistematico i principi tecnici (ma lo si potrebbe sostenere per tutto l’edificio teorico psicoanalitico) perché consapevole delle trasformazioni che sarebbero avvenute nel tempo e per la irriducibilità della formazione analitica ad una semplice “lettura” di testi specifici. Proprio in questi anni maturava in lui la consapevolezza che il sottoporsi ad un trattamento psicoanalitico da parte dello più liberamente possibile la propria attività inconscia e sospendere le motivazioni che dirigono abitualmente l’attenzione>>.

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stesso futuro analista fosse la miglior garanzia di apprendimento del metodo soprattutto per la possibilità di acquisire <<nozione di quei complessi personali che sarebbero atti a disturbarlo nella comprensione di quanto gli viene offerto dall’analizzato>> e <<ogni rimozione non risolta nel medico corrisponde (...) ad una “macchia cieca” nella sua percezione analitica>> (Freud, 1912 b). 28

Per quanto di pertinenza agli scritti che abbiamo definito “tecnici” possiamo riscontrare, ordinati cronologicamente: a) Una ripresa dell’uso del sogno come tecnica investigativa dell’inconscio del paziente, mettendo l’accento sui rischi di porla troppo in risalto trascurando tutte le altre comunicazioni intenzionali e non che la persona produce in seduta (scritto del 1911) . b) L’importanza del transfert (traslazione), la sua connotazione positiva e negativa in merito al tipo di sentimenti provati verso l’analista e l’apporto di pulsioni erotiche nel transfert positivo. In questo lavoro (1912a) si può trovare anche una chiara annotazione di Freud sul concetto di “ripetizione” <<Gli impulsi inconsci non intendono essere ricordati, come la cura vorrebbe, bensì tendono a riprodursi in modo corrispondente all’atemporalità e alla capacità allucinatoria dell’inconscio>>. In questo senso il transfert, nel suo essere “attuale” e inconsapevole, è il prototipo di queste “ripetizioni”. c) In “Consigli al medico nel trattamento psicoanalitico” (Freud, 1912b) viene posta in risalto la complementarie28 Nel 1918 lo psicoanalista di origine polacca Nunberg afferma per la prima volta la necessità di una “analisi didattica” per i futuri psicoanalisti. L’idea viene recepita da Freud, e troverà tra i più accesi sostenitori di essa lo psicoanalista ungherese Ferenczi, diventando uno dei capisaldi del training psicoanalitico a partire dalla seconda decade del ‘900. Per una critica, da noi condivisa, sull’istituto dell’analisi didattica, sia in termini di efficacia, sia come strumento di potere da parte degli analisti-didatti sui futuri terapeuti, vedi ad es. Cremerius, 1989.

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tà di atteggiamento tra le libere associazioni del paziente ed il libero ascolto del terapeuta che, anziché utilizzare strumenti razionali e concettuali, deve essere il più possibile ispirata al tenere <<lontano dalla propria attenzione qualsiasi influsso della coscienza e ci si abbandoni completamente alla propria “memoria inconscia” oppure (...) si stia ad ascoltare e non ci si preoccupi di tenere a mente alcunché>>. d) È importante notare che in questo stesso scritto Freud pone una premessa di estrema importanza (purtroppo troppo spesso disattesa) sostenendo che quanto andrà a scrivere rappresenta la <<tecnica [che] si è rivelata l’unica adatta alla mia individualità e non pretendo di escludere che una personalità medica di tutt’altra natura possa essere spinta a preferire un atteggiamento diverso di fronte al malato e al compito che deve affrontare>> (il corsivo è nostro). e) In “Inizio del trattamento” (1913) Freud si occupa dei primi incontri con il paziente e di ciò che in seguito verrà chiamato il “contratto terapeutico”: frequenza delle sedute, onorario e modalità di pagamento, uso del lettino, tutti elementi di estrema importanza nella psicoanalisi freudiana (e nelle “psicoterapie psicodinamiche”) che concorrono a definire il cosiddetto “setting”, di cui tratteremo più avanti. Nello stesso scritto Freud accenna alla collaborazione tra terapeuta e paziente introducendo quella che in seguito (Zetzel, 1956) verrà chiamata “alleanza terapeutica”. f) Nello scritto successivo (1914a) Freud rammenta come la psicoanalisi, come terapia, sia passata dal far ricordare al paziente le situazioni traumatiche ed i conflitti alla base 29

