les nouveaux réalistes questa non è un’antologia a cura di Francesco Forlani
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Ogni estate accade su Nazione Indiana, quando l’aria sa di sabbia o di polvere e si frequenta il sito con la stessa nonchalance con cui si entra nell’unico bar aperto d’agosto nel quartiere. Così ogni estate mi piace inventare dei giochi da tavolo e scrittura convincendo, chissà per quale miracolo e fortuna, gli avventori a partecipare; qui c’è il Monopoli, il Risiko, Trivial, un bel mazzo di carte napoletane. Nell’estate del 2014 ho chiesto a poeti, scrittori o semplici lettori di partecipare a una magnifica impresa di scrittura. Ho domandato loro di “offrire” a nazione Indiana un racconto che potesse non soltanto accompagnare i pomeriggi torridi dei nostri lettori, ma anche costituire il loro personalissimo contributo alla definizione di realtà. In un periodo che vede l’abuso della parola “realismo” nulla mi sembrava più avventato e allo stesso tempo avventuroso che cartografare attraverso dei racconti non tanto la realtà ma la percezione che ognuno potesse averne. Les nouveaux réalistes sarebbe stato il titolo provvisorio di questo progetto; provvisorio perché nella mia smisurata ambizione, ho pensato che come definitivo lo avremmo chiamato les néoréalisstes. Néoréalistes che con un artificio tipografico sarebbe diventato néOréalistes. In realtà mi piacerebbe che questo libro – non è un’antologia – venisse stampato in migliaia di copie e distribuito nei salons de coiffure. Le scritture, dal ritmo incalzante, sostanzialmente brevi, ricche di spunti per diversità di stili e temi adottati, potrebbero essere una felice parentesi letteraria nei tempi d’attesa tra una messa in piega e una tintura. Così il titolo potrebbe essere un 'clin d'œil' alla celebre casa francese produttrice di articoli per parrucchieri. Un bel libro per parrucchieri, ecco quello che mi piacerebbe diventasse. Lancio così un appello a quanti come me credano in questa folle impresa al punto di raggiungere il nostro obbiettivo. L’opera, pour l’instant, è possibile leggerla in questo formato, provvisorio, e digitale. In attesa di un passaggio all’atto editoriale in grado di migliorarla sia sul piano grafico che su quello squisitamente editoriale. Questa, lo ripeto, non è un’antologia, ma un coro di voci. Buona lettura. effeffe
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les nouveaux réalistes: Raul Montanari 5 settembre 2014- immagine di Philippe Schlienger
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Il filo ritrovato Raul Montanari
«Lasciami stare! Basta, basta!» «Dimmelo, Andrea. Dimmelo, e alla svelta.» «No!» «Dillo a me, Andrea. Altrimenti dovrai dirlo a loro.» Oh, sì. Certo che lo dirai, a loro. «Vuoi che chiami loro?» «Lasciami stare! Lasciami!…» Continua a muovere la testa, a scatti, disperatamente, per quanto glielo consentono le corde che lo legano alla sedia. Io giro dietro e gli passo un braccio intorno alla gola, tirandolo verso lo schienale. «Lasciami!» grida ancora lui, e la voce che echeggia sotto il soffitto basso di questa cella sotterranea è davvero la sua ‑ non è un sogno, questo, sta accadendo. Faccio forza con tutto il corpo per tirarlo indietro, premo contro la gola. Alla fine lui deve cedere, sempre urlando e dimenandosi, e allora gli infilo in testa il sacchetto di cellophane, lo stringo intorno al collo. Lui si dibatte, convulso, cercando il respiro che non viene più. Prima grida, poi ansima senz’aria e infine fa quel verso strano che fanno tutti quando vengono torturati in questo modo, perché la tortura eguaglia tutti gli uomini, spiana le differenze, ma io in questo istante ricordo che da lui l’ho già sentito tanti anni fa, quell’unica estate in cui eravamo riusciti a mettere insieme i soldi per andarcene su un’isola, il nostro sogno fin da quando eravamo bambini – ci eravamo fatti sbarcare là con due ragazze per dimenticarci del mondo che non ci aveva ancora separati, e una mattina lui era scivolato da un ponticello di legno, un vecchio imbarcadero in rovina, e, insomma, io non capisco neanche adesso come poté succedere ma Andrea rimase incastrato lì sotto e stava annegando, e quando riuscii a trovare il modo di tirargli fuori la testa, quasi strappandogli i capelli, anch’io mezzo soffocato dagli spruzzi d’acqua salata mentre le due ragazze strillavano e non facevano niente per aiutarmi, e io piangevo per la paura e l’angoscia, proprio in quel momento sentii quel suono uscirgli dalla bocca – anzi, non dalla bocca. Non è come se uscisse dalla bocca, ma direttamente dalla gola, è il rumore della gola che cerca aria e non la trova, uno strano suono orribilmente morbido, come uno schiocco ovattato, qualcosa che mi fa sempre pensare a un pezzo di carne umida che urta contro un altro. Io non sapevo che l’avrei risentito fatto da tanti altri, e non sapevo – no, mai avrei potuto pensarlo, questo – che l’avrei risentito da lui. Perciò adesso glielo tolgo subito, il sacchetto. Andrea rovescia indietro la testa, un grido strozzato inspirando aria in fretta, in fretta, proprio come quando lo avevo riportato sulla spiaggia piena di ciottoli che tagliavano le piante dei piedi. Gli afferro il mento, sempre da dietro, e lui si irrigidisce e geme, respirando come se volesse ingoiare tutta l’aria di questo mondo umido e giallastro, intorno a noi. Ha imparato ad avere paura delle mie mani, Andrea. Trema, quando lo tocco. È da due ore che trema così. Ora mi appoggio la testa di Andrea contro lo stomaco, e gli metto una mano sulla fronte sudata.
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(Questa è la posizione per il Dentista, ma di solito bisogna essere in due a tenere il prigioniero. Io non l’ho mai usato, quel sistema, perché il sangue mi fa schifo. Nonostante il mestiere che faccio, il sangue continua a farmi schifo. Il mio e quello degli altri. C’è da ridere, no? Cerco sempre di non far buttare sangue a nessuno. I miei sistemi sono il Diavolo Blu, il Sottomarino, l’Acrobata, tutto pur di vedere meno sangue possibile. Una volta mi sono accorto per caso che una ragazza soffriva da pazzi il solletico e l’ho fatta parlare così, una piccola commessa di negozio, magra magra, mi è quasi morta sotto le dita, ma il capitano e gli altri mi hanno dato un soprannome idiota e allora mi sono scocciato e non l’ho fatto più.) «Lasciami stare… basta…» riesce a dire Andrea, sempre tenendo il collo rigido ma senza cercare di strappare la testa dalle mie mani. «Non hai capito» mormoro. «Oh, Cristo, oh, Gesù, ti prego…» «Andrea, non hai capito. Non uscirai di qui prima di aver detto dov’è lui. Cacciatelo bene in testa, e finiscila di fare l’imbecille. Dimmelo. Dillo a me.» «Non posso.» «Sì che puoi. Io lo so che puoi.» «Non posso, non posso, non posso…» Andrea ricomincia a piangere. Sento la testa sussultare piano fra le mie mani e contro la pancia. Mi mordo le labbra. Cerco di non guardarlo. «Io lo so che puoi, e lo sanno anche loro» dico a bassa voce. «È meglio che lo dici a me. Non farmelo ripetere.» «Va’ all’inferno, bastardo maledetto» mugola lui, e poi alza la voce incrinata dal pianto. «Vuoi che lo dica a te perché così ti prenderai il merito, vero? Cosa ti daranno, una medaglia? Perché sarai stato tu a trovarlo? Cosa ti daranno, bastardo vigliacco? Dei soldi?» Rimango sorpreso per un attimo, poi la rabbia ha il sopravvento, la rabbia e insieme una pietà che mi disgusta di me stesso. Stacco il mio corpo dalla testa di Andrea e lo colpisco sull’orecchio con la mano leggermente piegata a coppa, più e più volte. Lui si muove e lancia delle grida acute, come quelle di un uccello ferito o infuriato, poi si piega in avanti più che può, e allora lo prendo per i capelli proprio come quel giorno e gli tiro indietro di nuovo la testa, e lo colpisco così forte che la sedia si rovescia. Anch’io grido senza capire quello che dico, gridiamo tutti e due mentre lo prendo a calci come se lui fosse la mia vita che un giorno è diventata un lungo incubo fatto di carne, schifosa e oscena carne di uomo, e occhi senza quiete, e urla, e uomini e donne come cani, sì, come cani che ringhiano e piangono mentre li uccidi e ti mordono la mano mentre li soccorri. Poi mi lascio cadere a terra, su quel pavimento lurido, la faccia vicinissima alla sua. Andrea ha tutti i lineamenti contratti – la bocca, la fronte, le guance gonfie e chiazzate di rosso e di viola. «Non lo sai!» strillo per l’ultima volta, con una voce che non è più la mia. «Non lo sai cosa ti faranno!» «Tanto mi ammazzerete lo stesso» riesce a dire lui, ma io vedo che gli ho fatto troppo male perché senta le proprie parole.
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Appoggio la tempia al pavimento e chiudo gli occhi. Nella stanza si fa silenzio. Socchiudo gli occhi per un attimo, poi torno ad abbassare le palpebre. Quante ore passate così, fianco a fianco sul letto dei miei ad ascoltare le cassette che ci registrava suo zio, il direttore della filarmonica, la gloria di quel paesino scalcinato. Bruckner, Wagner, Stravinskij, Debussy, tutto quel mondo nuovo che ci era venuto incontro e si era fatto conoscere, superando la noia degli inizi, la voglia di ritmo, di allegria, di ferocia, la voglia di un piacere più facile. Gli altri ragazzi non capivano, avevamo provato a far venire qualcuno ad ascoltare la musica con noi, almeno quelli che ci erano più simpatici, ma era stato inutile. Sempre più insieme, sempre più soli. Un paio di ragazze, sì, erano venute per la musica e per noi – ma naturalmente erano brutte. Le altre ascoltavano musica da ballo, e noi le disprezzavamo e intanto ci voltavamo sulla pancia e le sognavamo, premendo piano contro il materasso duro, le sognavamo ballare mentre Fafner e Fasolt costruivano il Valhalla fra immense mazze stamburanti e certe volte io mi mettevo a ridere, o era Andrea. Ridevamo piano, soffocavamo la risata nei cuscini, poi ci prendevamo a pugni mirando alle spalle e al petto, e avremmo dato qualsiasi cosa per averla in mezzo fra noi due, lì, ora, la più bella. Allungo una mano per toccargli la faccia, ma è davvero molto gonfia. La mano rimase sospesa. Lui non la vede. Scendo con la mano sulla spalla, e la appoggio piano. Lui ha un lieve fremito, fa per aprire gli occhi, ma non riesce. «Resta così» gli dico a bassa voce. «Respira a fondo. Mi senti? Cerca di respirare con la pancia.» Andrea prova a prendere un respiro profondo, lo fa tremando tutto come se questo gli costasse un grande sforzo, poi lascia uscire l’aria e una goccia di sangue gli cola da una narice, scende lungo la guancia e si ferma lì. Anche il patto di sangue avevamo fatto. Ma certo. Con quel temperino mezzo arrugginito, la lama che sembrava quella di una sega in miniatura, e io mi ero preso una battuta da mia madre. Sorrido, al ricordo. Ma forse è solo un ghigno, ormai. Non sono più capace di sorridere. Il patto di sangue! E dire che a me faceva senso già allora, il sangue. Poi la mamma che mi insegue per tutta la casa con una ciabatta di gomma in mano. Suo padre, lo stesso. Per una settimana ci avevano impedito di vederci, e noi ci mandavamo i bigliettini come due fidanzati. Era suo zio che li portava da una casa all’altra, i biglietti. Nessuno avrebbe mai sospettato di lui… figuriamoci, il Maestro! Stavolta rido davvero, un paio di sbuffi che sollevano polvere dal pavimento e gliela soffiano in faccia. Andrea arriccia il naso, il sangue riprende a colare. Prima gridava, adesso la polvere gli fa prudere il naso. Prima i calci, ora granelli di polvere, come una carezza. Mi sento svuotare. «Andrea» lo chiamo, sempre a bassa voce. Lui non risponde. È da due anni e mezzo che sto nella milizia. Due anni e mezzo fra un mese. Abbasso gli occhi, come se mi rendessi conto solo ora di quanto tempo è passato da quel primo giorno. I soldati ci disprezzano come io e Andrea disprezzavamo quelli che ascoltavano la musica da ballo, ma siamo noi a fare il lavoro sporco, come questo. Due anni e mezzo. (Sì, mi sento svuotare. Le mie braccia sono vuote.) Da molto, molto più tempo non lo vedevo, Andrea. Forse da cinque anni. Avevamo litigato per una ragazza… proprio lei. La più bella. Ovvio, che finisse così.
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Andrea apre gli occhi di colpo, quasi spaventandomi. Sono molto rossi. Non piange più, mi guarda e basta. La faccia è deformata dagli schiaffi che gli ho dato, perché ho picchiato più forte a destra. Non so se sia il sangue che gli esce dal naso e si è di nuovo fermato, o la guancia tumefatta, o noi due sdraiati così per terra come due cretini, come se lui non stesse per venire torturato a morte, perché io lo conosco e so che non parlerà – è sempre stato un testone maledetto, anche con Anna se l’era voluta lui, si era impuntato su una questione di principio, stupido, idiota, stupido amico, e dire che lei amava te, ma improvvisamente era stata come una grande ondata di rancore, fra noi due, di odio accumulato per anni e anni, di cose non dette, di torti lasciati passare invece di affrontarli subito, lo vedo ancora uscire dalla stanza e chiudere la porta senza sbatterla, Anna lo chiama e io la prendo per un braccio e la fermo, poi il primo giorno, il secondo, e quasi di colpo è passato un anno: da un anno non ci vediamo e non ci sentiamo, allora io provo a telefonargli e lui è partito, sua madre taglia corto, deve avercela con me – e poi gli anni sono due, tre, quattro, tutto cambia intorno a me, lei non c’è più, ormai sono amico solo della paura, la mia e quella degli altri, e ieri portano qui tre prigionieri incappucciati e prima ancora che gli tolgano dalla testa quello straccio ho già capito che è lui, forse il corpo, forse le mani, so già cosa vedrò e giuro, lo giuro su Dio, so già cosa farò, chiederò di interrogarlo io, perché non voglio che siano loro a toccarlo. Ma io adesso non lo toccherò più. No, non so se sia il sangue o la guancia gonfia o i ricordi o noi due sdraiati, oppure tutto quello che ho fatto e visto da quando sono qui, ma io non ti toccherò più. Andrea. Non so cosa succederà, perché loro verranno presto. Una calma che non conosco mi riempie a poco a poco. Mi fa quasi paura. Sento già aprirsi una porta, in fondo al corridoio. Guardo l’orologio. Arrivano, Andrea. Ha richiuso gli occhi. «Arrivano, Andrea.» Ascoltami, idiota! Stanno arrivando! «Andrea!» Muove le labbra come se avesse sete. Ma certo che ha sete. Tutti chiedono da bere, dopo un po’. Un giorno una donna ne ha morsa un’altra sul seno, era il prezzo per avere un bicchiere d’acqua, continuava a morderla e il capitano rideva più di me e più di tutti. Il capitano sta arrivando, ora. La riconoscerei dovunque, questa voce. «Andrea! Mi senti?» «Va’… all’inferno…» Rimango ancora un attimo a guardarlo, mentre i passi risuonano ormai appena fuori dalla porta. Andrea, Andrea. Ce l’ho davanti agli occhi, tutto, quello che ti faranno. Poi smetto di pensare. Smetto di pensare, all’improvviso. La calma è totale, adesso, e la mia mente non c’è più. Niente pensieri, e niente ricordi. Bussano forte alla porta. Mi alzo. La porta è chiusa a chiave dall’interno. Apro.
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«Allora?» Sono venuti tutti e tre, il capitano e i suoi due maiali tirapiedi. Stranamente grassi, stranamente simili. Li guardo come se li vedessi per la prima volta. Il capitano ha una bella faccia, ma è davvero molto grasso. Ora abbassa lo sguardo su Andrea, che ha aperto gli occhi. «Allora, questo povero scemo?» Il capitano si volta verso di me. Io non rispondo. Lui ghigna. «Niente? E sì che ti sei dato da fare. Mmh?» «Magari non abbastanza» dice uno dei maiali. L’altro ride. Chiudo la porta e ci appoggio la schiena. I due maiali sollevano Andrea, lo mettono dritto. «Va’ a mangiare» dice il capitano, senza nemmeno guardarmi. «Ci pensiamo noi, qui.» Si volta verso uno dei due e accenna alla rete metallica, nell’angolo. «Là» dice. «Lo facciamo ballare un po’. Eh? Ti piace ballare? Balli con le ragazzine, tu?» La faccia di Andrea rimbalza indietro, colpita dal pugno del capitano. I due maiali cominciano a slegarlo dalla sedia. Quando si piegano, il grasso trabocca dai loro fianchi e gonfia le camicie. Andrea tiene gli occhi chiusi. «Di’, sveglia!» alza la voce il capitano, poi scende con la mano e fa qualcosa. Andrea grida. Ormai è quasi slegato. Ecco, ora è libero. I due maiali lo sollevano di peso per portarlo sulla rete. Il capitano si volta e mi guarda. «Va’ a mangiare, ti ho detto» ripete, e si ravvia i capelli. Il primo colpo lo prende alla pancia, e l’esplosione è assordante. I maiali lasciano cadere Andrea mentre il secondo colpo apre un buco nella fronte del capitano, che crolla in avanti. Ho un sibilo tremendo nelle orecchie. Il maiale più vicino cerca di estrarre la pistola, ma io ho fatto due passi avanti e lo prendo in pieno alla gola, poi subito l’altro, due colpi, uno sulla mammella destra e uno sotto la sinistra. L’automatica sobbalza nella mia mano. Il maiale allarga le braccia e cade sul pavimento. La sua testa urta le gambe del capitano. Ora c’è fumo, qui dentro, e un odore diverso. Andrea ha aperto gli occhi fin dal primo colpo, e mi guarda. Io forse sorrido, non lo so. Il capitano e i due maiali sono carne morta sul pavimento. Andrea dice qualcosa che non sento. Mi porto la pistola alla bocca, lecco il metallo, annuso la polvere da sparo. Scuoto la testa una, due volte. Devo svegliarmi. Devo rimettermi a pensare, e in fretta. Perché credo proprio che adesso bisognerà trovare un modo per uscire tutti e due da qui.
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les nouveaux réalistes: Barbara Gozzi 2 settembre 2014
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La prima persona Barbara Gozzi
Erano anni che non usava la prima persona e non le viene granché bene. L’ultima volta era il 1997 anche se poi aveva dovuto riprendere tutto nove anni dopo quando era sbucato l’editore, ma non le va di ricordate per filo e per segno di quando aveva creduto davvero che un suo libro potesse essere scovato in libreria. La prima persona – comunque – non è adatta a chi vuole scrivere di cose importanti, negli ultimi quindici anni lo hanno detto in tanti, lei l’ha solo lasciato entrare nella sua testa. E ora che deve scrivere in prima persona non sa bene come muoversi, dove mettersi, come impugnare la penna, come sistemare il bloc-notes sulle ginocchia. Con cosa iniziare. Perché può scrivere solo in prima persona, a un morto si scrive in prima persona, la si potrebbe chiamare lettera. A lei non sembra di voler scrivere una lettera, comunque.
Quando è morto il cielo era bianco, è stato bianco per alcuni giorni, e lei ha creduto che sarebbe rimasta immobilizzata a fissarlo per sempre. Naturalmente non è andata così altrimenti non sarebbe in riva al mare, ora. Quando è partita stavano crescendo le prime piante sul balcone, in particolare un rampicante s’era messo in testa di colonizzare tutta la ringhiera e spargeva campanelle d’un viola scuro brillante, qualcuna tendeva al rosa e bordeaux. Ogni tanto se lo chiede ancora, come se la cavano le piante sul balcone, non abbastanza da fare una telefonata, comunque.
