Racconti

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A Tu per Tu

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Lucia Iasio

Racconti

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Prima Edizione: 2014 ISBN 9788898037421 © 2014 Edizioni Psiconline - Francavilla al Mare Psiconline® Srl 66023 Francavilla al Mare (CH) - Via Nazionale Adriatica 7/A Tel. 085 817699 - Fax 085 9432764 Sito web: www.edizioni-psiconline.it e-mail: redazione@edizioni-psiconline.it Psiconline - psicologia e psicologi in rete sito web: www.psiconline.it email: redazione@psiconline.it I diritti di riproduzione, memorizzazione elettronica e pubblicazione con qualsiasi mezzo analogico o digitale (comprese le copie fotostatiche e l’inserimento in banche dati) e i diritti di traduzione e di adattamento totale o parziale sono riservati per tutti i paesi. Finito di stampare nel mese di Marzo 2014 in Italia da Universal Book srl - Rende (CS) per conto di Edizioni Psiconline® (Settore Editoriale di Psiconline® Srl)

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INDICE

La città degli aquiloni Virginia La confessione L’incontro Boccadifuoco Una storia come tante

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LA CITTÀ DEGLI AQUILONI

Il vento soffiava leggero nella piccola città ma a differenza dei tempi passati non c’erano più sogni nel cielo da far volare e, come malate di malinconia, le nuvole sembravano fermarsi restando sospese in un vuoto innaturale. Nessuno più ormai si chiedeva chi fosse il ladro di desideri, tutti erano impegnati in faccende importanti e, simili a formiche diligenti e frenetiche, gli abitanti della piccola città marciavano sui propri giorni impalliditi dall’aridità del non senso. Niente era fuori posto, il tempo scorreva negli ingranaggi perfetti di un orologio e tutti pensavano che la vita non poteva essere altro, celati in degli anonimi vestiti che non ricordavano più di avere desiderato. Da poco era arrivato in città un forestiero, un vecchio barbuto i cui unici averi erano una valigia rattoppata ed un cane che sembrava avesse visto più primavere del padrone; all’inizio in pochi notarono la nuova presenza ma quando il vecchio aprì la sua bottega non c’era bambino della città che non vi facesse visita almeno una volta al giorno, godendo di un sentimento dimenticato. La meraviglia. Il vecchio sorrideva alla vista di tutti quei nasini rivolti verso il soffitto su cui rimbalzavano i cori di ohh emessi all’unisono per la magia che pendeva dall’alto: fili sottili reggevano pezzetti di legno animati in ogni sorta di forma, uccelli dai mille colori, farfalle dall’esotico batter d’ali, grilli pronti ad esibirsi nei canti dei loro Paesi e ciò che era celato agli occhi giungeva come musica alle orecchie. Quando i nasi tornavano alla propria giusta quota

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rivolgendosi verso le pareti, le bocche continuavano ad echeggiare di stupore, mirando gli occhi le scenografie che prendevano vita su mensole, scaffali ed ogni tipo di piano che potesse ospitare tutto ciò che la mente del vecchio riusciva a partorire con del sottile filo di ferro. Dove terminava l’incanto dell’arte manuale dell’uomo iniziava quello delle sue parole, capaci di tessere racconti che avevano il sapore di quei mondi lontani visti solo in fotografia sui testi scolastici. Fu così che per tutti i bambini della piccola città egli divenne il “Grande Narratore”, per ascoltare il quale non c’era bufera o arsura che li potesse tenere lontani dal giornaliero appuntamento che implicitamente si davano alla bottega. L’anziano forestiero non si faceva mai trovare a mani vuote, armeggiava tra legno, fili e fantasia fino a che, come per prodigio, nasceva una nuova creatura, figlia della propria vita passata. Nessuna era lì per caso ma ognuna gli rammentava i colori delle terre attraversate, gli odori delle genti incontrate così diverse tra loro eppure tutte con gli stessi bisogni. A volte i suoi piccoli uditori non capivano il trasporto di quello sguardo che solo chi possiede qualche ruga può comprendere ed, in quei momenti, Tod si rivelava, oltre che l’amico fedele di sempre, l’unico conoscitore dei più profondi abissi dell’animo dell’uomo. Questo era il semplice motivo per cui chiunque gli chiedesse “dì, vecchio, a che ti serve quel relitto di cane? Non avrà neanche più la forza di sbadigliare!” riceveva per risposta “chi guarda con gli occhi spesso vede solo la forma, chi guarda con l’intelletto il significato, chi guarda con il cuore l’assoluto.” Andrea sognava di diventare un astronauta e con l’ostinazione tipica di un ragazzino di dodici anni guardava quel blu infinito che si stendeva sulla propria testa, sicuro di vivere il giorno in cui l’avrebbe toccato. Condivideva con pochissimi l’emozione che solo il pensiero di volare gli donava ed ancor meno ne parlava con i genitori, troppo preoccupati di avere un figlio la cui unica aspirazione era stare con i piedi per aria. Così, mentre lui non riusciva ad immaginarsi da adulto se non libero dalla forza di 8

