Testimoni del passato. Gli anni intensi di Trieste fra psichiatria e antipsichiatria

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A Tu per Tu

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Gianfranco Bernes

Testimoni del Passato Gli anni intensi di Trieste fra psichiatria e antipsichiatria

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Prima Edizione: 2012 ISBN 9788889845646 © 2012 Edizioni Psiconline - Francavilla al Mare Psiconline® Srl 66023 Francavilla al Mare (CH) - Via Nazionale Adriatica 7/A Tel. 085 817699 - Fax 085 9432764 Sito web: www.edizioni-psiconline.it e-mail: redazione@edizioni-psiconline.it Psiconline - psicologia e psicologi in rete sito web: www.psiconline.it email: redazione@psiconline.it I diritti di riproduzione, memorizzazione elettronica e pubblicazione con qualsiasi mezzo analogico o digitale (comprese le copie fotostatiche e l’inserimento in banche dati) e i diritti di traduzione e di adattamento totale o parziale sono riservati per tutti i paesi. Finito di stampare nel mese di Aprile 2012 in Italia da Atena.net srl - Grisignano di Zocco (VI) per conto di Edizioni Psiconline® (Settore Editoriale di Psiconline® Srl) Edizioni Psiconline © 2015 - Riproduzione vietata


Tutto quello che hai visto ricordalo “Non esiste la malattia esistono i matti” (Franco Basaglia)

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INDICE

Ospedale psichiatrico di Gorizia Ospedale psichiatrico di Trieste 1971 1972 1973 1974 1975 1976 1977 1978 1979 Appendice Ringraziamenti Bibliografia

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Ospedale psichiatrico di Gorizia

Molte volte ero salito su quel treno fatto di pendolari, studenti, gente comune come me. Per dieci anni avevo fatto Padova-Trieste e viceversa. A Padova avevo studiato medicina e mi ero specializzato in psichiatria, a Trieste sono nato e questa volta ritornavo non per trascorrere le vacanze e per rivedere i miei, ma per cercare, dopo anni di sacrifici e di speranze, la professione. Mentre pensavo alle serate da goliardi al bar Pedrocchi e in piazza delle Erbe, agli esami e a tutto ciò che Padova mi aveva offerto, il treno si stava fermando a Gorizia, prima città in Italia ad aver aperto le porte del manicomio. Qui ero giunto nell’autunno del 1967, ospite per un breve periodo perché, da neofita delle malattie mentali, volevo vedere da vicino questo mondo nuovo che da circa sei anni aveva rivoluzionato l’aspetto di un manicomio tradizionale, sollevando interesse ma anche tanti dubbi e perplessità in tutto il mondo psichiatrico. L’ospedale era diretto da Franco Basaglia dal 1961, quando arrivò a Gorizia da Padova e per la prima volta vide un manicomio. Rimase profondamente colpito dal dolore che avvolgeva l’ambiente e dai metodi duri e severi con cui erano trattati i degenti. Questo lo prostrò poiché andò al passato quando a vent’anni, durante la guerra, fu condannato a morte dai nazisti perché partigiano. Fu rinchiuso alla Giudecca, a Venezia, in quei tristemente famosi sotterranei. L’intervento di parenti e amici lo fece uscire vivo, ma fu inevitabile che un’esperienza simile lo segnasse per tutta la vita. Con lui agivano nove medici, centocinquanta infermieri, una psicologa, alcune religiose, assistenti sociali e volontari, mentre i degenti erano circa cinquecento. La struttura sorgeva alla periferia Edizioni Psiconline © 2015 - Riproduzione vietata

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della città, vicinissima alla Jugoslavia, tanto che i muri di cinta ne erano il confine. L’entrata era architettonicamente molto bella, direi maestosa e signorile. Varcato il cancello, dopo un vasto piazzale coltivato a giardino con nel mezzo una grande aiuola rotonda, si ergeva la palazzina della direzione, un edificio lungo 50 metri a due piani. In quello inferiore, con la portineria, la cancelleria e l’archivio, c’erano, sulla sinistra, alcuni uffici amministrativi e due stanze medici, mentre a destra si trovavano il dispensario e, proprio di fronte allo studio del direttore, la stanza riservata alla terapia elettrica, subito sconsiderata da Basaglia. Al piano superiore c’erano l’abitazione del direttore, le stanze per i medici di guardia, la biblioteca e i laboratori scientifici. In questa palazzina, che sapeva di tutto fuorché di manicomio, avevo avuto il mio primo impatto con un asilo per malati di mente. Non c’era alcun aspetto di austerità, cui ero tanto abituato a Padova; al contrario avevo notato un’insolita confusione con persone che entravano e uscivano, praticamente tutte uguali nell’aspetto e negli atteggiamenti. La cancelleria immetteva nell’ufficio del direttore ed era dalla parte opposta della portineria. Impacciato e timido mi presentai a una donna di circa quaranta anni chiedendo del direttore, proprio mentre lui stava entrando. Non era diverso da come me lo ero raffigurato. Mi venne incontro con un sorriso luminoso e cordiale. Un gesto questo che porterò sempre con me. La bocca si allargò con simpatia mentre gli occhi si rimpicciolirono, dando una forma diversa alle sue occhiaie profonde che sapevano di stanchezza e forse anche di qualcos’altro che in quel momento lo affliggeva. I capelli arruffati, messi sulla destra con un abbozzo di riga, ogni tanto mossi da un leggero tic che gli faceva strizzare un occhio. Giacca spinata su pantaloni di fustagno. Camicia bianca sbottonata al collo. Non aveva l’aspetto del professore, di colui che era abituato attraversare le corsie delle cliniche dall’alto del suo titolo. Fui attratto da questo atteggiamento e la sim10