La prima persona non la aiuta per niente. L’aria è fresca, il mare davanti a lei sonnecchia vagamente nervoso, e scrivere non le viene proprio. La testa è rimasta intrappolata nei programmi per il resto della giornata, oggi al bar ha il turno che inizia alle venti e ci sarà un continuo andirivieni ne è sicura, turisti in vacanza, i soliti gruppi di zona in cerca di qualcos’altro di nuovo da ieri, l’altro ieri, e tutte le precedenti notti di quest’estate che procede a singhiozzi. Daniel è il proprietario del bar ed è sempre nervoso, prima di assumerla sua moglie aveva avuto un ictus, da allora si assenta spesso, e lui detesta assentarsi perché al bar tiene molto, l’ha ereditato, non serve aggiungere altro. Stasera Daniel ci sarà perché l’aiuto cuoco s’è beccato l’ennesimo virus intestinale e non potrà tornare prima di una settimana. Le imprecazioni di Daniel sono sonorità che alle sue orecchie italiane arrivano sottoforma di musica, fanno torciglioni e s’incurvano lungo il canale uditivo.
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La morte è sorprendente, ma il silenzio è destabilizzante. Credeva di conoscerlo, quasi le va di traverso un grumo di saliva. Non sapeva un bel niente. Il più delle volte non sa granché delle cose poco importanti della prima persona. Dopo la sua morte s’è messa a correre. Ha corso in ogni azione che ha fatto, e se non c’era niente da fare se l’inventava o trovava nuovi lavori, avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di non fermarsi. Il silenzio – ovunque fosse – era bloccato tra una contrazione muscolare e la necessaria reidratazione periodica via cannula. Alla fine s’è fermata, comunque. Il lavoro non bastava più, le hanno mandato i solleciti dei solleciti per i mancati pagamenti delle bollette e le è venuta una bizzarra reazione che a ogni nuova chiamata che riceveva il cuore prendeva a batterle direttamente in gola, martellava sulle corde vocali, e non le riusciva di articolare suoni scomponibili in parole di senso compiuto. Niente, a parte sibili e versi che potevano anche sembrare imprecazioni o pernacchie.
La faccenda del lavoro non era nuova anche prima che lui morisse, comunque. Che nemmeno è una faccenda, in effetti. Pochi soldi ovunque, non serve aggiungere altro.
Alla testa arriva direttamente in prima visione l’ultima volta che si sono visti. L’abbraccio. L’odore di colonia. Un vago strofinio tra i tessuti dei vestiti. Sul volto le si forma una smorfia istantanea. Da ragazza era genuinamente romantica, ora le danno fastidio un sacco di cose, compresi i pensieri come quello. Compreso l’esser toccata. E non ci si può abbracciare senza toccarsi. Ma all’epoca era tutto lontano, inimmaginabile, comunque. Che lui morisse era inimmaginabile. Non prima di lei, comunque.
Dov’è ora gli sarebbe piaciuto, è uno di quei posti che assembla ingredienti di cui avevano anche parlato, anni prima, le tipiche immaginazioni dei luoghi da vistare che poi evaporano ogni giorno un po’. Se socchiude gli occhi sta proprio lì, in piedi davanti a lei a oscurarle il sole prossimo a congedarsi. Si sta lamentando, non basta il vento a portarsi via il borbottare continuo che sempre aveva. La sabbia dentro le scarpe, l’aria sul collo, se si siede il culo per terra gli si raffredda, i ragazzini laggiù finiranno per centrarlo col pallone, s’annoia, gli servono un paio di caffè e in questa stramaledetta spiaggia i locali stanno tutti sul lungomare, bisogna rifare a piedi tutto il tragitto tra la sabbia, è stanco, o il caffè o se ne va, non gli riesce di tenere aperti gli occhi, sta salendo un certo umido è impossibile che lo senta solo lui. Infatti lei ha i piedi freddi. Le ciabatte se ne stanno scomposte poco distante. Se l’è sfilate di fretta prima di sedersi col bloc-notes in mano, l’acqua del mare le sfiora appena le dita dei piedi quando le onde raggiungono il bagnasciuga. Niente telo, se lo dimentica sempre (è diverso vivere vicino al mare, quando ci andava in vacanza aveva una sacca di quelle enormi, di plastica colorata, con tutto l’occorrente per la spiaggia, viverci invece azzera ogni programma, non importa più cosa ricorda di portarsi uscendo di casa). Fa più freddo, hai ragione. Se ti muovi rientriamo. Ancora un minuto.
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Non le viene in mente l’incipit. Non scrive da prima che lui iniziasse la vita medica. Ha avuto un anno intero di vita medica, lui, lei no, ha avuto qualcos’altro che non le riesce di qualificare. Ha aspettato, ogni tanto ha chiesto, per lo più comunque ha aspettato. Nel frattempo son tornati i figli, gli amici di quando lavorava, perfino l’amante è tornata, e quell’altra che per un po’ ci aveva creduto. Poi è morto. E son continuati a tornare in tanti, su di lui. L’orizzonte ora gioca con alcune tonalità di blu, il cielo presto si venerà di altri colori. Ha lasciato tutti gli oggetti nella casa col balcone, in Italia. I libri. Le fotografie. Il quadro con la dedica sul retro. I regali. Perfino le mail e i messaggi, sono rimasti in Italia, dentro il pc e il cellulare. Tutto è rimasto dov’era stato riposto quando morì. Quando iniziò il silenzio. Quando ancora ignorava che la prima persona ha una vita propria, che rivendica, e le impedisce di barare o tentare scorciatoie. Non può comunicare con lui senza parlare a lui. Il bloc-notes è pieno di scarabocchi, parole storte e cancellate, simboli e immagini disegnate senza un perché, alcune forme si son fatte largo mentre fissava il mare. Non può parlargli senza ricordare che è morto. Non può ricordarsi che è morto senza assistere al frastuono di qualcosa che le scoppia dentro.
Dovevi lasciarmi prima, anziché aspettare di saperlo. Prima, molto prima.
Quando è partita non l’ha detto praticamente a nessuno. Una bella storia da raccontare, lasciare tutto, paese natale compreso, e non avvisare nessuno. Proprio una bella storia, se solo la prima persona le desse tregua. Ha le dita rattrappite per il freddo. Il turno al bar inizierà fra meno di un’ora, le resta il tempo per una doccia e un trucco leggero. Abbassa lo sguardo sulle ultime frasi scritte. Cancella quasi tutto con movimenti curvi della penna, lavora di polso. Osserva le nuvole fresche di inchiostro poi le uniche parole rimaste. molto prima. È arrabbiata. Son parole senza senso, le sue. Vuote. Inutili. Le legge e si sente ridicola, ridicola comunque. Raggiungere la via del lungomare le sollecita i polpacci, le ciabatte scivolano sulla sabbia dura, il ragazzino con la palla la saluta, ha un ciuffo gonfio e scuro sulla fronte, il suo amico sta parlando al cellulare. C’è una melodia nell’aria, forse suonano già lungo la strada, di solito aspettano l’imbrunire. Alcune pagine del bloc-notes finiscono nel grosso cestino grigio lucido al limite della spiaggia, accanto ai resti di alcune coppette di plastica fosforescenti, pezzi di tovaglioli di carta e noccioli di frutta. Le parole che cerca non esistono, non serve aggiungere altro. petit-nuage
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les nouveaux réalistes: Simone Ghelli 11 settembre 2014
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Più sopra il cielo è invisibile Simone Ghelli Uno scoppio rotondo, pieno d’acqua come la pancia d’una donna gravida, la sveglia per l’ennesima volta. Proprio sopra la sua testa. Tuuum!, e poi una vibrazione sorda da basso continuo. Livia cammina sul pavimento freddo, le dita dei piedi contratte, eppure sensibili come antenne alla ricerca delle ciabatte disperse chissà dove. Si alza per via di quell’impulso ad andare a controllare se il mondo esiste ancora. Il cielo, soprattutto. Ha paura che il cielo, sotto quelle cannonate insistenti ormai da giorni, sia in procinto d’incrinarsi e riversarsi giù tutto insieme. Scosta le tende della finestra e guarda fuori, affascinata come sempre dalla luce tinta d’arancione che rimbalza sulla facciata del palazzo di fronte: una sorta di scheletro grigio, rimasto lì ad ammuffire dopo che i vigili hanno messo i sigilli a causa d’irregolarità riscontrate nei permessi. Più sopra il cielo è invisibile, o forse la città è già sommersa e nessuno se n’è ancora accorto. Sono anni che la televisione parla dell’innalzamento delle maree e dell’erosione delle spiagge. Anziché sprofondare lentamente, secondo Livia finiranno sommersi da questo acquazzone che sembra non voler finire più, ricoperti da una mano di vernice blu, liquida e vischiosa. Scrosci d’acqua improvvisi, scossi da folate di vento, frustano le pareti del suo piccolo monolocale. Dal rumore capisce che la pioggia si tramuta a tratti in chicchi di grandine che picchiettano sul tetto. Le sembra di vivere in quell’incubo ricorrente che la tormenta da anni, dove la tempesta travolge e trascina via tutto, lasciandola incolume insieme ad alcuni cari, con i quali ascende al cielo in una spirale d’acqua. Quando le capita di raccontare quella storia, le persone le dicono che l’acqua esprime evidentemente il bisogno di un cambiamento, ma a lei sembra piuttosto di essere in balia della ribellione del proprio inconscio che la invita a liberarsi dei beni materiali. O forse non c’è proprio nessuna metafora dietro a tutto questo, se non la raffigurazione delle sua paura di perdere quel piccolo monolocale che ha sempre desiderato. Livia passa nel bagno, dal quale proviene l’inquietante gorgoglio dell’aria che entra nei tubi di scarico. Le gocce d’acqua battono sull’unica finestrella di alluminio e rimbalzano via con uno strano rumore metallico. Alza la tavoletta e si accovaccia sul water, sommando un rivolo di urina a tutto il liquido che il cielo sta riversando sulla città. Le sembra di stare su una barca, lassù all’ultimo piano, sulla cresta di un’onda. Sullo schermo della televisione, appena un metro più in là, l’orologio del televideo segna le 3:49. L’attenzione di Livia viene rapita da una curiosa notizia riportata tra le news: «L’albero di Natale a Piazza Venezia abbattuto da un fulmine». Sotto al titolo viene precisato che il tronco dell’abete addobbato a festa si è spaccato in due parti uguali, per fortuna non si registrano feriti. Livia fa zapping per cercare qualche immagine dell’accaduto, ma sembra che nessuno abbia avuto interesse a riprendere la scena; eppure sente che quello deve essere il segnale d’inizio, il monito lanciato dal cielo. Intanto, fuori la pioggia si è definitivamente trasformata in un torrente di grandine che sta ricoprendo con un enorme manto bianco la strada e le auto parcheggiate. Picchia duro sul tetto e contro i vetri delle finestre, copre il volume della televisione, dove alcuni giornalisti stanno dibattendo in una replica notturna sulla plausibilità di certi attacchi sferrati al Presidente del Consiglio. I suoi difensori si appellano al sacro diritto alla privacy e avanzano giudizi morali su quelli che si permettono di violare quella sfera privata per gettare fango sugli avversari politici. Gli accusatori sostengono invece che la moralità di un uomo di stato debba dimostrarsi integerrima in pubblico così come nel privato. Livia pensa alla sua di tutela, e a quella delle decine di persone che ogni giorno viola digitando una serie di numeri che non significano niente, se non il sogno di vendere e fatturare che appartiene a qualcun
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altro. Lei non sa neanche il nome di chi ci guadagna, conosce soltanto il suo e quello di chi condivide quel supplizio di voci. A volte persino si confonde, dice buongiorno di pomeriggio o addirittura buonasera di mattina. Dall’altra parte ridono. Capita, gli dicono. È la vita di oggi che è troppo frenetica. Loro vanno di fretta, e lei ci sta per trattenerli ancora un minuto. Il lavoro di Livia non è calcolabile in base al tempo, anche se ha il dovere di dettare il ritmo, di provare a tenere le persone sull’attenti. Entra nelle loro case, ignara delle attività nelle quali le sta sorprendendo, per ricordar loro che al giorno d’oggi non ci è concessa nessuna rinuncia. Il suo compito è quello d’instillare in loro il dubbio che via sia ancora qualche necessità da soddisfare. A volte un po’ se ne vergogna e le viene da pensare che potrebbe esserci uno dei suoi genitori tra loro. Oggi vorrebbe sembrare più a suo agio, quasi disinvolta, come molte colleghe che entrano salutando i colleghi dell’open space con larghi sorrisi e ampi movimenti, senza incespicare nelle buone intenzioni al primo passo e rifugiarsi poi nella sua postazione incastrata in un angolo, dove il tempo non passa mai, oppure passa troppo veloce. Spegne il televisore e con tre passi è di nuovo nel letto, sotto il bozzolo di lana della coperta. Il ticchettio delle gocce sul tetto sembra quello di una lancetta impazzita che corre dietro al tempo. Livia pensa che deve dormire, che deve assolutamente ritrovare il sonno, ed è un pensiero che si avvita su se stesso, che la porta sulla soglia per poi sbatterla subito fuori. Ogni volta il cuore ha un tuffo, come perdere il fiato e tornare a galla. Mancano solo tre ore e deve respirare piano, prendere aria e tenerla nei polmoni come le hanno insegnato. Le capita anche a lavoro, una specie di panico che le secca il naso e la gola. Le hanno spiegato che deve fare un gran respiro, che deve ingoiare l’aria con la bocca e tenerla a lungo. Di notte però non ha nessuno che glielo dica, soltanto lei con il panico che le mostra quant’è fragile. Si sente di vetro, si sente che potrebbe rompersi da un momento all’altro e la sua testa che non si scollega, che assiste impotente al precipitare di tutti quei dati estratti dai computer e raccolti nelle liste a uso e consumo degli uffici marketing aziendali. Va avanti per minuti, forse per ore, ma quello è il segno tangibile che la comunicazione si sta interrompendo. Tututututututu. Segnale occupato. La radiosveglia è sempre quella, sempre la stessa dai tempi dell’università. È l’unica cosa che la riporti indietro, dalla prima notte che abitò sotto lenzuola umide e fredde; che ha il potere di strapparla al sonno e di gettarla nella materia dura del giorno. Oggetto dalla funzione detestabile, che uccide ogni immaginazione. Questa è Livia, 37 anni e un profilo da operatrice telefonica, se l’esperienza significa ancora qualcosa.
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les nouveaux réalistes: Leonardo Staglianò 9 settembre 2014
Maggio Leonardo Staglianò
Lucia è morta all’età di ventun anni. Era maggio. Una mattina, mentre si truccava, è svenuta. Non è caduta a terra, ma su un divano. Si trovava in salotto, davanti a uno specchio. È rimasta lì mezz’ora, fino a quando non si è svegliata Elena, la sua coinquilina. Elena ha chiamato subito l’ambulanza, e solo più tardi, dall’atrio dell’ospedale, ha avvisato i genitori di Lucia. Non ha avuto il coraggio di informarli che era entrata in coma: ha detto solo che era stata ricoverata. A volte le persone in coma piangono. È impossibile valutare se ne siano coscienti. Potrebbe essere un modo di chiedere aiuto, o un riflesso incondizionato. Forse è solo la naturale reazione a un brutto sogno. Lucia è rimasta in coma tre giorni, e una notte ha pianto. Le lacrime che bagnavano la guancia destra lasciavano un segno scuro; prima di perdere i sensi si stava mettendo il mascara, ma non aveva fatto in tempo ad applicarlo su entrambi gli occhi. Il quarto giorno, alle otto e trenta del mattino, ha smesso di respirare. I medici non sono stati in grado di dare un nome al suo male: hanno fatto solo delle ipotesi. Forse un virus, hanno detto; qualcosa di simile a una meningite, ha aggiunto uno di loro. La sorella di Lucia, all’epoca dei fatti, aveva sedici anni. Frequentava l’Istituto d’Arte, leggeva poesie, ed era contenta che fosse primavera perché poteva andare in giro in motorino. Aveva iniziato da poco ad ascoltare Bob Marley, e anche se non voleva ammetterlo questa novità aveva a che fare con un ragazzo conosciuto a una festa. Si chiamava Ettore, aveva i capelli rasta e frequentava l’ultimo anno del Liceo Scientifico. La sorella di Lucia usciva da scuola all’una e mezza e subito dopo passava in motorino davanti al Liceo Scientifico nella speranza di vedere Ettore. Il più delle volte ci riusciva. Un giovedì era arrivata all’una e quaranta e tra i pochi ragazzi rimasti lui non c’era; sperando di incontrarlo per strada aveva fatto un giro più lungo del solito, ma le era andata male. Quella mattina la sorella di Lucia era tornata a casa dopo le due e non aveva trovato né la madre né il padre; nell’appartamento c’era solo la zia, una donna magra e pallida.
Sono passati cinque anni; è di nuovo maggio, e la sorella di Lucia è la mia ragazza. Il suo nome è Cristina. Dieci giorni fa è stata celebrata la messa per l’anniversario della morte di Lucia. Mi sono seduto sulla prima panca, accanto a Cristina e ai suoi genitori, e come gli anni precedenti mi sono sentito a disagio.
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Le persone che passavano a salutarli porgevano la mano anche a me, eppure io Lucia non l’ho mai conosciuta. È stata una cerimonia sobria: nessuno ha pianto, neanche Cristina. Ogni tanto mi cercava con lo sguardo, oppure mi stringeva la mano, come ad assicurarsi che i suoi occhi non l’avessero tradita, che io fossi davvero lì. Usciti dalla chiesa siamo saliti in macchina. Guidava lei. Ho capito solo a metà strada che stavamo andando al mare. Quando siamo arrivati abbiamo abbassato i finestrini e abbiamo ascoltato le onde. È una cosa che facciamo d’inverno, quando c’è troppo vento per sdraiarsi in spiaggia: restiamo seduti in macchina e ci concentriamo sul rumore del mare. Spesso chiudiamo gli occhi. Non so se sia lo stesso per Cristina, ma a me, dopo un po’, sembra che l’acqua si avvicini. Se ascolto le onde senza guardarle ho l’impressione che siano sempre più alte, e mi preparo a essere travolto. A volte immagino un caldo abbraccio; altre, un urto che mi toglie il fiato. Quel giorno faceva caldo ma Cristina non si è mossa dal sedile, e io non ho fatto domande. Siamo rimasti immobili, in silenzio, a fissare il mare. Una nave nera, una petroliera forse, ci è passata davanti. Lentamente. Infine è scomparsa all’orizzonte. Cristina mi ha messo la mano dietro la testa, mi ha spinto verso di lei e mi ha baciato; una, due, tre volte. Mi ha morso il labbro. Voleva fare l’amore. Il ricordo di Lucia suscita in Cristina due reazioni: a volte si chiude in se stessa; altre diventa frenetica, come se si sentisse in dovere di vivere la vita all’ennesima potenza: quello che le spetta unito a tutto ciò che la sorella non ha avuto. Parla, molto e molto in fretta, e si muove: se siamo seduti si alza; se stiamo camminando, accelera; se siamo stesi sul letto, inizia a spogliarmi. È strano detto da un ragazzo, da un maschio, ma ci sono stati momenti in cui mi sono sentito un burattino nelle sue mani. Come dieci giorni fa, in macchina. Ha ficcato le unghie nella mia schiena. Mi ha morso sul collo. Ho anche gridato. Per fortuna non c’era nessuno intorno. Siamo rimasti abbracciati lì, sul sedile, seminudi. Cristina rivolta verso dietro, io in avanti. Ho visto il sole scomparire nell’acqua. Un’immersione lenta, e dolce.
