Racconti schizofrenici. Vivere la malattia mentale attraverso gli occhi di operatori, pazienti e fam

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A Tu per Tu

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Stefano Porcu Bruno Furcas

RACCONTI SCHIZOFRENICI

Vivere la malattia mentale attraverso gli occhi di operatori, pazienti e familiari

Introduzione di Alberto Santoru

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Prima Edizione: 2015 ISBN 9788898037841 © 2015 Edizioni Psiconline - Francavilla al Mare Psiconline® Srl 66023 Francavilla al Mare (CH) - Via Nazionale Adriatica 7/A Tel. 085 817699 - Fax 085 9432764 Sito web: www.edizioni-psiconline.it e-mail: redazione@edizioni-psiconline.it Psiconline - psicologia e psicologi in rete sito web: www.psiconline.it email: redazione@psiconline.it I diritti di riproduzione, memorizzazione elettronica e pubblicazione con qualsiasi mezzo analogico o digitale (comprese le copie fotostatiche e l’inserimento in banche dati) e i diritti di traduzione e di adattamento totale o parziale sono riservati per tutti i paesi. Finito di stampare nel mese di Giugno 2015 in Italia da Universal Book srl - Rende (CS) per conto di Edizioni Psiconline® (Settore Editoriale di Psiconline® Srl)

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INDICE

Introduzione (a cura di Alberto Santoru)

7

Una riflessione prima di addentrarsi nel mondo del disagio mentale (a cura di Stefano Porcu e Bruno Furcas)

11

L’avvelenamento

15

Le voci mute

25

Vade retro Satana

33

Il coraggio di suonare

39

Cala il sipario

47

Genio e sregolatezza

55

Controllare, analizzare, ispezionare

63

Gli infami

67

Massimo Venturi

75 5

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La simbiosi

85

L’infermiera

93

Il mio flashback

101

Sepolta in casa

109

Teoria del complotto

119

Teoria del caos

125

Una testimonianza per concludere (a cura di Alessandro Lavena)

135

Autori

139

Illustrazioni di Emanuele Musiu Immagine di copertina di Stefania Cuccu

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INTRODUZIONE

Quando un educatore e uno psicologo decidono di raccogliere, attraverso dei brevi racconti, delle storie che tratteggiano stralci di vita ed esperienza di persone con sofferenza mentale, ci si potrebbe aspettare, con giustificata apprensione, di leggere quelle asettiche “storie cliniche” per addetti ai lavori, così ingrate nel restituire la dimensione personale, inquietante, tragica e profondamente inconoscibile dello sconvolgimento che una percezione distorta di se stessi, degli altri, della realtà provoca nell’esperienza soggettiva di chi soffre di un disturbo mentale. Gli autori ci stupiscono piacevolmente perché, postisi di fronte a questo compito, mostrano di amare più la “fotografia” che la nosografia. E si sa che le foto, quando sono fatte con arte, pur non essendo la realtà e “tutta” la realtà, trasmettono colori, suoni, sapori e sensazioni perché hanno il potere di evocare ricordi, impressioni, immagini, riflessioni, bypassano conoscenze e razionalità. Così parlano al nostro cervello emotivo, che non è solo il luogo dove si alimentano istinti e passioni ma anche la sorgente dell’empatia, del “sentire” aprendo all’ascolto di se stessi e degli altri. In questi brevi racconti si colgono delle prospettive esperienziali: i familiari, gli operatori, raramente i pazienti, perché il loro vissuto è inesprimibile per l’osservatore. E questo approccio 7 Edizioni Psiconline © 2015 - Riproduzione vietata


