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Storia e cultura Il pesce nella gastronomia dell’antica Roma Giovanni Ballarini
Il pesce nella gastronomia dell’antica Roma
di Giovanni Ballarini
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A destra: mosaico d’epoca romana con scena di pesca (photo © www.osteriadacarmela.it). A sinistra: mosaico del II secolo d.C. proveniente dalla Villa dei Numisi, villa romana sita nell’area verde della vasta Tenuta di Tormarancia, sull’Appia Antica. Ritrovato negli scavi del 1817-1820, oggi decora Musei Vaticani (photo © Giorgio Morara – stock.adobe.com).
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A Roma antica l’acqua non è un lusso
Durante il periodo repubblicano l’élite romana diviene sempre più propensa a spendere risorse per scopi stravaganti e, dal II secolo a.C., sono emanate leggi contro il lusso, le Leges sumptuariae, che prendono di mira abiti e gioielleria femminile, banchetti, funerali e le abitazioni private fuori della norma, ma non si fa menzione dell’acqua, pur se enormi quantità ne sono portate agli abitanti di Roma anche da luoghi lontani. L’acqua non fa parte del luxus e della luxuria romana, anche se un primo segno di critica contro l’uso eccessivo d’acqua si incontra in
un testo di MARCO TERENZIO VARRONE (116 a.C.-27 a.C.), in quanto i ricchi Romani ne usano ingenti quantità nei loro horti usufruendo di un permesso dell’imperatore. Grandi quantità ne vengono usate anche nelle thermae: acqua calda e fredda e tante altre amenità e che iniziano a essere costruite dal II secolo a.C., mentre prima i Romani solo raramente frequentano i balnea, locali bui e freddi.
Indirettamente l’acqua entra nel lusso dei Romani quando nei due secoli prima della nostra era scoprono il pesce e ne fanno uno status symbol gastronomico.
Niente pesce sulla tavola dei primi Romani
Nel VIII secolo a.C. le civiltà greche e medio-orientali sono al loro apice. Al centro della penisola italica, non lontano dalle sponde del Tirreno, fra storia e leggenda nasce Roma, un piccolo villaggio di agricoltoripastori che nel giro di pochi anni, con le bisacce piene di focacce (puls) di cereali (orzo, miglio e farro, mentre il grano arriverà più tardi) e formaggio di capre e pecore, iniziano la lunga marcia che li porterà a dominare il mondo allora noto.
Un’alimentazione vegetale tra i primi Romani è tanto diffusa che il commediografo TITO MACCIO PLAUTO ironizza, dicendo che per loro i cuochi non sanno portare altro che prati conditi sui piatti e prendono i commensali per buoi.
L’unica carne utilizzata è quella di maiale, per la ricchezza di ghiande ed altri vegetali adatti all’ingrasso di questi animali e perché le altre specie animali sono allevate per la produzione di latte, lana, lavoro nei campi e trasporto. Al massimo si usa come alimento qualche giovane maschio bovino od ovicaprino che non avrebbe mai prodotto latte e questo avviene solo in speciali occasioni e soprattutto come vittime sacrifi cali in cerimonie religiose.
In un’economia di sussistenza basata sulla pastorizia e sull’agricoltura, i prodotti della pesca, in quantità per altro assai esigua, provengono esclusivamente da acque dolci, diversamente dalle antiche popolazioni rivierasche del bacino del Mediterraneo che apprezzano i prodotti della pesca, come è testimoniato dal poema didattico Halieutica tradizionalmente attribuito a PUBLIO OVIDIO NASONE (43 a.C.-17 d.C.), uno dei più accurati documenti sui pesci e sulla pesca giunti dall’antichità ai giorni nostri.
I Romani scoprono il pesce dalla Grecia
Con la costruzione della via Appia, Regina viarum, da parte di APPIO CLAUDIO CIECO console nel 307 e nel 296 a.C., Roma si unisce alla Campania, raggiunge Brindisi e inizia ad aprirsi alle civiltà greche e, tramite queste, a quelle orientali, con una maggiore varietà ed un arricchimento alimentare, scoprendo la gastronomia. In Grecia la cultura
gastronomica dei prodotti ittici ha una tradizione ben radicata già al tempo della commedia antica, dove sono ricordate le acciughe sotto sale, le anguille e altre specie di pesci maggiormente diffusi nel
Mediterraneo.
