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SARANNO LORO A DARCI IL BUON ESEMPIO

Gli adolescenti sono, per fortuna, meno coinvolti nell’emergenza sanitaria, ma lo sono di più in quella sociale, perché la loro vita è cambiata radicalmente

Maurizio Tucci

Presidente Laboratorio Adolescenza

Questo numero di Adò va online in piena emergenza “coronavirus”. Anche se non siamo una rivista scientifica e non abbiamo le competenze per fare previsioni di carattere epidemiologico (difficili, al momento, anche per gli esperti), riteniamo che qualche considerazione, con gli occhi rivolti agli adolescenti, vada fatta. In una situazione come quella che stiamo vivendo, dove l’unica certezza è che bisogna “navigare a vista”, giorno per giorno, gli adolescenti – anche se non se ne conosce la ragione – sembrerebbero (il condizionale è d’obbligo) più al riparo dal contagio. Ma se appaiono meno coinvolti nell’emergenza sanitaria sono, come tutti, e per alcuni aspetti anche di più, al centro di una “emergenza sociale” che è uno dei principali effetti collaterali del coronavirus. Scuole chiuse, attività sportive ferme, luoghi di aggregazione contingentati, timore di utilizzare i mezzi pubblici. E, come se non bastasse, anche la “distanza interpersonale” di sicurezza da rispettare con conseguente stop a quella fisicità nei contatti (dal darsi il cinque a tutte le manifestazioni di affetto) che è l’essenza dell’adolescenza. Ad ascoltarli – come abbiamo fatto

noi di Laboratorio Adolescenza – appaiono consapevoli e maturi. Per alcuni aspetti anche più solidi di noi adulti che come prima risposta all’emergenza siamo andati a svuotare i supermercati per prepararci ad un inquietante quanto inutile letargo sociale. Né ci risulta – sul fronte opposto – che ci siano adolescenti tra gli “evasi” della “zona rossa” per andare a fare shopping Oltrepò. Così come nessuno di loro sta prendendo l’inaspettata chiusura delle scuole come una “vacanza” e con la scuola stanno mantenendo stretti contatti attraverso la tecnologia che hanno

a disposizione e che certamente padroneggiano meglio di tanti insegnanti. Là dove la scuola scopre – nell’emergenza – quanto sia importante poter utilizzare le piattaforme informatiche che consentono la comunicazione a distanza con gli studenti e si sta attrezzando con encomiabile buona volontà, seppure dovendo registrare che spesso mancano, all’interno, preparazione diffusa e strumenti efficaci. In questa sorta di contrappasso dantesco creato dal coronavirus, dove siamo noi – e non i migranti – quelli che portano le malattie, quelli da mettere in quarantena, quelli da guardare

con sospetto, anche il fatidico telefono cellulare, il “padre” di tutte le sciagure adolescenziali, ha il suo momento di riscatto, perché smartphone e computer sono gli unici ambienti “virus-free” che ci consentono di salvare lavoro, studio e socialità. E il tedioso lamento dei genitori “passa le ore a casa col telefonino in mano invece di uscire”, è diventato, d’un tratto, un auspicio. Il virus, quello che sta accadendo in Cina lo dimostra, prima o poi passerà, ma c’è da chiedersi: tutto tornerà come prima o nulla sarà più come prima? È una domanda che vale per tutti, a prescindere dall’età, e la risposta sarà strettamente correlata a quanto questa emergenza durerà e a quanto “graffierà”. Ci piacerebbe che questa esperienza drammatica ci facesse rendere conto che siamo tutti potenzialmente fragili – nord e sud d’Italia, nord e sud del mondo – e che ci facesse mettere da parte un po’ di arroganza. Che ci facesse capire che non sapere neanche “accendere” un computer o non avere un indirizzo e-mail non è qualcosa di cui vantarsi con spocchia. Così come vorremmo che ad emergenza terminata riprendessimo a spostarci e a viaggiare come prima e che non continuassimo a vedere negli “altri” – per chissà quanto – solo dei potenziali untori. Che riprendessimo ad andare al bar, al ristorante, al cinema e ai musei. Che riprendessimo a maledire tram e metropolitane strapiene all’ora di punta. Ci piacerebbe che ricominciassimo a vivere come prima, ma con qualche consapevolezza in più. E gli adolescenti? In genere sosteniamo che la prima cosa che un adulto deve fare – se vuole avere successo nel difficile lavoro di formazione di un adolescente – è dare il buon esempio. In questo caso, ad emergenza terminata, non ce ne sarà bisogno, perché sono convinto che saranno loro a dare il buon esempio a noi.