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patia fu immediata. “Hai bisogno di qualcosa?” “Professore, mi chiamo Berni e vengo da Padova”. “Sì, so della tua richiesta. Vien con mi e non dirme professor. Mi son Franco e dame del tu”. Parlava veneziano, un dialetto bello, molto più dolce del mio, cadenzato, quasi lirico. Per me, avendo sempre vissuto nel mondo delle gerarchie, il primario era un generale perciò già il “lei” andava stretto. Non ero abituato, insomma, a questo genere di rapporto, quindi appena entrato nel suo studio mi venne naturale ritornare al “lei”. “Senti Marcello, qua dentro tu saresti l’unico a darmi del lei e non mi sembra né bello né giusto. So che vuoi fare lo psichiatra e non m’interessa come. Guardati intorno, parla con chi vuoi e domandami tutto. Questo è un mondo diverso del tuo, forse non lo capirai, ma spesso non lo capisco neppure io”. I medici naturalmente la pensavano come Basaglia. Tra gli infermieri c’erano incertezze e contrasti: per molti il nuovo era troppo nuovo e presentava incoerenze e oscurità perché sembrava che le patologie nemmeno esistessero. Tutto era basato sulla comunità terapeutica, l’ultimo grido della psichiatria, in cui dovevano esserci le soluzioni per risolvere le contraddizioni della psichiatria tradizionale, che a Gorizia chiamavano istituzionale e, dicevano, “volta unicamente alla necessità sociale di reclusione e di controllo degli individui che presentano un comportamento patologico.” La comunità terapeutica, basata sull’uomo in quanto tale e come persona libera, era stata ideata da Maxwell Jones e largamente praticata in Inghilterra, il paese che vantava la più lunga tradizione di tentativi di rinnovamento istituzionale psichiatrico. Su questa base si lavorava a Gorizia, mettendo in pratica un linguaggio nuovo che parlava di autogestione, autogoverno e decisioni comunitarie. L’aspetto era chiaramente politico e rivoluzionario perché si voleva l’assalto alle istituzioni, termine questo che ha accompagnato tutto

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il percorso basagliano, uscendo tante volte dal seminato. Con Basaglia nel nostro primo incontro si parlò del manicomio, quello classico. Persone ammassate in camerate, da dove nessuno usciva, nemmeno per andare al gabinetto. Gente immobile nel letto a guardare il vuoto che non esiste. Punizioni al di là di qualsiasi aspetto umano. Agli agitati veniva fatta la “strozzina”: veniva gettato sulla testa un lenzuolo bagnato, così la respirazione era impossibile, lo si avvitava strettamente all’altezza del collo e la perdita di coscienza era immediata. Le catene non mancavano, le chiavi servivano per colpire e lasciare segni permanenti. Getti d’acqua fredda sbollivano gli spiriti e lavavano coloro che non potevano e non dovevano uscire. Dappertutto sporco. Il sangue sul muro significava violenza. Una violenza che non si poteva e non si voleva reprimere. Porte chiuse, finestre sbarrate, persone mai uscite da un reparto. Infermieri come carcerieri. La paura, il terrore, la morte: questo era il manicomio. Per Basaglia tutte le istituzioni su cui si organizzava la nostra società erano colpevoli. “Famiglia, scuola, fabbrica, università, ospedale” mi disse “sono istituzioni basate sulla netta diversità dei ruoli, sulla divisione del lavoro: servo e signore, maestro e scolaro, datore e lavoratore, medico e malato, organizzatore e organizzato. Ciò significa che quello che caratterizza le istituzioni è la netta divisione fra chi ha il potere e chi non lo ha.” Era normale, quindi, per lui sostenere che “l’unico atto possibile da parte dello psichiatra è quello di non tendere a soluzioni fittizie, ma di far prendere coscienza della situazione complessiva in cui si vive, contemporaneamente tra esclusi ed escludenti.” “La psichiatria è entrata in una crisi reale”, mi aveva detto appena conosciuto. “Psichiatria e istituzioni sono due entità strettamente legate. L’una e l’altra presentano un denominatore comune: il tipo di rapporto oggettuale impostato con il malato.” Io coltivavo il rigore e la tradizione che avevano regolamentato i miei anni di università, però non mi sentivo indottrinato anche perché, appena mossi i primi passi nella specialità di psichiatria, 12

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TESTIMONI DEL PASSATO

subito mi ero scontrato con qualche docente e alcuni colleghi, poiché ponevo accanto alla scienza e alla biologia anche gli aspetti che mi arrivavano da una delle molte correnti dalla fenomenologia, la “Deseinanalyse” nota anche come antropoanalisi, di cui era padre lo psichiatra svizzero Ludwig Binswanger il quale portò nella psichiatria le filosofie di Edmund Husserl e Martin Heidegger che consistevano nell’immedesimarsi in ciò che si osservava: il qui e ora, una concezione filosofica destinata a diventare uno strumento terapeutico. Le mie letture di Ronald D. Laing, David Cooper, Erving Goffman e Thomas Szasz mi facevano capire che qualcosa stava cambiando e che si stava proponendo una psichiatria sociale, il cui volto era del tutto diverso da quello che usciva dalle cliniche e dai manicomi. Questi autori, negli anni Cinquanta, erano le voci di un movimento internazionale che definivano la psichiatria un’istituzione violenta e mascherata e lo psichiatra uno psico-poliziotto della società capitalistica. Da loro era nata l’antipsichiatria: Laing ne era stato il padre con il suo “L’io diviso”, un’accusa rivolta al potere psichiatrico, mentre Cooper era stata la figura più esaltante del movimento, il leader carismatico dove nel suo vangelo, “Il linguaggio della follia”, si esprimeva contro il potere medico, l’autorità gerarchica e tutta la classe dominante sostenendo che “l’antipsichiatria è un movimento politico di resistenza alla violenza psichiatrica”. L’antipsichiatria era sorta, quindi, nei miei anni e mi aveva coinvolto da lontano, poiché questa corrente aveva interessato in Italia solamente Franco Basaglia e la sua équipe dell’Ospedale psichiatrico di Gorizia, lasciando tutti gli altri colleghi ben lontani e fortemente critici. Nell’ottobre del 1967 il bellissimo parco dell’ospedale di Gorizia era aperto a tutti. Salendo dalla palazzina della direzione s’incontravano ai lati i padiglioni per gli ammalati: a destra le donne a sinistra gli uomini. Dapprima i reparti A o di osservazione, riservati ai brevi degenti. Poi i B, per gli agitati, quelli con più celle d’isolamento.