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gravità, loro sabotavano qualsiasi sua iniziativa nata dall’unica passione che conosceva. Andrea non capiva il motivo di tanto ostruzionismo e ad ogni litigio con l’animo in subbuglio si rifugiava nella soffitta, solida custode di desideri celati. Giurava a se stesso che mai avrebbe rinunciato ai propri sogni, mai sarebbe diventato come i suoi genitori, sordi alle vibrazioni che dalle viscere dell’ignoto salgono verso il presente, ciechi nel non cogliere lo scintillio di giovani occhi aperti sul mondo. In fondo, come poteva capire un ragazzino di dodici anni la paura di due adulti? Cosa poteva fare Andrea per risvegliare sua mamma e suo papà, intenti ad innaffiare semi che altri avevano gettato nei loro cuori e dai quali nascevano solo erbe infestanti, colonizzatrici di spazi un tempo aperti e liberi da quei pensieri che, giorno dopo giorno, li avevano fatti assopire nell’ombra della rassegnazione? Nel buio di una soffitta un piccolo guerriero si trovava a combattere battaglie con fantasmi che non gli appartenevano, finché tra un colpo di spada ed un’ alzata di scudo scovò un vecchio e polveroso baule, posto in un angolo remoto di una storia mai realizzata ed, allora, placò il suo ardore abbassando le armi di fronte a quell’ostaggio dimenticato da chi non aveva avuto il coraggio di disfarsene. Andrea rimase immobile ad osservare quel grande scrigno rivestito di un inspiegabile rispetto e, quasi chiedendogli il permesso, lo aprì. Il fuoco del guerriero tornò a pulsargli nelle vene non appena vide sul fondo un modellino che riproduceva alla perfezione un aereo militare, la testa e la coda erano circondate da pile di lettere e su un fianco vi si era accasciata, un poco ricurva, una fotografia. L’afferrò, ritrovandosi tra le mani i propri genitori che gli sorridevano dal passato, felici come mai li aveva visti e di colpo si sentì abbandonato dal peso di un’ armatura che non aveva desiderato, mentre il respiro lasciava posto ad un viscerale pianto. Quel pomeriggio alla bottega del vecchio Andrea era immerso in un singolare silenzio, con gli occhi posati fissi su un modelEdizioni Psiconline © 2015 - Riproduzione vietata

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lino di aquilone in legno e stoffa esprimeva il totale isolamento in cui si era posto, riluttante a qualsiasi contatto. Luca, il suo migliore amico, non era riuscito ad ottenere alcuna spiegazione per quel comportamento così anomalo e, vista la scontrosità, intuì che era meglio non provare ad indagare oltre. Per l’implicita legge dell’esperienza il vecchio, invece, conosceva fin troppo bene quell’amarezza nel vuoto dello sguardo e, quando per tutti i bambini arrivò il momento di tornare alle proprie case, non si meravigliò nel vedere che Andrea, inerte, continuava a fissare l’aquilone. Allora decise di intervenire: “ti piace quel modellino?” Andrea rispose voltandosi lento: “mi piacerebbe averne uno vero.” “Posso aiutarti a costruirlo se vuoi” incalzò il vecchio. “I miei genitori non mi permetterebbero mai di giocare con un aquilone, odiano tutto ciò che vola.” “Vuoi dire che non hanno preso mai un aereo?” Continuò con tono ironico il vecchio. “Voglio dire che non vogliono che io faccia l’astronauta perché mio padre non è riuscito a diventare un pilota!” Queste parole uscirono in una raffica di vento dalla bocca di Andrea, andando a sbattere contro le pareti della bottega risuonando forti nelle orecchie dell’uomo, soddisfatto di aver aperto il cuore del suo piccolo amico che raccontò della scoperta fatta nella soffitta, di come erano felici i suoi genitori in quella fotografia lontana e di come non capiva perché a lui non concedevano ciò che la vita aveva concesso loro: una possibilità. Il vecchio avrebbe potuto fornirgli diverse risposte, tutte giuste per un adulto ma straordinariamente sciocche e vacue per un ragazzino di dodici anni, per cui si limitò a donargli una delle sue farfalle in legno le cui ali celavano piccoli tesori. Quando Andrea la pose sulla scrivania nell’intimità della propria camera sentì quello che vi leggeva sopra: il coraggioso fa volare in alto i sogni. D’istinto guardò il cielo oltre la finestra, ignaro di quanto stava per accadere. A scuola Luca osservò a lungo l’amico non più taciturno come 10

