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COME PARLARE AI RAGAZZI (E FARSI DAR RETTA) Per passare dalla chat al dialogo bisogna dare valore alle parole

COME PARLARE AI RAGAZZI (E FARSI DAR RETTA)

Perché è un problema farsi capire dai ragazzi? Se l’ostacolo fosse soltanto nel fatto che si esprimono con “stai tranqui” o “bella zia”, sarebbe semplice da superare. O si impara ad esprimersi come loro, o, meglio, si insegna loro l’italiano, che non fa mai male, fuori e dentro la scuola. Ma, come sempre, la comunicazione non è una questione di linguaggio. Comunicare significa costruire un quadro, un ambiente in cui ci si trova a proprio agio, dove possano esserci empatia e fiducia reciproca, pur continuando a conservare ciascuno il proprio ruolo. Su questo almeno concordano coloro (insegnanti, medici, psicologi) che hanno accettato di rispondere alla nostra domanda. E anche i ragazzi concordano, dicendo: perché non rispettate i nostri tempi e non avete fiducia in noi?

Per passare dalla chat al dialogo bisogna dare valore alle parole

Prima di chiederci come dobbiamo definire perché e che cosa vogliamo dire

Alessandra Marazzani

Psicologa

Viviamo nel tempo delle immagini, spesso proposte più per amplificare le percezioni sensoriali che per offrire contenuti che incentivino la riflessione dei ragazzi. In questo contesto generale la comunicazione verbale, il dialogo diretto tra adulti e adolescenti rischia di diventare un’operazione di scarso interesse, poco coinvolgente e praticata più per scambio d’informazioni. Trovare uno spazio e un tempo che metta in silenzio gli stimoli esterni e dia la giusta attenzione alla parola non è per nulla facile. Ma da qui bisogna passare per sviluppare un dialogo utile che attivi un pensiero critico sulle reciproche differenze. Noi psicologi sentiamo spesso i genitori che raccontano di come abbiano rinunciato a parlare con i figli, affidandosi più facilmente al linguaggio scritto, ritenendo indispensabile almeno raggiungerli rapidamente via whatsapp, per sapere cosa fanno e dove sono. Ma che tipo di scambio relazionale avviene attraverso le chat? Innanzitutto la parola scritta “incanala” la comunicazione verso un pensiero unico, dovendo far sintesi intorno ad un argomento. L’assen

za dell’interlocutore porta a scrivere per slogan, a fare battute accattivanti o perentorie: è una comunicazione obbligata nella sua brevità a essere asciutta, tra un “bravo, wow” e un “non fare così...”. Chattare è lo stile comunicativo preferito dai ragazzi: li aiuta a sapere, senza tanti fronzoli, cosa noi adulti vogliamo da loro. Ma questo non implica uno scambio e un confronto diretto. E quindi come fare per riattivare o rendere un dialogo interessante con i ragazzi? Potremmo trovare alcuni modi efficaci da utilizzare per parlare con i ragazzi ma quello che non funziona non è il come. Prima dovremmo definire il perché e che cosa vogliamo esprimere di importante, esplicitando le motivazioni che sono alla base di un nostro desiderio di dialogo. Invece spesso succede che gli adulti raccontano con difficoltà l’obiettivo degli scambi e, involontariamente, creano incomprensioni. Come? Per esempio facendo preamboli astratti o mille piccoli esempi, che esprimono poco di quello che per un genitore è veramente importante: se per una mamma ritenere che dare una mano in casa, aiutare in cucina con la tavola sia un impegno che riguarda anche i figli, andrebbe affrontato direttamente. Spiegando che essere una famiglia e dare una mano nella gestione spicciola di casa è parte dello stare insieme e un modo tangibile di volersi bene. Oppure, se un papà ha bisogno di esprimere la propria preoccupazio

