Videogiochiamo a scuola

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Luca Pizzonia

Videogiochiamo a scuola


Prima Edizione: 2014 ISBN 9788898037193 © 2014 Edizioni Psiconline - Francavilla al Mare Psiconline® Srl 66023 Francavilla al Mare (CH) - Via Nazionale Adriatica 7/A Tel. 085 817699 - Fax 085 9432764 Sito web: www.edizioni-psiconline.it e-mail: redazione@edizioni-psiconline.it Psiconline - psicologia e psicologi in rete sito web: www.psiconline.it email: redazione@psiconline.it I diritti di riproduzione, memorizzazione elettronica e pubblicazione con qualsiasi mezzo analogico o digitale (comprese le copie fotostatiche e l’inserimento in banche dati) e i diritti di traduzione e di adattamento totale o parziale sono riservati per tutti i paesi. Finito di stampare nel mese di Gennaio 2014 in Italia da Universal Book srl - Rende (CS) per conto di Edizioni Psiconline® (Settore Editoriale di Psiconline® Srl)


INDICE

Introduzione

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Nuove tecnologie didattiche Cenni storici Media Education

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Apprendimento e scuola Modalità di apprendimento La simulazione Il rapporto tra insegnanti e tecnologie

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Software e videogiochi Edutainment Storia dei videogiochi Classificazione dei videogiochi Bambini e computer Videogiochi e ragazzi Una discussione aperta Analisi di un videogioco educativo di S.Paolillo Possono i videogiochi essere anche “terapeutici”?

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Risorse in rete per la didattica Collezione per abilità Collezione siti Internet Collezione per materie di riferimento Esempio di percorso ragionato: la biologia

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Un esempio concreto per la didattica: la teoria evoluzionistica Quale biologia per quale vita La vita artificiale Un breve sguardo all’ecologia Sopravvivere

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Conclusioni

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Bibliografia

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INTRODUZIONE

Sono nato alla fine degli anni Sessanta e da bambino il primo videogioco che ho utilizzato è stato il «Pong». Per coloro che non lo hanno mai visto era semplicemente uno scatolotto che si collegava alla presa dell’antenna della televisione. Una volta acceso, sullo schermo si vedeva una linea tratteggiata bianca, che rappresentava la metà del campo di gioco, due bastoncini, lungo i lati verticali, che andavano su e giù e una pallina, rappresentata da un quadratino, sempre bianco, che veniva rimpallato da un bastoncino all’altro. Lo sfondo era nero. Una rudimentale partita di tennis. All’epoca la tv era in bianco e nero; forse esisteva già quella a colori ma a casa mia sarebbe stata acquistata qualche anno dopo, verso la metà degli anni Settanta. Poi iniziarono a diffondersi i videogiochi nei bar e quasi contemporaneamente apparvero le sale giochi. Era quasi un appuntamento fisso, con i compagni di scuola, andare a giocare. Si gareggiava a chi riuscisse ad ottenere il punteggio più alto; per alcuni giochi c’era praticamente da fare la fila. Era il periodo di Space Invaders, Lunar Rescue, Super Breakout e tanti altri. Da allora le cose sono cambiate moltissimo, i videogiochi sono incredibilmente ricchi di grafica tridimensionale, effetti sonori, alcuni forniscono feedback al giocatore (come, ad esempio, alcuni tra quelli di corse automobilistiche che riescono a dare vibrazioni al volante come se fossimo davvero su quell’auto). Cosa c’entra in tutto questo la scuola? Il gioco è fondamentale nell’educazione. Da Platone, Aristotele, passando per il Medioevo, proseguendo nel Rinascimento 7


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e fino ad arrivare ai nostri giorni, filosofi, psicologi, sociologi, psicopedagogisti, ribadiscono l’importanza dell’attività ludica nell’apprendimento. Ma, nonostante ciò, a scuola si gioca poco. Gli insegnanti fanno fatica a rendere le proprie lezioni meno noiose e più partecipative, spesso senza successo. Questa situazione non dipende dalla svogliatezza degli allievi, né dalla pedanteria o rigidità degli insegnanti. È la didattica che è rimasta arretrata. Non solo, è anche poco piacevole. Allora ben venga l’attività ludica, ma non fine a sé stessa (perché la scuola resta comunque un luogo di formazione e non di svago), bensì a carattere didattico. Facciamo in modo che lo studio possa portare con sé un’essenza giocosa. Facciamo del ludiforme.