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la sera prima e non dovette attendere molto per venire a conoscenza degli eventi che avevano portato tanto turbamento. Non appena gli fu confidato dell’aquilone si sentì fiero e speciale. Nel pomeriggio insieme i due amici andarono dal vecchio, risoluti a sfidare chiunque avesse ostacolato le loro decisioni e quando l’uomo incrociò quei giovani sguardi non ci fu bisogno di spiegazioni. Progettarono l’opera e stabilirono che si sarebbero incontrati ogni domenica mattina, dopo la messa, per costruirla. Nella piccola città nessuno poteva mancare alla celebrazione ecclesiastica della domenica e le campane, suonate con diligenza dal parroco, erano un perseverante richiamo per chiunque cedesse alla debolezza di onorare diversamente il santo giorno. Ad ogni funzione, ormai, l’attenzione di tutti era rivolta al fondo della chiesa dove regnava, vuoto, il posto mai occupato dal forestiero; eppure tale era il desiderio di vederlo che l’aria accontentava gli avidi occhi mostrandosi nei contorni del corpo del vecchio. Le settimane passavano indisturbate tra una benedizione ed un pettegolezzo, mentre l’aquilone prendeva vita nella bottega che mai aveva visto tanta operosità. Infine, gli argomenti da raccontarsi dopo la messa scemarono e gli adulti carpirono come due dei propri ragazzi non battevano ciglio ai richiami, elargiti con generosità durante l’omelia, verso la retta via e con quanta composta diligenza si dirigevano, dopo la funzione, dal vecchio forestiero per aiutarlo, a dir loro, in un progetto di ingegneria. Questa volta Andrea e Luca non avevano raccontato bugie ma ciò non bastò a contenere la collera del genitore mancato pilota quando, insospettito, recatosi alla bottega mirò il risultato di tutto quell’impegno e, tra lo stupore e l’indignazione, trascinò via i ragazzi giurando al vecchio che il suo soggiorno nella città era terminato. La sera stessa le statuarie orecchie dei santi, ubicati nella sala consiliare affinché guidassero gli umani ragionamenti, non udirono il solito chiacchiericcio ma una lecita discussione su come un vecchio sconosciuto aveva incoraggiato la disubbidienza verso dei genitori, era riuscito ad incantare giovani menti spingenEdizioni Psiconline © 2015 - Riproduzione vietata

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dole verso ciò che desideravano. Quando i cittadini della piccola città toccarono la consapevolezza che la distanza dai propri figli era nulla per il vecchio, poiché non aveva dimenticato il linguaggio del futuro nonostante una vita di passato, si piegarono di nuovo alla paura che decise la soluzione migliore per tutti: la bottega doveva chiudere ed il forestiero fare le valige. Sottovoce la notizia si diffuse nella notte, mischiata al flebile lamento del vento che entrava leggero nelle camere dei giovani cuori. Inesperti, questi battevano il ritmo della speranza, interrotto dall’attimo del verdetto bisbigliato, per poi riprendere simili a tamburi impazziti in un crescendo di rabbia ed impotenza, sordi al loro stesso rumore. Il mattino giunse esplodendo nell’ira collettiva maturata nel buio. Nessun adulto riuscì a placare il rivoltoso popolo dei figli che marciò a difesa del vecchio amico, contrapponendosi alla città intera ostinata a cacciare via l’intruso che, prigioniero nella sua stessa casa, attendeva calmo il proprio destino. Tod portò di scatto lo sguardo oltre le pareti, mentre il suono dei passi si avvicinava anche alle orecchie dell’uomo che anticipò il nemico aprendogli la porta e, dopo un fulmineo duello di sguardi, mostrò le proprie armi. “So” disse “perché voi tutti siete qui. Credete che io sia un cattivo esempio per i vostri figli; temete che ve li possa portare via. Pensate che io sia un folle venuto da chissà dove e maledite il giorno in cui ho messo piede su questa terra, diversa, vi illudete voi, dagli altri posti; abitata da gente onesta e per bene che pensa a lavorare ed a costruirsi una vita di quelle che contano. Ebbene vi sbagliate, non siete migliori di altre persone. Guardatevi, marciate sicuri chiusi nella vostra realtà fattasi terribile lontananza da quello che eravate. Siete talmente impegnati nel rendervi sterili che fatico ad immaginarvi genitori; ormai sopravvivete simili a sbiaditi ricordi troppo stanchi per provare piacere di sé. Ma i vostri figli non soccombono a questa quotidianità. Lottano contro 12