29 Sarà Bion (1973) a indicare come l’atteggiamento dell’analista debba essere “senza memoria e senza desiderio”, per poter mettere in secondo piano tutti quei dati, informazioni, teorie così come aspettative e speranze, che posso condizionare la “libertà” del nostro ascolto dell’Altro. Essere lì, nel “qui ed ora” della relazione, è essere nel presente svincolandoci dalla memoria del passato e dal desiderio che attiene al futuro.

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dei suoi sintomi, all’individuare e superare le resistenze alla cura. In pratica la psicoterapia psicoanalitica utilizzava una tecnica che aveva quale scopo primario l’interpretare ogni comportamento e verbalizzazione del paziente che non consentivano allo stesso di avvicinarsi ai propri contenuti inconsci. Ancora oggi, in terapia, si tiene in debito conto questa “regola” freudiana. Le resistenze del paziente sono, tout-court, resistenze ad una maggior conoscenza di Sé, difese che oltre a perpetuare la sua sintomatologia ed il suo disagio si oppongono al lavoro analitico. g) Nell’ultimo degli scritti tecnici (1914c), sull’amore di traslazione, viene presa in considerazione la traslazione amorosa della paziente nei confronti dell’analista (qui il modello, che risente di aspetti culturali, è quello tra analista-uomo e paziente-donna). Già dalle prime righe Freud ci ricorda l’importanza e le difficoltà della gestione del transfert nella cura analitica, passando poi ad occuparsi dello specifico transfert amoroso e dei modi per “trattarlo” tecnicamente. Negli anni successivi il padre della Psicoanalisi non si occupò più di tecnica in modo specifico. I suoi casi clinici pubblicati rappresentano indubbiamente un modo esplicito e concreto di mostrarci la tecnica psicoanalitica, nella teoria e nella prassi, ma sono relativi ad un periodo che arriva fino al 1918 (con la pubblicazione tardiva del caso clinico dell’ “Uomo dei lupi”, scritto nel 1914, vedi bibliografia) quindi appena tre anni dopo la pubblicazione dell’ultimo degli “scritti sulla tecnica”. Inoltre, in “Introduzione alla psicoanalisi: nuova serie di lezioni” (1932) Freud chiarisce come le sue osservazioni sulla tecnica psicoanalitica non siano cambiate da quanto esposto nei suoi scritti “tecnici”.

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1.1 La Psicoterapia dopo Freud.30 Pur non essendo tra gli scopi di questo libro un’analisi storica della Psicoanalisi e della Psicoterapia, non di meno vanno citate alcune tendenze passate ed attuali nella Psicoterapia, non solo psicoanalitica, per rendere giustizia di un universo che al presente è ampio ed eterogeneo. Già durante la vita di Freud sorsero nuovi indirizzi psicoterapeutici, come “costole” del movimento psicoanalitico freudiano. Le scissioni di Adler e Jung, avvenute ambedue in modo indipendente l’uno dall’altro e per motivazioni diverse rispettivamente nel 1911 e 1913, rappresentarono importanti defezioni nel movimento psicoanalitico (Jung, in particolare, era dal 1909 presidente dell’Associazione Psicoanalitica Internazionale nonché allievo prediletto di Freud). Essi fondarono nuove Scuole psicoanalitiche: la “Psicologia analitica” di Jung e la “Psicologia individuale” di Adler e ad essi seguirono altre correnti di pensiero “scissioniste”: ad esempio Reich, Rank e altri ancora. Negli anni ‘30 si sviluppò la psicoterapia infantile di indirizzo psicoanalitico e si fronteggiarono due grandi Scuole. Quella di Anna Freud, figlia del fondatore della Psicoanalisi, e quella di Melanie Klein, il cui pensiero rappresenta uno dei contributi maggiormente innovativi del “dopo Freud” spaziando dalla psicoanalisi infantile a quella dell’età adolescenziale ed adulta, nonchè alla psicoterapia delle psicosi. Altri contributi innovativi arrivarono dallo psicoanalista inglese Winnicott, di formazione pediatrica, che relativamente alle teorie e tecniche della psicoanalisi infantile assunse una posizione intermedia tra Anna Freud e Melanie Klein. Intanto, anche oltreoceano, la Psicoanalisi si diffondeva e svi30 13.