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Seguivano i C, che accoglievano i più gravi, e infine i D, per i lavoratori. Il primo reparto a gettare le chiavi fu il B maschile nel 1962. La liberazione fu possibile grazie alla comune volontà degli infermieri che, per primi, accettarono di condurre nel “mondo comunitario” i degenti. Non fu facile perché era impensabile che persone, le quali avevano vissuto per anni rinchiuse a stretto contatto di gomito a stereotipare quotidianamente gli stessi gesti, potessero improvvisamente guadagnare il mondo aperto e lasciare alle spalle la reclusione e l’isolamento che le avevano segnate. Con l’apertura del “B” si iniziarono le assemblee, che avevano cadenza quotidiana e riunivano ogni mattina malati, medici, infermieri e assistenti sociali nel refettorio del reparto. La presenza era facoltativa e ognuno poteva entrare e uscire a piacimento. Con il tempo anche gli altri reparti si aprirono, fu abolita l’ergoterapia e a tutti fu dato un minimo salario, che aveva più il sapore di sussidio, in cambio di alcuni lavori. Questo inizialmente fu un grosso successo, ma con il tempo sorsero le difficoltà. I più giovani e coloro che presentavano minori problemi furono dimessi, tanto che alla fine del 1967 la popolazione dei degenti si era dimezzata. Vi erano rimasti i più anziani e l’età media si aggirava sui sessant’anni, per questo invitarli al lavoro non era facile, anche perché il sussidio era elargito lo stesso. L’ozio s’impadronì dell’ambiente creando malumori e difficoltà tra gli infermieri che, dopo l’esaltante inizio, vedevano un rallentamento. Un altro fatto preoccupava: nella primavera del 1967 i reparti C, uomini e donne, erano la colpa della comunità, in quanto erano gli unici ancora chiusi in un ospedale senza sbarre. L’ambiente che caratterizzava questi reparti era dei peggiori. Ammalati sporchi, urlanti, pronti ad azzuffarsi per un nonnulla; altri vivevano un mutismo assoluto, erano come pietrificati, raccolti in un angolo o raggomitolati sul letto. Non sembravano uomini e vivevano la malattia nel modo più violento e drammatico. D’altro canto tutti presentavano grossi problemi, alcuni avevano lesioni organiche, altri erano gravi 14

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dementi. Per abbattere le barriere di questi ultimi due reparti necessitava una collaborazione totale, quindi non solo da parte dei medici e degli infermieri ma anche di tutta la comunità, in particolare dei degenti che già vivevano la libertà. I reparti C erano considerati la fossa dei serpenti. Il trasferimento al “C” significava subire una sanzione: essere matti, essere sgraditi ed essere esclusi dalla vita di tutto l’ospedale. Al mio arrivo a Gorizia, nell’ottobre del 1967, rimaneva chiuso solamente il “C” donne con cento ricoverate. Gli uomini erano liberi dal 14 luglio, dopo non poche difficoltà, perché i primi trasferimenti nei reparti aperti misero in crisi l’intero ospedale e ci furono parecchie rimostranze, in particolare da parte degli infermieri più tradizionalisti. Ciò era dovuto al fatto che tra i degenti del “C” c’erano anche rissosi e violenti, perciò la convivenza con chi già conosceva la libertà non era facile. Il lavoro della comunità si fece duro e pressante. Bisognava far accettare a tutti che se un paziente si comportava in modo non conveniente si doveva approfondire il motivo del suo agire, non tanto per risolverlo quanto per comprenderlo e accettarlo. Il malato di mente era un malato come tutti gli altri, andava curato con umanità, attenzione e senza violenza. Questo a Gorizia ormai era stato accettato ma, di fronte a risse e violenze, alcuni medici, parecchi infermieri e una parte dei degenti ritennero che un reparto chiuso fosse ancora necessario. Non tutti i pazienti, inoltre, vivevano felicemente il rapporto con la libertà. Non erano abituati all’esterno, non avevano il contatto con il quotidiano, non conoscevano nulla di ciò che accadeva al di fuori di quelle mura. Era inevitabile per loro non abbandonare lo spazio chiuso, parte integrante della loro vita piatta, per una dimensione più vasta, nuova e libera ma densa d’incognite e difficoltà. Il lavoro della comunità e in particolare quello dei leader, degenti che per carisma avevano ascendente sugli altri, cercò di togliere questo senso di agorafobia che non era solamente paura dello spazio

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aperto ma terrore della solitudine esterna, dell’abbandono e, perché no, del rifiuto da parte della gente normale. Dato il sempre maggior numero di degenti che aveva conquistato la possibilità di uscire dal reparto senza l’accompagnatore, la chiusura dei “C” era vista con la massima negatività, poiché rappresentava la dipendenza dalle istituzioni, quindi il vecchio manicomio e ciò non era possibile in un ospedale aperto. Ad anticipare i tempi nel “C” uomini fu la richiesta di alcuni degenti di potere cambiare reparto. Erano i migliori, come Vittorio che, quotidianamente, si dedicava ai lavori di pulizia. Ma sarebbe stata una decisione irresponsabile voler creare una differenziazione tra i pazienti, etichettando come “peggiori” coloro che avrebbero continuato a mantenere in vita il reparto. Sarebbero stati dei totali emarginati e il lavoro sin qui svolto sarebbe stato inutile. Ci volle tanto coraggio e un coinvolgimento totale poiché si dava luce a un abisso, dal quale uscivano persone cui era stato negato tutto e che per la legge erano solamente un numero. Per l’apertura ci fu festa con l’intervento di tutto il personale e dei “matti liberi”. Uno di loro, Erminio, volle fare un brindisi con l’aranciata, dopo aver lanciato il più lontano possibile un mazzo di chiavi, simbolo del passato. Appena giunto a Gorizia il primo gesto di Basaglia fu quello di eliminare il camice, da lui ritenuto un segno del potere in quanto era come una divisa che incuteva timore e non permetteva di instaurare un rapporto con i pazienti. Per questo motivo nessun medico e nessun infermiere indossava i classici paramenti ospedalieri. Così iniziai a frequentare i reparti in “borghese”. Una mattina mi recai al C, l’ultimo reparto chiuso. Per entrare dovetti suonare. Ad aprire fu un’infermiera: “Entri in questa fossa e cerchi di non impressionarsi, questo è un manicomio e questo è il suo ultimo anello.” C’era una puzza immonda, pavimento e mura lerci, donne che mangiavano, o meglio s’ingozzavano con le mani, gettando sul pavi16

