RIZA
I GRANDI LIBRI DI
RIZA
RAFFAELE MORELLI Il nuovo libro di Raffaele Morelli ci guida a conoscere e a mettere in pratica le regole su cui si basa l’essenza della felicità. Per essere felici non servono sforzi, non bisogna migliorarsi, ma occorre solo imparare a non disturbare con i nostri ragionamenti l’opera del nucleo innato che ci abita. Nell’assenza di pensieri spuntano energie benefiche che ci curano, che provvedono a noi e ci conducono alla felicità.
RIZA
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RAFFAELE MORELLI
Edizioni Riza - Via Luigi Anelli, 1 - 20122 Milano - www.riza.it
LE 10 REGOLE PRATICHE DA CONOSCERE
Il mio lavoro mi ha insegnato che basta cambiare l’atteggiamento mentale per trovare la gioia di vivere ogni giorno
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SOMMARIO INTRODUZIONE
IL FONDAMENTO DELLA FELICITÀ
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CAPITOLO 1
L’ARTE DI STARE CON SE STESSI
8 CAPITOLO 3
MA DOBBIAMO PROPRIO TORMENTARCI?
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CAPITOLO 4
IN NOI SI NASCONDE LA SAPIENZA CHE CURA
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CAPITOLO 5
RIFUGIATI NEL BUIO
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CAPITOLO 2
CAPITOLO 6
LO SGUARDO SILENZIOSO È L’AZIONE PIÙ POTENTE
CURARSI CON LE ENERGIE PRIMORDIALI
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CAPITOLO 7
CAPITOLO 10
NON C’È NIENTE DA CAMBIARE
COME VIVERE “DENTRO” SE STESSI
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CAPITOLO 8
CONCLUSIONE
LASCIA AGIRE IL SEME CHE È IN TE
PENSA AI FIORI CHE VERRANNO, NON ALLE FOGLIE CADUTE
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CAPITOLO 9
LA CURA DI SÉ
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COSA OTTIENI
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SENZA RAGIONAMENTI, IL NUCLEO TI CONDUCE A REALIZZARE TE STESSO
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IL MANUALE DELLA FELICITÀ di Raffaele Morelli Immagini: A. Ruggieri, Fotolia, 123rf, Shutterstock EDIZIONI RIZA S.P.A. - Via Luigi Anelli 1 20122 Milano - www.riza.it - info@riza.it Stampato in Italia da: Caleidograf s.r.l. Via Milano 45, 23899 Robbiate (LC) Distribuzione per l’Italia: So.Di.P “Angelo Patuzzi” S.p.A., Via Bettola 18, 20092 Cinisello Balsamo (MI)
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INTRODUZIONE
Il fondamento
della felicità Metti da parte il pensiero, è lui che tiene in vita il dolore
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olti mi chiedono cosa fare quando stanno male, quando la loro vita è tormentata, quando si sentono insicuri e infelici. Il dolore non è fatto per durare: quello che lo tiene in vita è la nostra mentalità. Occorre chiedersi sempre: «Sto soffrendo perché mi tocca, perché è inevitabile, oppure la mia mentalità rigida, pietrificata, morta, tiene in vita degli attaccamenti che devono morire, tramontare, per lasciar spazio alle doglie del parto della nuova persona che verrà, che vuole nascere?». Se rimani legato al passato, se lo fai rivivere nel pensiero, coltivi il dolore e lo mantieni vivo. Il Taoismo dell’antica Cina, pensiero tra i più profondi che l’umanità abbia conosciuto, praticava l’arte dell’oblio, del dimenticare, del distrarsi, non quella del ripensare ai disagi, dello spiegarli, del capirli, del collegarli al passato. Quando c’è un disagio dobbiamo essere lì a guardarlo, a percepirne la presenza, a sentire il dolore che ci trasmette, in quale parte del corpo si riflette e... fare la cosa più importante: cedere. Il dolore vuole annientare l’identità, la mentalità conosciuta, la definizione che diamo di noi stessi. Stare con me stesso senza avere niente da dirmi, senza
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La mente libera da identità, libera dal passato libera dai ricordi, libera delle intenzioni e dalle spiegazioni, è l’autentica fonte della felicità.
parole: ogni giorno un po’ di più. Il Silenzio diventa così l’energia che ci cura. Il Silenzio Interiore spazza via l’identità, ci rende fluidi, flessibili, liberi. Le sofferenze le crea più di tutto la nostra resistenza a diventare fluidi come l’acqua. I Taoisti ci hanno insegnato che essere come l’acqua è l’antidoto ai mali dell’anima. Cosa vuol dire essere come l’acqua? Non ostacolare in nessun modo ciò che accade: un abbandono, un’insicurezza, una paura, un fallimento, una sconfitta. Non ostacolare gli stati d’animo che arrivano, ma percepirli, sentirli e abbandonarsi a loro. Non fare niente per mandarli via, ma lasciarli espandere.