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“fotografico”, dove la scelta dell’angolatura appare dichiarata, è il contrario della mistificazione, della supponenza del letterato e lascia al lettore la possibilità di ricevere una impressione assolutamente personale. Gli autori manifestano la loro capacità umana e professionale nella sensibilità che mostrano nel cogliere soprattutto le atmosfere, gli sfondi, i particolari apparentemente insignificanti, in grado di trasmettere il loro vissuto della “malattia”. Alle volte non riescono a nascondere di essere parte della fotografia e neppure, probabilmente, lo vorrebbero. Essere operatori della salute, cioè persone che promuovono la salute, che accompagnano chi soffre, implica necessariamente una contaminazione della propria vita con quella di chi viene, in qualche modo, assistito. Contaminazione virtuosa che gioca sul filo di una partecipazione amorevole e sapiente tra il baratro dell’ipercoinvolgimento e l’abisso del cinismo. È sul filo dell’ascolto, della professionalità che sa donarsi con umiltà e rispetto, che alle volte può denunciare la sua impotenza ma non perde mai la speranza, che è possibile accostarsi, come fanno gli autori con i loro racconti, a una narrazione di storie che sono frammenti della nostra condizione umana. Un’altra notazione riguarda la sensazione che rimane dopo aver letto i racconti che non sembrano prevedere un “lieto fine”, ma si interrompono spesso trasmettendo un senso di angoscia e impotenza. Eppure proprio questo sentimento ci racconta di una ritrovata umanità che può finalmente “ascoltare” e prendersi cura dell’altrui sofferenza. Chi non ricorda ancora bene la rimozione collettiva che ha visto negli Ospedali Psichiatrici la cattedrale dell’esclusione dei sofferenti mentali?

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Gli autori, forti dell’esperienza “sul campo”, a contatto quotidiano con la realtà delle persone con sofferenza mentale e con le loro famiglie, fuori dagli ambulatori o da privilegiate oasi di osservazione, manifestano tutta la drammaticità dell’impatto con una problematica complessa che richiede risposte articolate che coinvolgano servizi psichiatrici, familiari, utenti, associazioni, agenzie sociali e richiedono politiche sociosanitarie che riconoscano la caratteristica multifattoriale dei disturbi mentali. Alberto Santoru Psicologo, Psicoterapeuta. Responsabile della SSD “Servizio Riabilitazione, Residenzialità e Semiresidenzialità” del Dipartimento Salute Mentale della ASL Cagliari.

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UNA RIFLESSIONE PRIMA DI ADDENTRARSI NEL MONDO DEL DISAGIO MENTALE

Prima di iniziare la lettura di questo testo è per noi doveroso fare una piccola riflessione che inviti il lettore ad andare oltre la patologia, il disturbo, la cartella clinica e si predisponga con animo sereno ad accogliere totalmente le persone rappresentate dai personaggi delle storie il cui comportamento non deve sempre essere ricondotto alla sua patologia e alla sua diagnosi. Certo, la finalità di questo libro è anche quella di descrivere alcune sfaccettature della malattia mentale, attraverso lo strumento della narrazione, ma non può e non deve essere solo ed esclusivamente questo. Sono quindici le storie proposte all’attenzione del lettore; vicende concepite con l’immaginazione e la creatività ma senza tralasciare gli spunti tratti dall’osservazione effettuata durante il nostro lavoro sul campo. Con lo strumento del racconto abbiamo voluto ricostruire le possibili esperienze di vita delle persone affette da sofferenza mentale grave, dei suoi familiari e degli operatori che in prima linea condividono con questi ultimi percorsi di fatica, di sofferenza e spesso di ostinata determinazione. Parallelamente abbiamo voluto far affiorare alcuni lineamenti della malattia mentale così come può manifestarsi agli occhi della società. Nei racconti, eventi e situazioni, stati d’animo ed emozioni danno vita a vicende personali dove il lettore potrà cogliere alcuni aspetti della patologia, da diverse prospettive, potendo così riflettere sulla diversità e sulla com11 Edizioni Psiconline © 2015 - Riproduzione vietata