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mento il cibo non gradito. Dallo stanzone giungevano urla di terrore, insieme a una cantilena, a un riso sfrenato, a un singhiozzo continuo. Una donna alta e magra stava picchiando con violenza il viso sanguinante di una degente con oltre cento chili e che la fissava immobile, mentre accanto a lei una tra le più giovani piangeva tenendo per mano un’altra che invece rideva a più non posso. “Nessuno fa niente” dissi rivolgendomi all’infermiera che non dimostrava i suoi quarant’anni, nonostante una corporatura mascolina, lo sguardo truce e due occhi inespressivi. “Ci provi lei a mettersi lì in mezzo.” Lo feci e per poco non mi presi un pugno. Ricevetti però uno sputo e l’investitura di stronzo. Fui preso dalla rabbia e dal petto mi uscì, attraverso la bocca, un urlo disumano che fece accorrere tutto il personale. “Basta per Dio” gridai “sei pazza, così la uccidi. Vieni via.” Presi per un braccio la donna magra che aveva le mani ricoperte dal sangue della sua inerte avversaria e la consegnai alla capo turno dicendole “le faccia qualcosa.” “Vuole che l’ammazzi?” fu la risposta. Volevo intervenire, ma mi preoccupava quella donna grassa. Ritornai nello stanzone e la vidi piangente. Credevo fosse per il dolore. Invece mi aggredì, gridandomi “è mia, è mia, è mia”. Non capivo e dovetti letteralmente placcarla, come avevo imparato giocando a rugby. Graziella, una delle infermiere, si avvicinò. “Gilda vieni a lavarti il viso, la piccola te lo ha colorato di rosso.” “Mi piace il rosso”, rispose la donna e tranquillamente seguì Graziella. Poi mi raccontarono che Gilda credeva di essere la mamma dell’altra, di nome Maria, la quale odiava la vera mamma e, quindi, anche la patetica figura di Gilda. Questo mio primo vero impatto con il manicomio non fu dei più facili. Dovendo seguire la terapia tradizionale, bisognava immediatamente segregare e sedare la più aggressiva e, nello stesso tempo, gettare qualche pastiglia nella grossa pancia di Gilda. Però subito il “qua e ora” della fenomenologia mi prese la mente: perché non cer-

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care di capire i motivi che portavano Gilda a essere madre e Maria a odiare tanto la sua mamma? Rimasi molto male per la reazione che avevo avuto con Maria, specialmente nel definirla pazza. Non era da psichiatra goriziano apostrofare in quel modo una persona che aveva raccolto solamente odio e dimenticanza. Visitai il reparto e mi resi conto di essere in un’isola senza storia. In una stanza, relegate a letto, c’erano una quindicina di donne, praticamente senza età ma anche senza nome. Vegetavano qui in sostanza da sempre. Erano le cosiddette invalide dell’infermeria che avevano annullato la mente vivendo l’ozio e la nullità. Si trattava di persone con vecchie fratture femorali, amputazioni oppure emiplegie e mai erano state riabilitate. Ora vivevano al “C”, spente, con gli occhi rivolti al muro, senza alcuna espressione. Il dottor Arturo Molina, il più stretto collaboratore di Basaglia, mi avvicinò e, posandomi una mano sulla spalla, mi disse: “Non avevi mai visto nulla di simile? In questo reparto tutto è difficile, anche se il personale ora è molto vicino a queste donne. Nutrono affetto per loro e i piccoli regali che le fanno delle volte hanno del miracoloso. Più della metà non riceve alcuna visita, come se non avesse nessuno al mondo. Sempre sole e mai un gesto, una carezza o un sorriso da parte di qualche parente. È peggio che essere morti.” “Non è facile comprendere questo mondo Arturo. Ma perché quando è stato aperto il “C” uomini non lo si è fatto anche con le donne?” “Innanzi tutto tra gli uomini non ci sono quei problemi erotici che interessano le donne le quali, tra l’altro, hanno anche una maggiore predisposizione alla fuga. In più le donne non hanno quella gran voglia di uscire come gli uomini. Loro chiedono di ritornare a casa, non di andare in giardino.” L’apertura dell’ultimo reparto coinvolse tutto l’ospedale. Durante le assemblee ci furono molte discussioni, con varie interpretazioni che, di volta in volta, ponevano in luce i tanti temi che legavano ancora il “C” donne alle istituzioni manicomiali. 18