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NUOVE TECNOLOGIE DIDATTICHE

Cenni storici Se volessimo mettere una data alla nascita delle tecnologie didattiche potremmo scegliere l’anno 1954, quando fu pubblicato il famoso articolo di Skinner The science of learning and the art of teaching (Skinner, 1954). L’articolo conteneva la descrizione della sua teoria comportamentista, con gli studi che egli stesso stava effettuando in laboratorio sulle modalità di cambiamento del comportamento degli animali, e suggeriva che per migliorare le pratiche dell’educazione il docente potesse essere sostituito da una macchina per insegnare. Da quel momento iniziò nel mondo anglosassone (ma in Italia molto più tardi, intorno agli anni ‘70) una fiorente ricerca sull’istruzione programmata e sull’utilizzo di tecnologie nei processi formativi. ISTRUZIONE PROGRAMMATA Ideata da Skinner, fa riferimento ad una tecnica didattica, intenta ad ottimizzare l’apprendimento. Si presentano le informazioni in quantità discrete e concatenate in unità, ordinate dalla più semplice alla più complessa; nel momento in cui le unità più semplici sono state apprese è consentito l’accesso a quelle successive. In seguito avveniva la verifica, che fungeva da rinforzo.

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LA MACCHINA PER INSEGNARE È allo psicologo statunitense Sidney Pressey che dobbiamo l’invenzione della prima macchina per insegnare, nel 1924: un dispositivo per la correzione di test a risposta multipla. La macchina in questione serviva a verificare la correttezza della risposta (rappresentata dalla pressione di un tasto). La versione successiva della macchina, modificata dallo stesso Pressey, prevedeva l’interruzione della sequenza di domande nel momento in cui lo studente forniva una risposta sbagliata e bisognava ricominciare daccapo. Chiaramente la semplicità di una macchina del genere è poca cosa se la paragoniamo agli attuali computers, ma resta un punto fermo l’importanza del tentativo di “meccanizzazione” del processo di apprendimento. Le caratteristiche principali possono essere riassunte in questo modo: • Poche informazioni fornite e frequenti risposte richieste • Feedback immediato • Lavoro individuale, così da adattare il ritmo alle necessità e possibilità dello studente.

L’IBM 650 Inquiry Station fu uno dei primi esemplari di macchina per insegnare (teaching machine) sviluppato dal colosso informatico. Si tratta di un calcolatore digitale di quell’epoca interfacciato con una macchina da scrivere. All’epoca della costruzione di questo sistema, l’istruzione programmata avrebbe richiesto un calcolatore per ogni allievo e una singola stanza per contenerlo.

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Skinner sosteneva che istruzione programmata e macchine per insegnare sarebbero state un valido supporto all’insegnamento. COMPORTAMENTISMO Il comportamentismo sostiene che qualsiasi azione si può ricondurre a dei meccanismi di base di genere associativo, sia se parliamo di associazione tra stimolo e risposta (condizionamento classico di Pavlov), sia se parliamo di rinforzo di comportamenti (condizionamento operante di Skinner). Skinner sintetizzava così il proprio pensiero: “Il pensiero dell’uomo è il comportamento dell’uomo” “Quanto studiamo il pensiero studiamo il comportamento” Questa corrente teorica considera la mente come una scatola nera. Poiché non è possibile studiare empiricamente la mente, l’oggetto di studio diventa il comportamento (manifesto) generato da uno o più stimoli (oggettivi e quindi quantificabili). L’apprendimento pertanto è, secondo la visione comportamentista, l’effetto dell’associazione tra stimolo e risposta (modello S-R).