Ieri Cristina mi ha telefonato piangendo. Era tardi, stavo studiando, e leggendo il suo numero sul cellulare mi sono sentito in colpa: avevo promesso di darle la buonanotte, sapevo che aspettava la mia chiamata per addormentarsi. Ho risposto, ma non capivo quello che diceva: parlava a bassa voce, singhiozzava, e tirava su col naso. Ho chiesto cos’era successo, e lei ha iniziato a ripetere il mio nome: Ettore, Ettore… Le ho detto di aspettarmi a casa. Mi sono infilato le scarpe e sono uscito. Ho guidato male, grattando le marce e tagliando le curve, ma le strade erano vuote. I semafori erano tutti gialli e lampeggianti: solo uno era rosso, e l’ho rispettato. Quando sono arrivato sotto casa sua erano le due. Cristina vive ancora con i genitori, e svegliarli era l’ultima cosa che avrebbe voluto: non avrebbe sopportato di farsi vedere da loro in lacrime. Ha un orgoglio tutto suo quella ragazza: con me si sfoga e si dispera; con loro è tosta, impeccabile: piange solo in chiesa, durante la messa in memoria della sorella, e da quest’anno neanche lì. Sapevo che prima di farmi entrare si sarebbe assicurata che i genitori stessero dormendo, per cui ho spento l’auto, le ho mandato un messaggio e ho aspettato. Ho pensato che la cosa strana, in tutta questa faccenda, è che il padre e la madre di Cristina sono persone comprensive; se sapessero delle sue crisi, l’aiuterebbero. Ma lei non vuole che sappiano. La sua stanza è accanto alla loro, eppure ieri notte ha cercato me, e dopo avermi fatto aspettare in macchina per un quarto d’ora ha voluto che varcassi furtivamente la soglia della loro casa. Era scalza, e anche se non me lo aveva chiesto mi sono tolto le scarpe; non so perché l’ho fatto: le mie scarpe non fanno rumore. L’ho seguita su per le scale, fino alla sua camera. Ci siamo seduti sul tappeto e mi ha raccontato della mattina in cui Lucia è entrata in coma. La sua era una cronaca più che un racconto: parlava di se stessa
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in terza persona, come se si trattasse di qualcun altro. Era la prima volta che sentivo quella storia. Mentre parlava fissava il vuoto: quando ha terminato non si è voltata a guardarmi, e neanche quando mi sono alzato e me ne sono andato. Mi sono accorto solo in macchina di aver dimenticato le scarpe a casa sua. Mentre guidavo, scalzo, per la città, si è messo a piovere, e mi è venuta in mente quella volta che ho accompagnato Cristina a una lezione di cinema. Abbiamo visto “Blade Runner”: macchine volanti, luci al neon, replicanti che scoprono di avere sentimenti e uomini dal cuore di ghiaccio. Al termine della proiezione il professore aveva chiesto come mai pioveva così spesso in quella pellicola. Creare la pioggia sul set non è impossibile, ma comporta un gran dispendio di tempo ed energie: se un personaggio esce di casa e si bagna nel percorso fino all’auto, ogni volta che si rigira la scena saranno necessari abiti di ricambio asciutti. Perché complicarsi la vita? Deve esserci un motivo per avere tanta acqua in un film, aveva detto. Tutti tacevano, e così alla fine era stato lo stesso professore a dare la risposta. Quello era un mondo corrotto dal male; la pioggia lavava lo sporco visibile; le lacrime quello invisibile. Nell’ultima sequenza c’era finalmente il sole, e i protagonisti – un uomo e una replicante – se ne andavano via in auto, verso la felicità. Cristina, che per tutto il tempo aveva fissato lo schermo vuoto, aveva rotto il silenzio per fare una domanda: e le lacrime dei replicanti, lo cancellavano il male? Articoli archiviati
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les nouveaux réalistes: Angelo de Matteis 6 settembre 2014
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Il documento Angelo De Matteis
Prima di arrivare al punto, signori, m’è d’obbligo premettere alcune circostanze così da far comprendere appieno quanto ho scritto in conclusione del presente documento: i fatti prima di tutto, altrimenti si rischia di essere fraintesi. L’edificio è a forma di staffa di cavallo, ma non è una staffa di cavallo, ha gli spigoli; quindi dire “a staffa di cavallo” è una semplificazione ed in un mondo che soffre di semplificazioni una in più o in meno non farà poi tanto male. E questo è un fatto, mi pare il primo. Nell’edificio che vi ho descritto per mezzo di una semplificazione, ci sono due piani ed io sono al secondo. Dalla mia finestra si vede il giardino verde ed ampio e si sente tutto quello che la gente si racconta all’aria aperta. Se volete che qualcosa non si sappia, non dovete mai dirla ai quattro venti. Ed anche questo, in un certo senso, è un fatto. Proprio l’altro giorno, mi sono messo vicino alla finestra e sono venuto a sapere che, in certi paesi, è buona usanza piantare un cipresso ogni volta che muore una persona. Ho fatto una mano di conti. Nel nostro giardino ci sono, ben visibili dalla mia finestra, dieci, al massimo quindici cipressi se mi sono sbagliato, e le cose non tornano se penso a quante persone sono morte qua dentro, sia nel senso che non sono più viventi (figuriamoci se possono essere vive!), sia perché stanno sempre sedute in un posto e si cagano e si pisciano addosso senza accorgersi che si stanno cagando e pisciando addosso. Quelli, secondo me, anche loro sono dei morti, ma forse non hanno diritto ad un cipresso. Mi sono chiesto se, nel caso in cui si usi il catetere si appartenga alla categoria che merita un cipresso, ma non sono riuscito a darmi una risposta. Comunque ho concluso che La Buona Usanza Dei Cipressi, perché ho deciso di chiamarla così, qui non usa. E questo è un altro fatto, se non sbaglio il terzo di questo documento. La morte, la natura, le semplificazioni; le cose belle e quelle brutte, quelle utili e quelle inutili. Dovrebbe essere proibito non poterne parlare in qualunque momento solo perché qualcuno ha deciso che forma e funzione, contenente e contenuto devono essere efficaci, solo perché le perdite di tempo sono considerate perdite di tempo. La chiave di tutto, invece, potrebbe stare proprio nelle perdite di tempo altrimenti, e per esempio, perché se ci si mette a fissare le fiamme di un fuoco si rimane impalati e incantati senza capirne il perché? Perché è un’attività, come si dice, atavica. Cosa pensiamo facesse l’uomo primitivo, perché è chiaro che lo faceva anche lui, mentre guardava le fiamme del fuoco seduto in mezzo alla savana o in qualunque altra parte del mondo – che per lui non era ancora né piatto né tondo perché doveva ancora avere una coscienza, diventare intelligente e tutto il resto? Secondo me, e secondo gente che queste cose le ha studiate, sviluppava il pensiero, imparava a pensare e ad immaginare. Stava perdendo tempo. E questo è un altro fatto ancora, forse il più importante. Ma se state pensando che è giunto il momento di capire cos’è il posto che vi ho descritto per mezzo di una semplificazione ed il perché mi trovo qui e, soprattutto, perché vi sto scrivendo questo documento, allo stato mi trovate d’accordo almeno sulla prima parte della questione: mi trovo in un centro di sanità mentale, una clinica, e sono qui perché ad un certo punto la mia testa o memoria o facoltà di ragionamento ha iniziato a girare a vuoto. Avete presente i trapezisti? Ecco, fate conto che ognuno di noi ha nella testa dei trapezisti, i trapezisti della mente, almeno due per coppia e più coppie di trapezisti si hanno meglio è. Ogni trapezista esegue il suo numero, oscilla sul suo attrezzo un paio di volte per prendere velocità e poi salta sull’altro trapezio che può essere vuoto, ed allora glielo ha lanciato l’altro
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della coppia, oppure è già occupato, ed allora dovrà aggrapparsi alle braccia dell’altro trapezista che, normalmente, è a testa in giù e si tiene appeso con le gambe. Ebbene, a me succede spesso che il primo trapezista resti a dondolarsi, avanti ed indietro, avanti ed indietro, a vuoto e sospeso, senza riuscire a passare sull’altro trapezio perché gli manca il compagno. E quando mi si incaglia la mente con questa Sindrome Del Trapezista – che poi non è corretto dire che mi si incaglia la mente, ciò che avviene, come ho già detto, è il suo girare a vuoto senza progredire, senza chiudere il numero, senza chiudere il ragionamento – inizio a mordermi la mano destra, la stringo a pugno e affondo i miei incisivi sulla falange dell’indice, ci alito sopra, certe volte chiudo anche gli occhi per cercarlo meglio, per vedere che fine ha fatto quel renitente al ragionamento dell’altro trapezista. Quando sono fortunato lo trovo, lo richiamo all’ordine, la coppia riesce a chiudere il numero e smetto di mordermi la mano; ma il più delle volte, soprattutto ultimamente, è in sciopero oppure si nasconde o è scappato o non lo so, non lo trovo e ormai è da qualche tempo che l’altro trapezista non si fa più vedere, ecco perché è ormai da qualche tempo che mi mordo fisso la mano stretta a pugno. In questo posto nessuno si morde la mano bene come me. L’altro giorno ho chiesto alla mia infermiera particolare, la signorina Tildas, che è sempre avvolta nell’uniforme bianca con bordini blu, ha i capelli di grano lindo e la pelle d’avena – aggiungere una esse finale al nome, o ai nomi, vuol dire conferire loro una gincana di senso, alludere all’indifferenza rispetto ad una rotazione di 180°: la esse è il 69 delle lettere – le ho chiesto: visto che la mia testa non va come dovrebbe andare, e visto che nel mondo ci sono tante cose che non vanno come dovrebbero andare, non è possibile trovare là fuori qualcosa che non va nello stesso modo in cui non va la mia testa? Mi ha sorriso: chissà quanti trapezisti ha nella testa lei! La signorina Tildas è l’unica che mi fa restare qui. Anche se, a volte, mi fa ingoiare i tappi per le orecchie che si mangiano. Qui la notte urlano e non si dorme. Qualche giorno fa mi sono tappato le orecchie con le dita, poi mi sono stancato; allora mi sono tappato le orecchie con quegli affari che si usano per stappare i lavandini: gli sturalavandini. Non mi ricordo se ha funzionato, se mi ricordassi non sarei qui. Mi ricordo solo che la signorina Tildas, quando mi ha visto nel letto con quegli affari ai lati della testa, ha riso tanto e poi mi ha dato dei tappi per le orecchie che si mangiano. Questo glielo posso rimproverare, ma la perdono la signorina Tildas – Tildas Tildas Tildas come ti chiami?- anche se i tappi per le orecchie che si mangiano mi tappano tutto, vedo e sento ovattato e poi non riesco a mordermi per bene la mano, e addio speranza di rivedere l’altro trapezista. E’ successo anche che da qualche giorno faccio un po’ fatica a recuperare la sensibilità della mia vescica, soprattutto quando mi fanno mangiare troppi tappi per le orecchie che si mangiano. Per questo motivo l’aumento del ritmo con cui si è presentata la necessità di cambiare le mie lenzuola ha fatto in modo che: a) io mi stia decidendo a rivedere la teoria alla base della Buona Usanza dei Cipressi; b) i dottori inventassero un metodo, alternativo al catetere, per correre ai ripari: mi hanno attaccato un preservativo al pisello con dell’adesivo che non fa male quando lo stacchi e lo hanno collegato ad una sacca con una cannula. Così, ogni volta che piscio, la mia pipì gonfia il preservativo e defluisce nella sacca sotto il letto. La cosa, al di là dell’imbarazzo che ho provato quando l’aggeggio mi è stato applicato purtroppo non dalla signorina Tildas, ha funzionato benissimo, fino a ieri notte. A quanto pare avevo una gran voglia di pisciare, e devo averne fatta un bel po’ perché il preservativo si è gonfiato tantissimo, ma proprio tanto. L’urina non ha defluito e quando l’infermiera della notte, che non ha nulla a che fare con la giustizia, ha visto il grosso rigonfiamento all’altezza del basso ventre, si è precipitata al mio letto. La mancanza di delicatezza di Santina, donna cui non ho mai attribuito una esse finale ne sotto forma di parola ne sotto forma di pensiero, ha fatto sì che venisse meno la perfetta aderenza fra il nastro adesivo, il preservativo ed i bordi del mio pisello, venir meno dell’aderenza che, a sua volta, ha fatto sì che la pressione esercitata dal lattice contenitivo si liberasse in una esplosione di urina che ha inondato in parte il suo volto e schizzato il mio pigiama ed in parte è rimasta in aria a fluttuare, sotto forma di bolle
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di pipì e schizzi irregolari e mentre io ero fermo sul letto, circondato dalla mia pipì irrispettosa della forza di gravità, e da Santina, irrispettosa di qualunque regola estetica, ho visto e sentito Ronzino che grugniva perché aveva vinto a scopa contro se stesso e mi sono alzato dal letto per abbracciarlo e complimentarmi con lui. E’ stato allora che sono arrivati due inservienti per tenermi fermo, ed è stato allora che la mia pipì si è sottomessa alla forza di gravità e Ronzino è sparito. Santina, invece, è rimasta brutta. Da piccolo mio padre mi portava spesso dalla zia Giovanna. Ci andavamo di sera e c’era sempre un po’ di gente da lei. Erano tutti vicini di casa che sedevano in tondo, affianco al camino acceso o spento, ed a turno, nei frequenti momenti di silenzio, sospiravano inneggiando al signore ed ai santi, al loro aiuto o qualche volta interrogando se stessi ed i presenti sul da farsi, ma poi nessuno dava una risposta che andasse oltre un sospiro ancora più rumoroso dei precedenti. La sera, dalla zia, la mia attrazione era Ronzino. Ronzino era un uomo che si esprimeva a grugniti e non partecipava ai reciproci sospiri degli ospiti ed al loro vario inneggiare alle divinità e ai santi. Camminava in maniera sparpagliata e doveva essere condotto: la testa gli roteava sul collo in continuazione. Ronzino giocava a scopa contro se stesso e riusciva sempre a vincere – e se ne stupiva ogni volta, lo si capiva dal grugnito che emetteva alla fine della partita: più acuto, pieno di giubilo, quasi privo della sofferenza di non riuscire a esprimersi. Dopo i funerali della zia non siamo più andati a casa della zia Giovanna ed io non ho più visto Ronzino, tranne adesso quando ogni tanto compare nella mia stanza e si siede al tavolino per a farsi una scopa contro se stesso. Comunque, finalmene siamo arrivati alla parte della questione cui non ho ancora risposto. Perché riguardo all’identità del posto in cui mi trovo ed al perché sono qui mi pare di essere stato abbastanza chiaro; sul perché vi sto scrivendo adesso ci arrivo. L’altro giorno ho spiegato la mia teoria della Sindrome Del Trapezista ad un dottore che è venuto a trovarmi con la signorina Tildas. Lui mi ha fatto capire che era una teoria simpatica, ma non ci ha creduto e me lo ha proprio detto che non ci credeva. La signorina Tildas, invece, non ha detto niente e mi ha sorriso con gli occhi. Infatti, dopo è tornata con un foglio ed una penna, e mi ha detto che se questo trapezista non riuscivo a trovarlo da solo, allora avremmo scritto una bella denuncia di smarrimento e lei l’avrebbe portata alle forze dell’ordine. Pertanto, questa che state leggendo, cara la mia arma dei Carabinieri, corpo di Polizia e/o Guardia di Finanza, non è altro che l’introduzione, doverosa, alla seguente denuncia di smarrimento: Il sottoscritto, il cui documento di identità si allega alla presente, denuncia alle competenti Autorità che, in luogo e data imprecisati o forse anche lungo tutto un periodo di tempo e senza accorgersene, ha perso un numero indeterminato di trapezisti della mente. In caso di ritrovamento, anche di uno solo dei suddetti, si prega di avvertire in secundis la signorina Tildas. Elio Emme
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les nouveaux réalistes: Emmanuele Bianco 31 agosto 2014
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Acconciature Emmanuele Bianco Non era solo per i cinquant’anni di acqua, sole e vento; per il fascino di una cosa che invecchia con sfrontatezza, per una nota di armonia acidognola rimasta sotto la pelle del rione, né per quell’angolo, girato il quale si staglia, come un bambino smascherato, l’anfiteatro Flavio; e né, tantomeno, per l’atmosfera da limbo romantico di passeggiatine nei vicoli che furono di ubriaconi, cantinieri, ladri, puttane e schiavi. Non era solo per quell’insegna – Antonio acconciature per signora – tirata a lucido tutti i lunedì pomeriggio da un ragazzino senza voglia di studiare, forse neanche per la sedia imbottita che sembrava una chiave appena fuori dal salone. S’incazzava e bestemmiava, il mite Antonio, se qualcuno s’azzardava a chiamarlo negozio o, più nobilmente, bottega. A dispetto delle sue venti sigarette quotidiane le analisi del sangue non avevano neanche un asterisco e i suoi dieci decimi erano una provocazione ai quasi ottant’anni. Antonio era lì, fuori dal proprio salone, dal 1968. E prima, da quando era un ragazzino, gironzolava nei vicoli del rione e intorno a suo padre. Era lì quando gli americani cagarono due stronzi atomici a Hiroshima e Nagasaki, e sempre lì quando le signore più audaci entravano nel salone con una foto di Marylin Monroe, Audrey Hepburn o Gina Lollobrigida e si abbandonavano – Virgilio mio bello me devi fa na goccia d’acqua uguale uguale a Marylin… che c’assomiglio ‘n po’, ve’? – all’arte paziente del padre. Ricorda perfettamente quando nell’immediato dopo Beatles il vecchio Virgilio, suo padre, si mise a studiare le acconciature afro: treccine, rasta, permanenti esagerate. Era la seconda metà dei settanta e Bob Marley rivoluzionò il mondo ammettendo di aver sparato allo sceriffo, dicendo alle donne di non piangere e cantando libertà e redenzione. Le donne entravano nel salone cercando più che altro consigli su come sembrare il più hippies possibile senza beccarsi pulci e pidocchi. Poi Virgilio morì, ma fu una bella morte: di vecchiaia, senza sofferenza, con tutta la famiglia intorno e un bel funerale nella chiesetta poco distante dal salone. Antonio e gli anni ottanta si ritrovarono da soli, in un abbraccio che provava a far finta di niente. Il rione cambiava pelle per l’ennesima volta. La società pacifista, gli spinelli, gli acidi e le adunate rock subirono una scissione. Con gli anni ottanta i vicoli del rione si popolarono di punk e yuppies. Nel salone entravano donne di ogni rango: col mito di Wall Street, di una parata militare o delle tribù Mohawk. Antonio passava le giornate ad agghindare chiome con fasce colorate, a cotonare lunghissimi capelli in onde sinuose, a spennacchiare folte criniere per farle assomigliare a una palma da cocco, a rasare e colorare di rosa, verde, blu, ciuffetti di capelli: segnali di una resistenza urbana fatta di cultura e controcultura. Fu in quel periodo, con qualche anno di ritardo, che Antonio s’innamorò di Linda e, senza rendersene conto, in un anno si trovò sposato con una figlia di tre mesi piuttosto bellina e dall’indole quieta. La piccola Sara viveva la sua infanzia dando fondo agli anni ottanta, in un quartiere di Roma che stava per diventare la roccaforte dell’aristocrazia fricchettona, del cambio generazionale di vecchie e solide borghesie. Fu in prima media che ebbe il suo primo vero confronto col padre – ma non capisci, non è sciatteria è stile – e fu dentro al salone, mentre Antonio massaggiava sapientemente la cute della figlia. Gli anni novanta furono dei tossici: i Nirvana e la campagna Obsession di Calvin Klein proclamarono Kurt Cobain e Kate Moss re e regina di un impero che sembrava iniziato col boom degli anni cinquanta, sembrava aver resistito ai settanta e rinato negli ottanta, salvo poi capire che l’unico vero
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impero era finito qualche centinaio d’anni dopo Cristo e pazienza per la rassegnazione nostalgica e rabbiosa dei fascisti se poi made in Italy significava evadere il fisco. Gli anni novanta furono gli anni delle teste a lampadina. Tutte volevano essere bionde, anche i ragazzi, al mare, si schiarivano i capelli con la birra. In periferia tanti si versarono bocce di acqua ossigenata in testa. La legge, quella sì era uguale per tutti: ogni tonalità di biondo, ricrescita di un paio di centimetri all’attaccatura, occhiaie, pallore, tuta di felpa e All Star. Gli 883 spopolavano e più che a Max Pezzali molti si appassionarono alla figura del biondino mezzo matto. Si scivolò lentamente verso gli anni zero. La multinazionale Nike assunse il ruolo di comando al timone di generazioni di adolescenti. Ormai la moda non la dettavano più i tempi ma i testimonial. Non più la società, le guerre, la musica ma ricchissimi personaggi sportivi. Ora Antonio siede sulla sedia imbottita a forma di chiave fuori dal proprio salone, sua figlia Sara ha ormai quasi quarant’anni, sua moglie Lidia sta al cimitero di Prima Porta nel settore nuovo, quello fatto di palazzine a tre piani che sembrano condomini senza ascensori. Non ha voluto imparare il mestiere del padre ed è rimasta senza lavoro. Adesso è Antonio il vecchio. Guarda il rione, è tutto cambiato. I giovani calzano scarpe da barca sui sanpietrini sconnessi, sembrano essere sempre pronti alla pesca delle vongole; hanno barbe lunghissime come se dovessero nasconderci qualcosa o nascondersi da qualcuno. Ora i giovani del suo rione praticano il buddismo, in alcuni casi, gli avanguardisti, studiano per diventare imàm di qualche moschea. Oggi i trentenni e i quarantenni del rione fanno aperitivi biologici a chilometro zero, mangiano solo frutta e verdura, i più estremi solo frutta caduta dall’albero, quindi non uccisa. Oggi questi giovani si muovono per la città con biciclette senza cambio, come Gianni Morandi nei suoi musicarelli. Hanno cellulari fuori moda, passano molto tempo a leggere poeti francesi e a ricordarne le migliori citazioni, si lamentano della vita veloce alla quale possono permettersi di sottrarsi, comprano orrendi abiti usati ma mai per necessità, infatti li pagano tre volte il loro valore, si agghindano di chincaglierie etniche purché artigianato comprato in loco, vanno lunghi di tre o quattro anni fuori corso per una laurea al Dams o Scienze politiche – no materie scientifiche, no medicina, no robe troppo impegnative – e quando non ci vanno, comunque, il lavoro inteso come stress, fatica, problemi a pioggia e salario sindacale non è tra le loro priorità e tuttavia mai, in nessun caso, rientra tra le loro esigenze primarie. I giovani che vivono il rione del vecchio Antonio, ormai, arricciano tabacco e guai a trovarne uno con una sigaretta confezionata dalle orride multinazionali. Sognano per lo più di scrivere e dirigere e a tal proposito è difficile beccarli in giro senza che nelle tasche bucate delle loro giacche di tweed non ci sia un’agendina – in genere moleskine ma, in alternativa, qualche accozzaglia di fogli alla rinfusa purché riciclati e ciclostilati in un artigianalissimo handmade di cuoio – per non perdere la suggestione di un attimo folgorante e rielaborarlo con il genio di Proust o la capacità indagatoria di Dostoevskij, abbozzare piani sequenza alla Sokurov o movimenti di macchina alla Hitchcock o alla Kubrick. Questi strani giovani che il vecchio Antonio osserva ormai da anni non hanno la televisione, guardano ciò che gli interessa direttamente online, non seguono il calcio, sono apparentemente poco attenti all’estetica, non indossano profumi – anzi! – non cucinano, si lavano il giusto indispensabile, parlano dei loro viaggi in Cambogia, Vietnam e Laos dove la vita costa pochissimo, dove tutti sono poverissimi e vivono nelle baracche ma sono anche tutti tanto felici ed è lì, esattamente lì, che si sono sentiti vivi per la prima volta – ma pensa che vita de merda, aveva rimuginato più volte Antonio parlando con qualcuno di loro. Pretendono di avere un’idea su tutto forti del loro punto di vista che non è né di conoscenza né di esperienza ma piuttosto un banale e sciatto indottrinamento che li conforma nell’indipendenza di una riserva. Scambiano sorsate di sangue fresco con gelati trovati per terra perché la loro battaglia assomiglia più a quella di un bambino capriccioso che a quella di un vampiro sotto mentite spoglie. Non hanno un conto in banca – tutt’al più banca etica – ma erediteranno un minimo di tre case che sfiorano il milione l’una, girano senza soldi ma come lo faceva l’avvocato Agnelli, credono in una società più giusta ma il 740 del papi fa acqua da tutte le parti. Antonio guarda tutto questo, si mette seduto fuori dal salone e prova a capire quest’ennesimo avvicendamento del rione. È rimasto solo, non ha più alleati con i quali passare la giornata, le clienti sono calate e i bottegai storici sono sotto terra, o su qualche panchina. Staccò un pezzetto del proprio
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cuore il giorno che attaccò il cartello vendesi fuori dal salone. Pensò che forse, a conti fatti, il cuore manco gli sarebbe più servito appena due settimane dopo quando, come sciacalli acquattati tra le fronde della crisi, molti di questi strani nuovi giovani avevano sventagliato proposte, contanti e fideiussioni bancarie. Antonio ora deve pensare a Sara, lui la sua vita l’ha fatta. E anche il mio rione, pensa con un certo orgoglio, ce ne andiamo insieme. Se cercate borse di pelle cucite a mano, scarpe fabbricate nel pieno rispetto di qualunque cosa e camicie su misura; se il vostro motto è – come quello dei giovani abitanti del rione – “i soldi non mi servono” allora andate in quello che era il salone Antonio acconciature per signora. Vi offriranno un bicchiere di vino biologico, dei crostini di pane di segale con salsa di verdure e vi regaleranno un libro usato, a patto che facciate altrettanto. Dopo sta mostra potemo annà a vedè sto negozietto nuovo che ha aperto. Daje sì. Oh ma sta mostra de che è? Boh, tipo de un ragazzino che dipinge tutte cose strane d’alienazione, sangue, nudi, tormento. Mah… Daje, n’amo che nun ce sarà nessuno. Daje!