ne rispetto ad alcuni comportamenti che non approva del figlio (uscite continue, uso della PlayStation eccessivo, coricarsi e dormire molto tardi ecc.), è bene che il dialogo avvenga mettendo a fuoco quali siano gli impegni che ritiene di valore per il proprio figlio, dando il giusto ordine di priorità (lo studio, maggior presenza in famiglia, ritmo del riposo). Solo successivamente potrà aprirsi a un dialogo con suo figlio. La prima parte dell’incontro per essere efficace non è dialogica, ma deve offrire una cornice di senso sui valori da seguire e sul perché sono importanti. Definita la cornice valoriale in cui l’adulto esprime chiaramente la propria visione, è possibile, e solo allora, poter ascoltare e cogliere le obiezioni dei ragazzi cercando una mediazione. Certo, se come adulti vi è stata una ridotta abitudine al dialogo, la conseguenza potrebbe essere che i ragazzi si pongano sulla difensiva. Per esempio la richiesta di maggiore impegno verrà vista come un ordine dettato da regole ingiuste, o una maggiore condivisione famigliare potrà suonare come controllo. La via del dialogo diretto e parlato non è immediata, essere adulti di riferimento per gli adolescenti è un incarico insidioso, che richiede “superpoteri”. Ma, oggi più di prima, siamo tutti chiamati ad essere guide autorevoli per i ragazzi proprio perché stanno crescendo nel mondo incerto che noi gli abbiamo dato.

La quotidiana fatica di superare la barriera del linguaggio

C’è la tentazione di usare il loro lessico. E invece: Prof, lei deve fare la Prof!

Teresa Caputo

Insegnante all’IIS Claudio Varalli di Milano

Prof, e i giornali?” “Andate a prenderli, ma prima di fare il cruciverba ricordate che dovete sfogliarli, trovare e leggere almeno un articolo che riguardi il tema che stiamo studiando!” Questo succede regolarmente in 2^C Turistico al martedì, giorno in cui la lezione si fa con il quotidiano. Il cruciverba: definizioni da risolvere con una parola, che i miei allievi faticosamente, ma con divertimento, stanno imparando a completare. Con “il quotidiano in classe” ho scoperto che la maggior parte di loro non ha mai fatto un cruciverba, perciò oltre a non saper risolvere le definizioni, non ha idea di come sia strutturato e di come si debba procedere. Ecco quindi che nell’ultimo quarto d’ora di lezione la classe si anima ed è tutto un domandare. E poi: “Prof, ma lei quante cose sa? Come fa a capire che a “Inizio di temporale” si deve scrivere “TE”? Sorrido e rifletto: siamo arrivati a questo? Il loro lessico si è talmente impoverito che non gli permette neanche di divertirsi con le parole crociate. Con il loro “whatsappare” e “postare”, il loro scrivere tutto abbreviato, con simboli ed emoticon, i nostri ragazzi stanno perdendo il gusto di usare un patrimonio linguistico ricco di sfumature e di significati. La ne“

cessità di dare sempre maggiore rapidità a ogni tipo di processo o di relazione sembra aver ormai relegato in seconda o in terza fila l’esigenza di parlare e scrivere bene: quello che importa ormai è il risultato, il “far passare” il messaggio, a scapito di lessico, sintassi, punteggiatura, ortografia e grammatica. Si parla poco, mentre si scrive, o meglio si digita, senza curarsi della forma e della coerenza logica di un contenuto. Come si spazientiscono i miei allievi quando durante le interrogazioni chiedo loro di ripetere il concetto con termini più adeguati. Non sono un’insegnante che tiene le distanze, che sale su un piedistallo e che pretende di avere davanti a sé tante belle statuine; ma nelle mie classi il rispetto reciproco, anche nell’uso del linguaggio, è la regola fondamentale. “Minchia” ogni tre parole sarebbe la loro regola, “Bella zio/ zia” l’espressione più diffusa, perché comunque in classe si contengono, per esprimere il loro apprezzamento, “Stai tranqui”, “Amo”, cioè amore, e così via. Per docenti come me, della stessa età dei nonni, la distanza generazionale è ormai tanta, i modelli di riferimento dei nostri ragazzi sono altri, sempre più spesso fuori dalla scuola, i genitori stes

si sono più adolescenti dei figli e ai colloqui è tanta la voglia di riprendere e di correggere pure loro… Nonostante ciò, poiché il dialogo educativo non funziona senza un reale investimento affettivo, senza empatia o desiderio di porsi su un terreno comune, senza apertura mentale verso qualcosa o qualcuno che ci costringe a mettere in discussione costantemente i nostri valori e il nostro agire quotidiano. Anche se non mi rispecchio più negli allievi di oggi, come in passato continuo pazientemente ad ascoltarli, mi sforzo di capirli per trovare connessioni, per confrontare sguardi e punti di vista, per cercare di avvicinarmi al loro mondo. Eppure, quando cerco di “agganciarli” col loro stesso linguaggio, all’inizio i miei allievi si divertono, ridono, ma poi mi guardano strano e si capisce che non gradiscono, che insomma “Prof, lei deve fare la Prof!” Ho parlato con alcuni di loro e mentre Chiara afferma che non le dispiacerebbe se i professori usassero un linguaggio più “disinvolto”, Giulia non è d’accordo e non ha dubbi: gli insegnanti non sono i compagni di scuola, ci deve essere la giusta distanza tra allievo e insegnante, troppa confidenza nuoce al dialogo educativo.