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delusioni che non appartengono loro e non hanno paura di cadere nel fallimento. Cederanno alla vostra frustrazione?” L’esercito dei grandi rispose con il silenzio, mostrando volti sospesi in un’espressione di risveglio e sbigottimento, finché l’esuberanza dei più giovani ruppe le righe scatenando l’unico potere adulto rimasto, l’autorità. Con ancora nelle orecchie l’eco delle parole disarmanti, la comunità concesse al vecchio di restare fino all’inizio dell’estate, dopodiché sarebbe dovuto sparire per sempre. Quella sera il vento non soffiava tra i tetti e le strade, nelle case tremolanti luci si offuscavano al suono del silenzio ed una generale tristezza impregnava i respiri. Andrea non ricordava di aver visto mai sua madre così in pena per suo padre, per la prima volta toccava l’amore dei propri genitori, li percepì per la prima volta uomo e donna che si amano, ancor più nella sofferenza. Si sentì in colpa, credendosi responsabile di tanto dolore. Se non avesse trovato il baule nessuna strana rivelazione avrebbe alterato l’artificiosa quiete; su una cosa era certo, nonostante non avesse capito tutto il discorso del vecchio, quelle parole avevano aperto una finestra sul passato dei genitori e, per suo padre soprattutto, si erano trasformate in sale sparso su una ferita mai rimarginata. Finita la cena tutti e tre si guardarono, sfiorando una complicità dimenticata; fu una di quelle rare volte in cui Andrea avrebbe preferito un sonoro rimprovero al posto di tranquille raccomandazioni affinché non si addormentasse tardi. Nel mutismo dell’amarezza ognuno si preparò a trascorrere la personale e singolare notte di turbamenti. Mancavano tre mesi all’estate, nella piccola città tutto sembrava tornato come prima dell’arrivo del forestiero. Gli adulti si rintanavano nella routine quotidiana, i bambini andavano a scuola, la domenica era onorata con la santa messa e della bottega Edizioni Psiconline © 2015 - Riproduzione vietata

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non vi era più notizia. Non si sapeva in quali condizioni vivesse il vecchio ed era stato proibito a chiunque di andarlo a trovare, ciò causò una profonda tristezza negli occhi lucidi del “Grande Narratore”, a cui restava solo il ricordo di quel nome attribuitogli dai suoi piccoli amici. Continuava a sperare in loro, dedicandovi nuove creature in legno e fil di ferro ed ogni notte calava sui giovani capi la possente mano quasi a benedirli, quasi ad infondere loro la fiducia nel coraggio che già possedevano. Solo un mese riuscì a tenerli lontano, poi la sfrontatezza si sostituì all’ubbidienza, la passione alla ragionevolezza, l’inventiva alla rassegnazione e, pochi per volta, si recavano furtivi al luogo proibito, assaporando la natura dolce acre del segreto. Tutti si confidavano con l’uomo che così apprese della generale inquietudine che serpeggiava dietro la facciata di ordine e perfezione degli adulti, ignari di essere il principale oggetto di discussione tra i figli. Se a questi mancavano gli anni per raggiungere il livello della comprensione, di certo non erano deficienti della intuizione sensibile che fa vedere la realtà esattamente per quello che è. Andrea era il più colpito nel descrivere i cambiamenti che notava nella quotidianità dei propri genitori. Il papà la mattina non usciva più di casa con quell’espressione dura di chi ha l’ordine di aggredire il giorno e, spesso, lo sorprendeva in quiete con gli occhi persi in immagini a lui invisibili; mentre la mamma non sequestrava più le sue idee sul volare. Un pomeriggio sentì insoliti passi recarsi verso la soffitta. Si stupì poiché l’unico che vi si rifugiava era lui stesso e così cedette al sospetto, seguendo il rumore del corpo che si muoveva verso l’angolo più oscuro del sottotetto, proprio lì dove aveva lasciato inerme il baule abbandonato da troppo tempo. Non ebbe il coraggio di aprire la porta ma si limitò ad osservare dalla piccola fessura lasciata con distrazione da chi si accingeva, fremente e tremante, a sostenere una prova tra le più dure che la vita possa pretendere. Vide suo padre. Annusare quelle lettere rivelatrici di una gioventù taciuta, sollevare il modellino riposto sul fondo del baule e cogliere la fotografia della felicità, dinanzi alla quale l’uomo 14