Vale la pena ricordare che le affermazioni di Skinner si inseriscono in un contesto dominato dal comportamentismo. L’intento della corrente comportamentista era quello di basare la psicologia sull’empirismo. Le emozioni, i sentimenti, le aspettative, le motivazioni, erano tutti fattori soggettivi e pertanto non potevano essere misurati. Mentre Skinner poneva la sua attenzione ai comportamenti manifesti, i suoi critici iniziavano a considerare anche e soprattutto i processi interni che portano a quei comportamenti e alle cause che li determinano. Quindi si venne configurando un approccio alla psicologia dell’apprendimento, quello cognitivista, in totale contrapposizione a quello comportamentista. 11


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COGNITIVISMO Il cognitivismo nasce agli inizi degli anni ’60 con lo stesso intento del comportamentismo: assimilare la psicologia alle scienze fisiche. Eredita lo stesso rigore metodologico dal comportamentismo. Ma a differenza di quest’ultimo si interessava a quei meccanismi come la percezione, l’attenzione, la memoria, il linguaggio, il pensiero, che erano stati trascurati o considerati effetti dell’apprendimento. La psicologia cognitiva ha ricevuto l’apporto di altre discipline, tra cui: cibernetica e teoria dell’informazione, la linguistica, le neuroscienze. Secondo questo paradigma il comportamento è concepito come una serie di azioni messe in atto per trovare soluzione ad un problema, con continui aggiustamenti utili per migliorare le azioni stesse, il tutto guidato dai processi cognitivi.

L’oggetto di studio è rappresentato dai processi interni, gli atteggiamenti, gli stati mentali, e tutto ciò che può favorire il raggiungimento degli obiettivi didattici.

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Un aspetto particolare del cognitivismo è rappresentato dal costruttivismo: l’apprendimento è un processo di costruzione soggettiva che procede per assimilazione e accomodamento. Questa nuova prospettiva non considera l’apprendimento come un travaso (passivo) del sapere dal docente (o dalla macchina) alla mente dello studente, bensì quest’ultimo ha un ruolo attivo 12


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nella costruzione del proprio sapere. Gli elementi chiave del costruttivismo, come indicato da Merril, li possiamo ricondurre a: • sapere come costruzione personale • apprendimento attivo • apprendimento collaborativo • importanza del contesto • valutazione intrinseca Il termine “tecnologie educative”, equivalente a quello di “tecnologie didattiche”, cominciò ad essere usato verso la fine degli anni ’50 e si riferisce sia alle macchine utilizzabili nei processi formativi (radio, cinema, televisione), sia ai supporti tecnici in cui memorizzare l’informazione finalizzata a tali processi, come le pellicole e le registrazioni. Un decennio dopo, verso la fine degli anni ’60, si cominciò ad anteporre il termine “nuove” all’espressione precedente. Nelle “nuove tecnologie educative” diventa forte la presenza dell’informatica, grazie alla quale emergono nuove prospettive didattiche e metodologiche. Queste tecnologie informatiche hanno quindi aumentato la complessità del rapporto tra scuola e media, con l’alternanza di momenti di entusiasmo e di diniego, intensificando ancora di più le problematiche relative all’istruzione. Se fino a questo momento la realtà poteva essere rappresentata da forme simboliche (il testo scritto), con i nuovi media audiovisivi e, in particolare, quelli multimediali interattivi ci si introduce in una dimensione onnisensoriale, in cui l’esperienza conoscitiva è il risultato dell’integrazione tra immagini, suoni e parole. Ma nella scuola questa nuova dimensione fatica ad emergere: la cultura è ancora trasmessa attraverso una modalità “monomediale”, in cui il testo scritto, emblema di un linguaggio formalizzato e codificato, possiede ancora un dominio molto forte. Due dimensioni, quindi, opposte che conducono inevitabilmente a due contesti conoscitivi ben definiti. 13