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les nouveaux réalistes: Annarita Briganti 30 agosto 2014
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Lettera a un bamboccione Annarita Briganti
Io a una donna ho dato il male e preso il bene (Claudio Baglioni)
Prologo
«Sono arrabbiata. Sono furiosa. Mi ha mostrato come avrebbe potuto essere, mi ha amata per ciò che ero. E poi… È un dolore fisico. Mi chiude la gola. Di notte mi sveglio e credo che sia tutto un sogno». Letto mentre preparavo un’intervista, il giorno dopo la tua scomparsa.
* Non ti ho detto che anche mio padre ha perso suo padre da piccolo #manonèdiventatocomete Non ti ho detto che stare con te era come cercare #oronelfango Non ti ho detto che la bambina non vuole vederti. Quando te la porto, la riempio di pasticche di camomilla, dicendole che facciamo il gioco delle #caramelle Non ti ho detto che con i tuoi cento euro al mese #noncelafacciamo Non ti ho detto che Eva ti ha definito una merda, proprio così. Devi fargli terra bruciata attorno #urlava Non ti ho detto che tua moglie mi ha cercato su facebook #unapazza Non ti ho detto che una volta sono andata a casa di un avvocato e stavo per tradirti. Poi mi hai chiamato per annunciarmi che ti trasferivi per un mese a Tokyo #esonotornatadate Non ti ho detto cos’ho risposto #allapazza Non ti ho detto che i miei genitori stanno morendo #èlavita?? Non ti ho detto che mio fratello è scoppiato a piangere parlando di #noi Non ti ho detto che le foto con cui ti paghi il pane quotidiano non sono un granché #artistidenoantri Non ti ho detto che sono sensibile. L’ha notato sabato sera a cena #Giorgio
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Non ti ho detto che a Tokyo ho sentito quello che dicevi di noi ai tuoi colleghi, quando sono tornata a tavola e vi siete zittiti #dicolpo Non ti ho detto che il tuo socio mi ha baciato sulla bocca davanti al birrificio di Lambrate, mentre fumavamo una canna e tu, all’interno del locale, giocavi con i messaggini #piccolino Non ti ho detto chi è #Giorgio Non ti ho detto che voglio un altro figlio #nondate Non ti ho detto che la cosa che mi manca di più è dormire insieme, non il sesso o l’amore, ma il puro contatto #fisico Non ti ho detto che sei un #mostro Non ti ho detto che sto per #innamorarmidinuovo Non ti ho detto che tornare sui luoghi del delitto #miammazza Non ti ho detto, o forse sì, che #noncelafaccio Non ti ho detto che non ho più messo i tuoi #profumi Non ti ho detto che sono piena di #debiti Non ti ho detto che ho cambiato #gusti Non ti ho detto che ho chiesto aiuto a un astrologo e a un gigolò #sgrammaticato Non ti ho detto che ti stai perdendo #tutto Non ti ho detto che non ti perdonerò #mai
Epilogo A Capodanno avevo preparato un tubino argentato, è rimasto appeso alla maniglia della camera da letto. Il forno, e quell’immagine della testa di Sylvia dentro, con un bicchiere di latte sul comodino dei figli. Nella metropoli da cui sto per andarmene era tutto così silenzioso, tranquillo. «Ho dovuto confrontarmi con la tristezza, fare pace con quelle cose e pensare ad andare avanti. Non possiamo tornare indietro. È la nostra fortuna, che possiamo solo andare avanti», mi ha scritto Alma, prima che interrompessi i contatti con il mondo. Mai dire mai, ha tatuato lei sul polso sinistro. E un ultimo pensiero: «Esistono solo due giorni dell’anno in cui non si può fare niente. Uno si chiama ieri e l’altro domani. Pertanto oggi è il giorno migliore per amare, crescere, agire e soprattutto vivere», Dalai Lama.
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les nouveaux réalistes: Stefano Felici 28 agosto 2014
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Il progetto Ms Stefano Felici «Ma il meccanismo è un’illusione, e consiste proprio in questo: ti compare una schermata di parametri e linee, grafici senza senso, percentuali di completamento, e poi, sempre con tutto bene in vista, come se un’infinità di ingranaggi avesse trovato l’allineamento perfetto, finalmente uno, due, tre, quattro messaggi che in sequenza ti dicono che ora funziona, che è tutto a posto, che si può cominciare: davanti a te hai il superamento dell’intelligenza umana e non hai che da chiedergli qualcosa; ma dietro, in tempo reale, ci siamo noi e quelli di sopra, più quelli di sopra a quelli di sopra, e così all’infnito. È ovvio, sì, non me lo devi nemmeno dire; ma tu hai capito qual è il magma, il vibrante di tutta l’illusione?» Sono quattro ore diagonali e il sole picchia duro alla finestra. A me non va più di lavorare. E ho una sete preoccupante. Sopra i muri bianchi hanno appeso le stampe stilizzate dei quadri dirigenziali. «Sono dei Mondrian orrorifici, e se li guardi bene riesci a leggerci persino com’è che finirà il mondo.» Io, a queste cose, dette dalla gente ironica per bella mostra, ci credo. Ne spiego la ragione: non penso che parlino per bocca propria. Sono terminali di un flusso, una parobola di ritorno messa in circolo da lontano, che arriva quando deve. E chi pensa di scherzare è solamente attraversato. Chi mette in circolo queste cose, alla fonte, è il maligno. Io ci credo. E dal momento che in queste cose ci credo, penso corrispondano alla verità. E perché il maligno dovrebbe dire la verità, se è maligno?, mi si chiederebbe; e io risponderei: gioca. Ha così tanto vantaggio che ormai la partita è vinta. Anche se non c’è alcuna partita. Eppure, la vittoria esiste. Così, da uno scompartimento all’altro, ci passiamo bigliettini di auguri, oppure ci congratuliamo per un giorno in più trascorso nell’edificio e non a casa. Un altro collega ironico, di quelli attraversati, mi racconta spesso – e quando racconta, forse non se ne accorge, ma ha una scarica di spasmi ai muscoli facciali da far vomitare per il terrore – tutta una storia che finisce con un uomo che passa a casa cinque giorni di fila, senza mai uscire, e siccome capisce che uscire di casa non ha più alcun senso, e non avendo alcun senso nemmeno la sua casa, alla fine si suicida. E io gli dico che una volta ho trascorso a casa tre giorni filati, e lui mi dice che cinque non è tre, e poi arriva un altro che sul piatto dei giorni ne mette quattro, ma quattro non è cinque, e per gradi prende corpo il terrore, in tutti, ma lo nascondiamo, o forse alcuni non hanno capito che questa storia dei cinque giorni non è ironia, è presagio, squarci di futuro offerti dal maligno. E chi parla è parlato. I pavimenti dell’edificio sono viola cangiante. È stata la scelta di un lungo consiglio amministrativo, durato due giorni. In quei due giorni, nessun dirigente o rappresentante è mai uscito dalla sala riunioni. A noi impiegati è arrivata una mail. Oggetto: pavimenti viola cangiante. Io non l’ho nemmeno aperta. Quando sento i racconti sul reparto programmazione, capisco che le star sono loro. In pratica, sono al centro del progetto. I pavimenti? Opera loro. Ho una vaga idea che il maligno sia una manipolazione dei programmatori. Di sicuro, hanno peso decisionale su tutto. Mi è stato detto: «I pavimenti viola cangiante li hanno voluti i programmatori. Si sapeva dall’inizio. È stata una guerra titanica fra il loro rappresentante e l’amministratore delegato. Tutti gli altri sono rimasti a guardare. Esclusi. A fare i testimoni, al massimo. L’amministratore delegato voleva un bianco giallastro, i programmatori il viola cangiante. I programmatori l’hanno spuntata per il loro peso politico, non c’è nemmeno da dirlo. Ma senti qua: il viola cangiante, su certe persone che hanno una non so quale area del cervello particolarmente sviluppata, ha lo stesso effetto della cocaina. È una droga, in pratica. Questa cosa è uscita fuori nel mezzo del consiglio. E il bello è che forse si è rivelata la carta vincente.» Ora: io sono agnostico, e nonostante il bruciore sulla nuca di quando penso a una vita consegnata alla volontà altrui, non ho proprio voglia di crearmi un olimpo di oggetti filosofici. Quindi la mia condotta per contrastare il maligno, semplicemente, è scandagliare il mio vissuto con un gioco di sponde, e in differita.
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Spero comunque di scovare il bene. È ovvio. Ma lascio filare. Vorrei godere del contrasto dei due opposti che si sfidano per sancire chi ha la meglio, nel minor tempo possibile, come nello sport e nei racconti. In camera resistono ancora due testoline di gambero in decomposizione. Emanano un fetore tagliente. Stanno dentro una vaschetta di plastica, per terra, sotto la finestra. Con una folata di vento, sono costretto ad andarmene in bagno. Mi servono, credo sia superfluo dirlo, come indicatori di attinenza al reale. Se scompaiono, è la fine. Io non esisto, il maligno si è insediato, e tutto ciò che ne consegue. «Il progetto Ms, in pratica, ti offre l’opportunità di tornare a credere in qualcosa di, capisci, di spesso, duro, compatto; Ms è il marmo sui cui camminerà chi ha paura delle sabbie mobili, se rendo l’idea. È stato creato da chi non ha bisogno che delle propria catarsi intellettuale, e questa, anche se non può essere rivelata a un utente Ms, è allo stesso tempo la sua garanzia a vita per il reale, per il reale come vero, come utile, per il reale come unica cosa che serve a chiunque. Parlare di illusione vale solo per noi, che facciamo un discorso su Ms. Ma Ms è progettato per esser fruito come un discorso. Per starci dentro. E ha dei firewall di concetto, lasciami dire, praticamnte inattaccabili.» Ho passato l’ultimo mese a farmi domande, e ho rischiato sul serio di dimenticare la parte più difficile dei percorsi amministrativi. Mi servono quindi dei feticci di riferimento in cui poter salvare il groviglio delle mie intuizioni, dei miei ragionamenti. Faccio piccole sculture. Sono ancora dell’idea di rimanere agnostico, ma il pensiero è il pensiero, e fa sì che io non sia un qualsiasi altro animale. È un’attività costante e necessaria, mio malgrado. Pensare porta a domande, farmi domande mi è deleterio, quindi, come accade a tutti prima o poi, ho costruito un ponte di alleggerimento tra pressione psichica e realtà. La prima scultura l’ho creata incollando una banconota da cento, vera, su un paralume merlettato. È una scultura elementare. Mi è venuta fuori, banalmente, perché ho pensato di dover eliminare i soldi dalla mia concezione di presente. E il paralume era lì. La seconda scultura mi serve tutt’ora per allontanare l’ossessione del maligno: è una forchetta di plastica piantata in un vasetto di terriccio, che annaffio ogni mattina facendo pipì. Nel terriccio c’è il seme di una mela. Il dispositivo è semplice: finché la scultura rimane com’è, non ho alcun tipo di preoccupazione esistenziale. Sono cinque ore diagonali e ancora non è tornata la voglia di mettermi a lavoro. Il lancio delle nuove serie di architetture per software aziendali è in preparazione. Ogni mattina, trenta fra dirigenti, informatici, psicologi e filosofi d’industria si riuniscono per degli interminabili brainstorming nella sala riunioni B, quella più piccola e calda. Gira voce che le idee migliori arrivino a un passo dalla crisi isterica. Noi, del sedicesimo piano, facciamo il nostro. È il classico lavoro di routine. Siamo visti come i miracolati dell’azienda, e in un certo senso passiamo per quelli che sanno viversela: posto sicuro, guadagno modesto e poche rogne in generale. Sappiamo così tante cose sull’edificio. E soprattutto di chi ci sta dentro. Perché sono gli altri a venire da noi a raccontarcele. Siamo la latrina per le loro congestioni psicologiche. Forse, ma non a ragione, pensano tutti che neanche sappiamo cosa farcene di queste storielle senza senso, che invece, decriptate, sono informazioni letali sui movimenti di questo o quel flusso di contingenze, questa o quella testa che si vuol tagliare: l’arazzo composto dalle storielle è, in poche parole, la diagnosi segreta della stessa azienda, che a sua volta è il totem del paese. E io l’ho capito. Ho fatto altre sculture, ma devo essere sincero: non bastano. Comincerò a scrivere un diario. No: una silloge. Ma romanzata. Lo so, che cazzo, che è tutta un suggestione momentanea. E che mi tradisco. Ma non posso ignorare lo scarto tossico che continua ad ammucchiarsi sulle nostre teste, qui, in questi scomparti. I miei colleghi
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cominciano ad avere più di qualche sospetto sul fatto che gli altri ci vengono a dire, nascosti dal piglio aneddotico, com’è che falliremo. Questi narratori incontinenti sono come i colleghi ironici che parlano parlati, i mediatori del maligno, ma loro, gli altri, i narratori, lo fanno con coscienza – e con intenzioni diverse: metterci in salvo. (Sono loro il benigno?) «Sì. Qualcuno che proprio non sopporta il progetto Ms, e intendo proprio nella sua essenza, mettendone in discussione le fondamenta, c’è. Si potrebbe dire che è una fazione nella fazione. Nel senso che quella dei programmatori è, a tutti gli effetti, una fazione; e al loro interno c’è un gruppetto, diciamo, di dissidenti. E questi non sono mica gli ultimi arrivati: sono esperti, hanno voce in capitolo. Sono pochi, questo sì, ma il loro pensiero è ascoltato, soppesato, e spesso non lo si può ignorare. Se qualcosa va a rilento – e finora è stato così – è a causa loro. Ma la questione importante è un’altra. La questione è l’impatto che Ms avrà su questa realtà. Se hai studiato la storia, sai quali sono i meccanismi delle forme a scala globale calate dall’alto: qualcosa non si incastra, eccede, e viene amputato. Però, stavolta, la responsabilità percepita è oltre l’umano: e intendo, per responsabilità, l’impatto sul reale con causa ed effetto constatabili, consultabili, tangibili. Prendi la prossima asserzione come il proseguimento di quanto detto, e non come qualcosa da poter estrapolare: sarà la materializzazione di Dio. Le colpe verranno sganciate su Ms come bombe, e a loro volta fatte brillare.» Ci sono, quindi, questi programmatori dissidenti che ci vengono a raccontare dei loro reflussi gastrici, delle partite a tennis interrotte da una pioggia improvvisa, e dei malori improvvisi appena svegli. Ho messo insieme un po’ di queste storie, negli ultimi giorni. Ho un quadro e un abbozzo di teoria. Ve la dico in breve. Il progetto Ms non è mai esistito. Non nei termini in cui se ne parla di nascosto in azienda. Esiste un progetto Ms, ma non è una soluzione: è una tappa. E avrà parecchio bisogno, ma davvero tanto, sul serio, dell’apporto più consistente che sia mai stato dato da parte del marketing. I brainstorming non vengono fatti per la nuova serie di software di architettura aziendale: vengono fatti per Ms. Se Ms fallirà, a fallire sarà l’azienda. Il paese intero, non credo. Questo, secondo la mia tesi, decentra il maligno dai confini del progetto Ms. I programmatori dissidenti, allora, non operano per il bene. Non direttamente. È proprio un’altra battaglia. Ma dei nessi, questo non lo escludo, possono anche esserci. «Senti, questo proprio non dovrei dirtelo. Eppure non riesco a trattenermi. Non con te, almeno. Va bene. Dunque. Il progetto Ms non è interamente dell’azienda. Ne stiamo sviluppando solo una parte, ed è di quella parte, e solo di quella parte, che ci occuperemo nella fase operativa.» È sparita una testa di gambero. Una sola. Credo si sia intrufolato un topo. O magari è stata smembrata dalle blatte. La scultura del vasetto è sempre lì, uguale agli altri giorni. Però quella testa di gambero è scomparsa. Metto una telecamera, fissa, sulla testa di gambero rimasta. Sono preoccupato. Non riesco ad andare avanti se non per poche parole alla volta. E sconnesse. Le teste di gambero avevano una funzione precisa: eccola. «Entrerà in funzione a ottobre del prossimo anno. È tutto pronto. A marzo cominceranno i test, quelli veri. Tra una ventina di mesi, tutti calati dentro Ms.» Per i corridoi c’è il fermento delle guerre. Suonano anche piccoli allarmi a onde quadre. Tra gli scompartimenti si è smesso di parlare, e una strana paranoia sibilante ha cominciato a strisciarci intorno al collo. Non riesco più a vedermi col mio informatore. Avrei voluto fargli leggere la mia silloge romanzata. L’ho intitolata: “Intrigo a palazzo”. C’è del sarcasmo, ma è del tipo auto-disinnescante: opera su se stesso, e leggendo la silloge si capisce perché, ci si impossessa della chiave, insomma.