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plessità della malattia e sulla variegata costellazione dei disturbi ad essa correlati. Nei racconti emergono disturbi psicotici e psichiatrici, le inquietudini e le angosce dei pazienti, oltreché deliri, ossessioni, paranoie, insomma tutte quelle situazioni che purtroppo si verificano quotidianamente in numerose famiglie, e le difficoltà delle varie professionalità che si trovano a dover affrontare e gestire, in modo diretto o indiretto, questa tipologia di disturbi. L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) definisce la “salute mentale” come “uno stato di benessere emotivo e psicologico nel quale l’individuo è in grado di sfruttare le sue capacità cognitive o emozionali, esercitare la propria funzione all’interno della società e rispondere alle esigenze quotidiane della vita di ogni giorno”. I racconti mostrano come questo “stato” di funzionamento, in un momento particolare dell’esistenza di un individuo, possa venire a mancare. Quella condizione, precedentemente citata, di benessere emotivo e psicologico, nei pazienti viene sostituita da uno stato di disagio conclamato, di sofferenza psicologica e mentale. Conseguentemente le capacità cognitive ed emozionali della persona funzionano in modo anormale, sono alterati e distorti, insomma sono lontani dalla realtà. Così come aliena dalla concretezza diventa la capacità di creare relazioni soddisfacenti con altre persone, essere consapevoli della propria situazione, adattarsi alla realtà e alle circostanze (seppur difficili e anguste) e poter vivere in modo autonomo. I disturbi mentali gravi sono caratterizzati da una pluralità e complessità di sintomi. La persona che ne è affetta diventa spesso indifferente e insensibile verso l’oggettività e reagisce in modo incoerente alle sue stimolazioni. Per una serie di motivi risulta complesso esprimere il concetto di malattia mentale attraverso una singola definizione.

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Ogni storia narrata ha caratteristiche e peculiarità proprie, ma hanno tutte come denominatore comune lo scompiglio non solo della vita familiare, lavorativa e sociale del paziente, ma sempre più spesso anche quella degli operatori socio-sanitari coinvolti nel percorso riabilitativo. Insomma, la psicosi è sicuramente una delle malattie più disarmanti, più sfiancanti e logoranti con cui spesso si trova a convivere l’uomo. Il libro non è un manuale diagnostico e non può essere utilizzato in tal senso, ma vuole sicuramente essere e rappresentare uno strumento per tentare il superamento del pregiudizio e promuovere nella nostra società il cambiamento di quell’atteggiamento mentale e culturale che continua a relegare ai margini i “diversi” e invitare tutti coloro, che hanno il coraggio di osare, a procedere “in direzione ostinata e contraria” come ci ha insegnato Faber che dei “matti” ne ha cantato le gesta. “La libertà è terapeutica” recitava uno striscione appeso nei cancelli dei manicomi che venivano appena aperti. Il nostro auspicio è che quella libertà ci aiuti a superare i preconcetti. Questo libro nelle nostre intenzioni, in tale direzione, vuole rappresentarne un modesto tentativo. Stefano e Bruno

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L’AVVELENAMENTO

Anche la follia merita i suoi applausi Alda Merini Da anni non vedevo un mese di giugno così caldo. Ero madida di sudore mentre stendevo la biancheria sulla piccola veranda. Solitamente quassù, soffiava una leggera brezza fresca che rinfrancava l’anima e lo spirito. Il giorno, invece niente... neppure un alito di vento. Erano le undici del mattino e finalmente rientrai dentro casa, l’afa era davvero opprimente. Prima di darmi una rinfrescata al viso, mi abbandonai un momento in una poltrona vecchia e sgangherata, sistemata in un angolo un po’ ritirato della cucina per non stonare con gli altri mobili, non certamente di lusso, ma dignitosi. Guardavo fuori dalla finestra con aria pensierosa e assorta, mi lasciai trasportare da una piacevole rilassatezza. Quasi mi appisolai. Dei passi mi ridestarono dal leggerissimo sonno. Carlo mi 15 Edizioni Psiconline © 2015 - Riproduzione vietata


