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DA GRANDE VOGLIO FARE IL FUMETTISTA
Può sembrare strano, ma la “vecchia” arte di disegnare (e scrivere) fumetti è ambita da molti ragazzi. Un’esperta e un grande autore spiegano qual è la strada
Edoardo Rosati
Isogni di un adolescente potrebbero anche essere fatti di… segni. Anzi, tutto attaccato: potrebbero essere disegni. Nel senso che c’è chi aspira a trasformare in mestiere la personale passione per il mondo delle nuvole parlanti. Del resto, è innegabile: viviamo circondati dalla comunicazione visiva, in un’era in cui le immagini sono pervasive nelle modalità di trasmissione delle informazioni. E il disegno è un medium potente nel diffondere messaggi, tanto in campo artistico quanto in quello pubblicitario. E tra le professioni aventi a che fare con le immagini, il fumettista appare agli occhi di tanti adolescenti – bombardati da
manga, supereroi e computer animation – una meta particolarmente vagheggiata. Magari lo è un po’ meno nel pensiero dei genitori, che, sondaggi alla mano, continuano a progettare per i loro figli carriere nel campo dell’ingegneria, della medicina, dell’architettura… Ma, si sa, le cose cambiano e di questi tempi la tradizionale “sicurezza” di tali mestieri non è più così garantita. Per cui non è affatto un’“anomalia” che le mamme e i papà vedano il proprio ragazzo scalpitare per intraprendere la carriera del disegnatore di fumetti. Ma diventare fumettista rischia oggettivamente di rivelarsi una mission impossible nell’attuale mercato editoriale così saturo di offerte? No. Michele Rech, in arte Zerocalcare, trentaseienne cavallo di razza del fumetto italico, è stato protagonista di una prestigiosissima mostra al MAXXI di Roma, il Museo nazionale delle arti del XXI secolo. Ma prima di approdare in questa nobile istituzione dedicata alla creatività contemporanea ha sudato per otto lunghi anni. Insomma, il messaggio non troppo tra le righe è questo: chi ha veramente qualcosa da dire, da dimostrare, da esprimere attraverso il disegno deve farsi sempre accompagnare nel cammino professionale da fratello Impegno e sorella
Costanza. E poi agli inizi, prima di tuffarsi nella mischia, l’aspirante fumettista dovrebbe imparare ad alimentare il proprio immaginario e ad “armare” la mano con la giusta dose di stimoli. «Leggere fumetti, tanti e vari, ampliare gli orizzonti con libri, mostre, film e telefilm, frequentare le fiere specializzate». Ecco la ricetta prioritaria secondo Laura Scarpa, rinomata autrice di fumetti, illustratrice per ragazzi, editor, studiosa della nona arte e docente. Insomma, per la professione del disegnatore è consigliabile una buona base culturale. Tutto ciò, dice Scarpa, è sicuramente propedeutico per conoscersi e conoscere/bazzicare questo settore lavorativo. Poi, se la volontà è quella di diventare un fumettista-che-disegna (intendiamo: non lo sceneggiatore), c’è una pratica da coltivare che in tal caso non è affatto deprecabile: copiare. «Proprio così. Si può conquistare un’ottima professionalità emulando tecniche e stili altrui», interviene Silver, alias Guido Silvestri, il celeberrimo papà di Lupo Alberto. «Cito il grandissimo Hugo Pratt. Ebbene, nella formazione di questo fuoriclasse disegnatore italiano ha esercitato una profonda influenza lo statunitense Milton Caniff con la sua famosa striscia a fumetti di genere avventuroso Terry e i pirati. Perché la verità è proprio questa: soltanto copiando gli altri impari. Anzi, io ho un suggerimento per l’adolescente che ha in animo di fare il fumettista:
prendere un qualsiasi disegno e ricalcare con attenzione tutti i contorni delle figure presenti nell’immagine. È un’educazione formidabile per familiarizzare con linee e tratteggi». Domanda: ma servono le scuole? «Sì, anche se non sono indispensabili», risponde Laura Scarpa. «C’è chi apprende da solo, è vero, ma le scuole di comics possono fornire le dritte giuste, consentire a un ragazzo di avvicinarsi ad altri aspiranti come lui, offrirgli la chance di confrontarsi e riconoscere i propri errori, mettergli a disposizione un panel di docenti che oltre a insegnare tecniche e teorie sapranno indirizzarlo nel modo più vantaggioso per sveltire i suoi progressi». È ciò che lo staff di Laura Scarpa propone con @ Scuola di fumetto on line per principianti e professionisti di ogni età (www.ascuoladifumetto-online.com). «È bello vedere come gli allievi si migliorino a vicenda e che qui scoprono strade innovative, inaspettate, capaci magari di rivelarsi più consone alla personalità del singolo ragazzo». Certo è che oggi la condivisione in tempo reale e la diffusione globale rese possibili dai social network stanno inculcando nei giovanissimi una percezione distorta: che bastano due schizzi online per trasformarsi in un fumettista cool… «In effetti, oggi sembra che prevalga la capacità di vendersi e pubblicizzarsi. Il mio parere? In genere dura poco se non c’è altro valore sotto», continua Scarpa. «Al tempo stesso, direi che oggi i social media sono piattaforme necessarie per farsi le ossa, anche se a volte illusorie. In ogni caso, se un adolescente decide di aprirsi un canale digitale deve produrre e postare con continuità i propri lavori: non solo è fondamentale per la comunicazione ma è anche un segno di professionalità pensando a un eventuale domani con gli editori». «Bisogna comunque avere la consape
volezza che disegnare significa sgobbare e metterci l’anima», aggiunge Silver. «Tante volte mi è capitato di dire ai ragazzi che hanno bussato alla mia porta: “Volete essere dei fumettisti? Okay: adesso andate a casa e sfornatemi un tot di disegni che mi consentano di capire grosso modo quanto sapete lavorare e con quale grado di accuratezza”. Be’, la maggior parte di costoro si dilegua», commenta con amarezza Guido Silvestri. «E volete sapere perché? Perché l’umiltà è merce rara, purtroppo. E la fretta di emergere col minimo sforzo sta diventando un brutto andazzo. Chissà, forse un po’ di colpa è anche nostra: abbiamo inavvertitamente trasmesso la sensazione che questo mestiere è “super figo”, senza poi contare l’atteggiamento borioso da rockstar di certi artisti. Ragazzi miei, saper creare con matite e chine è bello e appagante, ma la vanità e l’improvvisazione non portano lontano!». Le prerogative che dovrebbero delineare ogni buon aspirante fumettista? Eccole: garbato, con le idee chiare, presente ma non insistente, buon ascoltatore, rapido a spiegare, pronto a eseguire/correggere, fedele alla linea editoriale dell’editore che decide di contattare ma con un misurato tocco di originalità e temperamento in più... Aggiungendo sempre «una sana quantità di modestia», dice Silver, «e la capacità di guardarsi attorno e cogliere il nostro tempo», conclude Scarpa. Mescolate ben bene e addizionate… un’inevitabile scorzetta di fortuna.
Lupo Alberto, il personaggio di Guido Silvestri, in arte Silver, che ci ha donato questi disegni. È uno dei più popolari fumetti italiani.
HAI MAI INCONTRATO JOKER?