LASCIA CHE TUTTO SCORRA, COME L’ACQUA Quegli antici Cinesi cercavano la mente vuota per guardare la tristezza della vita dalla riva del fiume. È l’acqua stessa che scorre che se la porta via. Siamo sempre nuovi, come in Grecia ricordava Eraclito, non apparteniamo a niente e a nessuno, come l’acqua che assume tutte le forme restando se stessa, le impurità la attraversano senza scalfirla. La mente “acquatica” è la prerogativa più importante per la nostra metamorfosi, che avviene spontaneamente, tanto più e meglio quando
ci dimentichiamo di noi stessi. Ti hanno abbandonato, lasciato, ti hanno tradito o sconfitto perché tu avevi dimenticato il tuo nucleo, il paesaggio originario in cui scorre la tua identità più autentica e antica. Bisogna sentire i dolori che arrivano, annullando l’idea che ti sei fatto della causa che li ha determinati. Se vengono accolti senza pensieri, allora passano, scorrono via, così come l’acqua. Più ci pensiamo, più ci ragioniamo sopra, più li spieghiamo e più diventano cronici. Conosco persone che dopo dieci anni da un addio, sono ancora lì a lamentarsi, a chiedersi perché, a vivere di rancori. Che cosa occorre dimenticare? Lo sforzo, sì lo sforzo di salvare gli amori finiti, di andare d’accordo a tutti costi con gli altri, di fare progetti, di darsi obiettivi, di correre dietro a qualcosa o a qualcuno. Come il seme attrae le piante amiche, gli uccelli, gli insetti utili al suo sviluppo, come si affida al “suo” terreno e si radica lì in quel bosco, così ognuno di noi è sempre nel posto giusto, anche se non lo sa. Bisogna mandare via quell’illusione: che il voler cambiare vita ci renda più forti, più sicuri, migliori. È sempre e solo un fatto interiore: le cose che devono accadere nella vita, avvengono spontaneamente quando smetti di dirti dove andare, come fare, lamentarti, chiedere consigli... In questo stato irrompe la felicità.
Ogni tanto, cerca un rifugio interiore in cui collocarti: è il tuo lato antico, una traccia della tua identità eterna, una scintilla di quell’energia cosmica che ha fatto il tuo volto e continua a farlo 7
L’ARTE DI STARE CON SE STESSI
CAPITOLO 1
L’ARTE DI STARE CON
SE STESSI SIAMO PIENI DI OBBLIGHI CON CUI RIEMPIAMO IL NOSTRO MONDO INTERIORE. CONTINUIAMO A DIRCI COME DOVREMMO ESSERE, COSA VA BENE DI NOI E COSA NO: NEL TENTATIVO DI ADEGUARCI AI MODELLI ESTERNI, PERDIAMO I CODICI DELLA FELICITÀ, DELLO STAR BENE CON SE STESSI. CODICI CHE APPARTENGONO AL REGNO DELLA MENTE VUOTA E NON DEI PENSIERI
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e regole della nostra cultura non si basano più sull’ascoltare il mondo interiore e i suoi codici, ma privilegiano i riferimenti esterni e si riassumono nell’adeguarsi ai modelli esteriori e nel “comportarsi bene”. Ad esempio l’amore per gli altri, così enfatizzato dai media, è diventato quasi sempre una recita convenzionale. «Ama il prossimo tuo come te stesso» è un’antica frase ebraica, che il cristianesimo ha fatto sua. Ma è diventata un inno all’antispontaneità. Abbiamo trasformato la cura di sé in un tentativo di domare i propri demoni. «Vai avanti così, vedrai dove andrai a finire…» dicevano i padri per migliorare la condotta dei figli, quando vedevano i ragazzi sbandare. Ma nessuna educazione parla più del Buio, del Vuoto, del Regno della Notte, del Silenzio Interiore. Nessuno pensa più che diventeremo esseri unici solo dando spazio all’intangibile, a quella “perfezione nebbiosa”, così cara ai Taoisti, che abita ciascuno di noi e che conduce, senza essere vista, la nostra esistenza. La cura di sé consiste prima di tutto nel ricordarsi più volte durante la giornata del nostro lato invisibile, che percepiamo come