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si parò davanti agli occhi ancora intorpiditi. Non avevo sentito i suoi passi e mi spaventai. Non credevo ai miei occhi. Non sembrava più il mio Carlo, sempre ordinato, sempre impeccabile. Quel giorno, invece, non aveva niente al posto giusto. Era così buffo che mi lasciai andare a una sonora risata. Era un burlone, e ogni tanto me ne combinava una, per questo pensai a uno dei suoi soliti scherzi. Più lo guardavo e più mi veniva da ridere. Lui invece mi fissava serio e imperturbabile. Gli occhi sembravano di ghiaccio, esprimevano distanza, quasi disprezzo. Indossava un maglione pesante, un lungo cappotto di lana e pantaloni invernali. «Ma Carlo non vorrai uscire vestito in quel modo? Siamo in pieno giugno!» Continuava a fissarmi senza dire una parola. Io ero imbarazzata, non sapevo più che pensare. Mi sembrava di avere di fronte un autentico sconosciuto; un estraneo. Rimasi interminabili secondi in silenzio, inebetita. Avevo la percezione che stesse per farmi del male da un momento all’altro. Poi presi coraggio e continuai: «chissà cosa penserà la gente vedendoti vestito in quel modo!» «Ma non vedi che c’è freddo!» Rispose lui in modo quasi meccanico. Nella mia mente cercavo una spiegazione ai suoi comportamenti: “se indossa il maglione e il cappotto d’estate, allora, probabilmente avrà freddo!” Ma poi il mio pensiero viaggiò a ritroso, sino ad alcuni giorni prima, quando era andato dal giornalaio in camicia, cravatta e boxer da mare e poi a fare la spesa nel negozio sottocasa in abito elegante. Mi sentii gelare, fui presa da un forte sgomento. Cosa stava succedendo a mio marito, a quella persona che avevo conosciuto tanto tempo fa e a cui tutti rimproveravano spesso un eccesso di sobrietà ed equilibrio? Ora invece si era lasciato improvvisa-

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mente andare, si stava comportando in modo veramente insolito. Tentai con tutta la mia volontà di farlo desistere dall’uscire conciato in quel modo bizzarro e ridicolo, ma a nulla valsero i miei tentativi. La mia insistenza, anzi, produceva l’effetto contrario. Poi, ancora impalato davanti a me, stava diventando irascibile, collerico, aggressivo. I miei tentativi di persuaderlo si rivelarono inutili. Carlo, come destandosi da un anomalo torpore, si girò in modo quasi robotizzato, raggiunse l’ingresso e uscì sbattendo vigorosamente la porta. Al frastuono seguì un leggero tremolio delle deboli pareti in cartongesso. Rimasta sola, mi sentii avvolta da un’improvvisa e lacerante solitudine. La casa che sino a poco tempo prima mi sembrava piccola era divenuta improvvisamente uno spazio smisurato. In quel momento l’assenza dei miei due figli, trasferiti in città per studiare, si percepiva come un vuoto incolmabile. Qualcosa stava cambiando. Carlo non era più lo stesso e questo mi creava un profondo malessere. Provavo a stare serena, a convincermi che forse era solo un periodo difficile, un maledetto momento di stanchezza. Cercavo di tirarmi su in tutti i modi, ma quel continuo altalenare tra giorni apparentemente normali ad altri vissuti all’insegna della follia mi faceva impazzire. “Forse è il troppo caldo”, pensai. L’arrivo dell’autunno non servì a rasserenarlo... anzi! Carlo faceva cose sempre più strane. Quando rientrava da lavoro, si guardava attorno in modo insolito, perlustrava la casa come se si trovasse nel terreno nemico di un campo di battaglia. Il suo sguardo era assente e il suo atteggiamento impetuoso. «Anna, Anna, dove sei?» Mi chiamava con insistenza. «Sono qui Carlo. Sono in cucina, sto preparando la cena». «Chiudi bene la porta! Mi raccomando due giri di chiave!» Continuava a impartirmi ordini con ansia crescente.