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Una mattina, prima di recarmi alla consueta riunione, raggiunsi la palazzina della direzione per sottoporre a Basaglia alcune mie valutazioni. Lo facevo spesso e sempre ero ascoltato; poi s’iniziava la discussione che, delle volte, coinvolgeva anche qualche altro medico presente in quel momento. Mi meravigliavo del peso che Basaglia e gli altri davano alle mie segnalazioni e anche dell’interesse che suscitavano. Quando, però, proponevo argomenti basati sulla pura medicina e cercavo di valutare scientificamente qualche caso, sollevavo un vero vespaio e mi sentivo un soldato non addestrato alla guerriglia e costretto a combattere su questo terreno. Non che loro fossero aggressivi, però usavano le parole come tante baionette. Facevo fatica a seguirli poiché il loro non era il linguaggio scientifico a cui ero abituato, ma un parlare filosofico-politico dove scorrevano parole come autoritario, azione di rottura, potere istituzionale, atto rivoluzionario, opposizione al potere, cultura di massa. Spesso, in qualsiasi contesto, usavano la parola politica che inizialmente interpretai per il suo valore, quello cioè legato ai partiti. Solamente in seguito compresi che con questo termine intendevano un atteggiamento per raggiungere determinati obiettivi. Mi era difficile penetrare in questi discorsi. La patologia di un paziente non trovava spazio nella clinica, accantonata a favore dell’esclusione, dell’oppressione familiare e della società. Degli psicofarmaci, che dal 1952 quando furono scoperti da Delay con Denniker e Harl avevano letteralmente invaso gli ospedali, se ne parlava poco, anche se erano usati abbondantemente per poter “controllare” la libertà dei degenti. Entrai nello studio di Basaglia. Di fronte a lui sedevano due uomini che mai avevo visto. “Scusa, non sapevo che eri impegnato”. Stavo per andarmene ma Basaglia mi bloccò: “Entra, non ci sono problemi. Siamo tra amici”. I due mi furono presentati. Erano esponenti del Partito comunista di Gorizia e, come mi fu detto dopo, frequentavano spesso lo studio del direttore. In ospedale la politica stava di casa e non poteva essere diversamente, dovendo Basaglia lottare quotidianamente a

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tutti i livelli, sia amministrativi sia politici, per portare avanti la sua iniziativa, basata sulla libertà e sulla negazione delle istituzioni e collegata a quel movimento che dai primi anni ‘60 stava prendendo posizione su tutto ciò che sapeva di sociale. Alla fine del 1967 si stava vivendo un periodo turbolento e non solamente in un’Italia delusa dal centrosinistra. Anche altri Stati stavano marciando sulla strada delle riforme e dell’opposizione al potere. Nelle università c’era parecchio movimento. Gli studenti, organizzati da formazioni culturalmente legate all’estrema sinistra, gridavano il loro rifiuto ed era difficile capire come sarebbe finita. I due se ne andarono e Basaglia, guardando i tanti fascicoli sparsi sulla scrivania, si distese sulla sedia. Lo vedevo stanco e ciò poteva essere normale, essendo abituato a lavorare anche quindici ore il giorno. Il suo era un lavoro snervante e logorante, improntato su continue discussioni, il più delle volte pesanti e di non facile soluzione. “Per mi i pol andar tuti a ramengo. Ma ti sembra possibile. Guarda qua citazioni su citazioni. Denunce, querele, avvocati, tribunali. Mi sembra di essere un delinquente, mi manca solo la galera. Ma hai visto i muri di Gorizia pieni di manifesti contro di noi? Non m’impressiono, però non capisco perché la gente sia così diffidente e cattiva. È come se vivessimo in un lebbrosario. Per te certe cose saranno difficili da capire perché hai un animo borghese e non sei di sinistra. Ma questo non m’interessa. So che non sei venuto qua solo per curiosità, hai una buona preparazione e sei in gamba e mi piacerebbe che tu mettessi tra parentesi tutti i dogmi dell’università. Pensaci, perché il futuro è tuo e di coloro che hanno la tua età. Adesso devo andare in tribunale. Torna dopo così ti dirò se mi hanno condannato”. Mentre stavo per uscire dalla parte opposta della portineria, quella che dava accesso al parco e porta ai padiglioni, Duilio, uno dei pazienti leader, sempre attivo e alla ricerca di novità, mi disse che domenica ci sarebbe stata una gita a Cormòns e dintorni. “Se vuoi sapere tutto leggi qua. Il giornale è di qualche anno fa, 20

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ma la gita è la stessa”. Mi dette un foglio che si chiamava “Il Picchio”. Si trattava di un mensile, che sino a qualche tempo fa usciva a cura della comunità per rilevare gli argomenti che stavano caratterizzando la fase di mutamento del manicomio. Conteneva interviste ai medici, vignette raffiguranti la vita interna e il mondo esterno, tutte con una sottile vena umoristica. Era ben fatto ed era un peccato che le pubblicazioni fossero cessate. M’incamminai verso il reparto “A” uomini dove era in programma l’assemblea. Lungo il viale mi affiancai a suor Agnese, una delle religiose che con carità, ma anche con autorità, mettevano a disposizione lavoro e fatica nei reparti femminili. Quello delle suore era un personaggio immancabile nell’ambito di un ospedale, di cui conoscevano tutto e sapevano far tutto. Per quasi sei anni le suore non avevano mai partecipato alle riunioni. La venuta di Basaglia aveva rivoluzionato un programma che da quasi sessant’anni resisteva con rigore assoluto. Per loro, abituate all’ordine, alla metodicità, all’osservare bollettini e comandi con scrupolosità, l’avvento della nuova équipe era stato come un ciclone che le allontanava un po’ da tutto, coinvolgendo pure la religione che, anche se non ignorata, aveva lasciato il posto alla laicità della politica. Ora, da poco, partecipavano alla prima riunione della giornata, quella delle otto e trenta. “Buon giorno dottore. So che è qui da poco. Pure lei è uno che pratica la nuova psichiatria?” “Sono qui per osservare. A Padova si parla molto di questa esperienza e mi sembra giusto conoscerla da vicino.” “Qui è cambiato tutto. Di quello che c’era fino al ‘61 è rimasto poco. Il parco e le case sono uguali, ma la vita è un’altra. La gente non è più la stessa e si fa fatica a riconoscere un medico da un infermiere o da un visitatore, delle volte addirittura da un paziente. Per noi, ma credo anche per tanti altri, non è stato facile penetrare in questo nuovo mondo.” “Suora, mi sta forse dicendo che si stava meglio prima?”