L’ardua conquista della fiducia

Serve una comunicazione chiara e leale. Con disponibilità all’ascolto

Marina Picca

Pediatra di famiglia

Accogliere un paziente in età adolescenziale, parlare con lui, visitarlo, proporgli eventuali approfondimenti diagnostici, dare indicazioni al fine di modificare stili di vita potenzialmente nocivi, motivarlo a rivolgersi, se necessario, ad altri specialisti è per il medico compito non facile. Il “medico dei bambini” o “il medico degli adulti” può avere difficoltà a instaurare o mantenere una relazione di fiducia con chi, per meccanismi tipici della sua fase di vita, sta compiendo un movimento di distacco dal mondo dell’infanzia e fatica a fidarsi dell’adulto. La bussola per muoversi in questo complesso territorio passa attraverso la conoscenza dell’adolescente e dei suoi genitori e l’attenzione a modulare le modalità di ascolto e comunicazione. Una premessa che, come pediatra, ritengo indispensabile è la necessità, nel corso delle visite mediche, di coinvolgere attivamente il bambino, futuro adolescente, il prima possibile, già nei primissimi anni di vita. Ad esempio spiegare in modo semplice la sua malattia, le medicine che dovrà assumere (i bambini sono straordinari nel comprendere i messaggi!) e rivolgersi con il desiderio di instaurare un rapporto con lui e non solo con i genitori. Que

sto potrà rappresentare una premessa importante per renderlo sempre più consapevole che la salute è un bene da proteggere, che deve essere lui stesso protagonista del proprio benessere psico fisico e che per questo potrà chiedere aiuto al suo pediatra. Qualche suggerimento pratico: 1. per quanto possibile porre attenzione al contesto e agli aspetti organizzativi dell’ambulatorio pediatrico, in particolare a eccessivi richiami all’età infantile. Considerare la possibilità di dotare la sala d’attesa di pubblicazioni, libri, comunicazioni di interesse per l’adolescente e i suoi genitori, anche da portare a casa e riconsegnare la volta successiva; • la comunicazione deve essere chiara e leale, l’adolescente deve sentire di potersi fidare senza timore di essere giudicato o rimproverato. In questa situazione, il pediatra ha un ruolo molto privilegiato nei confronti del suo giovane paziente: lo conosce da quando è bambino, ha seguito il suo sviluppo, inoltre conosce il nucleo familiare da cui proviene, conquista nel tempo la fiducia della famiglia e del bambino futuro adolescente; • bisogna ascoltare l’adolescente, porre domande così da favorire il racconto e la narrazione del suo vissuto fisco o psicologico per arrivare a una migliore comprensione del problema, accogliere la sua preoccupazione, senza banalizzarla, individuare le difficoltà, ma anche le potenzialità e le risorse. Ma soprattutto trovare gli elementi per giungere ad una soluzione possibile e condivisa;

• il linguaggio deve essere comprensibile ma professionale, sono convinta che i ragazzi vogliano la presenza autorevole di un adulto (non di un altro amico!) che si faccia carico delle sue difficoltà e in qualche modo cerchi di aiutarlo. Forse non ha il “coraggio” di chiedere aiuto, dobbiamo imparare a trovare le modalità di far emergere le sue problematiche; • il colloquio e la visita devono esser fatti con i genitori o da solo? Non credo si possano dare delle regole: si deciderà a seconda delle situazioni e delle esigenze dell’adolescente. Spesso c’è una scelta condivisa del genitore e del ragazzo di svolgere la vista medica separatamente richiamando poi il genitore al termine della visita/colloquio, o al contrario di restare insieme. Qualunque sia la modalità credo sia importante esplicitare a entrambi la posizione del medico che vuole e deve ascoltare entrambi (la tua mamma mi ha detto che…, suo figlio mi ha raccontato una situazione diversa..), raccogliere le informazioni, trovare e condividere con il ragazzo e il geni-