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Vuoto, come Nulla e che ha una parte preponderante nella nostra vita, anche se lo ignoriamo. Non dobbiamo scoprire come è fatto il Vuoto, non dobbiamo capirlo, ma avvertirne la presenza, percepire che c’è un Altrove… Non dobbiamo diventare esseri migliori, ma dare spazio al mistero, che si nasconde dentro il visibile. Così la pensavano i Taoisti, senza i quali non avremmo imparato a stare con il nostro mondo interiore. Ecco cosa scrive Elias Canetti, nel libro “Zhuangzi” (Adelphi, 1992): «L’intangibile è la realtà stessa, e non qualcosa dietro di essa... Oggi per noi non esiste lettura che ci tocchi più da vicino di quella degli antichi filosofi cinesi. Tutto l’inessenziale qui cade. Per quanto possibile, qui ci risparmiamo la deformazione imposta dalla concettualità. La definizione non è fine a se stessa. Si tratta sempre di possibili atteggiamenti verso la vita e non verso concetti». Oggi nessuno si avvicina alle leggi del Tao, la più antica sapienza, il luogo dove è esistita da sempre la conoscenza dell’anima. Jung invece leggeva il “Tao te ching” per curare i pazienti e trovare la Via. Perché ci sono altri modi di concepire il mondo, altri modi di stare con se stessi, oltre a quelli che vede il senso comune.
Mentre passiamo i giorni a chiederci se andiamo bene cosĂŹ come siamo, finiamo per ignorare funzioni, capacitĂ innate, saperi su cui si fonda il nostro mondo interiore.
L’essenza innata che ci rende esseri unici abita in ciascuno di noi; dobbiamo imparare a stare col nostro spazio interiore per ritrovarla
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L’ARTE DI STARE CON SE STESSI
Il Taoismo dice: cerca il Vuoto L’
interiorità non ragiona, non è scientifica, non conosce la relazione tra causa ed effetto, vive nel Senza Tempo, appartiene più al mondo del Sogno che a quello reale. Vive di magia, di corrispondenza tra il reale e le immagini, tra la materia e la psiche: il mondo interiore nella sua profondità danza tra gli archetipi, vale a dire che il suo nutrimento è centrato sulle Immagini Primordiali. Ci sembrano parole incomprensibili perché andiamo nella direzione opposta: cerchiamo di rendere scientifica l’anima, che non “ragiona” nel tempo, che non sa cos’è il passato, che fugge le spiegazioni e vive in un eterno presente.
SVUOTA E TROVI IL SENSO Facciamo tanti sforzi per riempire ogni nostra giornata di obiettivi, di attività e di impegni, pensando così di dare un senso alla nostra vita. Invece la nostra felicità e la nostra realizzazione arrivano esattamente dall’opposto: dalla ri-
cerca del vuoto, dell’assenza. Abbiamo un’idea malata della Saggezza, la intendiamo come autocontrollo; invece deve essere una percezione sempre più ampia del Vuoto, del Silenzio, dell’essere altrove: lontano dall’Io, dal pensiero, dai concetti e dai ragionamenti. Le leggi del Tao infatti sono posizionate sull’energia eterna, sul Vuoto, sul Nulla, sulla trasformazione silenziosa che avviene dentro di noi, a nostra insaputa. È questo il sapere primordiale che ispira il Taoismo: bisogna prima di tutto e più di tutto farsi da parte. Ecco infatti che cosa scrive Carl Gustav Jung a proposito del Taoismo nel suo libro “La sincronicità” (Bollati Boringhieri, 1980, p. 80): «Occorre considerare che l’atteggiamento intellettuale di noi occidentali non è l’unico possibile, o quello che racchiude in sé ogni possibilità, ma rappresenta sotto un certo rapporto una prevenzione e un’unilateralità che per quanto possibile andrebbero
Trenta raggi convergono sul mozzo, ma è il foro centrale che rende utile la ruota. Plasmiamo la creta per formare un recipiente ma è il vuoto centrale che lo rende utile. Ritagliamo porte e finestre nelle pareti sono queste aperture a rendere utile la stanza. Perciò il pieno ha una sua funzione, ma l’utilità essenziale appartiene al vuoto. (Lao-tze)
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corrette. I cinesi, la cui civiltà è assai più antica, hanno in un certo senso pensato sempre in maniera diversa dalla nostra, e se vogliamo accertare qualcosa di analogo nel nostro ambito culturale - almeno per quanto riguarda la filosofia - dobbiamo risalire fino a Eraclito».