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“No, non dico questo. A noi il rinnovamento fa piacere, ma la responsabilità è aumentata ora che i reparti sono aperti, perché, rispetto a prima, la sorveglianza deve essere maggiore.” “Mi sembra, però, che non ci siano molti agitati in giro, anzi?” “Sì, è vero, sono tutti più calmi, ma bisogna dire grazie agli psicofarmaci. Una volta per calmare un agitato si usavano i mezzi di allora, anche un po’ forti. Però quando stavano bene erano belli, anche sorridenti, mentre adesso li vedo tutti tristi. Poi una volta quando erano in sé si dedicavano volentieri al lavoro. Adesso mi sembrano meno forti, non hanno volontà e preferiscono dormire.” “Però sono liberi, non ci sono punizioni e nessuno viene picchiato.” “Senta adesso mi trovo bene, ma non posso disapprovare il passato. Noi abbiamo sempre voluto molto bene ai nostri ammalati. Prima c’era un direttore molto severo e interveniva pesantemente se un dottore o un infermiere maltrattava un degente.” “Tra poco anche l’ultimo reparto chiuso sarà aperto e allora la libertà sarà totale.” “Il “C” donne è un reparto brutto. Lì ci sono tutte le croniche, persone che non si alzano mai dal letto e donne anche pericolose. Adesso stanno lavorando per aprirlo e questo un po’ mi preoccupa, perché conoscendo quelle ammalate so che potrebbero esserci dei problemi una volta libere. In ogni caso collaboreremo, come abbiamo sempre fatto.” Naturalmente la riunione del mattino era improntata sul “C” donne. In quel periodo era questo il problema principale sul quale si sviluppava il lavoro di tutta la giornata. L’ultimo reparto chiuso era divenuto la colpa di tutti, in particolare delle sue infermiere che erano accusate di non voler compiere il passo che tutti si attendevano da loro. Fu decisa una riunione settimanale con tutto il personale femminile dell’ospedale e, durante le discussioni, le infermiere del “C” furono ulteriormente colpevolizzate. Maturò, così, all’interno del gruppo una piccola minoranza che si schierò con il sistema d’avan22

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guardia, però senza trovare una leader per contrapporsi a coloro che ancora si opponevano alla liberalizzazione del reparto. Basaglia, come tutti, sapeva di questa situazione d’incertezza al punto che in una riunione affermò: “O si cambia il personale di quel reparto, e questa è anche una possibilità, o si apre il reparto con un’azione di rottura. Altrimenti cosa possiamo fare?” A frenare le infermiere del “C” era che la gran parte dei loro colleghi, con l’apertura dei reparti, aveva perso quella figura di professionalità prima esistente. Ora gli infermieri avevano poco da fare, se non accompagnare al bar o lungo i viali i degenti. Il lavoro era completamente mutato e alcuni avevano accusato il colpo perché, quando arrivavano di mattina, non sapevano cosa fare. Tutti si rendevano conto che, con le porte chiuse, il reparto aveva un suo equilibrio, una sua dinamica, mentre aprendole bisognava cercare una dimensione con una nuova identità. In una riunione tra medici prima dell’apertura, Basaglia affermò: “L’ultimo reparto stenta ad aprirsi, perché? Secondo me perché in quest’ultima isola è rappresentata la norma e tale norma bisogna infrangerla. Penso non si debba aspettare la maturazione del reparto per aprirlo!” “C’è una pressione verso l’apertura” disse Giovanni Ferri “che non parte più solamente da noi ma da molti infermieri degli altri reparti, dai malati e anche da qualche infermiera del “C” donne. Credo che tutti dovrebbero essere convinti dell’opportunità di farlo e ciò perché non si creda che l’iniziativa parta sempre dal vertice. Dobbiamo evitare che il reparto sia aperto solo dal direttore e dall’équipe dei medici. Dovrebbe essere aperto da una massa di infermieri e di malati.” “Teniamo presente” aggiunse Molina “che su sette reparti che si sono aperti sinora ciò non si è mai verificato. I primi quattro reparti si sono aperti per l’intervento diretto dei medici, gli ultimi tre prevalentemente per un processo di maturazione interna, anche se questa era da collegarsi a una serie di azioni e di pressioni da parte nostra. Però ora ci troviamo di fronte a una situazione del tutto particolare,

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perché questo è veramente l’ultimo reparto chiuso che, come diceva Basaglia, rappresenta e simbolizza la persistenza della norma asilare.” “Devono essere gli infermieri degli altri reparti a dire basta.” Precisò Ferri. “Bisogna anche chiedersi” intervenne Molina “l’effetto di un assedio da parte degli altri reparti, una specie di imposizione che verrebbe sentita come una nuova norma, cioè la superiorità morale del reparto aperto su quello chiuso.” “Quello che dite è tutto giusto. Adesso però dobbiamo cercare di coinvolgere il più possibile tutti per arrivare a quest’ultima meta.” Su queste parole di Basaglia, mentre il buio aveva già avvolto tutto l’ospedale, si chiuse la riunione. La pressione interna, per giungere alla tanta sospirata ultima apertura, si fece sempre maggiore al punto che le infermiere, legate ancora al sistema tradizionale, assunsero un ruolo di passività nei confronti del direttore e dell’équipe poiché si resero conto che, in ogni caso, il reparto sarebbe stato aperto. La non collaborazione provocò parecchio disagio, in quanto era evidente che il reparto non si sarebbe aperto dall’interno. L’équipe, allora, si assunse il compito di fissare la data dell’apertura. Le successive riunioni non furono delle più facili. Non solo tra i medici c’erano opinioni diverse ma anche il personale si trovava diviso su quella che era definita una forzatura, per alcuni violenta, di aprire senza il totale consenso delle infermiere del “C”. In un’assemblea di fine ottobre, mentre fuori la pioggia rendeva più cupo e triste il manicomio, Basaglia disse: “Cosa succede se apriamo contro la volontà del personale? Probabilmente ci sarà una reazione abbastanza violenta, palese o nascosta, contro di noi. D’altra parte penso che dobbiamo correre questo rischio che è insito in questo processo di negazione.” Per Basaglia la negazione del sistema era il contestare sul piano pratico la condizione manicomiale, il rifiutare una realtà che evi24