L’epidemia in poche settimane, entrando di prepotenza nella quotidianità degli individui e delle famiglie, ha sconvolto il normale comportamento delle persone. Gli effetti sono ormai evidenti a tutti: paura, isteria, psicosi, insicurezza, incertezza, contraddizione dilagano a vista d’occhio. In un contesto dove la ragione lascia spazio all’emozione si acuiscono gli estremi. Da una parte la spinta solidaristica di chi si impegna in questa lotta, e non mi riferisco solo ai medici e agli operatori ma anche alla gente comune che si muove orientata da uno spirito di collaborazione e di unità nei confronti del male. Dall’altra i comportamenti egoistici, dove il mio interesse prevale su tutto, e quando c’è un “noi” questo è limitato ai miei stretti contesti di riferimento, che si vorrebbero difesi da confini impenetrabili, salvo poi scandalizzarsi quando sono gli altri ad alzare muri intorno a noi. Da un punto di vista più generale le reazioni individuali e collettive al Coronavirus possono essere spiegate con la paura dell’ignoto. La rappresentazione di un pericolo sconosciuto, di cui non si ha consapevolezza, è emotiva e irrazionale in misura assai maggiore dei rischi che si conoscono. Pur non volendo trarre conclusioni inopportune sul decorso dell’epidemia, per quel che oggi sappiamo prendendo in considerazione la situazione cinese, possiamo dire che contrarre il virus per un singolo individuo sia tutto sommato evento improbabile: nella provincia dell’Hubei si sono avuti circa 70mila contagi a fronte di 60 milioni di abitanti, quindi un po’ meno di uno su mille. In Italia è presto per fare un confronto, ma quanti nostri concittadini già da

ora terrorizzati dal Coronavirus bevono abitualmente alcolici, fumano, non si vaccinano contro la comune influenza, guidano spericolatamente l’automobile? Tutte queste condotte comportano rischi gravi per la propria salute assai elevati e in alcuni casi ben superiori a quelle del nuovo virus. Ad esempio nel nostro Paese nel 2019 si sono verificati 82.048 incidenti stradali (in media, 453 al giorno: 19 ogni ora), che hanno causato 1.505 morti (8 al giorno: 1 ogni 3 ore) e 113.765 feriti (628 al giorno: 26 ogni ora). Per l’influenza normale è possibile stimare mediamente 8.000 decessi all’anno comprendendo ovviamente le complicanze connesse, dieci volte tanto (circa 80.000) sono le morti per fumo, mentre i decessi alcol-correlati sono stimati all’incirca 20.000 all’anno. Eppure la paura legata a tali comportamenti è assai limitata. La situazione odierna quindi riflette la nostra capacità, o incapacità, di vivere situazioni di insicurezza e di affrontare situazioni sfavorevoli ed avverse. Va da sé che il comportamento più auspicabile rimane quello razionale. E gli adolescenti? Non sappiamo ancora come stanno reagendo. Questa epidemia ha delle caratteristiche di unicità per tutti. Certo è che le nuove generazioni, sottoposte precocemente allo stress della precarietà esistenziale e dell’incertezza del futuro, sembrano in grado, molto più degli adulti, di adattarsi agli incessanti e rapidissimi ritmi con i quali la nostra quotidianità si trasforma: potrebbero cioè dimostrarsi in qualche modo più adeguati a rispondere anche a questo nuovo evento.

IL CAOS (QUASI) CALMO DEGLI AMBULATORI

Cronache d’emergenza dagli studi di pediatri e medici di famiglia. Dove soprattutto ci si affida al telefono e i ragazzi si dimostrano ottimi consulenti informatici

Simona Mazzolini

Com’è cambiato, sul territorio, il rapporto medico-paziente, e medico-paziente adolescente in particolare, in periodo di coronavirus? Lo abbiamo chiesto a Maria Teresa Zocchi e Maria Grazia Manfredi, entrambe medici di medicina generale, e a Marina Picca e Roberto Marinello, pediatri di famiglia. Tutti e quattro operano in Lombardia.