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Iniziai a preoccuparmi seriamente. La mia inquietudine aumentava di giorno in giorno in modo direttamente proporzionale all’incalzare dei suoi comportamenti anormali. «Abbassa le serrande della finestra, potrebbe entrare qualcuno», ripeteva ossessivamente tutte le sere. «Ma Carlo! Non hai mai avuto paura di niente e di nessuno! Cosa ti sta accadendo? Tu stai male... forse è il caso che vada dal dottor Rossetti e gli parli del tuo strano comportamento», gli dicevo con tono amorevole e rassicurante. «Ti ho detto di chiudere tutto!» «Ma non c’è bisogno. Non è mai entrato nessuno. Viviamo al primo piano e mi sembra improbabile che qualcuno provi ad arrampicarsi. Del resto, con tutti gli appartamenti al piano terra perché dovrebbero entrare proprio da noi?» Gli risposi con un tono che diventava sempre meno conciliante. La situazione mi stava estenuando. Ogni cosa che io gli dicevo per rassicurarlo gli scivolava addosso. Qualunque tentativo di giustificare le sue stranezze cadeva al suolo come una foglia al vento. Ormai gli eccessi e le stravaganze di ogni giorno rasentavano la pazzia. Un giorno riuscii a coglierlo di sorpresa. Lo invitai a fermarsi un attimo, lo feci sedere sul divano e con premura cercai di farlo ragionare, cercai di fargli capire che forse stava attraversando un momento difficile e sarebbe stata cosa giusta parlarne con uno specialista; uno psicologo, un neurologo... non so, qualcuno capace di trovare una spiegazione su cosa gli stesse accadendo, su cosa lo turbasse, su cosa stesse stravolgendo la nostra esistenza. Ascoltò in silenzio, pareva quasi darmi ragione, assecondava le mie preoccupazioni, ma poi tutto ad un tratto si alzò, mi guardò con distacco e pronunciò un secco: «io non sono malato». Fui sconvolta, calai in un profondo silenzio e non dissi più

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una parola. Trascorsero i giorni, le settimane, i mesi. La solitudine ormai si era completamente impossessata di me. Non parlavo con nessuno. Mi immersi con maggior lena nell’abituale quotidianità per tenere lontani i cattivi pensieri. I nostri figli non sospettavano nulla, o facevano soltanto finta di non capire, di non sapere. Io, di fatto, non li avevo coinvolti in questa infelice e assurda vicenda. Quando passavano qualche giorno in famiglia, cercavo di fargli assaporare una quotidianità “normale”. Quella fatta di cose semplici, come eravamo abituati quando la nostra famiglia conduceva ancora una vita serena. “Vostro padre è molto stanco in questo periodo”, rispondevo quando qualcosa li insospettiva. Ma la mia risposta non era sufficiente a placare le loro preoccupazioni e allora incalzavano con giustificati dubbi e perplessità, perché in fondo si erano accorti della condotta del padre. Improvvisamente Carlo cominciò a cucinare per sé. Sebbene restassi tanto tempo fuori casa ho sempre cucinato e badato alle faccende domestiche. Nonostante il lavoro impegnativo non ho mai fatto mancare un pasto caldo sia a pranzo sia a cena. Carlo al massimo si occupava degli arrosti, del barbecue. Da un giorno all’altro, invece, si era avvicinato ai fornelli. Sinceramente devo ammettere che la sua cucina non era male, però non riuscivo a capire, non riuscivo a spiegarmi il perché di questa nuova e improvvisa passione. Quando una donna si sente spogliata del suo ruolo domestico inizia a fantasticare e a chiedersi tanti perché. Si chiede soprattutto cosa stia cambiando attorno al proprio menage familiare. Ferita nel mio orgoglio di donna, un giorno non ho retto alla tensione e ho reagito a quella che per me era una vera e propria provocazione.