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crollò in un intimo e disperato pianto. A questo racconto il vecchio non ebbe più esitazioni ed incitò il piccolo popolo alla totale ribellione, esortandolo a costruire aquiloni in modo da far volare nei cieli alti dei desideri il pensiero di chi ha dimenticato; in breve tempo la bottega riprese ad essere un’operante officina e gli addetti ai lavori erano talmente discreti e zelanti che nessun adulto si accorse di cosa stava accadendo sotto il proprio naso. Nonostante la generale euforia Andrea non riusciva a togliersi dagli occhi l’immagine del padre in lacrime e mostrava il suo malessere come un cucciolo ferito lamenta il calore materno, finché il vecchio lo prese da parte rivelandogli ciò che non comprendeva: “non devi sentirti in colpa. A volte, da grandi, ci si smarrisce e solo chi è in grado di toccare l’anima può recare aiuto. Tu ci sei riuscito. Con dolore...inevitabile.” Andrea non si stancherà mai di raccontare di quando aveva dodici anni e di quell’ultima notte di primavera in cui il vento prese a vibrare con una strana energia. Insoliti ballerini apparvero nel cielo a centinaia e, svelando la fattezza di aquiloni, si esibirono in una danza di saluto. Un grande vecchio narratore abbandonava la piccola città, lasciandosi alle spalle un’alba di sogni liberi, finalmente, di volare.

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VIRGINIA

Se provava a chiedersi quale senso potesse avere in quel preciso momento la sua vita sentiva lo stesso smarrimento che molti anni prima aveva provato all’uscita di scuola, sovrastata dalla frenesia della folla ed in disperata ricerca dello sguardo materno. In quella sera solitaria, tuttavia, non erano bastate le confortevoli parole della madre a placare l’inquietudine. Consapevole di dover affrontare la notte insonne, alleviava il tormento riparandosi nella compagnia di Baffo, il gatto che qualche anno addietro aveva prelevato dal cassonetto della spazzatura. Domande irrefrenabili le torturavano l’animo, simili ad un fiume in piena rompevano gli argini della ragione. Perché non aveva reagito prima? Perché si sentiva in colpa? Perché si era fatta così tanto del male? L’amore si stava svelando nella forma sconosciuta agli innamorati: il fallimento. Ancora le risuonava nelle orecchie il sapore amaro delle ultime parole. “Il problema è tuo, risolvilo, sei tu il problema, non io.” Con il petto gonfio di tristezza aveva trovato la soluzione. Una storia finiva, lasciando dietro di sé frammenti di donna mortificati. Le domande continuavano a scorrere. Come avevano fatto ad ignorare per cinque anni i loro giorni no, le loro risposte taglienti, i loro silenzi? Nelle tempie i sentimenti scalciavano, bambini impazienti di nascere. Si abbandonò a quel travaglio mentale, pregando di so-

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pravvivere al dolore delle doglie per abbracciare i ricordi belli di una relazione tormentata. Si alzò dal letto, ormai rassegnata alle occhiaie del giorno dopo. Si sedette alla scrivania nel tentativo di trovare conforto nella scrittura, come quando era ragazzina, ma dalla penna si articolarono solo poche lettere nel centro della pagina bianca: Virginia. Smarrita vagava sospesa in un vuoto esistenziale. L’alba arrivò silente mentre lei sorseggiava il caffè, in un paradossale ossimoro ne percepiva la dolcezza gustandolo amaro. Sorrideva pensando che se mai avesse incontrato un uomo capace di comprendere quel sottile piacere, allora avrebbe ricominciato a pensare ad una nuova storia. Diversa da quella che si lasciava alle spalle. Spinse tutto ciò che aveva partorito la notte nell’angolo più recondito di se stessa e si preparò ad affrontare un’altra giornata fatta di un lavoro che non le piaceva. Si soffermò, incredula di trovarsi incastrata tra un amore sbagliato ed una quotidianità castrante. Si vestì tra il rituale serpeggiare mattutino di Baffo che non le dava tregua fino al riempimento della ciotola di croccantini. Nonostante quel sano opportunismo felino, il gatto era l’unico essere che riusciva ad acquietare le angosce di Virginia, regalandole un senso di pace provato solo da bambina nelle feste di Natale. Infine varcò la soglia di casa e con il medesimo spirito di un guerriero che indossa la propria armatura accese il cellulare. Una scarica di bip bip risuonò nella tromba delle scale del palazzo inducendola a pensare che, forse, non era l’unica a passare notti insonni. Equipaggiata di auricolare iniziò il giro di telefonate ai clienti. Tutte le volte che si trovava imbottigliata nel traffico si chiedeva perché avesse scelto di vivere in città, rinunciando a quel piccolo terra-tetto in campagna ma la risposta era sempre la stessa. Per amore aveva messo da parte ogni sua esigenza, solo ora capiva di essere stata la prova evidente di un grande egoismo. 18