NON CERCARE MAI DI MIGLIORARTI: TI SNATURI È la presenza del nostro Io, con i suoi pensieri, ad alimentare i disagi. «Giovanni mi lascia, il mio lavoro non mi piace, amo un’altra persona, voglio raggiungere un obiettivo, arrivano l’ansia, la paura, l’insonnia». Ebbene, il mio lavoro consiste nel farmi da parte. Nel percepire cosa accade e ripetere: «Non devo intervenire, devo lasciare le cose come sono». Devo diventare nebbia, insicuro, incerto, senza intenzioni di migliorare: allora, dalla Nebbia dell’Essere primordiale, il Tao farà la sua parte. «Il Tao causa le cose in maniera nebbiosa, indistinta» ricorda Jung ne “La sincronicità”. Mai e poi mai uno sforzo fa passare i disagi dell’anima, non è un’opera di volontà quella che ci aiuta, bensì
una fuga da se stessi: allora il Tao, la Via, scende in campo e agisce, del tutto a nostra insaputa. Trovare la Via non è diventare più bravi, non è imitare i modelli mentali del mondo esterno, non è diventare migliori. Cercare di migliorare è per il Taoista un vero e proprio cancro, un tumore dell’anima, una malattia. In che senso dovrebbe migliorare una lumaca, una tigre o una rosa? «Ciò che è impuro e germe di morte è l’artificiale, l’acquisito: tutto ciò con cui la civiltà ha deformato e falsato la natura. Ogni invenzione, ogni preteso perfezionamento non è che una fastidiosa escrescenza. Anzi è piuttosto un tumore maligno. Non bisogna violentare la natura, soprattutto col pretesto di raddrizzarla. Ciò che è curvo deve rimanere curvo. Non si pretenda di accorciare le zampe della gru e allungare quelle dell’anatra» (Marcel Granet, “Il pensiero cinese”, Adelphi, 1971, p. 389). Noi invece per migliorare intendiamo domare. Sì, mettere sotto controllo l’ira, il desiderio, l’invidia, la gelosia, le forze ancestrali che sono le colonne portanti della nostra anima.
Cercare il vuoto significa non avere identità o meglio non avere quell’identità già conosciuta. Quando smetti di essere quello che credi di essere, sei nella casa dell’anima
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L’ARTE DI STARE CON SE STESSI
Abbiamo smarrito
i nostri sogni O
gni gesto acquisisce il valore sacro, quando è compiuto con la mente vuota: bere un bicchiere di vino per ingraziarsi Dioniso è un Rito che gli Egizi prima e i Greci dopo, che non soffrivano certo di nevrosi, compivano quotidianamente. Il vino era sacro, così come il pane, lo yogurt, il cibo, gli animali. Ma non era “sacro” come lo intendiamo noi. Noi diciamo: «Non buttare via il pane, dallo ai poveri, così poi ti senti buono e fai del bene, Dio ti aiuterà un domani e non verrai colpito dalla malattia». Nei nostri gesti benevoli c’è sempre l’intenzione, c’è sempre un motivo salvifico. «Il Saggio va alla meta senza intenzione» ci ripete il Taoista. Non i pensieri, non la volontà ci portano verso il nostro destino, ma il sentirsi altrove, vuoti, silenziosi, senza pensieri. L’occhio mitico è lo sguardo sull’Altrove, che è la casa dell’essenza. L’essenza “ragiona” solo con il pensiero degli Dei, che vivono nel Vuoto, che appartengono al regno eterno del Senza Tempo, che non parlano agli uomini, se non travestendosi, trasformandosi. Gli uomini altrimenti non potrebbero comprenderli. Occhio mitico è vedere l’infinito nelle
Trattare la realtà come popolata da Dei trasforma ogni atto in un Rito.