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Scoppiò una furiosa lite quando una sera, al suo rientro, gli feci trovare la cena pronta. «Perché hai cucinato tu?» Mi chiese con tono severo, quasi minaccioso. «Perché ho sempre cucinato io. Non ti piacciono più i miei piatti? Oppure è un semplice dispetto, un capriccio!» Gli risposi sbrigativamente. Dopo un attimo di silenzio il suo tono cambiò e il suo timbro appariva robotizzato. «Ho ca-pi-to tut-to. Non man-gio quan-do cu-ci-ni tu». «E per quale motivo?» Risposi, con una certa disinvoltura, mentre continuavo ad apparecchiare la tavola. «Mi vuoi avvelenare!» Pronunciò lui secco e lapidario. «Ah ah ah!» La mia risata, inizialmente tra il divertito e il sarcastico, divenne a poco a poco isteria allo stato puro, infine... pianto. «Certo ti voglio avvelenare per l’eredità... peccato che siamo in affitto e non possiedi un cazzo!» Continuai tra singhiozzi misti a riso e pianto. «Ma tu sei pazzo, veramente pazzo!» Dopo la mia reazione con uno scatto rapido, lui mi voltò le spalle e sbatté la porta della cucina. Trascorsi il resto della serata in camera da letto. Il giorno non si cenò... e neppure si dormì. Il giorno dopo cucinò lui. A tavola regnò il silenzio totale. Il conflitto della sera prima non fu risolto ma solo rinviato di alcuni giorni. Decisi di non dargliela vinta e nei giorni successivi ripresi a cucinare io. «Forse non mi sono spiegato?» Mi disse interrompendo il silenzio che si era protratto per alcuni giorni. «Forse non mi sono spiegato», aggiunse gesticolando energicamente con le mani e parandosi davanti a me in modo istrionico per spaventarmi. «Guarda che lo so. Mi vuoi uccidere. Mi vuoi avvelenare. Ho visto come mi versavi le pietanze... e quello che ci metti dentro»,

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continuava con crescente aggressività. Andai su tutte le furie e mi scagliai verbalmente contro di lui. Lo accusai. Lo offesi. Lo umiliai. Ma lui ribatté utilizzando la stessa frase: «non mangio quello che cucini tu». Quella lite fu la più snervante di tutto quel brutto periodo. Lasciai perdere. Non avevo più energia. Quel clima stava facendo precipitare anche me nella più oscura follia. Era tutto nero, non vedevo neppure un barlume di speranza. Cercavo comunque di ritrovare l’equilibrio per affrontare al meglio la situazione. I miei pensieri si rincorrevano senza tregua. Mi opprimeva il fatto che Carlo si comportasse in modo così strampalato. Provavo una forte angoscia al pensiero che lui potesse essere malato, seriamente malato. Io non sapevo come muovermi, cosa fare e a chi rivolgermi. Mi sentivo disarmata di fronte alla sua ostinazione, di fronte alla sua resistenza nel non voler accettare il suo problema. Le notti erano diventate interminabili, angoscianti. Nella mia mente, tutto era amplificato all’ennesima potenza, tutto era incerto e ogni cosa irrisolvibile. Avevo la sensazione di essere intrappolata nell’inerzia, nella totale inettitudine. Quando trovai sufficiente coraggio iniziai a parlare dei comportamenti bizzarri di mio marito ai miei figli, ai miei colleghi e agli amici più cari. Nessuno seppe darmi delle risposte. Nessuno conosceva quel disturbo. Pensai allora di affrontare il problema convincendo mio marito ad andare prima dal medico di famiglia e poi dallo psichiatra. Ho impiegato più di un anno, con l’aiuto dei miei figli e di un suo fratello per convincerlo ad accettare l’aiuto di uno specialista. Durante ogni nostra richiesta non faceva altro che ripetere: “io non ho nulla. Non sono malato. Per chi mi avete preso?” Raramente dichiarava che nella sua testa c’era qualcosa di strano: “sono confuso, non riesco a pensare... portami dal medico”.