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L’organizzazione della conoscenza nell’istituzione scolastica è cronologica, sequenziale e gerarchica mentre nei media è reticolare, associativa, analogica. Ma poiché il target della scuola sono i giovani e per essi, al giorno d’oggi, la presenza dei nuovi media è parte integrante dell’esperienza, il rapporto tra i due contesti, prevedibilmente, sarebbe entrato in crisi. Sono ancora in molti, insegnanti e dirigenti, a ritenere che sia sufficiente dotare una scuola di molti computer, di postazioni multimediali con accesso a internet. Ma Sherry Turkle, sociologa e psicologa al MIT di Boston, risponde in maniera abbastanza concisa. Il computer in classe può essere una grande risorsa ma senza quella dimensione costruttivista equivarrebbe ad utilizzarlo con la vecchia concezione pedagogica. Dello stesso parere sono anche altri autori come Fiorentino, Antinucci e Maragliano, secondo cui la scuola fallirebbe in parte al suo ruolo formativo, con sola adozione del computer in classe. Da una prospettiva costruttivista il processo percettivo è fortemente condizionato dall’esplorazione, cioè dall’interazione con l’ambiente circostante. In quest’ottica, secondo la quale l’individuo partecipa attivamente alla costruzione della propria conoscenza, vengono in aiuto le tecnologie formative di genere iperte-

Rappresentazione di un ipertesto multimediale

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stuale. Esse, con la giusta attenzione all’interattività e al coinvolgimento sensoriale, possono agevolare la dinamica esplorativa, riproducendo le tipiche procedure di consultazione mentale. Ma per molto tempo non è stata possibile questa integrazione: “Le iniziali ricerche sull’interfaccia uomo-computer – scrive Nicholas Negroponte – nei primi anni sessanta si sdoppiarono in due direzioni, che dovevano rimanere separate per vent’anni. Una riguardava l’interattività e l’altra la ricchezza sensoriale”.1 Agli inizi degli anni ’60 venne presentato il primo sistema dedicato alle applicazioni didattiche, il System 1500, ad opera di IBM. Era costituito da un terminale video collegato ad un proiettore di diapositive ad accesso casuale e un computer, che controllava l’intero insieme. Dopo qualche anno, all’Università dell’Illinois, venne realizzato Plato da Donald Bitzer. L’acronimo stava per Programmed Logic for Automatic Teaching Operations ed era il più grande sistema di elaborazione dedicato alla didattica, creato per insegnare sui principi dell’istruzione programmata di Skinner. Ogni terminale era un precursore di una stazione multimediale, ma l’interesse per questo sistema si ridusse velocemente a causa di diversi, ma importanti, fattori tra cui gli alti costi di gestione, collegamenti telefonici scarsamente efficienti, scarsa presenza di software di qualità. Da quei tempi si sono fatti enormi passi avanti sia tecnologicamente che metodologicamente.

Media Education Poiché negli ultimi decenni è cambiato l’intero panorama delle conoscenze e delle consuetudini umane, dovremmo finalmente affrontare il problema non solo di rendere più moderno l’insieme di tutte le risorse tecniche per la didattica ma, soprattutto, di convalidare ed adottare le caratteristiche modalità di pensiero e di 1 N. Negroponte (1995). Essere digitali, Sperling & Kupfer, pag. 94

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azione propri di questo campo in crescita e di quest’epoca. Abbiamo assistito negli ultimi anni, e continuiamo ad assistere, alla diffusione di massa del computer; è diventato ormai una presenza “data per scontata” ed è diventato parte integrante delle imprese, delle università e dei centri di ricerca. La presenza del computer è diventata normale anche nelle case. Una presenza che anche nelle scuole di tutti i livelli, finalmente, inizia ad essere normale; va da sé che quanto più aumenta questa diffusione in ambito casalingo, tanto più verrà sentito il bisogno, soprattutto dai giovani, che questa presenza trovi una continuità e uno sviluppo anche nei luoghi preposti alla formazione, cioè nelle tradizionali sedi istituzionali. La realtà quotidiana è multimediale, l’ambiente esterno è fluido e vitale, ricco di suoni, rumori, voci, immagini, schermi, tastiere. Come può un bambino che vive in questa realtà indossare l’abito monomediale della scuola? Affrontando il rapporto tra didattica e media ci troviamo di fronte diversi scenari possibili; il problema alla base è scegliere una precisa strategia da seguire. L’area definita media education diventa il centro di discussioni e confronti. Il MED, Associazione Italiana per l’educazione ai media e alla comunicazione, la definisce così: “l’educazione con i media, considerati come strumenti da utilizzare nei processi educativi generali; l’educazione ai media, che fa riferimento alla comprensione critica dei media, intesi non solo come strumenti, ma come linguaggio e cultura; ... educazione per i media, livello rivolto alla formazione dei professionisti.” “lo scopo della ME: offrire alle nuove generazioni non solo le chiavi per la comprensione dei media, ma anche suscitare nuovi ‘artigiani’ per una migliore qualità dei media e per un apporto costruttivo della loro cultura alla civiltà degli uomini.” In quest’ottica diventa qualcosa da insegnare e da far apprendere, immergendovisi all’interno. Secondo Maragliano possiamo individuare tre diverse dimensioni in riferimento al termine media education: 16