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La silloge è una premonizione di quanto accadrà: sono pensieri miei, aneddoti dei programmatori dissidenti e relative interpretazioni. Anche se sarebbe meglio chiamarle decriptazioni. La chiave di volta della silloge è la combinazione di due aneddoti, di cui uno assente: quello assente riguarda me. E si capisce quale. Riporto dal testo: È andato in vacanza per due giorni in questo paesino sul mare, dove non tornava da vent’anni. Ha trovato un paio di amici dei vecchi tempi e li ha convinti ad andare a pesca con lui, una domenica. Non sono riusciti a pescare nulla; ma hanno chiacchierato molto. Uno di loro ha un ristorante vicino al porticciolo, e all’ora di pranzo ci si sono diretti con grande appetito. I suoi amici hanno preso entrambi un branzino, mentre lui si è fatto portare dei gamberi belli grossi, ha detto. Erano una decina, e li ha spolpati di gusto, succhiandone le teste, nelle quali risiede quella poltiglia al tempo stesso amarognola e dolciastra. Il suo amico, il proprietario del ristorante, gli ha detto che i gamberi erano surgelati. Lui ha risposto che se l’aspettava, e che non era un problema; ha anche aggiunto che di gamberi ne mangerebbe, per quanto gli piacciono, di vivi, di crudi, e di morti in decomposizione. Non dovrei aggiungere altro, ma la situazione, ora, è questa: c’è una voce su alcuni test clandestini condotti dai programmatori di Ms. E non solo quelli della nostra azienda. Anche di altre che, per quanto ne sapevo io, sono nostre concorrenti. Usano una rete privata per contattarsi. Inespugnabile, si dice. Uno dei risultati di questi primi test clandestini, pare, ha provocato la svalutazione istantanea del mercato di una piccola area del centro america, che comprende alcuni stati come Belize, Honduras e Nicaragua. Nessuno sa spiegarsi quali possano essere i passaggi, la sequenza logica. Si è toccato un nervo a caso e si mosso un arto. La testa di gambero decomposta, quella rimasta, è ancora lì. Ho visto il video degli ultimi tre giorni a velocità quadruplicata, e in effetti qualche blatta si avvicina a rosicchiare. Ma non tanto e non così avidamente da riuscire a farne fuori una intera in mezza giornata. Se il maligno si manifesterà tra poco, non so se ritenermi fortunato: mi ritroverei morto, ma comunque su un picco del tempo.
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les nouveaux réalistes: Olga Gambari 26 agosto 2014
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I peli nel letto Olga Gambari Sta nel letto, è sveglia, a occhi chiusi. Lentamente, in punta di polpastrelli sfiora le lenzuola, la federa del cuscino, la lana della coperta. Ne sente le trame, gli spessori, le superfici. Poi odora, girando leggermente la testa, appoggiandovi sopra una guancia, e inspirando. Quel letto è un organismo vivente che la accoglie e la culla, la protegge, i suoi sonni, il suo corpo, il suo amore con Gabriel. È un proseguimento di lei, di lui. Apre gli occhi, si scosta le lenzuola di dosso, le arrotola al fondo e si siede, nuda, a gambe incrociate, con i palmi sul materasso, osservando il territorio del letto aperto. È un paesaggio, fatto di grinze, onde, piccole fosse e dune. Sembra ci spiri sopra il vento. Vede due peli, vicini al ginocchio destro. Li fissa, li studia. Non pensa a nulla, semplicemente, guarda quei due peli. Di chi saranno? Suoi o di Gabriel? Sono neri, corti, un po’ ricci. Peli che sanno di sesso, di quelli che rimangono dopo che ci si azzuffa per desiderio, urgenza e piacere. Secondo lei sono dell’uomo con cui dorme e fa l’amore in quel letto, con cui ci ride, legge, beve caffè e vino, mangia dolci e patatine. Chissà da quale parte del corpo provengono? Stanno lì, uno parallelo all’altro, uno più in alto rispetto all’altro, veramente, distanti almeno dieci centimetri. Sembrano delle frecce. Sono vettori, indicano movimenti, testimonianze di forze fisiche che si sono manifestate proprio in quel luogo ore?, giorni prima? Energie invisibili ma potenti che si sono sprigionate dalle loro masse fisiche, dai loro corpi di innamorati, di amanti. Carne animata. Questo le dà l’idea di appartenere a un ordine, a un cosmo in cui ogni cosa ha il suo posto, il suo perché. Soggiace a leggi universali, quelle che regolano e muovono l’esistenza, dalla terra fino alla luna. Poi, al di là della nostra galassia, chi lo sa…forse le regole cambiano, ma nessuno di noi ci arriverà mai per poterlo sapere, per esserne spaventato, stupito. Per domandarsi altro… Intanto eccoli lì quei due piccoli peli, millimetri di cheratina, ripieni di dna, che sono, che dicono. Si sporge in avanti e scosta i cuscini, li lancia a terra, libera completamente il materasso, che ora appare un’immensa landa. Va alla ricerca di altri reperti umani, di sue, loro tracce. È a quattro zampe, come un animale in caccia, con vista e olfatto all’erta. Trova un capello, sicuramente suo, lungo e scuro, e poi un altro, corto e corposo, nero, di Gabriel. Si risiede, mette i quattro i reperti vicini, allineati, su un cuscino che recupera da terra. Li deposita con cura, come su un vetrino da laboratorio, su un altare. Le fanno tenerezza, sono orfani, fragili, spersi. Moribondi. Eppure archivi eterni delle loro identità. Prende il cuscino e con grande calma, tenendolo appoggiato sulle braccia distese, si avvicina alla finestra aperta. Si ferma, l’aria fresca la lambisce, le restituisce la percezione di tutta pelle del corpo. Miriam soffia sopra il cuscino, un lungo soffio che è un respiro caldo, pieno di particelle di saliva polverizzata. I quattro fili organici volano via, liberi, nel vuoto. Sembrano coriandoli, ma lei non riesce più a vederli, ne sente solo già una piccola nostalgia. Come degli attimi che passano, che si sprigionano da noi e nello stesso istante sono già altrove, sono già un mai più inafferrabile. E allora meglio non provare a trattenere, ma lasciar scorrere la vita come un’emorragia inarrestabile, viva finché dura.
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les nouveaux réalistes: Luca Ricci 23 agosto 2014
L’ultimo uomo di Roma Luca Ricci Per La nuit di Guy de Maupassant Un giorno assolato può inquietare quanto la notte più nera . Mi svegliai a quell’ora in cui l’oscurità non ha ancora ceduto il passo alla luce: un brutto sogno, o forse un cattivo presentimento. E’ strano, pensai. Di mattina presto anche il caldo più accanito concede una piccola tregua. Invece sdraiato sul letto vedevo sorgere un sole turgido di fuoco, fissavo un’alba incandescente che faceva sudare come a mezzogiorno. Decisi di uscire perché in casa mi sembrava d’impazzire. Che ore potevano essere? Le sette, le otto? Per strada, la prima cosa che notai fu la penosa e straordinaria assenza di vita. D’estate è normale che la città sia un po’ meno caotica, ma lo spettacolo a cui stavo assistendo era di tutt’altra natura: d’improvviso mi parve di essere l’unico uomo che stava percorrendo piazza Cavour. Il caldo era terribile. Non si trattava soltanto di afa- in fondo chiunque abiti a Roma è avvezzo al suo inconfondibile microclima tropicale-, piuttosto di un caldo che prendeva i nervi, che diventava qualcosa d’angoscioso. Procedevo accecato dalla luce sul lato sinistro della piazza. Davanti a me, come un miraggio, si ergeva la facciata bianchissima della chiesa Valdese, un puntino sperso nell’asfalto che già ribolliva e s’incollava alle suole delle scarpe. Sul lato opposto il retro del Palazzaccio scorreva lentamente, al ritmo dei miei passi esitanti. Camminai fino a piazza del Popolo. Attraversarla mi parve un’impresa al di sopra delle mie possibilitàun po’ come affrontare il Sahara-, perciò mi limitai a percorrerne il perimetro fino a via del Corso. Le serrande dei negozi erano tutte abbassate, così riflettei che doveva essere ancora molto presto. Eppure il caldo si depositava sulle cose come uno strato di polvere. A piazza Venezia l’Altare della Patria era abbandonato a se stesso, non un passante, non un turista, non un’automobile. D’improvviso ebbi una furibonda nostalgia di tutto ciò che di solito detestavo: mi mancò perfino il pizzardone che in genere dirigeva il traffico sopra la pedana. Mi affacciai sui Fori Imperiali giusto il tempo per intravedere il Colosseo immerso nei vapori bollenti. Sembrava un vulcano, o uno scolapasta. Ma dov’erano tutti? Al Quirinale incontrerò almeno i corazzieri di picchetto al Presidente, mi dissi. Sapevo che per essere presi in quel reggimento speciale bisognava essere alti almeno un metro e novanta, e da un momento all’altro mi aspettai di vedere baluginare un elmetto tirato a lucido. Ma niente, a presiedere il palazzo erano rimaste solo le bandiere d’ordinanza- il tricolore e il vessillo dell’Unione Europea-, afflosciate come fiori senz’acqua. Scrollai la testa e proseguii. A via Veneto i bar erano tutti inesorabilmente chiusi, con le sedie incatenate una sopra l’altra vicino agli ingressi sprangati. Dagli hotel di lusso non usciva o entrava nessuno, e non c’era l’ombra neanche di un facchino. Mi ributtai a capofitto nel dedalo di stradine del centro storico. Da quando ero uscito non avevo ancora incontrato anima viva, possibile? Certamente d’estate esisteva una sorta di sospensione temporale nel
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bel mezzo della giornata, un particolare coprifuoco pomeridiano che spopolava la città, ma non era ancora presto, troppo presto? Improvvisamente avvertii un rumore inconfondibile. L’allegro getto d’acqua di un nasone, una di quelle fontanelle di cui Roma è tappezzata, e che rappresentano il suo sistema idro-vascolare segreto, ciò che le permette di sopravvivere nei giorni di canicola. Sentivo distintamente lo scroscio d’acqua, non poteva essere a più di qualche passo… Non trovai niente di niente, forse mi persi, cominciai a girare a vuoto. Di sicuro avevo preso un colpo di sole, avrei dovuto rincasare. Poi mi resi conto che ero arrivato proprio nei paraggi dell’abitazione di un mio caro amico. Chiederò riparo a lui, mi dissi. Una volta che ebbi raggiunto il portone, però, notai un cartello con su scritto “Affitasi”. Come se non bastasse il palazzo sembrava aver subito un cedimento strutturale, e una ragnatela di crepe si stendeva da finestra a finestra. Ero stato a cena da quell’amico giusto un paio di settimane prima, e la casa mi era sembrata fresca e ospitale, e per di più non avevamo parlato di un suo imminente trasloco. Che mi fossi confuso, che avessi sbagliato strada? Ma ormai mi era presa come una smania, la voglia di sapere di non essere solo. Cominciai a bussare a tutte le porte che circondavano piazza Santa Maria in Trastevere. Nessuno mi aprì, tutto rimase ostinatamente chiuso, ostinatamente inaccessibile, ostinatamente morto. D’istinto presi il cellulare e chiamai mia moglie e mio figlio. Erano già partiti per le vacanze e io avrei dovuto raggiungerli quella sera stessa. Niente, i loro cellulari erano staccati. Nel frattempo il caldo, se possibile, si era fatto ancora più minaccioso. Sentii, o mi parve di sentire, il rumore di un altro nasone, ma ancora una volta non riuscii a trovarlo. Volli sapere se almeno l’acqua del Tevere scorresse ancora. Raggiunsi il fiume, scesi le scale. Sarei stato pronto a tutto, anche a buttarmici dentro. Poi, dal basso, intravidi il chiosco di un venditore di grattachecche che apriva i battenti. Mi rianimò il colore delle varie bottiglie di sciroppo- la menta verde d’un verde smeraldo, la fragola rossa d’un rosso rubino, il limone giallo d’un giallo canarino-, e allora urlai: – Cos’è successo a Roma? Il grattacheccaro si sporse un poco dal muraglione: – Dotto’ che vole che sia successo, stai sereno, oggi è feragosto.