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Allevamento ittico d’epoca romana in Galizia (photo © Guillermo – stock.adobe.com).
Intorno al 330 a.C. ARCHESTRATO DI GELA compone Hedypatheia, letteralmente “Poema del buongustaio”, nel quale racconta dei suoi viaggi alla ricerca delle migliori vivande e dei vini più pregiati, trattando del pane, della selvaggina, della produzione e conservazione del vino, soffermandosi soprattutto sui pesci, dei quali indica le specie più rinomate, le qualità migliori, i luoghi di provenienza e le stagioni di pesca.
Dalle pagine di Archestrato traspaiono una raffi natezza ed un gusto per la convivialità che non hanno nulla a che vedere coi ghiottoni delle epoche successive. Importante è l’esempio dei consigli gastronomici fondati sulla triade costituita da spe-
cie ittica, luogo di pesca, stagione
di cattura. Archestrato non manca di dare indicazioni sul modo di cottura dei pesci, descrivendo anche quella al cartoccio, simile a quella dei giorni nostri, con l’aggiunta di origano prima della cottura, usanza a tutt’oggi viva in Grecia.
La cucina dei prodotti della pesca nell’antica Grecia è al tempo stesso semplice e raffi nata, ma nel periodo ellenistico, che dalle imprese di ALESSANDRO MAGNO (334 a.C.) arriva fi no all’inizio della nostra era, il gusto per le preparazioni semplici viene presto soppiantato da una gastronomia nella quale vi è per una elaborata ed artifi ciosa ricerca dei sapori raffi nati e i prodotti della pesca acquisiscono un sempre maggior gradimento, e si elevano a status symbol delle classi sociali più abbienti.
È con questa gastronomia che Roma viene a contatto e, già al
L’acquacoltura nell’antica Roma non si svolge soltanto nelle piscinae, vasche costruite artifi cialmente, ma anche nei fi umi e nei laghi naturali sono immesse uova raccolte nel mare e così il fi ume Velino, il lago Sabatino, ora lago di Bracciano, il lago di Bolsena e il lago Cimino, ora lago di Vico, generano spigole, orate, anguille e tutte le altre specie di pesci che tollerano l’ambiente lacustre
tempo di MARCO TERENZIO VARRONE, i Romani più facoltosi, causa il progressivo depauperamento dei mari, nelle loro ville cominciano a costruire i vivaria, piscinae per l’allevamento e la stabulazione dei pesci di mare, mentre i prezzi dei pesci raggiungono livelli da capogiro e ben distinta è la suddivisione di pesci di specie pregiate e di specie di minor valore.
Come dice CAIO PLINIO SECONDO, noto come PLINIO IL VECCHIO (23-79 d.C.) nella Naturalis Historia (IX, 53 [104]) “…ormai certo tra tutte le entità naturali il mare è il più
deleterio per la gastronomia, per le tante preparazioni, per i tanti piatti, per i tanti sapori di pesci il cui prezzo viene stabilito in relazione al rischio corso da coloro che vanno a pescarli” (…iam quidem ex tota rerum natura damnosissimum ventri mare est tot modis, tot mensis, tot piscium saporibus, quis pretia capientium periculo fi unt).
Pesci pregiati della gastronomia romana
I Romani, quando scoprono la cucina, e soprattutto la gastronomia del pesce, iniziano a distinguere quello pregiato, ma non dispregiano quello scadente, la minutaglia che PLINIO IL VECCHIO defi nisce utile a nient’altro e che è trasformata in garum, la più celebre salsa romana di pesce fermentato, con un’infi nità di erbe aromatiche e che in cucina accompagna piatti di pesce, selvaggina, carne di maiale, frattaglie, verdure. Un pesce pregiato è lo scaro o pesce pappagallo del Mediterraneo (Sparisoma cretense), tanto che alcuni branchi dai mari della Grecia sono trasferiti per popolare il mare Tirreno (PLINIO IL VECCHIO, Naturalis Historia IX, 29, 62). Ricercatissime sono le triglie (Mullidae), che non si riesce ad allevare o mantenere nelle piscine e per i buongustai romani avere sempre a disposizione triglie fresche diventa un problema. Per i pesci si arriva presto ad individuare le migliori zone di pesca e tra questi vi è la corvina (Sciaena umbra) dei mari egiziani, lo zeo, detto anche faber (pesce San Pietro), di Cadice, la salpa (Salpa salpa) nelle acque di Ebuso (Ibiza), il rombo (Psetta maxima) del mare di Ravenna, la murena (Muraena helena) dei mari della Sicilia e l’elope (pesce spada o storione?) del mare di Rodi, mentre i Romani quando arrivano in Aquitania preferiscono il salmone di fi ume a tutte le specie marine.