Alter ego di Batman, con il quale condivide una storia simile: un trauma adolescenziale
Maria Francesca Basoni
Psicologa Psicoterapeuta di Psichemilano - mfbasoni@yahoo.it
Quante volte abbiamo incontrato Joker nella nostra vita? Quante volte ci siamo sentiti come si sente Joker? Escluso, emarginato, solo, vittima di ingiustizia. Sentimenti comuni, soprattutto tra i più giovani, che spesso vivono emozioni al limite e sono sempre alla ricerca di un eroe o antieroe, come in questo caso, in cui rispecchiarsi o con cui sentire comunanza. Il film di Todd Phillips è quasi disturbante nel suo mostrare in modo sfacciato, ma mai irriverente, i malesseri che colpiscono le persone e la società odierna. Nessuno è immune, nessuno rimane indifferente. La figura di Joker, così intrecciata con Batman, è stata oggetto di studio di numerosi psicologi: di che patologia soffre? Perché è così folle? È cattivo o malato? Crudele criminale, o psicopatico incapace di intendere e volere? E soprattutto, Batman potrebbe esistere senza Joker? A un primo sguardo Joker sembra incarnare la follia totale, il caos, l’imprevedibilità, in contrapposizione al suo nemico, alla sua nemesi, il Cavaliere dell’ordine, della giustizia e della moralità. Forse però sono entrambe maschere, quelle di Joker e quella di Batman, che in qualche modo nascondono qualcosa di molto più intimo, profondo. Da un punto di vista psicoterapeutico si potrebbe dire che quelle maschere sono vere e proprie “difese”, protezioni, che permettono di non sentire il dolore che tormenta e logora i personaggi. Quante volte si indossano delle maschere per nascondersi o per essere diversi da quello che si è veramente: i ragazzi in
particolar modo hanno bisogno di celare insicurezze, fragilità, l’inconsistenza di un “io psichico” non ancora formato, dietro ad una “maschera”, aderendo a modelli o stereotipi che possano rappresentarli, in momenti diversi della loro vita. Pensiamo alla funzione fondamentale della maschera, dai tempi antichi, non solo per nascondersi ma per essere socialmente accettati. Le maschere odierne, i sorrisi e le pose sui social, i video su TikTok e i filtri delle foto su Instagram sono esattamente questo: non un modo di condividere (non si divide niente con l’altro, “non tolgo a me per dare a te”) ma di mentire e mostrare solo una parte di sé, più o meno realistica. Quindi Joker, cosi come il suo antagonista Batman, si nasconde: che cosa hanno in comune? Dal punto di vista psicologico, entrambi hanno sofferto di un trauma: quello dell’abbandono. La morte per uccisione dei genitori di Bruce Wayne, che compare anche in questo film, e la storia famigliare oscura di Arthur rimandano a un dolore che spezza in due, che cambia in modo definitivo le sorti dei due ragazzi. Se pensiamo ai due personaggi, cosa li porta a reagire diversamente? Il giovane Bruce ha il noto maggiordomo Alfred che lo aiuta e sostiene. Che lo “tiene al caldo”. Come spesso succede anche nella vita di tutti noi, sono le relazioni affettive o determinati incontri o presenze speciali a fare la differenza nella nostra storia. A volte a salvarci. Joker chi ha? Viene abbandonato da tutti, anche dai servizi sociali e nella solitudine cresce la sua follia, orientata quindi
a vincere questa condizione; ed è quando ci riesce che si sente gratificato, perché effettivamente si sente meno solo. Follia che vira velocemente in crudeltà: più Arthur incarna Joker dando voce e vita a istinti biechi (nella città di Gotham, alias la società), più si sente visto, riconosciuto, amato. Di nuovo, pensiamo a tutte le volte che ci siamo imbattuti in questo tipo di dinamica, in cui c’è qualcuno, un adolescente emarginato o un ragazzino solo, che trova nell’interpretare il ruolo del “cattivo” la soluzione, la via d’uscita dall’angoscia e dal vuoto di una solitudine affettiva. Capire cosa prova Joker agevola un importante processo, l’identificazione, quasi catartica, scomoda da accettare, ma altrettanto liberatoria. E gli spettatori, non tutti forse, ma sicuramente buona parte, si sentono solidali con Joker, fanno il tifo… in una sorta di sentimento di rabbia e odio condiviso. Empatizzare con il protagonista ci aiuta a stare dalla sua parte, a comprendere meglio che i confini tra bene e male, tra sofferenza ed equilibrio, sono mobili e che nulla è definito.
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