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Per l’uso del termine psicoterapia includente anche la psicoanalisi vedi nota


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luppava ormai da tempo. Alla fine degli anni ’30 nacque la cosiddetta Psicologia dell’Io (che annoverava analisti di origine europea quali: Hartmann, Kris e Löwenstein), che con sviluppi successivi ed altri autori quali Rapaport ed Erikson, divenne egemonica nel Nordamerica dove rappresentò per lungo tempo l’establishment psicoanalitico. La diffusione di varie Scuole ed indirizzi assunse presto chiare connotazioni geografiche. Si è già detto della psicologia dell’Io negli USA. In Inghilterra per molto tempo furono tre le tendenze principali, riassumibili nel pensiero di Anna Freud, M. Klein e del cosiddetto “middle group” del già citato Winnicott e di altri psicoanalisti “indipendenti” come Guntrip, Milner e Fairbairn. Quest’ultimo diede luogo ad una visione della psicoanalisi teorica e tecnica molto originale, anche se non fondò una vera e propria Scuola di pensiero. Il pensiero kleiniano si diffuse anche in Sud America per effetto dell’emigrazione di analisti europei quali Racker, PichonRivière e altri. In Francia nacque negli anni ‘40 il pensiero di Lacan. 31

E ci fu anche la cosiddetta Scuola ungherese (Ferenczi, Balint, Alexander, Rado e altri) alcuni dei quali, emigrando negli USA, ebbero grande influenza sulla psicoanalisi statunitense. Negli anni trenta e quaranta del secolo XIX, emigrarono ne31 Per rimanere nell’ambito dei flussi migratori, e aggiungere un po’ di ironia, va menzionato che il pensiero lacaniano ha avuto molta diffusione anche in Argentina, tanto che, considerato l’alto tasso di disoccupazione del paese negli ultimi anni, un collega italiano in visita laggiù mi disse che <<in Argentina i taxisti sono lacaniani>>. Probabilmente di psicoanalisti-taxisti ne aveva incontrati davvero tanti! Ma che dire del numero di psicoterapeuti (psicoanalitici e no) presenti in Italia? Mentre scriviamo (2010) siamo a conoscenza che il numero di psicologi in Italia si aggira sulle 73000 unità, di cui almeno 30000 sono psicoterapeuti. Al di là del dato assoluto, sono molto indicative queste due percentuali: a) la crescita annua è del 10% b) il numero di psicologi italiani rappresenta un terzo del totale degli psicologi europei. Diventeremo, come dice il nostro collega P. F. Galli, un “popolo di badanti”?