tore/genitori una possibile soluzione. Potrà inoltre essere utile offrire all’adolescente un appuntamento da solo, la possibilità di telefonare direttamente al pediatra negli orari indicati, per dubbi o chiarimenti; • può capitare che il medico si trovi a dover navigare tra movimenti di delega del genitore (glielo faccia capire lei, forse lei che è un medico riesce meglio a dire queste cose …) e offerta di insidiose alleanze (mi raccomando, non gli dica che glielo ho detto io…), la cui accettazione può minare la possibilità di stabilire una buona relazione con il proprio giovane paziente. È bene impostare da subito l’alleanza con il ragazzo non sul segreto, ma sul suo bene, su quello che è utile per lui, proponendosi in modo leale per aiutarlo; • in caso di possibilità di prolungamento assistenziale fino a 16 anni, o comunque di fronte a una richiesta in tal senso da parte dei genitori, valutare con il ragazzo/a la sua disponibilità e il suo gradimento per il mantenimento dell’assistenza da parte del pediatra.

L’importante è farlo parlare, meglio da solo

Chiedo ai ragazzi di fermarmi, se non capiscono quello che dico. E io faccio lo stesso

Maria Teresa Zocchi

Medico di Medicina Generale

La cosa cambia quando l’adolescente arriva dal Medico di Medicina Generale: succede al massimo a 14 anni, ma in molti casi anche prima, quando “per comodità” o per una gestione familiare più “facile” il ragazzo viene affidato al medico che segue tutta la famiglia. Comunicare con un quattordicenne e conquistare la sua attenzione e la sua fiducia non è semplice; diverso è seguire un bambino da piccolo, vederlo crescere, conoscerlo e farsi conoscere. Alla prima visita in genere viene accompagnato dal genitore e la tentazione di rivolgersi all’adulto per avere da lui notizie anamnestiche certe, già organizzate e ordinate, è forte. È invece importante parlare direttamente al ragazzo, mostrarsi disposti all’ascolto e pronti a capire le sue richieste, che il più delle volte non sono esplicite. A quattordici anni si va dal medico per una faringite, per una diarrea, oppure per un certificato sportivo; io riservo sempre uno spazio adeguato per la prima visita, con tutto il tempo necessario perché possano emergere dubbi, domande, richieste o semplicemente racconti spontanei. È per

questo che bisogna lasciar parlare il giovane paziente, interrompendolo il meno possibile e facendo attenzione – senza turbare equilibri familiari – a eventuali interruzioni proprio della mamma! I ragazzi però sono quasi sempre in grado di difendersi e di zittire il genitore che parla al posto loro, spesso con modalità non proprio educatissime. In questo caso di solito decido di fissare un altro appuntamento e faccio capire a entrambi che preferirei vedere il giovanissimo da solo. Naturalmente li rassicuro che sarò poi disponibile a parlare con l’adulto e chiarisco che, salvo casi veramente eccezionali, non sarà mai possibile tradire eventuali confidenze del ragazzo. Non dico nulla di nuovo constatando che il linguaggio dell’adolescente non è lo stesso mio… non ho mai paura di sembrare una anziana retrograda nel chiedere spiegazioni o traduzioni di certi atteggiamenti o vocaboli. Nello stesso identico modo in cui dico “se non capisci fermami e chiedi”. Mai comunque fingersi amici, complici, usare lo stesso linguaggio: è inutile, faticoso e dannoso. Si può essere vicini, comprensivi e adeguati anche mantenendo la (giusta) distanza! Ho però imparato negli anni a non stupirmi delle modalità più colloquiali che invece loro utilizzano con me, dandomi tranquillamente del tu o mandandomi messaggi via mail o WhatsApp.

Abbiamo bisogno di ballare un “lento” Ma perché volete sempre sminuirci?