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cose, non avere più storia: così l’uovo è l’uovo cosmico. Se non si vede più il mondo popolato da Dei, come diceva Talete, allora il cosiddetto “mondo reale” ha preso il sopravvento e solitudine, nevrosi e depressione prendono sempre più spazio. «Gli antichi avrebbero detto: “Tutto è pieno di dei”. Questi sono “poteri divini diffusi nelle cose”» (Carl Gustav Jung, “La sincronicità”, Bollati Boringhieri, 1980, p. 88). Se perdiamo la Magìa, vale a dire se crediamo che il mondo sia fatto solo di accadimenti esterni, se muore il lato sognante, la solitudine dell’Io si amplifica. La migliore cura? Trasformare le nostre azioni quotidiane in gesti rituali, rivestiti dal Senza Tempo, come fanno i bambini quando rendono vive le loro fiabe, oppure quando si travestono come eroi, come sacerdoti, come cercatori di tesori. Se c’è un tesoro da trovare, puoi perdere tempo a pensare allo schiaffo che hai preso da tua madre? «Trasformare la pietra in oro», per dire che possiamo avvicinarci al celeste cielo che ci abita e che è soppresso dal reale, è un motto che appartiene ai Greci, ai Veda, ai Taoisti e a tutta l’Alchimia. «Il creatore degli esseri non ricompensa gli uomini in quanto uomini, ma per ciò che di celeste hanno in sé» (“Zhuang-zi”, a cura di Liou Kia-hway, Adelphi, 1992, p. 300).
L’OCCHIO MITICO È LA CURA Direbbe mai Atena che ha un problema? O Dioniso si preoccuperebbe di un figlio che lo rifiuta? Siamo nati per vagare nell’Eterno, non per discutere le leggi del reale, che è già
Ogni giorno dovremmo scrivere una fiaba. È forse la migliore forma di autoterapia perché chiama in campo le energie primordiali, le immagini eterne dell’anima. fuggito mentre lo guardiamo. Non c’è nevrosi che non passi, se si va Altrove... Non c’è nevrosi che non guarisca, se si guarda Altrove, se tramonta l’idea che ci siamo fatti del disagio. È diverso dire: «Mia madre è una tiranna e mi ha segnato per sempre, mi ha resa altamente insicura», rispetto a sognare di essere una principessa che scappa da una matrigna o da una strega. Quella madre è toccata a te perché tu viva il tuo mito, perché tu esca dal reale ed entri nell’energia del sogno. Che animale mi aiuta nel viaggio per allontanarmi dalla matrigna? «Una lumaca», mi dice Ilenia, «che mi nasconde nel suo guscio e cammina senza che i custodi del castello mi vedano scappare». E poi peripezie, foreste, boschi incantati, Dei che arrivano in forma animale a proteggerci o a ingannarci. Che ne sarà di noi senza l’occhio che vede l’eterno, l’infinito, il sogno nel reale? Siamo seduti su fiabe che non vediamo, siamo noi stessi un mito vivente e lo abbiamo dimenticato.
NON COMPRENDIAMO PIÙ IL LINGUAGGIO DELL’INVISIBILE Far diventare i sintomi come voci dei Sogni è il mio lavoro. Siamo ammalati dalla dittatura del Reale, dal dominio dei pensieri, dei concetti, della ragione. Nel suo racconto capolavoro “Lo scrittore di lettere” Isaac Singer ci butta in faccia il dramma dei nostri tempi: l’assenza dell’ineffabile, dell’invisibile, del modo onirico dalla vita di tutti i giorni: «“Be’, i sogni vanno tutti quanti perduti”, si dis-
se. “Ogni giornata comincia con un’amnesia» (Isaac B. Singer, “Lo scrittore di lettere e altri racconti”, Corbaccio, 2012, p. 383). Tutta la nostra vita è un’amnesia che non vede nel fiore il linguaggio dell’invisibile, come nell’animale che incontra, nei personaggi che si affacciano ogni giorno. Così manca la magia e non vediamo l’ora di cacciarla via il più presto possibile anche dagli ultimi sognatori rimasti: i bambini. Molti psichiatri americani sconsigliano di parlare ai piccoli di Babbo Natale, perché, sostengono, così i genitori li ingannano e poi, quando scopriranno la verità, diventeranno scettici, non crederanno più a niente. Questi psichiatri non conoscono per nulla le leggi dell’anima, che è costruita sulla magia, sul Senza Tempo della fiaba. Togliere ai bambini il mondo delle favole significa bloccare la loro evoluzione. In psicoterapia cerco sempre di trasformare la visione reale del paziente in un territorio mitico.