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Al semaforo inchiodò, per fortuna mentre scattava il rosso, perché ciò che aveva innescato l’impulso incontrollato sul freno della macchina era stato il numero di telefono registrato in un messaggio del cellulare e non il colore dell’apparecchio stradale. Quelle cifre per un periodo della sua vita avevano rappresentato tutto: l’amicizia, il conforto, l’amore e la delusione. Quante cose erano cambiate da allora e niente era riuscito a farle rivivere, nemmeno in minima parte, quell’atmosfera impalpabile e pura che si creava ogni volta che stavano insieme lei e Matteo, l’unico ragazzo a cui pensava ancora con profondo affetto. Il loro era da sempre un rapporto intimo, viscerale, sebbene non avessero mai fatto l’amore. Cresciuti l’uno l’ombra dell’altra si scoprirono reciprocamente gelosi a tredici anni ed arrivarono ai diciotto così, oscillando tra amicizia e baci rubati senza mai chiedersi di più per paura di rovinare un qualcosa di unico e bellissimo. Ignari dell’inevitabile fine. Non si sentivano da quasi un anno, lui aveva accettato un lavoro in Giappone e Virginia non sapeva altro se non che si trovava bene ed era molto entusiasta di quell’esperienza. Non aveva idea di dove fosse al momento ma fu assalita da un’irrefrenabile voglia di vederlo e stare ore a parlare con lui come ai vecchi tempi. Allo scattare del verde ripartì, con un leggero batticuore che si tramutò in rabbia non appena vide quel nome sul display del telefonino. Perché continuava a cercarla? Le aveva detto addio. Per sempre. Dinanzi l’ultima parola il cuore vacillò della naturale fragilità ed il guerriero ferito si ritrovò a piangere, solo e pieno di rancore verso quei particolari che riuscivano con troppa facilità ad incrinare l’animo. Aumentò il volume dell’autoradio, spingendo la musica nel proprio cervello attraverso gli occhi, il naso, le orecchie, la pelle. In uno stato di trance passò le ore successive svolgendo il proprio lavoro, finché riapparvero quelle cifre familiari. Con un indugio inaspettato temporeggiò nel rispondere, si sentiva come a quinEdizioni Psiconline © 2015 - Riproduzione vietata

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dici anni, trepidante ed insicura. Infine le esplose dalla gola la voce – Matteo…ciao Matteo, come stai? Matteo la conosceva bene, dopotutto, e non tardò a soccorrerla –ciao bellezza, stasera esci con me?Virginia riuscì a sorridere nell’udire la voce di velluto e sorprendendo se stessa rispose serena: –non perderei quest’appuntamento per nulla al mondo.– Terminata la conversazione la gola ritornò stretta ed un unico pensiero le dominò la mente esausta. Matteo ignorava la natura dei suoi amori. Omosessuali. Virginia notò nell’aria l’odore frizzante delle sere speciali, seduta ad un tavolo con l’unico uomo della sua vita l’osservava con lo sguardo sospeso tra la gioia ed il rimorso. Un tempo complice, ora si ritrovava ingannatrice nel continuare a celare una verità troppo a lungo taciuta. Matteo le accarezzava il viso con lo sguardo, indagando nell’animo inquieto dell’amica in silenzio. Infine domandò: -posso avere l’onore di conoscere il fidanzato misterioso?Un sottile triste solco piegò verso il basso le labbra di Virginia che, nell’istante dell’esitazione, trovò il coraggio per svelare tutta se stessa. -È uscito dalla mia vita. Faceva venire fuori solo il peggio di me.La voce ferma, decisa, da donna adulta stupì l’uomo. -È giusto che tu sappia almeno il suo nome. Maria.Matteo si sentì colpire con violenza le orecchie, il petto; simili a proiettili le ultime lettere scalfirono l’illusoria sicurezza di un’amicizia naufragata nell’oceano della distanza. In quell’istante capì il pericolo. Rischiava di perderla per sempre. Mentre lui aveva trascorso gli ultimi anni collezionando notti di piacere e futili amori, lei aveva amato un’altra donna. Senza paure, senza condizioni, senza regole. Interamente. La guardò per lunghi e muti secondi, contraccambiato nel reciproco e fragile timore di ferirsi. 20

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Virginia perseverò nel coraggio ed accennò un sorriso. L’attimo di luce negli occhi e riaffiorò l’antica complicità, l’adulta consapevolezza di non essersi mai persi, di non essersi, in fondo, mai traditi.