Questo racconto è uscito per la prima volta sul Messaggero.it mercoledì 15 agosto 2012
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les nouveaux réalistes: Giorgio Mascitelli 17 agosto 2014
Forse le rose non si usano più Giorgio Mascitelli
Si dà il caso che io e il mio barbiere di fiducia siamo molto interisti in una via di milanisti perdipiù e quando mi taglia i capelli ci piace di parlare con compassata competenza dei casi presenti e passati della nostra squadra del cuore e dei modelli delle automobili, sebbene io non ho la patente, né il cuore di dirglielo, e meno di frequente della follia delle femmine e dell’infingardaggine dei politici, senza essere disturbati da nessuno. Quella settimana però la sua bottega restava chiusa per motivi di forza maggiore e io avevo urgentemente bisogno d’essere quaffato perché si era d’ottobre e desideravo recarmi all’Oktoberfest con la testa a posto che quando scopersi sul posto che essa si teneva a settembre veramente mi dissi che il mondo m’aveva eletto a suo zimbello ingannandomi con questi trucchetti non degni di lui. Non c’era altra soluzione che recarmi nel non lontano salon pour dames e chiedere un’eccezione alla loro regola per via della contingenza sfavorevole pregandole come avrebbe rivolto la preghiera il pellegrino canuto e stanco colto per strada dalla tempesta a una clausura. L’intelligenza del mio cuore mi diceva che lo spazio che mi separava dal salone non era certo quello topografico delle due strade che intercorrevano, ma l’ottusità della mia fretta la tacitava volgarmente. Quale empio soldato con il brando sguainato penetrante nel tempio delle Vestali, così mi guardarono le attempate clienti e le alacri lavoranti, allorché varcavo la soglia, ma la signora Lucia, la patronne del salone, non era donna da smarrirsi per così poco e mi squadrò senza alcuna agitazione e senza nemmeno dire il ‘ desidera?’ di prammatica. ⁃ Chiedo scusa per l’intrusione, ma il mio barbiere qui vicino è chiuso e avrei urgentemente necessità di tagliarmi i capelli, non è che potreste voi? E so per certo che ad Amsterdam ci sono delle barbiere. Fui invece io a parlare spontaneamente, ma aggiunsi quel riferimento ad Amsterdam per far capire che non mi si poteva menare per il naso, che ero un uomo di mondo ( in effetti ero gà stato tre volte ad Amsterdam sfruttando le tariffe scontate nel terzo fine settimane dei mesi invernali della compagnia aerea di bandiera dopo una folgorazione giovanile in occasione di una gita scolastica). Senza scomporsi la signora Lucia mi rispose: ⁃ Per tagliarla non c’è problema: ho giusto un buco tra mezz’ora, ma non posso farle la barba perchè non ho il rasoio a meno che non voglia farsi fare la ceretta-. Disse sorridendo ⁃ Grazie solo i capelli, non mi serve la barba perché quest’anno la si porta un po’ sfatta, lievemente trascurata.. ⁃ Ma non nel suo caso perché si vedono troppo i peli bianchi. Mi fece accomodare senza aggiungere altro e mandò una ragazza nel retro, dal quale tornò consegnandomi una copia intonsa di quel giorno della Gazzetta dello sport, sorprendendomi,
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gratificandomi e nel contempo deludendomi un po’ perché già mi aspettavo di sfogliare qualche rotocalco femminile sul quale poter scaricare qualche facezia silenziosa a proposito di qualche eccentricità letta lì solitamente salutistica di qualche celebrità. Fui informato che in via del tutto eccezionale, ma io ero a mio modo un cliente eccezionale, avrebbe provveduto sia al lavaggio sia all’haircutting vero e proprio la medesima Lory in deroga alle abituali regole del salone che prevedevano una rigida distinzione tra cutter e washer. Avevo cominciato a chiedermi cosa significasse questo provvedimento nei miei confronti se fosse un trattamento di favore o piuttosto un oggettivo ostacolo all’effettiva realizzazione del principio della piena parità tra sessi nell’accesso all’erogazione dei servizi a pagamento o gratuiti. Ma quando condotto nell’apposito spazio lavatorio sentii i polpastrelli della Lory comprimere delicatamente la mia cute sotto il cuoio capelluto, desiderai istantaneamente che scoprisse delle incrostazioni di calce o meglio di vernice, come avrebbero un pittore o un imbianchino della Rive Gauche, sui i miei capelli così da ripetere tre, quattro anche cinque volte l’operazione dell’insaponamento. Il piacere del massaggio agiva in profondità, riattivava le mie sinapsi, ridestava pensieri sopiti e mi sembrava di cogliere con più lucidità non solo i piaceri fisici ma anche le altezze spirituali. Intesi con la coda dell’orecchio, per così dire, la signora Lucia che diceva a una vecchia cliente che gli uomini infondo sono creature semplici e aveva ragione, solo che il mondo dentro e fuori di me è così complesso da intorbidirmi la genuina semplicità ( il mondo è come l’agnello che intorbida l’acqua alla quale si abbevera il lupo nell’omonima favola). Purtroppo i miei capelli erano solo moderatamente grassi e il tempo del lavaggio era ineluttabilmente terminato, con ciò era terminato il tempo del piacere assoluto omologo a quello dell’infanzia, come dimostrava la circostanza che in entrambi non si era capaci di parlare. La Lory mi fece accomodare su una poltroncina in altro punto del salone. Era una bella ragazza, forse un po’ troppo magra per chi come me, o come la maggior parte, ama aver qualcosa sotto da toccare. Ma il tempo delle parole era giunto. Così lei mi disse che avevo i capelli stanchi e questa cosa che lei affermasse qualcosa che serviva ad affermare la mia inerzia mi piacque immensamente. Così a mia volta le dissi che era molto gentile e lei rispose che la cortesia nei confronti del cliente era lo stile della ditta. Poi mi descrisse a lungo le vie tortuose per le quali il capello si stanca e io quelle per le quali il mio cuoricino s’affaticava. Ma il tempo, questo tetro sovrano, aveva deciso di por termine anche ai piaceri del linguaggio e dovevo congedarmi dalla Lory perché il taglio si era ormai concluso. Questo distacco mi pesava una cifra, così che non feci attenzione nemmeno a quella che dovetti sborsare quale mercede legittima per la sua opera, ma mi aveva tagliato bene. Eppure prendere la via dell’uscita, salutarla e ringraziarla mi pesavano indicibilmente. Ma al momento non c’erano altre vie. Tutta la sera successiva mi chiesi come tornare a parlarle. Passai una notte insonne, salvo le sette otto ore centrali e al mattino mi risolsi a mandarle un mazzo di rose rosse accompagnato da un biglietto nel quale le esternavo la mia convinzione che tra di noi fosse accaduto qualcosa di intenso, che era difficile spiegare con parole, sebbene le parole ci fossero state e non prive di una loro profondità, ma era nel tocco delle sue mani che si trovava il nostro piccolo segreto, allora mi chiedevo se sarebbe stato possibile trasformare quel piccolo segreto in un grande evento, anzi in un evento assoluto. Fu a mezzogiorno che a stretto giro di posto ricevetti un controbiglietto nel quale la suddetta esprimeva tutta la sua sorpresa perché mi ero permesso di attribuire alla sua cortesia professionale un valore intimo scambiando dei convenevoli per l’espressione di un mondo interiore, il suo, che non conoscevo, come potevo essere stato così banale? Non mi restava che partire per l’Oktoberfest. Forse avevo venduto la pelle dell’orso prima di averla in mano o forse mi ero fatto un viaggio mentale, ma intanto mi attendeva quello fisico, reale, eccitante, o forse le rose non s’usano più
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les nouveaux réalistes: Keith Botsford 16 agosto 2014 Caro, Je ne suis pas un nouveau réaliste mais un réaliste depuis mon enfance. Collaboration est le plus court, le plus lu, et le plus populaire et direct de mes romans. Je serais très content de voir paraître un extrait dans ta série. La traduction est de Bianca Harvey K
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da Collaborazionismo Keith Botsford traduzione italiana di Bianca Harvey dal primo capitolo – Ansia La natura non ha plasmato l’uomo o l’animale per essere perdente. E infatti vigila sul predatore non certo sulla preda. Per quanto, poi, gli esempi di sconfitta non si contino: venire respinti con durezza dalla persona amata, o colpiti e tramortiti da un qualche malvivente, veder dare in pasto alla stampa i segreti più intimi della propria anima, scoprire che i propri figli tramano per affrettare la tua dipartita, divorziare e – naturalmente – la morte stessa. Tutto questo vale anche per i popoli e le nazioni. Ed è verità universalmente nota che nessuno ricorda il nome di chi ha perso. La Francia – sotto l’occupazione tedesca, tra il 1940 e il 1945 – si trova proprio nella frustrante posizione del perdente. Perché la conseguenza principale della sconfitta – al di là dell’indignazione e della vergogna – è lo sfinimento. Sfinimento fisico, morale e spirituale. Il perdente, infatti, esce dal conflitto stremato, in primo luogo dall’enorme sforzo sostenuto per cercare di non farsi sopraffare poi, una volta sopraffatto, dal logorante tentativo di sopravvivere e di tornare ad essere quello che era un tempo. Il risultato più frequente di una disfatta è, come sappiamo, la rivoluzione. Nauseata dal comportamento di chi la governava, attratta da proclami e ideali o manipolata da furbi artigiani di un nuovo potere, la massa amorfa del popolo tende a voler prendere in mano il proprio destino. Gli eventi che mi accingo a raccontare trattano proprio di questa realtà/verità in un luogo e in un tempo specifico: la Francia in quegli stranianti 30 mesi tra l’estate del ’44 e l’inverno del ’46, (“anni da cani”, i più duri della guerra) Ero giovane allora e prestavo scarsa attenzione a quanto avveniva intorno a me. La mia professione era la legge e la legge, si sa, è lenta a mettere a fuoco o a incoraggiare i cambiamenti. Avevo 20 anni quando fui richiamato, nel giugno del 1940 ed ebbi un ruolo del tutto passivo nella disfatta. I quattro anni che seguirono furono per me come un brutto film noioso. Se guardo indietro oggi, quello che vedo è una sorta di apatia diffusa, come osservare una scena attraverso un vetro appannato o una cortina di pioggia, come ascoltare insulse discussioni tra adulti. Per quanto concerne la Vita in sé, c’era poco che potessimo fare. I bambini a scuola cantavano canzoncine al Maresciallo ogni mattina. Non penso che sapessero molto di lui, ma ai bambini piace cantare. E il canto allarga i polmoni. Il Maresciallo – stando a Bernard Ménétrel – suo medico personale, figlioccio e confidente – era un uomo vecchio. La sua faccia di contadino, dura e poco espressiva, dall’ossatura sporgente e dalle strane sfaccettature, ricordava una di quelle muracche a secco che dividono i pascoli nelle campagne, e si vedeva dovunque. Piuttosto che abitarla, sembrava darla in prestito perché fosse usata sui francobolli o affissa sui manifesti di propaganda, dove appariva sempre sereno ma determinato. I baffi erano il segno distintivo delle persone pubbliche a quei tempi. Le ragazze si chiedevano che effetto avrebbe fatto sfiorarli con le labbra e intere popolazioni li adottarono come marchi di fabbrica: baffi alla Hitler, alla Stalin, alla Pétain. Erano il tocco facciale emblematico delle idee sostenute. Quelli di Pétain erano tra i più semplici. Non morbidi, però, anzi militareschi. Il dottor Ménétrel non portava baffi. Il suo era un viso borghese, ben nutrito e liscio, ma anonimo, come un vestito preso dalla gruccia di un negozio di moda pronta. Era una faccia carnosa, specialmente intorno alla bocca. Gli occhi scuri, un po’ velati avevano un leggero strabismo. La normalità, la routine con cui inizia la storia che mi accingo a raccontare non descrive la realtà: governare, come si sa, comporta una continua ripetizione di atti. I membri di un governo non fanno
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che incontrarsi a scadenze regolari e parlare. In tal senso questa mattina è una mattina tipica e potrebbe svolgersi in qualsiasi altro momento o altro luogo. Per esempio che il capo dello Stato, il Maresciallo Pétain, incontri i suoi collaboratori alle 10 del mattino, è cosa del tutto normale. Ma questa volta tutto ciò non avviene a Vichy, bensì in uno del lungo elenco di castelli requisiti, nei quali lui e il suo entourage vengono via via spostati dai padroni tedeschi. E gli spostamenti, quelli no, non sono affatto normali. Due soldati tedeschi sono ritti sulla porta della stanza appena riaperta. Nonostante il caldo l’ambiente emana odora di muffa. Insieme ad altri odori, il più pungente dei quali è certamente quello della sconfitta. La sconfitta ha un odore specifico. Come quando da bambino, nel cortile di scuola, stai per essere malmenato da compagni violenti. Un odore di urina non trattenuta, di paura mista a vergogna. Il Maresciallo non ha alcun odore. Egli non riconosce la sconfitta, sebbene se ne senta circondato. Il dottor Ménétrel, un giovane sui trentacinque, cammina su e giù per il corridoio fuori della stanza. Di solito egli è dentro la stanza, sempre accanto al Maresciallo. Anche questo è un segno del mutamento delle circostanze di cui, anche se teso e seccato, egli si rende acutamente conto. Ménétrel è sempre stato accanto al Maresciallo dovunque egli fosse, perché a lui è affidata la cura della salute fisica del capo dello Stato. E mantenere il Maresciallo vivo è importante per tedeschi perché è attraverso di lui e attraverso Pierre Laval, nell’altra metà della Francia occupata, che essi riescono a tenere la popolazione tranquilla, sottomessa e in totale apatia. Ora Pétain viene trascinato da una castello all’altro: Vichy non è più così sicura. I castelli sorgono al centro di parchi circondati da alte mura. Qui è più facile proteggerlo. Ma nel percorso da un castello all’altro, secondo quanto ricostruisco dai diari e dai quaderni del dottore, Ménétrel e gli altri attraversavano piccole cittadine e talvolta grandi città. E quanto apparivano solide al dottore quelle antiche città. Quei quartieri eleganti che nel secolo precedente erano stati costruiti da gente prosperosa, sicura e in possesso di una chiara visione del proprio futuro. All’interno entrate spaziose si aprivano su grandi sale dagli alti soffitti, dove famiglie si erano riunite per i pasti generazione dopo generazione e le innumerevoli stanze da letto testimoniavano la fiduciosa attesa di bambini a venire. Gli edifici erano gli stessi, ma quanto diversi gli abitanti: scontrosi, impauriti, apatici e annoiati. collabo Soltanto nella campagna l’antica Francia era ancora evidente. Lì piccoli rivi si riversavano in fiumi più grandi, vecchi pescavano con lunghi pali, le colline si confondevano dolcemente l’una nell’altra, il bestiame pascolava pacifico. Anche il villaggio più umile possedeva fattorie e chiese costruite in pietra tagliata a mano secoli prima. Luoghi dove era ancora possibile incontrare preti in tonaca nera che portavano il viatico, seguiti da chierichetti vestiti di bianco, che stringevano in mano una campanella, proprio come un tempo aveva fatto Bernard. Quello che avevano perso, si rendeva ora conto il dottore, era un luogo enormemente ricco e ben curato. Un luogo che aveva raggiunta la perfezione di un mattone levigato o di una pagnotta ben fatta. E poche erano le probabilità che almeno parte di quella solidità sopravvivesse. Il dottore vide il Maresciallo uscire dalla riunione mattutina. Aveva l’aria pessimista. “Si andrà avanti così per sempre” disse al suo figlioccio. ”Non sono in grado di predire il futuro, ma sento che non ci porterà nulla di buono”. In serata furono spostati in un altro castello. Una cosa sembrava certa: nella disfatta anche il temporaneo diventava routine.
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les nouveaux réalistes: Silvia Tessitore 14 agosto 2014
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Tre ragazze – per me – posson bastare Silvia Tessitore Il vento riscattava assai blandamente la calura. Giorno da cani e gatti all’ombra, sieste messicane e state in casa, bevete molto, mangiate frutta e verdura, evitate sforzi inutili. Avrebbero potuto fermarsi ancora un poco e invece ripartirono, le guaglione, con pane e salame e una bottiglia d’acqua fresca per sciropparsi altri quattrocento chilometri sotto un sole assassino, dopo quelli dell’andata. Tre giorni e due notti, un distillato di salvezza. Tre giorni e due notti, un’autentica bellezza. Erano i giorni dell’uccello di fuoco (avevano spesso sfidato per me piene, alluvioni, neve e altri disastri meteorologici), ma anche quella volta i miei tentativi di convincerle a trattenersi, a concedere parca revoca ai rispettivi impegni familiari, furono perfettamente inutili. Neanche il paradiso dove vivevo pro tempore le convinse, come potevano riuscirci le mie povere forze? per giunta fiaccate – seppure in modo non grave – da una fresca crisi di rigetto verso un ospite che s’era rivelato assai meno squisito di quanto ambisse credere e mostrarsi, e che subito fu ribattezzato – per allegra brevità – ‘o malommo. Tre giorni e due notti, cólte e sul più bello. Tre giorni e due notti, e chest’ va per chéll’.
Il loro arrivo era già programmato ma cadde, di grazia, a ridosso della partenza di costui. Morale della favola, la mia piccola pena fu sanata la prima sera, nel corso di un seminario – promosso da Mela e illuminato da Kant, varie candele e molte stelle – dal titolo “Il nostro tempo migliore deve ancora venire”. La discussione fu corroborata dalle più recenti scoperte neuroscientifiche sul cervello nell’età di mezzo, dai nostri duecentosedici anni di saggezza complessiva, da un’apprezzata insalatina di pollo e da un generoso gewurtztraminer alsaziano, tredici gradi e mezzo di puro vigore. Tutti e quattro i colon subirono il colpo, ma reagirono come sempre con coraggio. Tre giorni e due notti sfidammo gli anticicloni. Tre giorni e due notti, insidiate – per giunta – da grossi calabroni. culture-lego-prolonge-trois-jours-30Le nostre infinite colazioni – più che altro, veri e propri brunch – erano il momento della giornata che preferivo, quando eravamo insieme. Chi si alzava per prima stava attenta a non svegliare le altre – Tetta era l’unica a non dare pensiero, coi tappi nelle orecchie non la svegliavi manco coi Pink Floyd a palla. Ciascuna col proprio rituale e le proprie preferenze, ci sedevamo in ordine di levata attorno a un tavolo ed eravamo capaci a restarci per ore. Così facemmo la mattina dopo e quella dopo ancora, in terrazza. Teneva banco il muesli bio che avevo comprato per il mio
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ospite – dopo averne sondato preventivamente gusti e abitudini (mendaci) – e che il mio ospite, signorilmente, non aveva degnato di alcun interesse: a Nadia piacque tanto, sbolognai due pacchi interi a quella cara donna, regular e alla frutta secca. Io odio il muesli. Tre giorni e due notti segnarono un passaggio. Tre giorni e due notti mutarono il paesaggio. Conoscendo e bene, invece, i gusti delle guaglione, li assecondavo. Avevo comprato dei bei borlotti freschi per farne una zuppa, che sicuramente avrebbero gradito. Mentre ancora fuori girava del caffè e qualcuna già addentava una fresella, i fagioli furono cucinati – per la sera, con pomodoro fresco, aglio vestito e abbondante fiore di finocchio selvatico, che rilasciò un aroma soave, più d’un incenso. Nadia, vestale premurosa, sparecchiava, puliva, lavava, rigovernava la nostra pigrizia. Il prezioso Olio degli Angeli, dalla spiccata fragranza d’agrumi, fu mescolato all’olio di mandorle dolci e – dopo un giro di docce – ci avvolse tutt’e quattro come un balsamo. Concludemmo la mattinata a mozzarella e pomodori, col pane casertano – nostra madeleine, e ci appropinquammo alle brande per la pennica. Tre giorni e due notti di letizia. Tre giorni e due notti per rinsaldare, ancora, l’amicizia. Mela e Nadia, compagne di viaggi intorno al mondo, divisero la camera padronale. Tetta e io il lettone che avevo allestito nel mio studio. Mafalda, la mia gatta, s’infilò tra di noi e accompagnò le nostre chiacchiere col solito repertorio di effusioni. Si resisteva a stento al clima impietoso, malgrado fossimo a 700 metri d’altitudine, quell’estate i meteorologi identificavano le “holas de calor”, come le chiamano in Galizia, con nomi minacciosi e temibili – da Caronte a Nerone, per la sola gioia dei turnisti delle redazioni giornalistiche. In quei giorni imperversava Lucifero, il più insidioso tra i drammi di stagione. Mela, insofferente alla temperatura della controra, piazzò uno dei miei lettini da spiaggia all’incrocio di due finestre, nella stanza di mezzo, e ogni tanto minacciava di chiamare la madre superiora per ristabilire l’ordine in camerata. Ci mettemmo a bisbigliare per non disturbarla, pian piano Tetta si addormentò, io no – avevo perso il sonno. Tre giorni e due notti ci cullammo, affettuose, nell’ozio. Tre giorni e due notti, al tramonto una luce topazio. Tetta – la più vispa di noi, non c’è che dire – avrebbe sfidato il caldo fin dal mattino, pur di uscire. Solo l’opposizione compatta di noialtre l’aveva convinta a desistere, a condizione però che la sera saremmo andate a Talla per un aperitivo. Ma il vicino di casa si fece scappare di una certa qual fiera in un posto a valle e quindi decidemmo di andare a vedere: ma senza fretta. Il posto a valle era Capolona, e non entrava nella testa di Mela: lo chiamava Casalnuovo, Casagiove, Caivano, qualsiasi nome con la C di Campania ma Capolona no. Uscimmo di casa alle otto di sera, arrivammo che la fiera era già bell’e finita e giù dabbasso c’era un calore da impazzire. C’infilammo in un bar per bere qualcosa ma non si resisteva né dentro né fuori. Decidemmo di mettere fine a quella straziante escursione termica e tornare a casa a mangiare i nostri fagioli: in terrazza si stava decisamente meglio. Convenimmo sul fatto che un giro in macchina con l’aria condizionata fosse il migliore aperitivo che potessimo concederci, e rincasammo. Tre giorni e due notti, donne mie. Tre giorni e due notti di amene litanie.
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M’intestardii nel preparare anche del baccalà: avevo degli ottimi filetti carnosi, puliti e già bagnati, e fritti erano la morte sua. Nadia commentò, laconicamente: “Pare ‘a vigilia ‘e Natale”. Il menù era di quelli da cantina della nostra gioventù, ma fu innaffiato da un Rubio di Montalcino da quattordici gradi che avrebbe resuscitato un morto e che nelle nostre cantine, all’epoca, non avresti mai trovato. Mangiammo come sempre con gusto e appetito, tra discorsi e risate, spazzolammo la zuppa e pure il baccalà. Verso le undici e mezza, quando l’aria fu abbastanza fresca, Mela e io demmo forfait e guadagnammo la posizione orizzontale. Nadia e Tetta se ne stettero sotto la Via Lattea fino all’una passata. I colon, amabilmente allenati alle eccedenze conviviali, accusarono quanto basta la potenza del fagiolo rosso e la forza del vino, all’insegna del motto “o schiatta ‘o verme o more ‘a creatura”, o anche – fosse stato davvero Natale – “si fotte il freddo ma la musica è bella”. Tre giorni e due notti durano davvero poco. Tre giorni e due notti, e un altro battesimo del fuoco. La mattina dopo la colazione aveva il solito sapore di partenza, e quello non mi piace. Mela, driver della situazione, teneva come sempre in pugno orari e disciplina della truppa, e alle undici chiamò il giro. A mezzogiorno erano pronte a partire, dopo aver preparato le merende e rinfrescato quanto basta la bottiglia d’acqua che le avrebbe accompagnate al primo autogrill. Scattammo un po’ di foto sotto al noce, alla Thelma e Louise, ma in quattro non era proprio facilissimo beccarci tutte e con la faccia giusta. Ovviamente, dal display del telefonino vedevamo poco o niente – con tutto quel sole e la nostra incipiente cecità – toccava controllare dopo, al computer, com’erano venute. Erano bellissime. Così, le ragazze presero la strada. Con una lacrima che mi ballava negli occhi me ne tornai in casa. Era ancora viva delle loro voci. [Talla (Ar), 23/25 agosto 2012 / ascoltando Una bellissima ragazza di Ornella Vanoni]
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les nouveaux réalistes: Valerio Evangelisti 11 agosto 2014
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Il Grande Fratello Valerio Evangelisti La luce andò via proprio mentre i sei concorrenti superstiti de Il Grande Fratello stavano festeggiando il compleanno di uno di loro, Niccolò. Prima la casa fu invasa dal buio, poi le note di My Way di Sinatra si strozzarono negli altoparlanti dell’impianto hi-fi. Martina, abbastanza ubriaca, domandò dopo un poco: «Insomma, torna o no questa luce?» Paolo interpellò il loro interlocutore invisibile di tutti i giorni: «Grande Fratello, cos’è successo? E’ saltato il mixer?» Silenzio. Fu Paolo, il più anziano del gruppo, a replicare: «Dev’esserci stato un corto circuito. Niente paura, la luce tornerà da un momento all’altro.» «Io ho visto da qualche parte una lampada tascabile» disse Samir, l’egiziano inserito nella trasmissione per darle una coloritura multietnica. «Ora la cerco.» Alla luce della torcia elettrica, sembravano smunti, con le guance incavate e borse vistose sotto gli occhi. Cristina, detta Cris, scoppiò in una risatina. «Sembriamo quelli dell’Isola del Famosi. Morti di fame. Invece noi mangiamo persino troppo.» Niccolò, accanto a lei sul divano, le si fece vicino. «Le telecamere devono essere spente. Nessuno ci vede.» La sua voce, dal forte accento romanesco, era greve e faceva presagire la frase successiva. «Adesso posso toccarti le tette.» «Non ci provare!» strillò la ragazza. «Ma l’ho già fatto, e non hai protestato.» «Sì, però le telecamere funzionavano.» Nella frase di Cris era, a ben vedere, sintetizzata la filosofia del programma, e la psicologia elementare di chi vi partecipava. La luce tornò, e costrinse tutti quanti a battere le palpebre. Era una luce diversa da quella consueta. La sua intensità illuminava ogni angolo quasi a giorno. Chissà quanti watt andavano sprecati. Luigi, l’intellettuale del gruppo, batté le palpebre come gli altri. Fu il primo ad alzarsi. «Grande Fratello?» chiamò, esitante. Attese un attimo e rafforzò il timbro. «Grande Fratello? Cos’è capitato?» Silenzio. Si levò dalla poltrona anche Wang Ping, la cinese, la cretina per definizione, amatissima dal pubblico. «Grande Fratello?» trillò, con la sua vocina assurda. Non vi fu risposta. Di indole pratica, Paolo riprese ad affettare la torta, come faceva prima dell’interruzione di corrente. Mentre eseguiva bofonchiò: «Chi ci vede da casa crede che qui tutto sia perfetto. Non sa nemmeno che ogni tanto salta la corrente, e che gli altoparlanti possono rimanere muti, come adesso.» Martina fu la prima ad afferrare una fetta del dolce. Mentre masticava, un rivolo di crema le scivolò lungo la scollatura e vi scomparve. Non vi fece caso. Per abitudine ormai consolidata si girò verso la telecamera più vicina. Il led non lampeggiava. Dunque era spenta. Fu una piccola delusione. Inghiottito il boccone, disse: «Da casa, in questo momento, non ci vede nessuno. Nemmeno il Grande Fratello può vederci. Almeno credo.» Fedele alla sua parte, Niccolò prese a strillare: «Evviva, ragazze! Finalmente si scopa!» Cris si scostò. «Stai calmo. Fatti una sega» gli disse, acida.