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Ma per il dottor Rossetti, il nostro medico di famiglia, era solo un po’ di stress, uno stato di affaticamento causato dal lavoro pesante che svolgeva. Lo psichiatra invece, dopo pochi colloqui gli aveva diagnosticato un disturbo schizofrenico di tipo paranoide. «Proviamo con questi farmaci», aveva detto con supponenza il medico. «Proviamo? Cosa vuol dire proviamo?» Gli risposi con un misto di rabbia e timore. Un professionista dovrebbe dare una risposta. Ma in questo campo i professionisti pare non abbiano certezze. Pensavo avrei risolto il problema una volta convinto mio marito a rivolgersi allo psichiatra, ma il cammino verso la guarigione, o quantomeno il miglioramento della situazione, non è cosa affatto semplice e scontata. Sono stanca! Adesso sono troppo stanca! Mi sto perdendo e non riesco più a fronteggiare razionalmente la questione anche se credo che la ragione non sia molto d’aiuto nel disturbo che attanaglia mio marito. Col tempo, i farmaci hanno ridotto in parte le sue paranoie anche se ogni tanto si sente perseguitato dal vicino di casa o dal postino. Nei mesi successivi i litigi tra me e mio marito proseguirono. Da una parte i suoi comportamenti bizzarri e inspiegabili e dall’altra il mio tentativo di controbattere. È come se dentro di me convivano più anime: una che ha voglia di lottare, un’altra che invece mi dice di mollare tutto e farla finita. Per fortuna ha prevalso la prima, così dopo tanto buio sono riuscita a trovare uno spiraglio di luce. Ho finalmente capito che il disturbo di mio marito è complesso, contorto, quasi intricato. “Non devo perdere la speranza” mi

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sono detta. Al pessimismo e alla disperazione devo sostituire un atteggiamento positivo, forte e determinato. Lo psichiatra ci ha sempre detto che la patologia di mio marito interferisce con le sue stesse abilità, con la capacità di distinguere realtà e fantasia, con la capacità di gestire le emozioni, con la capacità di pensare e di comunicare in modo adeguato. Le parole non servono, spesso sono state la causa dei nostri malintesi. Non serve spiegargli a parole che non lo voglio avvelenare. Potrò pure esprimergli tutto l’amore del mondo, ma sono certa che non sarò mai creduta perché, nella sua mente, sono e sicuramente resterò sempre la persona che vuole avvelenare il suo cibo. Iniziai a cambiare atteggiamento cercando di essere accondiscendente da una parte e attenta a registrare ogni minimo cambiamento dall’altra. I fatti mi danno speranza e da un po’ di tempo a questa parte, prima di versare la pietanza nel suo piatto la verso nel mio, l’assaggio davanti a lui e con buon viso gli auguro “buon appetito Carlo”. Qualche volta ride e mangia. Qualche altra invece, seppur imbronciato, mangia comunque e va bene così, è in ogni caso un buon segno. Per il momento non posso pretendere di più. Mi rendo conto di aver ottenuto il minimo, anche se nel contempo sono divenuta consapevole che da sola non posso fare altro. Questa consapevolezza però oltre che chiarire i miei limiti mi ha infuso la speranza che un giorno, forse ancora lontano, con l’aiuto delle cure e dell’esperienza di altri, possa riabbracciare il mio Carlo, quel Carlo che ho sempre conosciuto e che rivoglio nella mia vita e in quella dei miei figli. Questo è un modo che mi sono inventata per gestire la situazione, per dimostrargli che non lo voglio avvelenare. Ci vuole ancora tempo, ma nella mia anima dopo tanta nebbia sembra tornato un po’ di sereno.

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