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gli USA i tre quarti degli analisti di lingua tedesca, così che il baricentro psicoanalitico si spostò dal nostro continente a quello americano, dove ovviamene subì a sua volta l’incontro e l’integrazione con la cultura statunitense. Questa “americanizzazione della psicoanalisi” (Jervis, Dazzi, 1999) contribuì alla diffusione di una pedagogia psicoanalitica nonché di un diffondersi dei principi di base della scienza psicoanalitica sia nella cultura in generale sia nel pensiero e nel linguaggio delle masse popolari, molto più di quanto avvenne in Europa. Altri indirizzi che riteniamo di citare, sia per la loro valenza sia per originalità, sono: la Psicoanalisi culturalista (o neofreudiana) di Fromm, Horney e Thompson. La notevole diffusione del pensiero di Kohut che ha dato luogo alla Psicologia del Sé. E più di recente la cosiddetta “psicoanalisi relazionale”, che ha avuto tra i suoi maggiori esponenti il compianto S. Mitchell. Tutti e tre gli indirizzi sono sorti negli Stati Uniti dal dopoguerra ad oggi. Negli ultimi decenni la psicoterapia psicoanalitica ha mutuato concetti teorici e variazioni tecniche anche da due importantissimi filoni di ricerca contemporanei: l’infant research, cioè la ricerca sperimentale sull’evoluzione psicologica infantile, e la teoria dell’attaccamento di Bowlby. Fin qui la “corrente” psicoanalitica. Nel frattempo, già ai tempi di Freud, era nato il movimento comportamentista, che aveva preso le mosse dagli studi pionieristici di Watson, negli USA, nel 1913. Esso basava le sue teorie e le sue applicazioni pratiche sul comportamento osservabile del soggetto, prescindendo dal concetto di inconscio, così centrale invece nella Psicoanalisi. Il comportamentismo (o behaviorismo), si diffuse molto nel Nordamerica e nei paesi anglosassoni, dominando la psicologia sperimentale dagli anni ‘30 in poi e contrapponendosi alla Psicoanalisi, anche come forma di psicoterapia. Negli anni ‘60 si sviluppò il filone cognitivo in psicologia. Esso darà luogo anche a teorie cliniche e a tecniche psicoterapeu44


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tiche. Oggi il mondo della psicoterapia cognitiva è, esattamente come la Psicoanalisi, una galassia altrettanto variegata di tendenze e Scuole diverse: dal cognitivo-comportamentale alla psicoterapia cognitiva evolutiva che integra nel proprio corpus teorico e tecnico molti aspetti della Teoria dell’attaccamento. 32

Nel frattempo, dalla metà del secolo scorso, si sviluppò la corrente umanistico-esistenziale, le cui origini possiamo ritrovare nella filosofia esistenziale e nell’approccio fenomenologico. Nel 1913 con l’opera “Psicopatologia generale”, lo psichiatra K. Jaspers pone le basi di una psichiatria fenomenologica. Jaspers ritiene che psicologia e psicoterapia debbano abbandonare gli ideali delle scienze naturali che “spiegano”, ma non “comprendono”. La “spiegazione”, a cui si riferisce lo studioso tedesco, non sarebbe altro che una riduzione dell’oggetto osservato o studiato alle ipotesi scientifiche precedentemente assunte dallo scienziato o dal terapeuta. Esempi di questo modo di procedere li troveremmo tanto nella psichiatria organicista con il suo riduzionismo biologico, quanto nella Psicoanalisi freudiana con il ricondurre tutto alle pulsioni istintuali (come chiave di lettura eziologica e dinamica dei fenomeni osservati). Per la psichiatria orientata fenomenologicamente il soggetto viene osservato nel suo essere-nel-mondo, travalicando i limiti di un metodo terapeutico (come vuole essere la Psicoanalisi), per diventare una modalità di approccio e di osservazione dei fenomeni visti “dalla parte del soggetto”. L’accento si sposta dal perché e dalle cause, della malattia mentale, alla ricerca di senso del soggetto attraverso di essa. L’attenzione del clinico è tesa a privilegiare ogni espressione del paziente ed ogni espressione del suo mondo interno. Ci si concentra sul vissuto dell’altro e,soprattutto, sulla relazione che egli ha con se stesso e con il mondo. In anni più recenti (‘60-‘70 del secolo scorso) queste posizioni teoriche 32 Passando per autori e approcci celebri quali: la Terapia Razionale Emotiva (RET) di A. Ellis, la Terapia Cognitiva Standard di A. T. Beck e la Terapia Multimodale di Lazarus, per citare quelli storicamente più noti).