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Contava sulla sospensione della diretta. In circostanze normali, la sua frase sarebbe stata coperta da un bip prolungato. «Perché non me la fai tu?» chiese Niccolò, che quasi sbavava. «Guarda che non ci stanno filmando.» «Ah, già.» Niccolò si ricompose sul divano. Improvvisamente, il Grande Fratello riprese a parlare. La sua voce risuonò nelle stanze di compensato della Casa. Era insolitamente dura. «Avete meritato una punizione. Luigi sarà il primo. Si rechi immediatamente nel Confessionale. Prima indossi una camicia bianca che troverà sul suo letto.» Vi fu un generale sbigottimento. Chiaramente il più stupito fu Luigi. Deglutì e, per abitudine, si portò sotto una telecamera spenta. «Ma cosa ho fatto?» chiese con un filo di voce. «Non sono consentite domande» rispose il Grande Fratello, quasi rabbioso. «Va’ e indossa la camicia bianca. Ti aspetto nel Confessionale.» «Io non ho fatto nulla.» «Non amo ripetermi. L’ordine lo hai capito.» Cris raggiunse il giovane sotto l’oculare cieco. «Luigi non ha violato il regolamento, e noi nemmeno»» quasi gridò. «Perché punirci tutti?» Non vi fu risposta. Cris attese un poco, poi toccò il braccio del compagno. «E’ meglio se vai. Chissà cos’hanno in mente, ‘sti stronzi.” Luigi si allontanò, riluttante. Nel dormitorio maschile, sul suo letto, Luigi trovò un camicione bianco che gli arrivava ai piedi. Lo strinse in mano con una certa esitazione, ma poi finì per indossarlo. Solo allora si accorse che, sul dorso, era stampato un triangolo rosso. Sotto figurava un numero: 26. Era già abbastanza stupito per interrogarsi su quella stranezza. Così abbigliato, camminò con esitazione fino alla stanza che ospitava il Confessionale. La voce del Grande Fratello risuonò melliflua. «Siediti. Siediti sulla poltroncina. E’ bello guardarti. Sei molto pallido, sai?» Luigi cercò con gli occhi una telecamera, però non ne vide. «Che scherzo è questo? Io non ho fatto…» «Siediti, ho detto!» Gli altoparlanti avevano vibrato, sotto quell’urlo. A Luigi non restò che obbedire. Paolo sbadigliò e guardò l’orologio. «E’ là da oltre tre ore. Mi sembra insolito.» Cris, la più ricca del gruppo, controllò sul suo Rolex. «E’ vero. Scommetto che ha bestemmiato.» «Cosa vuoi dire?» rispose Martina. Depose la fetta di dolce che stava mangiucchiando. «Non l’ho mai sentito bestemmiare. Nemmeno una volta.» «L’avrà fatto da solo. Magari in diretta.» Intervenne Niccolò, semisdraiato su un sofà. La Casa era piena di sofà. «No, non è il tipo. Era l’unico che non scoreggiava mai a letto. Nemmeno quando, a Natale, ci hanno imbottiti di cotechino e lenticchie.» «E con ciò?» chiese Paolo, intento a dividere quanto restava dello champagne tra le coppe. «Forse non bestemmiava in pubblico, però lo faceva in privato. Una telecamera lo ha sorpreso. Non immaginate i guai, in un caso del genere.» Samir si avviò verso il confessionale. «Sentite, io vado a vedere.» «Vieni, vieni pure!» ridacchiò il Grande Fratello. Samir ebbe un’esitazione, ma poi imboccò il corridoio. «Fermo! Indossa prima la camicia bianca! E’ sul tuo letto. Riponi gli abiti e indossala!»
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Le ore passavano. Non c’era altro da fare che continuare a bere. Martina era sbronza. Anche Cris vacillava. Niccolò si era addormentato. Paolo si versava altro spumante, con mano malferma. Solo Wang Ping, astemia, rimaneva lucida, per quanto glielo consentiva la sua palese idiozia. «Grande Fratello» squittì «dove hai messo Luigi e Samir? Non li avrai mica espulsi, vero?» Gli altoparlanti restarono muti. «Ma piantala, Ping» disse Paolo, dopo un singulto. «Perché dovrebbe averli espulsi? Non hanno fatto niente.» «Nemmeno noi, ma ha detto che vuole punirci tutti.» «E cosa vuoi che sia? Ci toglierà la cioccolata, ci obbligherà a imparare qualche canzoncina…» «Ma perché vuole punirci tutti?» «Perché siete tutti colpevoli!» Gli altoparlanti oscillarono, tanto la voce del Grande Fratello era iraconda. Niccolò si svegliò di colpo, Paolo lasciò cadere la bottiglia. Gli altri sussultarono. «Colpevoli dall’inizio. Pensate a ciò che eravate, prima di venire qui. Pensateci e ve ne renderete conto.» Niccolò fece una risatina che suonò artificiosa. «Ha una voce da avvinazzato. Non siamo gli unici a bere. Beve anche lui.» Wang Ping scoppiò a piangere. «Vuole farci del male! E’ terribile! Terribile!» A peggiorare la situazione, la luce ondeggiò e si spense di nuovo. Nel buio, si udì la voce incerta di Marina, che cercava di consolare Wang Ping. «Ma cosa vuoi che ci faccia? Guarda che è un funzionario della televisione. Conta meno di un cazzo.» «A proposito di cazzo…» esordì Niccolò, tornato alla lucidità. «Tieniti lontano da me!» strillò Cris. Paolo si interpose. «Bando alle stronzate. Luigi e Samir sono da ore nel Confessionale, a pochi metri da qui. Andiamo a cercarli.» «Ma non c’è la luce…» obiettò Marina. Si udì una sghignazzata, poi il Grande Fratello urlò: «Volete luce? Peggio per voi. E luce sia!» Le lampadine si riaccesero, però di una luminosità rossastra, che creava ombre lunghissime. Nel breve corridoio che conduceva al Confessionale, Paolo bofonchiò: «Lo scemo ci dice di pensare al nostro passato. Sarà che ho bevuto troppo, ma non ricordo nulla di particolare.» «Non siamo in condizione per ricordare» asserì Martina, con un filo di bava che le colava dalle labbra. «Ho bisogno di dormire.» «Tutti ne abbiamo bisogno» osservò Niccolò. «Dirmi, adesso, di frugare nei ricordi, è come chiedere a un cieco di descrivere com’è fatto un pinguino.» Si fermarono di fronte all’uscio del Confessionale. Paolo ne tentò la maniglia. «E’ chiuso a chiave dall’interno» disse, dopo qualche tentativo. «Prova di nuovo.» «Sto provando. E’ inutile.» «Si sentono voci, là dentro?» domandò Cris. «Rumori?» «No, non si sente nulla. Secondo me non c’è nessuno… Chissà dove sono finiti.» «Dove meritavano!» rispose il Grande Fratello. L’intonazione fece capire che stava sogghignando. Wang Ping ebbe una nuova crisi di pianto. Si gettò addirittura in ginocchio. «Perdonaci, Grande Fratello!» singhiozzò. In realtà pronunciava “flatello”. «Non so cosa abbiamo fatto, ma perdonaci!» «Ammesso che non abbiate fatto nulla, siete colpevoli dall’origine.» «Perché? Perché?» «Non occorre che ve lo dica io.» La voce che rimbombava nelle stanze della Casa era chiaramente quella di qualcuno in preda all’alcool, o a sostanze ancor più inebrianti. «Per voi esiste una sola speranza. Pentirvi. Confessarvi. Abbandonarvi inermi all’eventuale pena. Altrimenti sarete cancellati.» «Ma pentirci di cosa? Confessare che?» domandò Wang Ping a mani giunte, le guance rigate di lacrime.
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Cris si piegò su di lei e le afferrò una spalla. La costrinse a sollevarsi. «Basta, non dare retta a quello stronzo. Non è dignitoso. Vabbe’, hanno deciso, per motivi loro, di cacciarci fuori tutti. Giudicheranno i telespettatori. Adesso ho sonno e voglio dormire, altrimenti me ne andrei subito.» Ansimò leggermente, mentre sosteneva l’amica. «Che vada affanculo il Grande Fratello. Qual tizio dipende da noi, e dall’Auditel, più di quanto noi dipendiamo da lui.» «Giusto!» esclamò Niccolò, che si appoggiava a una parete di compensato per tenersi ritto. «Domattina ce ne andiamo in massa, e stanotte dormiamo nella stessa stanza, maschi e femmine. Se ci cacciano, l’ultima notte possiamo fare quello che vogliamo.» Cris replicò, sardonica: «E’ inutile che mi guardi così, Niccolò. Per te non c’è speranza.» Non ansimava più. Wang Ping pesava quanto una piuma, e non era difficile tenerla in piedi. «Non c’è speranza per nessuno di voi!» ridacchiò il Grande Fratello. Era drogato, non c’erano dubbi. La sua voce cambiava di timbro all’interno della stessa frase. Si udì persino, amplificato all’eccesso, un suono gorgogliante. Forse aveva vomitato. Chissà quali intrugli aveva bevuto. Furono risvegliati da un ordine pronunciato come fosse un ululato, perché la sua coda ridanciana si protrasse a lungo, variando di tono. «Martina nel Confessionale! Nessuna camicia bianca, però! La voglio nuda, ah ah ah ah!» Martina si districò dal groviglio dei compagni con cui aveva diviso il letto e scattò in piedi. Era perfettamente lucida. Marciò verso un altoparlante sormontato da una telecamera e mostrò il medio della mano destra. «Vaffanculo, Grande Fratello. Non mi spoglio nemmeno se mi paghi.» Come gli altri aveva dormito vestita. «E poi, che richieste sono? Fammi parlare con un dirigente. Qualcuno più importante di te.» «Più importante di me?» La voce incorporea suonò incredula, prima che l’ilarità montante la rendesse chioccia. «Davvero non vuoi spogliarti per me? Mostrarmi le tue bellezze?» «No, non voglio!» gridò Martina. «Oh, che peccato. Non eri così, durante i provini. Mi tocca eliminarti. Vai al Confessionale, bambola sexy. Anche vestita, non posso più salvarti. Però ricorda di metterti gli occhiali da sole.» Martina ebbe uno scatto d’ira. Saltò, nel tentativo di afferrare la telecamera. Non vi riuscì: era troppo in alto. Senza ragione apparente si mise a piangere. Il timbro del Grande Fratello diventò carezzevole. «Non prenderla così, piccolina. Vai al Confessionale. L’espulsione, in fondo, non è un dramma.» «Ma la porta è chiusa!» obiettò Martina, tra i singhiozzi. «La troverai aperta. Del resto è sempre aperta a chi dà segni di pentimento. Vai Martina. Tornerai ciò che eri prima di venire qui. Ricordi?» «Non ricordo nulla!» «Ottima risposta. Forse ti salverò. O forse no, chissà. Ho un cervellino talmente bizzarro!» Martina si avviò lungo il corridoio, a capo chino. Il Grande Fratello prese a cantare un motivetto buffo e allegro, che parlava di una “casetta piccolina in Canadà”. Solo all’ultimo gridò: «Martina, non dimenticare gli occhiali scuri! E’ per il tuo bene!» «No, basta! Io non sono più disposta a sopportare!» Cris non aveva reagito all’espulsione di Martina perché troppo assonnata, ma adesso si drizzò in piedi, gli occhi verdi luccicanti di collera. «Hai ragione» disse Niccolò. Represse uno sbadiglio. In quel momento Paolo tornò dal bagno. Si passava sul viso un asciugamani, che gettò in terra con rabbia. «Dobbiamo andarcene. La produzione ci ha messo nelle mani di un ubriacone che si crede Dio in persona. Non è tollerabile.» «Ma così perdiamo tutti i soldi!» trillò Wang Ping, con espressione infelice. «Sì, ma agli occhi dei telespettatori acquistiamo in dignità.» Paolo gonfiò il petto. «Forse tu, Ping, prima di venire qui facevi qualche lavoro servile. Sei abituata a ricevere ordini.» «Non facevo niente!»
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«Però eri portata a obbedire agli ordini. Io no. Io ero…» Paolo lasciò la frase in sospeso. Per un attimo la sua sicurezza si incrinò, ma si riprese subito. «Ciò che eravamo non conta. E’ questione di indole. Io ci tengo alla dignità, e non voglio essere trattato da schiavo.» «Bravo!» Cris batté le mani. «Tutti d’accordo? Si lascia la Casa e si affossa il programma?» Dopo una breve esitazione, Niccolò disse: «D’accordo.» Non sembrava molto convinto. «D’accordo» pigolò Wang Ping. La frase esatta fu “d’accoldo”, ma la sostanza era quella. societeduspectaclePer arrivare all’uscita della casa occorreva passare davanti al Confessionale. Nel frattempo la luce, da rossa, era tornata bianca. Ci doveva essere stato un aumento di watt, perché il calore era da piena estate. I giovani ora sudavano. Niccolò disse, additando il Confessionale: «E’ una porta di compensato, facile da sfondare.» «Perché mai dovremmo sfondarla?» chiese Paolo, sbalordito. «Be’, è chiusa.» «E allora?» «Martina, Luigi e Samir potrebbero essere ancora lì dentro!» Paolo scoppiò a ridere. «Ma piantala, scemo! Non farci perdere tempo. Andiamo all’uscita vera.» «Io non mi muovo. Voglio capire perché hanno chiuso la porta.» «Bravo, rimani qui. Sei sempre stato un idiota, ora lo confermi.» «Ho il diritto di sapere cos’è capitato ai nostri amici!» Paolo guardò l’altro con una specie di compassione. «Amici? Da quando in qua? Fino a ieri erano per te dei concorrenti. Tutta la tua amicizia è nata da quando li hanno espulsi.» Niccolò si rivolse alle ragazze: «Cris! Ping! Restate con me? Sfondiamo la porta e vediamo cosa c’è di là.» Pensando al suo ruolo e alle telecamere aggiunse: «Poi magari si fa qualcosa sulla poltrona…» Uscita infelice. Le ragazze non gli risposero nemmeno. Si avviarono con Paolo lungo il corridoio. La porta principale della Casa era serrata come quella del Confessionale. Non era però più solida. Paolo saggiò la maniglia e disse, ad alta voce: «Grande Fratello, è inutile cercare di tenerci chiusi. Io e le ragazze ce ne andiamo, lasciamo il reality. E’ ridicolo tentare di trattenerci!» Non vi fu risposta. Dopo una breve attesa, Cris alzò le spalle. «Quello starà dormendo, sbronzo com’è. Dai, passiamo. Non vedo l’ora di tornare all’aria aperta.» «C’è un chiavistello.» «Non eri tu il superuomo del gruppo?» domandò Cris con ironia. «Forza, usa i muscoli. Molla un calcione alla porta.» Paolo eseguì. L’uscio crollò. Furono investiti da una luminosità intensissima, e da un calore che superava i quaranta gradi. Facce stupite li accolsero. Si udiva, in sottofondo, il suono di onde che si frangevano sugli scogli. Niccolò, a furia di calci, riuscì a demolire l’uscio del Confessionale e a entrare. Una luce che feriva le cornee lo obbligò a battere le palpebre. Sulle prime non riuscì a decifrare lo spettacolo che aveva di fronte. Quando ne fu capace, non poté trattenere un grido, più d’angoscia che di terrore. Forse, un angolo della sua mente aveva già previsto qualcosa di simile. La poltrona centrale era vuota. Lungo le pareti, però, erano appoggiati con la schiena una trentina fra uomini e donne. Tra loro c’erano Luigi, Matina e Samir. I trenta giacevano inanimati, gli occhi chiusi, senza alcuna espressione sul volto. Indossavano camici bianchi. Non erano morti: una traccia di respirazione si percepiva dall’alzarsi e abbassarsi della cassa toracica. «Ma questi sono…» mormorò Niccolò. «…i concorrenti delle passate edizioni» completò ilare il Grande Fratello. «Bravo, Niccolò, hai indovinato!» «Come mai sono qui? Sei tu che li hai portati?» «Sono qui da anni. Adesso puoi vederli perché te lo permetto.»