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• insegnamento con i media • insegnamento sui media • insegnamento dentro i media L’insegnamento con i media è quello più diffuso e utilizzato nei nostri istituti scolastici. Questa espressione considera i media come “sussidi” e come tali vengono utilizzati per garantire l’efficacia delle attività di insegnamento. Per intenderci, nel paragrafo precedente abbiamo definito l’istruzione programmata e le macchine per insegnare; questi strumenti dovevano servire principalmente a permettere l’individualizzazione dell’apprendimento. Ciò consentiva di adeguare l’insegnamento alle esigenze dei singoli o dei gruppi, ma senza mettere assolutamente in discussione la qualità dei saperi. E questo, come abbiamo già avuto modo di evidenziare, è un atteggiamento ancora molto diffuso tra insegnanti e dirigenti scolastici. Ancora oggi molti insegnanti credono che la lezione frontale sia l’unica modalità didattica possibile di trasmissione della conoscenza; questo modo di concepire la propria attività con la classe risulta essere il vero ostacolo a qualunque altro atteggiamento nei confronti della didattica. Questo tipo di pratica non fa altro che adattare i nuovi strumenti alla natura (basata sul linguaggio verbale scritto) di queste aree, e non il contrario. L’insegnamento sui media, meno riconosciuto, ha l’intento di fare dei media una materia, ossia “insegnare i media”. Diventa quindi uno spazio autonomo, che mantiene i media separati dal resto e li considera un “contenuto”. Purtroppo in Italia c’è molta confusione. È assolutamente necessario chiarire che informatica e computer sono due cose differenti. Spesso dove si usa il computer viene detto che si studia informatica. Questa erronea concezione è parecchio diffusa presso gli insegnanti, i genitori e addirittura presso gli enti competenti del Ministero. Tutto ciò si traduce in un miscuglio di insegnamento con e sui media, apparentemente moderno ma inevitabilmente fallace. L’insegnamento dentro i media è quello che invece può essere 17


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considerato quale possibilità di rivoluzione del territorio della didattica, ma soltanto se riusciamo ad assumere un atteggiamento, nei confronti di tutti i media, di normalità, accettando il presupposto che ormai fanno parte della vita di tutti i giorni. È necessario allora affiancare “nuove” competenze a quelle vecchie; non si tratta tanto di escludere la lettura e la scrittura, quanto piuttosto di integrare altri linguaggi. Il computer permette di arricchire l’esperienza concreta: un arricchimento che deriva dalla natura stessa del computer, capace di simulare eventi e quindi di poter riprodurre virtualmente diverse esperienze. Queste ultime diventano manipolabili e si possono scomporre, analizzare, studiare, ricostruire. I modelli digitali permettono di costruire ipotesi di lavoro e poi di verificarle; in questo modo viene agevolata e promossa la costruzione della propria conoscenza. Non troviamo più sulla scena la verticalità della trasmissione diretta (il travaso di cui abbiamo accennato nel paragrafo precedente) ma collaborazione, mediazione, discussione tra gli attori. Occorre rilevare che ci sono due aspetti di particolare importanza nel contesto didattico: • la concretezza delle esperienze dentro i media; • la sistematicità e la reciprocità dell’azione dei media, che consentono di eliminare le gerarchie tra i diversi campi del sapere e di interconnettere questi ultimi con l’esperienza.