“Dal 22 febbraio – afferma Maria Teresa Zocchi – l’obiettivo indicato dalle Agenzie per la tutela della salute (Ast) a noi medici che operiamo sul territorio è univoco: evitare affollamenti nelle sale d’attesa e incontri tra e con potenziali pazienti infetti”. Chiarissimo, ma in partica come si traduce? “Prima di tutto – prosegue Zocchi – niente più accesso libero allo studio del medico, ma solo visite su appuntamento. E anche queste vengono limitate allo stretto necessario”. “Quanto all’individuazione dello stretto necessario – spiega a sua volta Maria Grazia Manfredi – il paziente (o il genitore del paziente) che telefona segnalando qualunque tipo di problematica viene sottoposto a un triage telefonico accurato per capire se manifesta sintomi influenzali o problemi respiratori e se è stato a contatto con soggetti malati o a rischio Covid-19, cioè sintomatici e/o provenienti dalle aree classificate “Zona rossa”. In caso positivo, invitiamo l’interlocutore a contattare il numero unico regionale per segnalare la situazione e anche noi facciamo la stessa

cosa. In caso negativo, si valuta la necessità di una visita a seconda dei problemi riscontrati e si stabilisce se la visita sarà effettuata a domicilio o in studio, in questo caso al di fuori dei normali orari di apertura al pubblico”. In sintesi, medici di medicina generale e pediatri di famiglia passano molto più tempo di prima al telefono, in un orario lavorativo per forza di cose prolungato rispetto alla norma. In questo contesto, le chiamate che riguardano gli adolescenti sono piuttosto rare, anche perché l’assenza forzata dalle scuole riduce i contatti sociali e la trasmissione di qualunque tipo di virus, inclusi quelli influenzali tipici della stagione, responsabili della maggior parte dei contatti con il medico in questo periodo dell’anno. “Ma c’è anche qualche adolescente che chiama allarmato – racconta Maria Teresa Zocchi – per segnalare di aver avuto contatti, diretti o mediati da altre persone, con presunti portatori del virus. Dopo le verifiche del caso e la comunicazione di informazioni adeguate, la preoccupazione rientra, il ragazzo si tranquillizza e la ragionevolezza riprende il sopravvento”. “Molti genitori – aggiunge Maria Grazia Manfredi – chiamano anche per chiederci se sia opportuno o meno che i ragazzi effettuino visite di controllo, anche specialistiche, già programmate”. “Anche il pediatra di famiglia ha modificato l’organizzazione della propria attività: appuntamenti molto distanziati per

evitare la presenza di più persone, orari differenziati, nell’ambulatorio via i giochi e i libri a disposizione dei bambini: ognuno porterà il proprio gioco o il proprio libro”, spiega Marina Picca, che aggiunge: “L’allarme, da parte delle famiglie, scatta in genere quando il bambino o l’adolescente ha febbre, tosse, raffreddore, i cosiddetti sintomi simil-influenzali che in questo periodo preoccupano particolarmente, e allora la prima cosa da fare è capire, attraverso il triage telefonico, quali sono le situazioni che meritano attenzione e una valutazione medica. Spesso bisogna anche fare chiarezza sul fatto che non è il pediatra di famiglia o il medico di medicina generale a stabilire se un paziente deve essere sottoposto al tampone per la ricerca del Coronavirus, ma sono gli operatori sanitari che rispondono ai numeri dedicati”. Ma torniamo agli adolescenti. In questo frangente, ragazze e ragazzi finiscono per assumere un ruolo congeniale alle loro competenze digitali e funzionale a ridurre gli accessi fisici agli studi medici e pediatrici. “Anche accogliendo un’istanza degli Ordini professionali – spiegano Manfredi e Zocchi in qualità di Consigliere dell’Ordine provinciale dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri di Milano – le ATS lombarde hanno consentito, in questa situazione specifica, di ‘dematerializzare’ le prescrizioni per evitare che il ritiro delle ricette generi affluenza non necessaria verso gli studi”. In pratica, il medico comunica via mail al