Gli adulti devono essere dr. Jekyll e mr. Hyde Viviamo tempi diversi con valori diversi

Studentessa Cecila Alberti

Studentessa Isabella Liburdi

L’adolescente è un pendolo che oscilla tra passione e razionalità, tra follia e ragione, perché ‘adolescenza’ potrebbe essere un sinonimo di “crisi”. Ma non la crisi del mondo degli adulti; non quella economica, non quella di mezz’età, non quel momento di panico che si vorrebbe evitare. La “crisi” del periodo adolescenziale è quella che nasce della radicale riformulazione della visione del Mondo, perché in adolescenza ogni incontro, ogni sguardo, ogni bacio, ogni parola, sono un passo nel vuoto; sono il piede che si poggia sul prato e che schiacciando l’erba crea un sentiero. Così i giovani, noi giovani, ci ritroviamo a vagare su questa terra sconosciuta, sbandando più o meno volontariamente e andando fuori strada, ed è proprio per questo che “andiamo presi” così come siamo. Con tutta la follia che ci portiamo dietro dall’infanzia, con la passione che stiamo scoprendo giorno dopo giorno e la ragione che stiamo acquisendo gradualmente. Andiamo presi in tutta la nostra leggerezza da ragazzini e la nostra angoscia del futuro da quasi adulti. Cosi un adulto non può che oscillare a sua volta per favorire il percorso dell’adolescente, non può che alternare presenza e assenza, giocare al Dr. Jekyll e Mr. Hyde, incarnare una figura autoritaria che rassicuri, di cui ci si possa fidare e a cui ci si possa affidare e, dall’altro lato, mettersi sul suo stesso piano, come un eguale. L’adulto ha il compito di accompagnare per mano senza camminare davanti per guidare la scarpinata della crescita, ha il compito di sussurrare all’orecchio tutta la propria saggezza senza comandare dall’alto, ha il compito di lasciar soffrire senza essere troppo protettivo, ha il compito di giudicare senza etichettare. L’identità dei giovani si forma anche attraverso il riconoscimento che viene dato loro, per cui “i grandi” dovrebbero sentire la responsabilità di non incrinare quest’identità ancora acerba, di non guardarla di sbieco, ma di accompagnarla. L’adolescenza andrebbe affrontata come un “lento”, dove uno oscilla a destra e a sinistra, mentre l’altro accompagna ogni suo movimento.

Alla tua età i tuoi nonni non mi avrebbero mai permesso di fare una cosa del genere”. Ecco, è questo il momento in cui io, come credo il 99,9% degli adolescenti, decido di scollegare il cervello e riaccenderlo solo dopo la fine del solito discorso su quanto la mia generazione sia peggiore di quella di ‘un tempo’. Come sia possibile che gli adulti ancora non abbiano trovato un modo per comunicare con noi ragazzi, che non implichi per forza il dover sminuire tutto quello che facciamo? Innanzitutto non sopportiamo la tendenza sempre più frequente a generalizzare. Troppe volte ci sentiamo dire che siamo pigri, viziati, “sdraiati” e dotati di una soglia d’attenzione da invertebrati, ovviamente a causa del telefonino. Ma è davvero così? Mi viene in mente Greta Thunberg, per esempio, o Malala, ma non c’è bisogno di dar vita a grandi scioperi per il clima o di vincere un premio Nobel. Basta infatti pensare ai tantissimi ragazzi della mia età, o anche più piccoli, che dedicano settimanalmente ore del loro tempo per aiutare gli immigrati o le persone più povere. “Se fossi stato al tuo posto non lo avrei fatto, sai a me è successa la stessa cosa alla tua età e...”. Bene, finché questa affermazione rimane tale, o se è l’inizio di una riflessione che mi porta a maturare nuove consapevolezze. Il problema si pone, invece, nel momento in cui diventa un voler imporre a priori i frutti di un’esperienza già vissuta da altri, che può sembrare simile alla mia, ma che evidentemente non lo è. Con questo non sto dicendo che i genitori dovrebbero smettere di aiutare i figli, né che siamo alla ricerca di una ‘mamma per amica’. Ma per farlo davvero, smettetela di sminuire sempre i nostri “problemi”, solo perché ai vostri occhi non lo sono più. Viviamo in tempi diversi con problemi diversi, che si dovrebbero risolvere strada facendo e non applicando modelli prefabbricati. Sorrido quando sento dire che siamo una generazione ‘senza valori’: anche i valori sono cambiati, e forse bisognerebbe impegnarsi per cercare di capire i nuovi piuttosto che rimpiangere i vecchi. Quanti italiani in “Comizi d’amore” di Pasolini dicono di rimpiangere i vecchi tempi? Ma questo non ha impedito al tempo di passare e al mondo di cambiare. “

Chi l’ha detto che la storia è noiosa?