Giovanni Fiorentino definisce “nomade” il bambino che si muove esplorando tutto il mondo intorno a lui, come fosse un curioso viaggiatore in un luogo sconosciuto. Un luogo, un mondo totalmente immerso nella multimedialità, dove muovendosi incontra i diversi codici: iconico, sonoro, alfabetico-testuale. Ed 18


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è colui che utilizza anche strategie di apprendimento diverse da quella simbolico-concettuale: strategie che sono collegate alla manipolazione, alla sperimentazione, all’azione, all’osservazione, al gioco, ai colori, ai suoni, alle immagini. Ma tutto ciò è rimasto (e continua a rimanere, in gran parte dei casi) fuori dalla scuola. Ciò che si continua a coltivare è la conoscenza alfabetica, piuttosto che coltivare tutte quelle doti che i bambini utilizzano con grande disinvoltura. Queste doti vengono oggi favorite, sollecitate, coinvolte dalle tecnologie a disposizione, dai videogiochi sempre più sofisticati, attraverso i quali il bambino “vive” nuove avventure continuamente. Ecco perché Maragliano ritiene che in quelli che solitamente vengono considerati contesti formali, come la scuola, dovrebbe essere dato ampio spazio all’utilizzo di contesti informali (videogiochi, simulazioni, etc) nei quali poter sperimentare e costruire concretamente delle esperienze personali, cognitivamente significative. In questo, i nuovi media possono trasformarsi in ottimi laboratori per l’esercizio di queste esperienze concrete. E in questo caso il termine concrete non si riferisce tanto all’esperienza materiale quanto piuttosto al fatto che tale esperienza può essere mostrata, condivisa, discussa, esaminata, ammirata; tutto questo comprende anche un piacere messo in gioco, delle relazioni interpersonali intrecciate nella costruzione, i modi per attuarla e la sua significatività.

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APPRENDIMENTO E SCUOLA

Modalità di apprendimento Ci sono numerosi fattori che influenzano e rendono estremamente complessa quell’attività che è il processo di apprendimento. Dal punto di vista psicologico possiamo definire l’apprendimento come “processo di acquisizione di conoscenze, competenze o abilità sulla base dell’esperienza passata dell’individuo”. Fare esperienza è fondamentale: è necessario esplorare la realtà circostante, agire su di essa e osservare gli effetti che la nostra azione ha prodotto. Bisogna quindi “sporcarsi le mani”. Proprio come viene più spontaneamente al bambino quando si muove nel mondo intorno a lui. I bambini hanno un modo “concreto” di apprendere e questo dovrebbe in realtà essere il modo di apprendere di ognuno. È la cosiddetta modalità esperienziale, quella più naturale e preferita dall’essere umano. Antinucci definisce questa modalità esperienziale “percettivo-motoria” ed è radicata nella nostra filogenesi. L’altra modalità è quella chiamata simbolico-ricostruttiva ed è basata sul testo scritto e sul linguaggio. Il libro oppure l’insegnante trasmette l’informazione e l’allievo, nella sua mente, la decodifica estraendone i significati, quindi ricostruisce le situazioni e gli oggetti. Poiché avviene tutto nella mente dell’allievo, l’apprendimento dell’informazione sarà legato alle capacità dei due soggetti: l’insegnante che trasmette l’informazione in modo idoneo e l’allievo che riesce a ricostruirla. 21


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Questa modalità è molto più faticosa della precedente, poiché è legata a scrittura e lettura. Perché dunque nella scuola prevale questa modalità? Il motivo è che finora non è stato facile utilizzare metodologie esperienziali. Una serie di difficoltà hanno impedito il contatto tra chi studia e cosa studia, ad esempio quando sono: • fenomeni lontani nel tempo e nello spazio; • fenomeni troppo piccoli o troppo grandi; • fenomeni troppo lenti o troppo veloci; • concetti astratti; • pericolosi; • necessarie attrezzature costose. Ma ci sono altri limiti per i quali appare insufficiente la modalità simbolico-ricostruttiva, se paragonata a quella esperienziale, per garantire la qualità e l’efficacia dell’istruzione: • collettività: lo squilibrio numerico nel rapporto tra insegnante e studenti non consente uno scambio reciproco di informazioni; • sequenzialità: il percorso logico predefinito non coincide quasi mai con i processi mentali, poiché essi procedono principalmente per associazioni; • durata prestabilita: nel corso della lezione le condizioni di attenzione, motivazione, concentrazione degli allievi cambiano; • varietà degli allievi: ogni studente ha qualità e necessità diverse, per cui la velocità e le modalità di apprendimento sono troppo soggettive per un insegnamento “comune”. Quest’ultimo punto ci consente di fare un’ulteriore precisazione: ancora oggi la formula prevalente è la scuola “uguale per tutti”. Ma questa formula sappiamo che non ha sempre funzionato. Non esiste un metro universale per misurare l’apprendimento, gli studenti sono tutti diversi tra loro e apprendono in modo differente. Qualcuno dà il meglio nelle prove pratiche, qualcun altro 22