paziente il codice univoco della ricetta e, dietro presentazione di quest’ultimo, le farmacie attrezzate per stampare la prescrizione (purtroppo non tutte) consegnano i relativi farmaci. “Non è raro che i pazienti più in là con gli anni – aggiunge Zocchi – abbiano poca dimestichezza con i dispositivi informatici e la posta elettronica: personalmente, ne ho sentito più d’uno dire “aspetti un momento, le passo mio nipote”. Inutile aggiungere che la nipote o il nipote del caso capisce immediatamente il da farsi. Consulenti informatici, ma per fortuna meno contagiati. “La chiusura delle scuole – spiega Roberto Marinello – ha di fatto frenato la circolazione di tutte le patologie infettive, per cui di adolescenti, in studio, se ne vedono veramente pochissimi anche per tutte le altre solite patologie di stagione. Ciò che è importante, invece, è che anche ragazze e ragazzi si abituino a seguire rigorosamente le norme di prevenzione: dalla distanza interpersonale ai contatti fisici. Niente strette di mano, baci e abbracci, almeno finché la situazione non si sarà stabilizzata ed usciremo dall’emergenza”. L’emergenza coronavirus ha comunque portato, in modo naturale, dei cambiamenti virtuosi nelle abitudini dei pazienti. La tendenza a chiamare il pediatra o il medico di famiglia anche per situazioni piuttosto banali è da sempre una caratteristica degli ansiosi pazienti italiani, specie quando ci sono di mezzo bambini o adolescenti, ma medici e pediatri sono unanimi nel rilevare, da quando si è diffusa questa epidemia, una diminuzione delle chiamate e delle richieste di vista medica “per futili motivi”. “Evidentemente i cittadini si rendono conto che siamo davanti ad un problema nuovo e di proporzioni significative, e che ciascuno deve contribuire nell’affrontarlo. Quindi si rivolgono al medico per situazioni in cui realmente hanno difficoltà o in cui hanno necessità di consiglio o chiarimenti” sintetizza per tutti Maria Teresa Zocchi. “C’è anche grande collaborazione, da parte dei pazienti, nel rispettare le regole di accesso allo studio medico che naturalmente sono più rigorose” aggiunge Maria Grazia Manfredi. E Roberto Marinello sottolinea come in questo periodo uno dei compiti più delicati sia proprio quello di rassicurare, ma senza sottovalutare la situazione. “Anche al di là della grave contingenza – conclude Marina Picca – la situazione sanitaria attuale, nuova per tutti, ci ha fatto comprendere l’importanza di rispettare le precauzioni che tante volte ci vengono ricordate per ridurre la diffusione delle malattie contagiose: ci ricorderemo sicuramente quanto sia importante l’igiene dei luoghi in cui viviamo e lavoriamo, evitare i luoghi affollati, lavarsi accuratamente le mani, usare la mascherina se si è ammalati e cosi via”. L’augurio di tutti, e per tutti, è che una volta passata l’emergenza i comportamenti responsabili restino.

DAL FRONTE DI LODI

Antonella Giancola è una pediatra di famiglia di Lodi; tecnicamente ai confini dell’originaria zona rossa, ma la maggior parte dei suoi colleghi – con i quali è in costante contatto – erano all’interno. E a lei abbiamo chiesto come si vive l’emergenza sul fronte dell’epidemia. “Con grande attenzione e grande prudenza cercando di adattarci a questa difficile situazione, senza panico, ma certamente con tangibile preoccupazione. Siamo dotati dei dispositivi di protezione (mascherine, camici, guanti) per svolgere il nostro lavoro, seguiamo con grande scrupolo ogni indicazione che ci viene data dalle autorità sanitarie, affrontando la crisi in funzione degli eventi. Registriamo grande collaborazione da parte dei genitori dei nostri pazienti nel rispettare le restrizioni imposte su orari di accesso agli ambulatori, prenotazioni delle visite, possibilità di visitare il bambino accompagnato da un unico genitore dotato di mascherina. Tuttavia dalle testimonianze che ricevo dalle colleghe e colleghi che operano in piena zona rossa emerge un quadro più impegnativo che ci suggerisce di mantenere alto il livello di guardia”. La testimonianza di Antonella Giancola è molto importante, perché ci descrive una realtà abbastanza simile – seppure ovviamente più critica – a quella raccontata dagli altri suoi colleghi, il che aiuta ad attenuare un immaginario apocalittico. La situazione che vivono i cittadini che abitano nelle zone più “calde” ancora non lascia sufficientemente tranquilli, ma in questo momento di oggettiva emergenza, nulla è più dannoso dei “fantasmi” che una paura irragionevole può generare.