I bambini realizzano la loro identità attingendo al mondo delle favole, ai personaggi mitici che le popolano
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L’ARTE DI STARE CON SE STESSI
Affidati alle
ai miti,
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i sono intere aree cerebrali dedicate al Mito, alla Fiaba, al Rito, alle Immagini, che appartengono a un’altra verità, che non è quella arida del reale, fatta di certezze assolute. L’anima adora i segreti, adora nascondersi e i bambini amano occultarsi, sparire, giocare a nascondino. Stanno seguendo le energie perenni della fiaba eterna che è la vita. Le nostre verità sono certezze che valgono solo nell’ambito dell’Io adulto che, a sua volta, se si affida solo alle leggi della ragione è perduto. Non possiamo relegare il mondo dei sogni solo nel regno della Notte; l’assenza delle Immagini nella vita diurna ci conduce alla disperazione, come ben sappiamo dall’abuso di psicofarmaci.
SIAMO PRIGIONIERI DEL REALE I Greci, ma anche i Romani, avevano mantenuto il rito e il gesto rituale come “energia perenne” in cui calarsi, in cui ritrovarsi. Se devi arrampicarti su una scala magica per raggiungere il tuo principe, non hai tempo per l’ansia, per il panico che vengono dal non sentirti collocata nel tuo interno. La vita scorre perché ciascuno di noi viva il suo mito, per ragionare come l’eroe di tutti i tempi che deve uscire dal labirinto dei pensieri comuni, per esplorare giungle, deserti, belve, ve-
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getazioni lastricate di spine e, finalmente, intravedere il tesoro. L’occhio che esce dal banale, dal viaggio casa-lavoro-figli, trasforma un attacco di ansia nell’energia di una danzatrice che balla davanti al suo Dio, come facevano le sacerdotesse con i faraoni. Stimolavano con la danza il fuoco erotico, perché così uscivano dal reale ed entravano nel regno del sole. A quasi tutte le donne cui ho chiesto di chiudere gli occhi e immaginare una scena della loro vita felice, c’era sempre una danzatrice: erano loro stesse che ballavano gioiose. Quanti attacchi di panico ho visto scomparire via via che gli occhi chiusi aprivano le porte alla danzatrice eterna, come Calipso che ballava con le ancelle per Ulisse. Un’epoca intera, quella greca più di quella romana, danzava per gli Dei e sentiva il loro occhio addosso. Questo è dunque l’occhio mitico, di cui non possiamo fare a meno e che la nostra cultura ha spento, come mai è capitato nella storia dell’uomo. Ecco come ne parla Roberto Calasso: «“I Greci avevano mantenuto l’occhio mitico ancora a lungo durante il chiaro tempo storico” annotava Nietzsche negli appunti sul culto divino dei Greci. Fra una civiltà e l’altra, lo spartiacque era già in questo: se “l’occhio mitico” vi sussisteva o no. Possono dirlo gli abitanti del secolo
fiabe,
alle immagini ventunesimo, che quell’occhio conservano, ma appannato» (“Il cacciatore celeste”, Adelphi, 2016, p. 392). Perdute le Immagini Originarie, che sono la terra della nostra essenza, diventiamo prigionieri di falsi dei, che sono i social, i media, che creano incessantemente nuovi Moloch. Veniamo vampirizzati dalla realtà ipertrofica dell’essere protagonisti, del sentirsi speciali, della recita, della perfezione (secondo i modelli correnti), del racconto di sé, dell’essere sempre sotto i riflettori, per poter raccontare ogni istante della nostra vita a tutti. Il tema dell’essere accettati è il tema dell’ombra di questo secolo: «Devo essere visto sempre come speciale» è il leitmotiv di oggi. Sono speciale perché ho sofferto, perché so vestirmi bene, perché ho tanti amici, perché capisco gli altri e sono generoso, buono, dolce, solare. Non c’è omologazione più grande che piacere agli altri: via via il nostro occhio vede se stesso con l’occhio dell’altro, del giudizio di Facebook. Basta una minima critica per crollare. Camminiamo senza fondamenta: perché le radici sono l’eterno che ci abita, fatte di Vuoto, di Nulla, di accoglienza degli stati d’animo che si presentano di volta in volta. «Ogni uomo ha ricevuto le sue disposizioni naturali dalla grande radice, solo colui che ritrova la sua essenza originaria vivrà» (“Zhuang-zi” a cura di Liou Kia-hway Adelphi, 1992, p. 257).
Se non vediamo il mistero della nostra vita, se restiamo calati solo nel reale, noi perdiamo intere aree cerebrali, dove vivono da sempre le immagini archetipiche.
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