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quando manipola simboli, altri ancora se possono rapportarsi con altri coetanei. Non a caso anche il Ministero della Pubblica Istruzione2 ribadisce la necessità di uscire da ogni genericità e standardizzazione e l’impensabilità di una “scuola costruita su un modello unico di studente astratto”: “occorre sottolineare con forza, nella scuola, la centralità della persona-studente; farlo significa realizzare una rete di azioni integrate, atte a valorizzare lo stile cognitivo unico e irripetibile proprio di quello specifico studente”. Inoltre, ad oggi, si insiste tra due tipi di intelligenza, linguistica e matematica, trascurando le altre (dalla musicale alla spaziale). Ne consegue che una buona parte, se non la maggior parte, degli allievi non è nelle condizioni migliori per apprendere. Cosa fare, dunque, per riportare la modalità esperienziale al centro del processo di apprendimento? In primo luogo dobbiamo considerare che il gioco è un’esperienza con valenza ludica, cognitiva e anche sociale. Ha una funzione di adattamento, alla stregua di tutti gli altri comportamenti. Con il gioco, a seconda delle varie età e fasi di sviluppo, si sperimentano le capacità cognitive e sociali. E man mano si perfezionano le diverse abilità. Il gioco è assolutamente fondamentale anche a livello biologico. Durante lo sviluppo aumenta progressivamente, raggiunge il culmine nella fase preadolescenziale e poi diminuisce altrettanto gradualmente. Questo andamento è assolutamente sovrapponibile a quello dello sviluppo cerebrale ed è comune a tutte le specie. Ad esempio Jaak Panksepp e Steve Siviy, psicologi statunitensi, hanno rilevato che il gioco determina negli animali l’aumento della proteina c-FOS (indicatore della crescita delle cellule nervose) nella corteccia cerebrale; la riduzione artificiale del gioco nei piccoli corrisponde ad una riduzione dello sviluppo della corteccia frontale e delle competenze sociali. 2 Ministero della Pubblica Istruzione, Indicazioni per il curricolo per la scuola dell’infanzia e per il primo ciclo d’istruzione, Roma, Settembre 2007, p. 7

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Il gioco altro non è che una simulazione della realtà: vera, immaginata o possibile. Questa condizione del “come se” permette di trasferirsi dal piano di realtà a quello della fantasia e viceversa. Sfida, competizione, stimolo, manipolazione degli oggetti, conoscenza del proprio corpo, immaginazione, assegnazione di ruoli, rispetto delle regole sono tutti elementi che abitano lo spazio fisico e mentale del gioco, nel quale si può sbagliare senza rischio. Uno spazio in cui il processo è più importante del contenuto. In secondo luogo va ricordato che il computer, “tecnologia della mente” più potente finora concepita, può servire all’apprendimento. Una tecnologia che investe e amplifica le capacità di imparare e di elaborare, ma anche di memorizzare e comunicare. Tra l’altro, come descrive Antinucci nel suo scritto “Scuola e apprendimento”, il suo stesso modo di funzionare è intrinsecamente connesso al modo in cui apprendiamo. Al di là del fatto che un docente che utilizza il computer risulta più simpatico e rende la sua materia più “digeribile” dagli alunni, va preso atto che l’apprendimento monomediale funziona fondamentalmente per astrazione, mentre l’apprendimento multimediale agisce invece tramite immersione. Con gli opportuni accorgimenti è possibile coinvolgere contemporaneamente il senso della vista con immagini statiche e dinamiche, sia bidimensionali che tridimensionali, dell’udito con musiche, suoni (anche tridimensionali) e dialoghi, del tatto, cioè nel condizionare ciò che si vede e si sente all’azione che si compie. Se quindi il gioco è simulazione e il computer è un simulatore nato, ecco che il videogioco comincia a configurarsi come strumento ideale per ricreare le condizioni della modalità di apprendimento esperienziale. Il computer esegue simulazioni di tutti i generi e mentre si gioca (e si simula) si impara senza esserne coscienti. L’esercitazione richiesta dal gioco porta a migliorare sempre più. A seconda della simulazione apprendiamo cose diverse: dal colpire un bersaglio a gestire e ottimizzare le risorse di una intera città. 24