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influenzeranno il movimento dell’Antipsichiatria. All’interno della corrente umanistico-esistenziale trova posto anche la psicologia rogersiana (da Carl Rogers, il suo fondatore negli anni ’40 in USA) che si declina a livello terapeutico nella nota “Psicoterapia centrata sul cliente”, basata sulla non direttività del terapeuta e sul concetto-tecnica di empatia. 33

Questa corrente fu anche definita “terza forza” perchè si aggiungeva agli approcci psicoanalitico e comportamentista, all’epoca egemonizzanti. Sempre nella seconda metà del secolo scorso, ancora negli USA, nacquero e si diffusero altre importanti correnti psicoterapeutiche: la Psicologia della Gestalt e l’Analisi Transazionale di Berne. Più tardi sorgeranno la Programmazione Neuro Linguistica di Bandler e Grinder e, soprattutto, anche per la diffusione avuta nel nostro paese e per l’importanza dei colleghi italiani di questo approccio, la psicoterapia Sistemica, orientata in primis alla psicoterapia della famiglia. Infine, tutto l’ambito delle psicoterapie a mediazione corporea, anziché verbale: bioenergetica, orgonica-reichiana, ecc... È doveroso ricordare che la Psicoterapia ha finito con l’occuparsi non solo del singolo soggetto ma di gruppi, coppie, famiglie ed istituzioni. Di tutto il ciclo vitale dell’essere umano e non solo dell’adulto: psicoterapia dell’età evolutiva, della vecchiaia. Nonché di tutte le patologie psichiatriche, dalla nevrosi alla psicosi passando per i disturbi di personalità dell’area borderline. Come si può vedere gli approcci psicoterapeutici sono moltissimi ed in continua espansione: dalla sessantina circa che si 33 Il pensiero di Rogers ha contribuito molto allo stato attuale della psicoanalisi. “A braccio” potremmo ricordare la sua enfatizzazione sull’importanza della relazione terapeuta-paziente (Rogers direbbe: cliente) come fattore terapeutico, oppure del ruolo dell’empatia, o ancora le sue pionieristiche ricerche sull’efficacia della Psicoterapia anche attraverso materiale audioregistrato, ecc… (vedi capitolo successivo e Migone, 2006). Il pensiero di Rogers verrà ripreso e ampliato nel contributo della Dott.ssa C. Fiore nel presente volume.

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contavano negli anni ’60 (Garfield, 1982) ai 250 secondo Herink (1980) nei soli Stati Uniti, fino ai 475 secondo la nota ricerca di Karasu, T. (1986). Se da un lato assistiamo a movimenti centripeti che spingono se non a saldarsi almeno a riconoscere varie analogie tra approcci teorici diversi, dall’altra assistiamo anche ad un parallelo movimento centrifugo in quanto emergono sempre nuove tecniche psicoterapeutiche. Tra le innumerevoli posizioni scientifiche che insistono per una integrazione (sul piano tecnico e metodologico) delle varie forme di psicoterapia vorremmo richiamare la posizione di Daniel Stern (1992), che partendo dall’assunto dell’essere umano come sistema afferma che: <<Il punto di entrata nel sistema differisce a seconda dell’approccio, ma il sistema è sempre lo stesso (...) il punto di entrata è determinato dalla scuola di riferimento (psicoanalitica, sistemica, comportamentista, ecc…) (...) per questa ragione approcci così diversi apparentemente (e diversi di fatto) potrebbero essere tutti validi per uno stesso caso ed avere successo. Tuttavia, l’esperienza soggettiva della terapia [ per il paziente] e del suo “mondo cambiato” sarebbe in ogni caso diversa>>. Altri due versanti attuali di riflessione scientifica sono il rapporto tra visione organicista e psicosociale della malattia mentale (una querelle per molti aspetti antica, dato che ha sempre pervaso la storia della Psicopatologia) e, sul piano clinico, il rapporto tra Psicoterapia e Farmacoterapia. 34