EPIDEMIA DAVVERO VIRALE

La crisi del coronavirus è qualcosa di nuovo non solo per i più giovani, ma anche per chi ne ha già sperimentate altre. Perché è cambiata completamente l’informazione

Riccardo Renzi

Se io fossi un adolescente, penso che porrei queste domande: “Ma allora, è questo quello che succede quando scoppia un’epidemia? E perché i nostri genitori, o gli insegnanti, non ci hanno mai detto quello che sarebbe successo? La risposta è semplice. Non vi abbiamo mai parlato di un evento come quello attuale, perché è del tutto nuovo anche per noi. Non tanto, chiariamo subito, per la sua gravità, ma per le conseguenze che sta provocando. Ci sono state, lo sapete anche voi dalla letteratura, epidemie ben più gravi, quando la parola pandemia non esisteva nemmeno, se non altro perché nessuno sapeva se in quel momento si ammalassero anche in Cina o in Africa. Persino nel secolo scorso, cento anni fa, c’è stata una pandemia, la famigerata “spagnola”, ben più grave di quella attuale (si calcola che abbia fatto 50 milioni di morti), ma la situazione era diversa, perché, almeno in Europa, si sovrapponeva ai disastri e ai massacri di una guerra mondiale. E si chiamò “spagnola” perché i giornali spagnoli (paese non belligerante) furono gli unici a parlarne, mentre tutti gli altri subivano la censura militare. Poi, a cadenza annuale, ci sono state altre pandemie influenzali. Nel 1957 (c’erano già gli antibiotici e per la prima volta un vaccino fu pronto in meno di un anno) ci fu l’“asiatica”, che fece due milioni di morti nel mondo. Io ero bambino, ne sentii parlare, ma la mia vita non cambiò. Nel 1968 ci fu la cosiddetta Hong Kong, una variante dell’“asiatica”, che in Italia, uno dei Paesi meno colpiti, fece almeno 20mila morti

più della media stagionale. Io ho vissuto quell’anno, lo ricordo per altri motivi, ma in verità, mi vergogno a dirlo, non mi sono nemmeno accorto dell’epidemia. Successivamente, nel mio lavoro di giornalista medico-scientifico ho seguito tutte le pan-epidemie che ci sono state. Soprattutto la più grave, l’Aids, lenta ma micidiale, che ha distrutto diversi Paesi africani e che non è ancora stata sconfitta, perché il virus è stato domato ma non vinto. E nel mio ruolo sono stato accusato più volte di aver creato “epidemie mediatiche”, cioè inventate.

Eppure anche per me quel che sta accadendo oggi, a fronte di un’infezione più grave di un’influenza, ma meno grave dell’Aids, è una cosa nuova. Perché le epidemie sono tutte diverse tra loro, ovviamente sul piano biologico, medico e scientifico, ma soprattutto per il contesto nel quale avvengono. E questa è la prima infodemia, come l’ha definita l’Oms. Avviene cioè in un contesto in cui l’informazione è ampia, rapida e diffusa, come non si è mai visto prima. Il mondo scientifico si è evoluto, quello dell’informazione è cambiato radicalmente. Ci sono, ovviamente, vantaggi e svantaggi in questo fenomeno. Io sono di quelli che pensano che i vantaggi siano

superiori, perché credo che più la gente è informata meno è soggetta a lasciarsi andare a reazioni irrazionali. Ma ci sarà tempo per discutere di questo. Intanto noto, insieme a voi, alcune novità. C’è chi obbietta che esiste una buona e una cattiva informazione. È vero, come sempre. Anche stavolta, come sempre, ci sono quelli che hanno detto o scritto sciocchezze e idiozie. Ma in questo caso il livello di informazione è così alto e globale che si è attivata, mi sembra, una specie di autoregolazione, in cui gli errori e le fake news vengono rapidamente compensati. Noto anche che la famigerata coppia “media e social” si sta finalmente chiarendo, nei rispettivi ruoli. I media, quelli cioè che funzionano attraverso, appunto, una mediazione professionale, su Internet, in Tv o su carta, stanno riconquistando autorevolezza e fiducia nel campo dell’informazione. E i social stanno finalmente facendo quello per cui sono stati creati, cioè collegare la gente. Una funzione altrettanto preziosa contro una malattia che si cura con l’isolamento. Non mi dispiace peraltro che gli “influencer” (nome, in verità, poco fortunato in questo momento) annaspino: quelli scarsi non sanno più che dire, quelli buoni usano i loro like per raccogliere fondi per la Sanità. Emergono d’altra parte nuovi “contro-influencer”: scienziati, ricercatori, medici che finalmente hanno imparato a parlare con la gente e che comunicano come mai era avvenuto. Bene. Come vedete, c’è sempre bisogno di (buoni) maestri.

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