Primo fra tutti GAIO SERGIO ORATA, che riesce ad allevare le ostriche vicino a Napoli nelle acque di Baia, non per il piacere della sua tavola ma per i lauti guadagni che riesce ad ottenere, coltivandole sempre nelle vicinanze di Napoli nel Lago Lucrino, anche se qui non sono delle migliori.
I pesci arrivano vivi trasportati in navi adatte che hanno una vasca in comunicazione con l’acqua di mare e sono mantenuti in peschiere (piscinas) che sono il fi ore all’occhiello delle ville romane.
Il pesce dei poeti romani
Dal I secolo a.C. in avanti a Roma il pesce diviene il cibo simbolo della ricchezza ed è celebrato dai poeti. QUINTO ORAZIO FLACCO (65 a.C.-8 a.C.), grande intenditore di cucina e di specialità di mare, in particolare molluschi, testimonia che la cucina romana ha raggiunto il suo apice e dichiara di preferire le ostriche del Lucrino, i ricci del Miseno ed i pettini di Taranto (Sermones II, 4) e nell’ottava satira del Libro II dà un dettagliato compendio della migliore cucina di pesce della Roma antica
Baelo Claudia, un’antica città di pescatori nota come la città del Garum, nella provincia di Cadice, ad una ventina di chilometri da Tarifa, città che aff accia sullo Stretto di Gibilterra. Quello della Spagna era, secondo Plinio il Vecchio, il Garum migliore perché, essendo un prodotto di origine greca, la Spagna è stata dominata dai Fenici e dai Cartaginesi che non usavano tutti i pesci ma alcuni in particolare, come gli sgombri (photo © neftali – stock.adobe.com).
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Il “Catalogo di pesci su sfondo nero” è un mosaico rinvenuto a Pompei nella Casa del Fauno e oggi conservato a Napoli all’interno del Museo Archeologico Nazionale.
con il quadro seguente: Distesa su un vassoio è servita una murena tra le canocchie e il padrone di casa ne fa una dettagliata descrizione iniziando con il dire che la murena è stata pescata gravida, perché dopo il parto la carne è meno buona, la salsa è composta da olio d’oliva di prima spremitura dei frantoi di Venafro, il garum è spagnolo e quindi della migliore qualità, il vino locale di cinque anni è stato aggiunto durante la cottura perché a fi ne cottura sarebbe stato adatto il vino di Chio, il pepe è bianco, qualche goccia di aceto è di vino di Metimna. La cottura è avvenuta assieme ruchette verdi ed elenio amaro e infi ne sono stati aggiunti ricci non lavati, perché gli umori che rilasciano i frutti di mare sono migliori della salamoia.
DECIMO GIULIO GIOVENALE (50-60 d.C. – 127 d.C.) nelle sue satire narra di una canocchia con contorno di asparagi, gamberetti con le uova, triglie che arrivano dalla Corsica o da Taormina e si lamenta che il mare è ormai esaurito, mentre la gola infuria, con una pesca che non permette al pesce del Tirreno di riprodursi. In un Mediterraneo dove c’è sempre meno pesce questo diventa pregiato e di conseguenza appannaggio esclusivo dei ricchi che lo comprano a prezzi coi quali in provincia si possono acquistare campi e in Puglia addirittura latifondi.