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LA CONFESSIONE

“L’aria tersa inonda il parco giochi quasi con prepotenza, come se volesse costringere tutti i presenti a far scorta di ossigeno. Ai piedi di un albero due bambini si sfidano sostenendo entrambi di essere imbattibili nell’arrampicarsi sui rami, spalleggiati ognuno dal proprio gruppetto di fedeli. Gli schiamazzi del gioco sono interrotti solo da qualche vigile e discreto sguardo adulto e niente turba quello stato di grazia. D’improvviso si avvicina al gruppetto rapida un’ombra, nessuno si accorge da dove sia sbucata. È alta con la corporatura da uomo, silenziosa fissa un bambino per qualche secondo finché una mamma scatta felina ma l’ombra, in lacrime, volta le spalle e svanisce.” Queste parole suonavano asciutte nella stanza occupata solo da un uomo seduto su una scarna sedia di legno e da una donna che lo ascoltava attenta da dietro una scrivania. Durante tutto il racconto lui aveva tenuto la testa un po’ inclinata verso il basso, gli occhi alla ricerca di qualcosa di intangibile ma quando riprese a parlare scattò il mento in alto pronunciando con voce ferma: “quel bambino sono io.” Il silenzio che seguì fu interrotto da un lento e pesante respiro della donna che si alzò in piedi, volse uno sguardo fisso all’uomo e con un tono che non lasciava spazio ad alternative chiamò al telefono il superiore: “Signore, occorre la sua competenza.” La porta si aprì dopo qualche minuto, una mano snella e delicata chiusa sulla maniglia attrasse gli occhi dell’uomo i quali si

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alzarono lungo l’intero profilo; mai erano stati inondati da una tale bellezza e per un attimo divennero ciechi per il guizzo di luce che irruppe nella semioscurità della stanza. La figura si parò dinanzi all’uomo che rimase seduto, stordito dal rumore del suo stesso cuore che batteva frenetico simile ad un animale in gabbia, sopraffatto dalla femminilità quasi irriverente della donna che era appena entrata. “Dunque abbiamo un caso difficile oggi.” La voce del superiore non contraddiceva la propria corporeità e si rivolse dolce e risoluta all’altra donna che rispose svelta: “Si Signore, ho ritenuto opportuno contattarla.” “Bene, puoi andare, grazie.” Ora erano da soli, lei e lui, seduti faccia a faccia, serena e quasi divertita l’una, teso ed impaurito l’altro. “Calmati, qui non può accaderti nulla di male.” Le parole della donna accarezzarono il volto maschile sospingendolo un po’ verso l’alto, nell’intento di donargli coraggio. “Parlami di te.” L’uomo si sentì sospeso nel vuoto tra la commozione e lo stupore di quel gergo confidenziale e rassicurante poi, non riconoscendosi più, iniziò a parlare. “Da mesi mi perseguita il sogno che ho raccontato al suo inferiore, quell’ombra mi terrorizza…” “Conosco il sogno, vai avanti” lo interruppe lei, attenta e risoluta. “Io sono un uomo...arrivato. Ho compiuto da poco cinquantacinque anni, ho un buon lavoro che mi ha permesso di ottenere una discreta posizione sociale, vivo bene, guadagno bene. Sono separato da un anno. È stata una scelta presa di comune accordo, non avevamo più nulla da dirci, da darci. Anche i figli hanno compreso, sono maggiorenni ed ognuno per la propria strada. Non frequento nessun’altra, solo qualche storia di letto finita tra lenzuola semisconosciute. Ogni tanto mi sento con mia moglie, sta bene, è rinata dopo la separazione. A volte mi chiedo dove abbiamo sbagliato ma forse, semplicemente, si deve accettare 24

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che l’amore possa finire. Non capisco il sogno, quell’ombra mi inquieta quasi ogni notte, cosa vuole da me?” “Non voglio che tu mi parli del sogno, devi raccontarti a me, la tua vita non sarà tutta qui, spero” incalzò la donna. “Ma lei chi è?” osò chiedere lui con superbia, illudendosi di essere tornato padrone di sé, ignaro del potere di chi aveva di fronte. “Sulla tua testa non pesa la mia identità bensì la mia autorità. Tu sei venuto qui per confessare ed alla fine confesserai.” Il tono di voce austero, regale, soggiogò l’uomo che chinò il capo, vergognandosi della propria sfrontatezza. Si trovava lì per liberarsi di qualcosa di talmente profondo da essersi smarrito nei meandri di se stesso. Sapeva solo che si sentiva preda della follia tutte le notti in cui l’ombra tornava a fargli visita, la sua mente aveva rimosso troppo a lungo. “Io… io non so che dire.” “È così vuota la tua esistenza?” “La mia vita non è vuota!” L’uomo scattò in piedi spinto da rabbia, il volto infiammato. “Sono esausto...non ho la forza di affrontare i miei ricordi.” Il tono di voce tornava fragile in un corpo che si abbandonava rassegnato alla sedia. “Non sono sempre stato così. Quando avevo poco più di vent’anni mi sentivo il mondo dentro, ogni giorno che passava era un tributo alla vita e poi, non so come, mi sono ritrovato un perfetto sconosciuto agli occhi di quel giovane. Quando mi sono perso?” “Quando hai smesso di ascoltarti. Quando pensavi di non poter fare altro che quello che stavi facendo, quando hai smesso di porti domande.” La donna lo soccorse con dolcezza, svelando quella verità così semplice eppure sconvolgente. “Non ci credo, non può essere andata così!” Inveì lui, percorso da un’indole risvegliatasi dopo un lungo letargo. Edizioni Psiconline © 2015 - Riproduzione vietata