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denziava elementi estranei alla malattia e alla sua cura e che aveva le radici nel sistema sociale, politico ed economico. Il malato mentale era un diverso, un escluso, un represso in regime di custodia, senza alcun diritto. Perciò Basaglia affermava che solo una psichiatria intesa nel suo duplice ruolo, medico e sociale, poteva essere in grado di far conoscere al malato cosa fosse la malattia e cosa la società gli aveva fatto. Non quindi una psichiatria istituzionalizzata che aveva dimostrato il suo fallimento, escludendo il malato dal contesto sociale e dalla sua stessa umanità. “Noi non facciamo antipsichiatria” aggiunse Basaglia “facciamo non psichiatria. La rivoluzione ha bisogno di una violenza e la nostra violenza è l’apertura di un reparto.” “Attualmente” disse Ferri “noi siamo ancora ‘rompitori’ di ospedale e credo che, per passare dalla rottura dell’ospedale a quella della psichiatria, bisogna fare un salto qualitativo.” “Lo facciamo contemporaneamente” s’intromise Basaglia “la rottura dei reparti è la rottura della psichiatria. E quando tutti i reparti saranno aperti bisognerà combattere, perché allora ci saranno nuovi e più grossi problemi.” “Si parlerà veramente della proiezione all’esterno” disse Molina. “La realtà sarà sicuramente all’esterno, a meno che non facciamo, per paura o per ansia, un ritorno indietro facendo di tutto l’ospedale un gran reparto chiuso.” Con queste parole di Basaglia si concluse la riunione serale. Me ne andai con Caselli, che, vistomi pensieroso, mi disse: “Non incasinarti. Qui è tutto nuovo, forse troppo. Pure io tante volte mi faccio domande, ma poi capisco che effettivamente qualcosa deve cambiare. Basaglia è un onesto, credimi, e quando lo conoscerai meglio e avrai capito cosa vuole ti sarà più semplice comprendere questa nostra vita.” Avevo capito, come diceva Armando, che Basaglia era onesto. Mi piaceva come persona e ciò al di là delle nostre valutazioni politiche, certamente diverse e che sempre condizionavano i giudizi. Entrambi ci eravamo capiti. Lui mi aveva accettato da subito e ciò

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nonostante la sua diffidenza per tutto e per tutti, e mi aveva permesso di mettermi a mio agio. Aveva una vasta cultura, che proiettava nella medicina. Sapeva di filosofia, anche se accostava tutto su ideologie politiche di sinistra. Dialogava con Sartre e Foucault, entrambi filosofi francesi. Il primo, definito il pensatore solitario, nel dopoguerra acquistò, quasi di colpo, una posizione di primato nell’ambito della cultura mondiale, ponendosi a capo di quella corrente esistenzialista che, per differenziarla dall’esistenzialismo d’ispirazione cristiana, fu definita atea. L’esistenzialismo sartriano, fortemente caratterizzato dall’esigenza di un impegno sociale, andò gradualmente avvicinandosi al marxismo, di cui rivisse i temi fondamentali in chiave più strettamente filosofica. Romanziere e drammaturgo di vasta fama, nel 1964 fu insignito del Nobel per la letteratura, che rifiutò in nome della sua indipendenza. Michel Foucault, non marxista e non psichiatra, era una figura di spicco negli anni Sessanta per la molteplicità e originalità dei suoi interessi culturali che dalla filosofia spaziavano nella psicologia, nella medicina toccando profondamente il sociale. Nel 1963 giunse in Italia la sua opera più monumentale “Storia della follia”, dove in modo superbo indagava sulle origini della segregazione manicomiale. Basaglia nel lavoro pretendeva molto. Era instancabile e molto esigente con se stesso, certo di più che con gli altri. Si adattava alle varie situazioni, ma rimaneva sempre lui e non tralasciava la sua critica. Faceva mostra di una notevole pazienza, ma era estremamente testardo, così com’era disordinato al punto che non trovava mai quello che cercava nei tanti foglietti che occupavano le sue tasche. Per quel poco che lo conoscevo mi sembrava un grosso personaggio, cui dovevo ancora dare un’etichetta da scegliere tra ideologo, uomo d’azione, profeta umanitario, apostolo dei diversi oppure ricercare la sua natura in altre sfumature che lo potevano far apparire irresponsabile, istrione, libertario o animale politico. No, queste ultime non potevano andare bene perché sulla sua rettitudine avrei giurato. Indubbiamente era un antiteorico, un negatore della cul26

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tura, di quella che faceva a pugni con le sue idee e per la quale era pronto a sostenere una guerra, con pochi alleati, contro tutto e tutti. Il suo accostamento a Sartre e Foucault, ma anche a Laing, Cooper, Goffman e Castel, lo poneva sulle loro posizioni che volevano il quesito delle malattie mentali iscritto nell’ambito più vasto del problema dei rapporti di potere, perciò la malattia mentale era una malattia esclusivamente sociale e come tale andava curata. Dopo tutte queste riflessioni il sonno giunse, ma prima di dormire mi venne una domanda: quando si mosse per la sua crociata contro il manicomio Basaglia era sostenuto da premesse scientifiche o ideologiche? In una delle solite riunioni del mattino i lavori erano disturbati da Silvio, un cerebropatico particolarmente rumoroso. Inoltre anche Erminia, un’oligofrenica, era agitata. Pur con pareri contrastanti, questi malati da un paio di mesi erano stati ammessi alle assemblee per evitare qualsiasi tipo di discriminazione e di esclusione. Ovviamente la loro presenza molte volte ostacolava le discussioni ed erano parecchi gli interventi per sedare i malumori. L’argomento principale era la birra perché se ne beveva troppa, con conseguenze anche non simpatiche in quanto tra la popolazione ospedaliera c’erano pure degli alcolisti. Il paziente che gestiva il bar “All’Amicizia” affermò che non ce la faceva più a controllare la situazione. Furono allora proposte varie soluzioni: liberalizzare la birra, liberalizzarla ma con restrizione degli orari, spostare la vendita nei reparti, aumentare il costo dopo la prima bottiglietta. L’assemblea reagì poiché alcune proposte furono considerate di tipo “coercitivo-punitivo-restrittivo” (l’aumento del prezzo, la restrizione dell’orario), mentre altre tendevano a una maggiore responsabilizzazione della comunità. Al pomeriggio si ritornò a parlare del “C” donne così come nei giorni seguenti, anche se dentro l’ospedale c’erano tanti altri problemi: qualche rissa, disaccordi tra il personale, la polizia che bussava per avere informazioni e il tribunale che presentava qualche