Acquacoltura nell’antica Roma
La progressiva scarsità di pesci di pregio e il loro alto prezzo porta i Romani a costruire allevamenti co-
struendo delle piscinae, un’attività che si sviluppa nell’Impero Romano, tra il I e III secolo d.C. con lo scopo anche di compiere ripopolamenti delle coste tirreniche, diffondere specie pregiate al di fuori delle loro aree di origine, rendere le catture più facili ed il trasporto più breve verso le mense dei patrizi.
I Romani lungo le coste costruiscono moltissimi impianti come porti, stagni marittimi, peschiere e cave dove si allevano murene, orate, anguille, triglie e persino lo scaro (pesce pappagallo) portato a Roma in grandi quantità.
Le piscinae di acqua salata sono simbolo di ricchezza, costose da costruire, mantenere e gestire e sono utilizzate per guadagnare.
L’acquacoltura nell’antica Roma non si svolge soltanto nelle vasche (piscinae) costruite artifi cialmente, ma anche nei fi umi e nei laghi naturali sono immesse uova raccolte nel mare e così il fi ume Velino, il lago Sabatino, ora noto come lago di Bracciano, il lago di Bolsena e il lago Cimino, ora conosciuto come lago di Vico, ospitano, producono e generano spigole, orate, anguille e tutte le altre specie di pesci che tollerano l’acqua lacustre.
I Romani intuiscono l’importanza di mantenere l’acqua in costante movimento per favorire la sua ossigenazione e mettono in atto accorgimenti idraulici collegando le piscinae al mare tramite cunicoli sotterranei, costruendo dighe per sfruttare il ricircolo delle maree e si dice che LUCULLO fa scavare un tunnel sotto una montagna per collegare direttamente i suoi allevamenti con il mare.
Il primo allevatore di murene è CAIO IRRO che, in occasione dei trionfi di Cesare, fornisce ben 6.000 esemplari. Le murene, animali solitamente innocui, il cui morso, per quanto tossico, non mette in pericolo di vita, sono di gran lunga la specie favorita, tanto che gli impianti per il loro allevamento hanno il nome di murenai, vasche con ripari che ricreano l’ambiente marino naturale e dove, per la voracità delle murene, queste non sono messe a contatto con altri pesci.
Sulle murene esiste la leggenda che i proprietari di vivaria le nutrano dando loro in pasto gli schiavi ribelli e questo in base alla testimonianza di LUCIO ANNEO SENECA (4 a.C. – 65 d.C.), che nel “De Clementia” stigmatizza il comportamento di VEDIO POLLIONE ritenendolo uomo meritevole di crepare mille volte, sia che gettasse i propri servi in pasto alle murene, per renderle più succulente, sia che le nutrisse in tal modo, solo per il semplice gusto di farlo.
Pesci da compagnia e come medicina
Nel mondo antico molti popoli hanno una stretta relazione tra animali marini e divinità. I pesci sono trattati come animali domestici e sotto molti aspetti sono considerati simili agli uomini dando loro nomi, venendo ornati con gioielli, curati in caso di malattia e pianti se giunti a morte. A Roma, MARZIALE, in un epigramma, racconta che come animali domestici le murene sono solite nuotare incontro al loro padrone e le triglie, udendone il nome, emergono dall’acqua. PLINIO osserva (Naturalis Historia 10, 193) che i pesci escono fuori dall’acqua uno ad uno, udendo il richiamo del padrone.
Il rapporto con i pesci è così stretto che alcune famiglie facoltose assumono il loro cognomina dai nomi dei pesci che allevano nelle piscine delle loro ville e per la gens dei Licinii il cognome Murena potrebbe essere legato all’allevamento di murene, mentre GAIO SERGIO ORATA, come riporta MACROBIO (Saturnalia 3, 15, 3), avrebbe mutuato il soprannome dal pesce, l’orata, di cui era ghiotto.
Da ultimo si può ricordare che gli antichi Romani, come altri popoli, usano pesci ed molluschi anche per curare diverse malattie: con la cenere dei murici si cura la parotite, con il fegato dei delfi ni la malaria e il garum è considerato un medicamento utile per guarire le ustioni, le ulcere, i morsi dei cani e soprattutto dei coccodrilli, la dissenteria, i dolori delle orecchie e la scabbia degli ovini.
Prof. Em. Giovanni Ballarini
Università degli Studi di Parma
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