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È soltanto un luogo comune ritenere che un videogioco possa far apprendere soltanto nuove abilità: si possono acquisire anche conoscenze piuttosto elaborate, attraverso un sistema semplicemente diverso da quello classico al quale siamo stati abituati. In una prospettiva pedagogica, grazie all’interattività, possiamo considerare il computer come uno strumento per la costruzione della conoscenza nelle stesse mani di chi apprende. Seymour Papert, collaboratore di Jean Piaget e docente al Mit di Boston, è stato l’inventore del linguaggio Logo. Questo linguaggio permette, agendo sull’immagine di una tartaruga, ai bambini e agli adulti di programmare il computer. Il Logo è diventato il simbolo del costruzionismo, utilizzato nelle scuole di tutto il mondo da molti anni.

La convinzione di Papert, alla base della sua invenzione, è che se viene consentito ai bambini di costruire il proprio sapere in prima persona, essi apprendono meglio: “I bambini adorano costruire oggetti, così mi dissi, scegliamo un set di costruzioni e aggiungiamogli tutto quello che serve per creare modelli cibernetici. I bambini dovranno essere in grado di costruire una tartaruga dotata di motori e sensori e avere il modo di scrivere programmi Logo per guidarla: ma se desiderano fabbricare un drago o un camion o un letto ribaltabile, devono avere anche quella possibilità”3. Tutto ciò ci permette di affermare che per riportare l’esperienza al centro del processo di istruzione abbiamo bisogno di utilizzare il computer. Questo strumento consente al soggetto di 3 Papert S., Bambini e computer, Milano, Rizzoli, 1995

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apprendere attivamente, grazie all’aspetto creativo e ludico, come dimostrato dall’utilizzo di videogiochi e attività di simulazione. In questo modo possiamo riprogrammare le attività scolastiche facendo leva su aspetti motivazionali e progettuali. Abbandonando la modalità simbolico-ricostruttiva, che comporta la fatica e la passività dell’allievo, la scuola può centrarsi finalmente sulla modalità di apprendimento corrispondente alle nuove tecnologie che stanno modificando la società. È chiaro a questo punto che per compiere questa rivoluzione, come la definisce Antinucci, non è sufficiente dotare di computer le scuole, gli alunni e i docenti. Il fatto è che la scuola è completamente basata sulla modalità simbolica di apprendimento, e tutta l’organizzazione è funzionale a questo modo. Per poter sfruttare il potenziale offerto dalla nuova tecnologia, quale è il computer, è necessario cambiare il modo di concepire l’attività scolastica.

La simulazione Il termine simulazione ha diversi significati con i quali viene utilizzato, per cui risulta difficile definire precisamente cosa s’intende con esso. Limitandoci soltanto alla didattica, con questo termine ci riferiamo ai procedimenti idonei a studiare cose, situazioni o persone in determinate condizioni e basati su una riproduzione dell’ambiente tramite modelli. Quindi, una simulazione al computer è un programma che riproduce un modello di un sistema reale o immaginario. Quanto più aumenta la fedeltà con il sistema reale tanto più il modello sarà complesso. L’utente interagisce con il modello modificandone alcuni parametri e osservando gli effetti indotti dalle variazioni. Quest’interazione consente una partecipazione attiva dello studente rispetto alla tradizionale lezione frontale. La simulazione, tra l’altro, non si ferma ad una verifica delle 26


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