Dipende da come la racconti. Bisogna “agganciare” i ragazzi e poi chiamarli in causa

Intervista a Paolo Colombo

Docente di Storia, Università Cattolica di Milano

Il Teatro Carcano di Milano propone agli studenti delle scuole superiori cicli di spettacoli a metà tra lezione e performance teatrale. Performer e ideatore del format “Storia&Narrazione” è Paolo Colombo, professore ordinario di Storia delle istituzioni politiche presso la Facoltà di Scienze politiche e sociali dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, dove insegna anche Storia contemporanea. Chiediamo a lui se considera questa esperienza una modalità efficace di comunicazione con gli adolescenti.

“Storia&Narrazione” racconta la Storia attraverso le storie con la ‘s’ minuscola, quelle di chi la Storia l’ha solo vista passare. E la fonde con musica, immagini, diari, romanzi, poesie... Sono ingredienti adatti per comunicare con i ragazzi? Comunicare con gli adolescenti è difficilissimo. Prima c’è da abbattere un muro che per noi adulti rischia di essere impenetrabile.

Come si apre la breccia? A teatro, per aprire un canale di comunicazione con i ragazzi funziona bene combinare due fattori, riconoscibilità e riferimenti culturali transgenerazionali. Mi spiego: la musica di Game of Thrones o un brano di Harry Potter, nel mezzo della narrazione, fa scattare qualcosa perché loro li riconoscono come propri, e nello stesso tempo sono riferimenti anche per noi. Se usassimo un rap di oggi li agganceremmo lo stesso, ma resteremmo noi tagliati fuori. Addio comunicazione.

E una volta ‘agganciati’? Agli adolescenti, l’adulto che rompe i cliché piace, la disponibilità all’ascolto aumenta. Non è un caso se anche gli insegnanti ricorrono a questi strumenti: multimedialità, contaminazione con ciò che anche i ragazzi vivono in presa diretta, attualità, sport… se c’è qualcosa in cui possono immedesimarsi, scatta il fattore emotivo e, se provano un’emozione, quello che stanno vedendo o ascoltando gli resta più impresso. E poi c’è il “chiamare in causa”, la richiesta di pensarsi nei panni di chi è al centro della situazione che si sta raccontando.

Innesti e contaminazioni non rischiano di amplificare il rumore che ‘disturba’ il processo di comunicazione? Io ho l’impressione che oggi i ragazzi abbiano, delle cose, una conoscenza esplosa. Un esempio: la Seconda Guerra Mondiale non la assorbono solo dalle lezioni e dai libri di scuola, ma la captano dai film, dai fumetti, dalle serie tv, dai viaggi che fanno, dai racconti del nonno, dai documentari, dalle canzoni... E la archiviano a pezzi e in modo diffuso, in tanti file mentali diversi. L’intermezzo orchestrale del III Atto della Manon Lescaut non lo classificano sotto “lirica”, ma sotto “colonne sonore” o “cinema”, come tema di Star Wars. Per comunicare con loro non si può non tenerne conto.

Farli riflettere: per questo va attivata la loro curiosità. Ci riusciamo? Un feedback sono le discussioni a fine spettacolo. Ma per capire se l’intento comunicativo è raggiunto dovremmo sapere cosa fanno ‘dopo’, quando tornano a casa. Se cercano su Google qualcosa di cui si è parlato, o che hanno visto o ascoltato in teatro, allora sì, la comunicazione c’è stata.

Ha accennato alla multimedialità... Almeno sul palcoscenico, la multimedialità più efficace nella comunicazione con gli adolescenti è quella che introduce un elemento manuale, analogico. Staccare con una canzone che esce dagli altoparlanti o farlo con una chitarra è molto diverso. In un caso allenti la tensione, nell’altro i ragazzi cantano insieme a te.

In sala, la narrazione di Paolo Colombo prende forma su uno schermo: è la proiezione delle immagini che Michele Tranquillini, illustratore e grafic designer, disegna in diretta dal palco. Chiediamo a lui come spiega l’impatto di qualcosa di manuale come il disegno o la pittura sugli adolescenti. Nel mondo di Internet, loro per primi danno per scontato che sullo schermo apparirà qualcosa che esce dal web: non si emozionano. Se mentre ascoltano raccontare un fatto, un personaggio, questo gli si forma davanti agli occhi, li sorprende e li stupisce. Un po’ è il bello della diretta, un po’ è l’effimero che connota anche molti dei loro modi di comunicare.

Simona Mazzolini

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