Chi scrive è favorevole ad un trattamento integrato psicoterapia-farmaci, quando esso risulti necessario, ed è aperto, sul piano teoretico, alle scoperte delle neuroscienze, ma rimane sicuramente contrario ad una “terapia delle molecole” (Benasayag, 34 Per una breve sintesi della storia della Psicopatologia, collegata alle modalità del processo psicodiagnostico vedi ad es. Chiappero, 2006.

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Schmit 2003) come unica via terapeutica, che riduce il paziente ad un insieme di sintomi costituzionalmente determinati e “curabili” solo farmacologicamente. Inoltre, è ormai accettato da tutti che <<lo psicoterapeuta come persona, le sue caratteristiche e strutture di personalità, sono più importanti del sistema teorico e del metodo che usa, e sono più significativi che le sue conoscenze scientifiche e le sue capacità tecniche>> (Bermann 1964, cit. in Foglio Bonda, 1987, 2°). Caratteristiche personali che a loro volta intervengono anche nella “scelta” stessa del tipo di approccio teorico e metodologico e che costituiscono gli elementi di quella che oggi viene definita “personalità terapeutica”. 35

35 Negli ultimi decenni sono apparsi contributi su questo tema e sugli aspetti vocazionali che stanno a monte della scelta di intraprendere il mestiere di psicoterapeuta. Gli obiettivi di questo testo non ce ne permettono una, seppur breve, disamina. Successivamente, quando ci occuperemo dei fattori di efficacia della Psicoterapia, si vedrà come i tratti di personalità del terapeuta siano inclusi tra i fattori di guarigione cosiddetti “aspecifici”. Possiamo ricordare, tra gli autori che se ne sono occupati, Winnicott (1954) e Searles (1972). Quest’ultimo autore, si sofferma tra l’altro sui ben noti fenomeni dell’inversione di ruolo: il bambino che “fa” il genitore del proprio genitore e il paziente schizofrenico come “terapeuta” del proprio terapeuta. Anche in questi casi si avrebbe la dimostrazione, per l’autore, dell’attivarsi di una motivazione e funzione terapeutica come caratteristica dell’essere umano. Sempre Searles così si esprime in un suo scritto del 1958: <<(...) una delle motivazioni del terapeuta nello scegliere questo tipo di attività è data dal desiderio di trovare egli stesso un aiuto terapeutico per i propri problemi; la mia impressione è che il terapeuta cerchi inconsciamente di trovare un aiuto per quella parte della sua personalità che è come un bambino piccolo che si sente abbandonato,spaventato, confuso, affamato>>. Un celebre contributo a questo argomento giunge dalla psicoanalista Alice Miller (1994) che correla la scelta di essere psicoterapeuti a deficit di autostima a loro volta legati a “ruoli” familiari ricoperti nell’infanzia, attinenti il farsi carico emotivamente, da parte del bambino e futuro psicoterapeuta, del disagio delle proprie figure parentali. Un aneddoto ironico sul tema è quello del decano della psicoterapia dell’età evolutiva Senise che disse una volta che la sua vocazione terapeutica nacque nel rapporto infantile con la cuginetta. Lui si divertiva a farla cadere, ma solo per poi poterla soccorrere e tranquillizzare! (Senise, 1993). Ma anche Jung (1914, cit. in Meneguz 2011), perorando la causa di un’analisi personale per ogni terapeuta, sosteneva: <<Considero una condizione indispensabile che lo psicoanalista si sottoponga egli stesso per primo al processo analitico, perchè la sua personalità è uno dei fattori terapeutici più importanti>> (il corsivo è nostro).

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