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avviso di comparizione a Basaglia, in quanto direttore, per dei fatti che all’esterno vedevano protagonisti i “matti”. Una delle prime date fissate per l’apertura fu “poco prima di Natale”, il che avrebbe permesso di preparare definitivamente il terreno. Poi, visto che le difficoltà non diminuivano, si pensò di accelerare e la proposta fu “entro il mese”. Però più il tempo passava più difficile si faceva il tutto. Bisognava arrivare al fatto compiuto e così nella riunione serale delle infermiere del 21 novembre, mentre ancora si discuteva sul come e sul quando, Basaglia uscì dicendo: “Perché non lo facciamo domani?” Nessuno si oppose. La mattina del 22 anche le chiavi del “C” donne furono gettate lontano nel prato. L’ultima porta era stata aperta nonostante le infermiere che, pur accettando la responsabilità di gestire il reparto dopo l’apertura, rifiutarono di far propria la nuova situazione e quindi di diventare protagoniste del rovesciamento. Quella sera ci fu una piccola festa. Indubbiamente era stato raggiunto un obiettivo importante. “Il più deve ancora succedere” disse Basaglia. “Il nostro problema, come lo sapete, viene adesso. Abbiamo due possibilità: o fare veramente un ospedale aperto o fare un grande reparto chiuso.” Era tutto molto difficile perché non era semplice soppiantare e sostituire un’istituzione radicata da decenni. Dentro l’ospedale tutto era volto alla libertà, ma fuori di quel recinto, in città, i rapporti non esistevano. Noi stessi eravamo visti come diversi, con i politici e la gente a remare contro.

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Ospedale psichiatrico di Trieste

Il 1967 e Gorizia erano lontani. Dopo quattro anni tante cose erano successe. Avevo vissuto il ’68 a Padova, dove la contestazione era stata molto sentita e turbolenta. Facoltà occupate, assemblee, cortei, scontri con la polizia. Era il Movimento studentesco a muovere le masse. Si trattava di un’organizzazione politica sorta in seguito alla crisi degli organismi tradizionali nati nell’immediato dopoguerra, tendente a riprodurre nell’università uno schieramento di tipo parlamentare. Il Movimento aveva una connotazione ideologica e politica di sinistra, in netta antitesi sia con il sistema democratico-borghese sia con i partiti operai di sinistra, accusati di revisionismo e di parlamentarismo. Esso si pose come fatto di organizzazione spontanea di base, rifiutando la guida e il modello degli schieramenti tradizionali e perseguendo una riforma profonda e totale dell’intera società. Iniziò così quella che fu definita la “rivoluzione culturale”. Il nemico da combattere erano le strutture di potere e tutto era proteso verso la deistituzionalizzazione. Ciò provocò un rovesciamento del sistema, lanciando una moda dove il prefisso “anti” andava a comporre tutte le parole, conformista per prima. Fu un pozzo, questo, in cui molti attinsero. Accanto al Movimento agiva Lotta continua, gruppo della sinistra extraparlamentare, sorto a Pisa proprio nel ’68 dalla scissione di Potere operaio. Ben presto quest’organizzazione radunò parte dei membri del Movimento studentesco e si rafforzò con l’adesione di altri gruppi politici di minor portata. Basaglia nel 1968 se n’era andato da Gorizia prendendo un periodo d’aspettativa per motivi familiari. In verità nel capoluogo Edizioni Psiconline © 2015 - Riproduzione vietata

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isontino la situazione era molto critica poiché non esisteva alcuna collaborazione all’esterno dell’ospedale. Lui non era fuggito, ma si rendeva conto che sarebbe stato difficile, se non impossibile, continuare. Per quasi un anno aveva girato, visitando alcuni ospedali americani e facendo molte tappe in Gran Bretagna, dove aveva tenuto conferenze sulla sua esperienza a Gorizia, dalla quale era stato pubblicato un libro-rapporto, “L’istituzione negata”, che aveva avuto il Premio Viareggio per la saggistica nel ’68, premio che era stato dapprima rifiutato e poi accettato. Da subito il libro fu un successo e divenne un simbolo. Nel 1970 aveva assunto la direzione dell’ospedale psichiatrico di Colorno, vicino Parma. Difficile era in quegli anni il confronto con il Partito comunista, che valutava la politica psichiatrica in modo diverso da Basaglia, cioè non pensava all’ospedale psichiatrico come punto di partenza della riforma, ma sosteneva quest’istituzione, proponendo, come supporto, un appoggio esterno con dei servizi, quindi, “fuori delle mura”. I comunisti non potevano fare diversamente. Uscivano rafforzati dalle tante contestazioni e lotte sindacali e volevano “tenere”, perciò, oculatamente, cercavano il consenso nelle varie classi sociali e, visto che il malato mentale e la sua immissione in città non erano graditi al ceto medio, non potevano schierarsi con Basaglia. Per questo motivo non fu facile il lavoro a Colorno, perché la Provincia di Parma era retta dai comunisti. Si propose allora Trieste con il suo presidente della Provincia, democristiano, che valutò l’impegno basagliano non in chiave politica. L’1 agosto del 1971 a Basaglia venne dato l’incarico di direttore “per chiamata” dello psichiatrico triestino. Così sostenne per un periodo entrambe le direzioni, dividendo la settimana in due: tre giorni a Trieste e altrettanti a Colorno. L’incarico per chiamata si era reso necessario perché, contro la sua nomina a direttore, c’erano stati due ricorsi al Consiglio di Stato, presentati da altrettanti medici concorrenti che avevano ravvisato 30

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alcune illegittimitĂ nella formulazione della graduatoria. La nomina ufficiale avvenne il 25 novembre, pochi mesi prima del mio arrivo, durante una riunione del Consiglio provinciale con contrari i tre consiglieri del Movimento sociale e astenuti i comunisti.

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