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“Io mi sono sempre chiesto quale fosse il bene per la mia famiglia, perché mi ferisce così? Perché mi dice tutto ciò?” “Io non sto parlando della tua famiglia” riprese la donna sempre con infinita dolcezza, “ma di te e della tua unica e profonda paura che trent’anni fa ti ha indotto a voltare le spalle a quanto la vita possa offrire di più vero e profondo.” L’uomo era sconvolto, nei lineamenti del viso si leggeva la fatica dei ricordi che lottavano per venire fuori dalla nebbiosa coltre che li aveva coperti per troppo tempo nella mente e nel cuore finché, esausto, pronunciò un nome: Ginevra. “Ginevra” ripeté, accarezzando l’immagine ora vivida di quell’amore perduto. “Cosa sa lei di Ginevra?” Si rivolse alla donna indeciso tra l’ansia e la rassegnazione ed ebbe, ancora una volta, una risposta di una semplicità che non lasciava spazio a contromisure. “Di certo non posso saperne più di te.” “Io l’ho amata di un sentimento che lei non ha mai saputo.” Le parole iniziarono a prendere forma dalle labbra dell’uomo oramai del tutto abbandonato a se stesso. “Non ho avuto il coraggio di andare oltre. Era un sole che illuminava ogni oscurità del mio animo, una creatura così pura e rara da averne quasi timore. A volte non osavo guardarla negli occhi. L’ho amata da subito, da quell’attimo in cui si sono strette le nostre mani illudendomi che sarebbe stato per sempre, ancora ignaro della mia vigliaccheria. Quando ho iniziato a provare dolore nel toccarla l’ho lasciata andare via. Lei così donna, troppo per me. Le ho fatto credere una menzogna tra le più crudeli per chi la pronuncia e, solo dopo averla persa, ho capito che ciò che provavo non era dolore ma assoluto amore.” L’uomo chiuse gli occhi, la semioscurità della stanza era paragonabile solo a quella del suo cuore; il silenzio impregnava l’aria di rimpianto finché si frappose, delicata, la voce della donna. “Non odiarti, non torturarti oltre. Ora sai cosa avrebbe voluto dirti quell’ombra, sai chi è l’ombra, non potevi più nasconderti a 26

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te stesso. Hai taciuto a lungo una verità fino a dimenticarla. Ti sei costruito una gran bella vita finché questa si è stancata di recitare per te; tuttavia adesso hai la possibilità di rinascere, hai confessato ciò che più ti terrorizzava rendendoti libero.” L’uomo si sentì rigare il volto, non gli restava che un pianto silente per l’addio di quell’esistenza ormai senza più scopo, implorante da tempo di essere solo un ricordo. La donna, paziente come lo era stata per trent’anni, rispettò quel saluto pur restando pronta, nell’attesa, a fornire l’unica risposta che ancora non era stata data. “Lei chi è?” Lui le pose la domanda con tono di preghiera. “Con quale potere è riuscita a condurmi fin qui?” Soddisfatta lei rispose: “sono la tua Anima. Quanto mi hai fatto attendere! Ti sei aggrappato a tutto pur di non incontrarmi finché la Ragione, rassegnata all’unica soluzione possibile, ti ha sottoposto al mio giudizio, consapevole che ti avrebbe potuto perdere per sempre se ti fossi dimostrato ottuso disperdendo i ricordi negli anfratti obliati della memoria.” Il rumore del corpo che scattava seduto sul letto svegliò con violenza la notte; il sudore soffocava il respiro ansimante dell’uomo che tentava di inglobare quanta più aria poteva. Gli furono necessari diversi secondi perché capisse dov’era e, a poco a poco, riuscì a calmare la fatica del proprio petto. Ebbe l’istinto di cercare qualcuno o qualcosa nel buio, cosciente dell’inutilità dell’atto, si alzò diretto alla finestra sospesa nell’oscurità e d’improvviso si sentì felice. Aprì le braccia nel gesto di un abbraccio e strinse forte a sé. L’ombra, ora, non faceva più paura.

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