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Niccolò, malgrado la paura che provava, si sforzò di ridere. «Vuoi prendermi in giro, pezzo di stronzo? Saranno controfigure. Quelli veri li si vede di continuo in tv.» Diede uno schiaffetto a una ragazza dai capelli rossi. «Ehi, svegliati!» «Così la fai soffrire di più. Soffre già abbastanza.» Niccolò si volse alla telecamera più vicina. «Cosa vuol dire che soffre?» «Sogna, e non sono bei sogni.» «Non capisco…» «Lo capirai tra breve. Buon sonno, Niccolò!» La luce si spense di nuovo. Paolo, Wang Ping e Cris erano ammutoliti dallo stupore. Stavano uscendo da una capanna, e calpestavano una sabbia bianchissima. Attorno si scorgevano palmizi, fitti fino alle rive di un oceano ribollente di onde impetuose, ma di cristallina trasparenza. Avevano di fronte due uomini e due donne: i maschi in mutande, le femmine in bikini. Sembravano sbalorditi quanto loro. Paolo fu il primo a parlare. Guardò uno degli uomini e disse: «Ma tu sei… Il cantante famoso!» Quello rispose: «Proprio io.» Aveva una corporatura tozza, molti peli sul petto e sopracciglia foltissime. «Ora spiegami perché uscite dalla capanna dei cameramen.» «Capanna dei cameramen?» Paolo era smarrito. «Noi veniamo dalla Casa.» «E la chiami casa, quella bicocca?… Fa nulla, siamo tutti contenti di vedere persone che ci porteranno in salvo. E’ quasi un mese che le lance della produzione non arrivano più.» Una nota fotomodella, ridotta a un corpo con poca carne addosso, indicò le palme. «Le noci di cocco sono finite. Non ci danno le nostre razioni di riso. Anche i pesci stanno alla larga. Viviamo di radici, e dei paguri che ancora riusciamo a trovare.» Cris ebbe un’illuminazione terrificante. «Mio Dio! Non sarete… L’Isola dei Famosi?» Un’attricetta un tempo celebre le disse: «Sì, bella. Aspettavamo chi ci tirasse fuori da questo inferno. Per fortuna siete qua.» I tre fuggiaschi non risposero. Non sapevano cosa dire. Wang Ping, facile alle lacrime, scoppiò a piangere per l’ennesima volta. Chi le asciugò gli occhi fu un’anziana ex presentatrice, sbucata da un intrico di mangrovie. L’uomo che tempo addietro era stato Il Corsaro Nero, in una fiction rimasta leggendaria, resse Ping per le spalle, a impedirle di cadere. Intanto Niccolò, addormentato, sognava. Rivide in sogno il suo passato: nulla. Poi scorse le facce dei telespettatori, fino a quel momento presenti nella sua mente, che si appannavano. Non esistevano: esisteva solo la Casa fluttuante nell’oscurità, e altre stelle lontane. «Bene, è ora di staccare la spina» mormorò il Grande Fratello. Vi fu un lampo, nei sogni di Niccolò, poi i segnali confusi e gracchianti di un canale spento. Linee irregolari sovrapposte, faticose a vedersi e insopportabili a udirsi. Le avrebbe viste e udite per sempre. O almeno fino al suo prossimo ruolo.
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les nouveaux réalistes: Andrea Ponso 8 agosto 2014
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Faldone 1 16 18 Andrea Ponso
Non è niente, ma attento a questo sfinimento. Non è niente, gente, gelate pure seduti sulle vostre sedie, sugli scalini di gesso, scrollate poi via tutto. E non so che ore sono, dove andiamo da queste parti, se qualcosa rimane che si possa dire racconto, vi prego, fatene fiori.
Introitus Oh, quale potenza – e che strano pensiero: arrossisco, tosse, scorbuto, semantica da sputo. Mi darai indietro tutto: i miei libri, gli assegni, anche se in bianco, e l’imbuto da dove mi hai bevuto, prosciugato tutto il sangue – brutta ghirlanda inacidita, eppure così, dolcissima, mia morte e pittima. Che non ci volevo andare, lo spazio di una sigaretta, non ci volevo proprio andare fino alla bottega, a ritirare le poche cose che mi servono per mangiare e digerire, per stare in piedi fino a sera e poi addormentarmi, dimenticarmi delle mani, e delle fistole in testa, dei tesseramenti e abbonamenti scaduti all’infinito. Eppure, così, mai parlato d’altro: degenerazione e argento, genitali e risorgere – una stessa pasta finissima: ti ci abitui, l’assuefazione è contagiosa, gioiosa, e grida e ingravida di deserto il tuo esercito scalcagnato e ora pure insabbiato, tenuto a bada da quattro fresconi che ti premuri di accudire, nutrire, lavare, spolverare e mettere in bella mostra nello spazio vuoto e lucente della mente. Ed ora dai, su, tesoro: inventa qualcosa; rassegnati alla rosa e a questo deserto, negli stinchi ci sbatte spesso e volentieri … non vuole lui, non lo vogliamo noi, ma è così: sposalo – che non c’è divorzio, o giudizio, che ciò che l’uomo ha unito … tentenna, si alza da solo e carica la pistola: non so perché – e non è Dio, e non è Cristo, eppure è una festa. La foglia è stata corrosa dalla malattia, l’unghia è sporca di terra fresca, ancora fresca per poco, e la vigna … la vigna è veggenza, è invasione, è contagio: genera grigiore di cenere, ma genera. Appostato in fondo al giardino, mangio da un cartoccio qualcosa che non ha odore, che non ha nessun sapore: dicono conoscenza, e riconoscenza quella che dovresti avere; dovresti inginocchiarti a pregare, a ringraziare. E lo faccio, mi straccio le vesti, e nessuno mi vede – ed è perfetto questo angolo buio in piena luce. Se sei così luminoso e pallido, ti credono malato, e invece sei graziato: ti attraversano, imperversano schiavi dei tuoi simulacri: li recriminano ad ogni passo, vogliono indietro il loro orgoglio … ma non ne ho più abbastanza, tutto è raccolto in questa stanza, lo posso mettere a disposizione della produzione, lo posso pesare come eroina, con un bilancino d’oro o d’argento. Intanto il vento sparpaglia anche questo, il vento invade, divarica, prosciuga. E siamo sempre allo stesso deserto. L’inserto settimanale è stato staccato, e verrà conservato a lungo in qualche cassetto della cucina, tra le posate arrugginite, i cucchiai, i coltelli per l’arrosto. Ho dato, e mi sono tolto di mezzo; ora azzimato passeggio, senza alcun pensiero o gonfiore del cervello – cammino,
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guardo, osservo, respiro, passeggio – genero per loro, il mio nome non avrà ragione, la mia discendenza in questa stanza rimanda il suo dovere, altrove. E da parte nostra strilla, arsenico, come imbuto imbevuto tutto di te, di noi, di lei: l’arsenale in fiamme, guardate, guarite guardandolo l’arsenale in fiamme, fatene la vostra fame, e non vi sarà dato cibo, o broda o mercanzia. Eppure da imbuto a ponte, il passo è sommerso, il ponte travolto, rannuvolato subito in alto, tra le Ande del mondo, altissimo, santo, cristosegnato e travolto. E rinvenendo ritrovo la vita, la rivedo venirmi addosso con la forza di un sasso scagliato in se stesso, fermo nel suo polso di gesso, slogato per sempre – come quando rinvieni da un morso, da un profondo e non percepito salasso, e ti alzi, e tutto ti gira, e le vertigini ti scassano il cranio, te lo smussano, ma da dentro e giù giù fino allo stomaco, anch’esso, chiaramente, luminosamente rovesciato: ed eccoti tutto, lì, vomitato sul selciato. Guardalo, rammemoralo, adoralo se puoi, verme insulso, uomo in barca in brache di tela, uomo da museo, imbalsamato: vi trovi il sangue, e un siero nero, escrementi, imprecazioni, gelo vilipeso e raggrumato; ma grida se vuoi, ma guardalo: rinvieni in esso, rinvieni in esso l’oscuro rapporto, quando come tutti ti hanno a sangue, a sangue e a prezzo del sangue, salvato e penetrato – strato su strato, nessuno spessore ermeneutico, nessun inutile intrallazzo, politica, potere, porzioni sigillate: niente. Tutto viene da nord, da est, da ponente s’impone, prono s’impone e pompa nel tuo sangue, ti sradica, ad ogni spinta tenta di staccarti, scacciarti via da te, da quello che penso, e pensi, dai sensi e dai non sensi, dal sale e dal pane amato, dal ventre vidimato e ingravidato che, potenzialmente, e solo potenzialmente sei, sei stato e sarai. E dove abito è sempre debito – ma un bruciore, vi dico, un’alba barbara, una bordata e un cratere. Proprio lì, dove mi faccio la barba, tengo farmaci e vita in ordine: tutta una bruttura, un limbo, un brano di carne mangiata d’altri. Si, un bruciore. E va bene, lo accetto, lo centro in pieno – potessi fare altro, tramandarlo come per procura, passando da notai a fiscalisti, lascerei ad altri questa frescura, questo sottobosco, sottopelle senza cura – lo renderei al creatore, alla brutale bellezza della sua natura, alla filosofia e alla ragione, ai suoi aggeggi geniali, agli ingranaggi, ai geli suoi. Ma non v’è ragione o motivo: v’è solo questo debito imbavagliato e buio, che non sappiamo, che non amiamo mai, mai, mio dio mai; potessimo solo farlo buono facendoci buoni, e bui, e belli – vestendo l’ombra sua, e l’obbrobrio come orpelli, come camminamenti dentro lo spessore sfiatante dei venti … ma niente. Sono solo momentanei, monumentali accorgimenti: travature, travet, cicisbei, bullismi, monismi riduttivi, incivili, invalidanti, anti vita, anti schianti, anti tutti quanti – per niente, aureole di gas caino, cianotiche le nostre guance nel suo bacio, accecante. E sono tante le legioni, pochissimi i profili, innumerabili gli affanni, i fregi, i nomi, i dimmi che mi o non mi ami: cianfrusaglie, croste, accresciute crisalidi. Ed io che senza assetto, che non ho madre, che ho sempre sete e silenzio tra le costole, e le costole sprofondano nel buio del bar ogni sera, e al pomeriggio, dopo le sei sempre – caffè sigaretta come siero per l’ansia e la ritrosia; e mentre guardo levriere le cameriere alzarsi sulle punte, tossire, sorridere, dare il resto, ecco m’investe il loro sapore, la loro sapienza da antiche speziali mi spezza il tempo di adesso, mi precipita fuori, nel già e non ancora, la loro ingenua geniale inconsapevole gentilezza, anche se venata d’odio, e fatica, e smaniosa indifferenza … quanta capienza in quelle stanze, quante scale, saliscendi, pianerottoli e rotta di collo giù ci dividono, mie inesistenti figlie, e madri, e sorelle, voi così sublimi, e morte, e belle, mai nate mai nemmeno annusate – eppure è così: ogni mattina vi alzate calde dai letti, vi lavate, profumate, vi preparate alla fatica in faccia ai clienti, alle loro grandinate, ai loro odori avariati o dolcissimi, o pesti, o straziati, voi lo fate, fasciate della vostra magrezza, della vostra superba scaltrezza – avete gli attrezzi, quello che serve, per trasformarvi all’occorrenza in belve vive di tenerezza e spezzare la mia e d’altri cavezza, liberandoci nel deserto, lasciandoci alla sete, alla gioia minuta immensa,
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all’esodo della xenitéia, da schiavitù, da insulsa alterigia, da scontrosa pretesa d’essere assennati, buoni avventori, velenosi solo per timidezza, scaltri anche noi per niente, scalcagnati dal niente, rincorsi, azzuffati, pestati, massacrati, criticati, criticanti, dementi, lucenti: attenti – lussati e addormentati. E c’è una fame, una fine, un fuoco, una fatica infinita. E fu così che da questo deserto scavarono vite, intasarono oasi e silenzi, stremando ogni attenzione, costruendo davanzali, ponti e delusioni – scavando fino al fondo, fornendo idee, concetti, ragioni; generando vertigini e mali immaginari, portando sabbia scura nelle bocche, chiamando tutto questo perfezioni – dimenticando la verginale, esigente escoriazione iniziale. E sbucarono ceffi da dietro i banchi di chiese senza altari, assaltando i fedeli; uscirono da ogni cassetto, affilati come coltelli, incidendo ogni cruccio, ogni cicatrice: svendendo vittime e dolore – dai tiranti, in alto, sollevavano ogni stagione, ogni gola sbrecciata di muro, ogni erba, ogni odore; drenarono reni, intestini, spine dorsali … come squali, il sangue freddo, pulsante, nell’azzurro, salato. Mi ritirai nel nome, muovendomi poco, accorato, negli scambi, tra verbi e consecutio temporali: fili spinati pensati come cieli, costellazioni, ospedali. Mi ferivo e fiorivo, e dal ferro una fede finalmente sfiorava la fonte, limpida a tratti, a tratti sporca di terra e sangue, e canali.
Consummatum est E pose la sterile nella sua casa, quale madre gloriosa di figli: e così affina insieme affezione e indifferenza, distacco e presa, clamore e mormorare sommesso – è lo stesso ed è diverso, sed transire,e in questa pasqua passa, Quamdiu in imagine pertransimus, e non si ferma mai, non vacua imago, sed veritas, mai.
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les nouveaux réalistes: Luigi Spina 5 agosto 2014
Voi siete qui! Gigi Spina Neottolemo è al mio fianco. Lo sento ansimare, col suo caratteristico puzzo di cipolla e sudore. Lo spingo per farlo scostare, mi sta pestando il piede. L’oscurità è fitta, il silenzio è rispettato a fatica, qualcuno penserà che il cigolio delle ruote potrebbe consentire anche un temerario bisbiglio. Allora provo a fare un appello col passaparola, cerco di ricordare come sono disposti in fila fino al portellone d’uscita – quelli dietro di me capiranno da soli quando muoversi. Sussurro all’orecchio (anche quello puzza) di Neottolemo: “avverti Acamante e lui Toante e lui Tessandro e lui Stenelo e lui Menelao e lui Macaone e lui Epeo che manca poco; quando le ruote si fermeranno, Epeo aprirà il portellone e ci caleremo uno alla volta. Sarà facilissimo, gli dèi sono con noi”. Pochi minuti e il cavallo si ferma, un cigolio inerziale e poi il silenzio assoluto. D’improvviso un gran fracasso – sarà il portellone – una luce accecante, tonfi regolari, calpestio di piedi, brusio indistinto, ancora quella luce, sempre più accecante: ora è il mio turno. Afferro la corda, mi calo agilmente, atterraggio perfetto, sguaino la spada… dove sono i compagni? Dove siamo tutti noi? Sposto la mano a proteggere gli occhi dalla luce e lascio cadere la spada, lo so che è azzardato, ma mi sembra di avere dinanzi una parete immensa, un ostacolo imprevisto. Venere che gioca l’ultima carta? Ma no, la parete è umana, un muro alto quanto il cavallo, con al centro un gran cerchio tutto rosso… una scritta si allunga sulla destra del cerchio: VOI SIETE QUI! Ma qui dove? ATTENZIONE, urlo… il muro si sta spostando, si apre in due metà, lasciando da una parte VOI SIE e dall’altra TE QUI! Dannati Troiani! e mi slancio nella breccia. Ecco le mura dell’alta Troia, ecco i nemici, ecco le donne piangenti, i bambini pronti al sacrificio: questo mi aspetto, questo vedo con gli occhi della mente. Ma quando mai! Una spiaggia, lunga e ampia quanto basta per contenere uomini disarmati affaccendati a smontare pannelli, simulacri di torri e bastioni, gigantografie oscillanti col vento, un andirivieni di strani carri e mostruosi alberi semoventi con braccia enormi. Avessi già incontrato Polifemo, mi rassicurerei: siamo nella terra dei Ciclopi, i mostri con l’occhio accecante, faro penetrante a guisa di fuoco. Ma no, altro che Polifemo e Sirene, certo vedo mare e isole ma assolutamente innocue, vedo solo uomini laboriosi e per nulla simili ai Troiani – se è per questo, neanche a noi Danai e Achei. Uomini con strane bacchettine in bocca che emettono fumo, mani ricoperte di mani supplementari con vello di pecora, bastoni con forme strane e asce che demoliscono i pannelli di legno. Dove sono i compagni? mi chiedo in preda a un terrore crescente. Né avanti né dietro di me. Provo a fermare un uomo laborioso, un carpentiere, appoggiandogli la spada sulla gola. Sembra non fare caso a me, mi rivolge una parola ingarbugliata e barbara “ph-n-k-l-“. Si allontana ripetendo strane formule. Lì, in fondo alla spiaggia, un uomo seduto su un triclinio un po’ strano, rigido, legnoso. Di spalle sembra uno dei nostri, ma forse potrebbe essere uno di loro. Mi avvicino cauto con la spada ancora sguainata. Ma è Priamo, certo, lo riconosco dalle spalle cadenti di vecchio re. Anche lui ha una bacchettina che emette fumo. Si alza e si volta. Mi riconosce, sembra. Certo Elena gli avrà parlato di me, chissà quante volte. Mi ferma con un gesto imperioso, ma allo stesso tempo amichevole. Riesco a capirlo, miracolo! “Amico mio, finalmente! ce ne avete messo di tempo. Quasi quasi dovevamo ricorrere a un’altra troupe. Ma alla fine ce l’abbiamo fatta, la discesa è riuscita benissimo, ripresa perfetta, con tre camere. Tu ti sei un po’ impappinato, ma poi ti sei ripreso, comunque l’aggiusteremo col montaggio. Grande, Ulisse, come sempre!”. E mi lascia lì, con la mia spada sguainata, lo sguardo perso, senza compagni, e soprattutto senza Troia. Mi volto indietro, per recuperare almeno il cavallo. Magari! Smontato, da quei dannati alberi semoventi, pezzo per pezzo. Rimane solo la sedia di Priamo, dannato regista di tutta l’operazione, magari inventore di Sinone, Laocoonte, i serpenti, forse dello stesso cavallo? Allora anche i compagni, IO STESSO? VOI SIETE QUI, leggo in un angolo della piazza, nel pezzo di parete sopravvissuta allo smontaggio minuzioso. QUI, va bene, ma VOI CHI
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les nouveaux réalistes: Maria Luisa Putti 4 agosto 2014
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Ritorno a casa Maria Luisa Putti
Il portico sembra lunghissimo per il passo incerto del soldato ferito; il susseguirsi degli archi che, ancora adolescente, si divertiva a contare nelle passeggiate e nei giochi di ragazzo si confonde ora nella memoria con la fila dei commilitoni. L’uniforme grigioverde lo fa più uomo, ma il sottotenente Alberto Serra, studente dell’Istituto di fisica e matematica, nato a Bologna il 22 settembre del 1897, terzo di tre fratelli sparsi sul fronte tra il Veneto e il Friuli, non ha ancora compiuto i ventuno anni. L’ospedale da campo, quel frammento di pietra che si era staccato da un masso colpito da una granata e che era schizzato a ferirgli il ginocchio come un proiettile, la sua corsa ostinata sotto il fuoco nemico, l’odore dolciastro e ripugnante dei cadaveri in putrefazione, il gioco della dama, gli scacchi, le sigarette fumate nelle trincee per passare il tempo, le scaramanzie e le superstizioni suggerite dal pericolo; l’acqua bevuta nell’elmetto, con i moscerini e i fili di paglia da scostare con le dita. E poi i pidocchi, presi il primo giorno, appena arrivato, nel Genio Zappatori: «Serra, ce li hai i pidocchi?», gli chiese il suo comandante. «Oh, no, signore», rispose il ragazzo inorridito. Allora il maggiore ne trovò un pizzico sotto la sua camicia e glieli diede: «Prendili, qui li abbiamo tutti». Ricordi affastellati, sovrapposti ai pensieri di ragazzo, ai giochi accantonati, il tiro a segno, il fioretto; i libri di scuola abbandonati sui banchi per andare a fare la guerra. Alberto cammina, ancora, fino al portone di casa, a Verona. La luce del pomeriggio si riflette rossa sulla pietra dei palazzi: batte al portone. Nessuno gli apre. Batte ancora: capisce che nessuno lo aspetta.
«Cara mamà, vi scrivo per comunicarvi che verrò a casa per qualche giorno di licenza. Mi dà grande gioia il pensiero di riabbracciarvi. Il vostro devoto figliolo, Alberto».
Venti giorni: sono passati venti giorni, e la sua lettera non è arrivata. Alberto è esausto. Per tutto il viaggio non ha fatto che sognare il momento in cui avrebbe varcato la soglia di casa sua, in cui avrebbe sentito il crepitio della fiamma nel camino, l’odore della roba da mangiare preparata dalle mani di sua madre, da quando non avevano più la cuoca. Non ha fatto che sognare di addormentarsi nel suo letto, profumato, soffice, pulito, dopo tante notti passate all’aperto, a dormire seduto, poggiato contro un muro. E poi il viso di sua madre, il suo abbraccio affettuoso, lo sguardo fiero di suo padre e il chiacchierare disteso dopo cena, a ricordare, a raccontare, a leggere libri.
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Alberto si astrae con la mente per pochi secondi appena, densi di immagini e di desideri, di ambizioni semplici, ma attese con bramosia e con pazienza insieme, per molti mesi, al fronte.
Una finestra si apre al primo piano: si affaccia la cameriera: «Signorino Alberto!». È sorpresa, quasi non crede ai suoi occhi. Si precipita di sotto per andargli incontro e aprirgli il portone: «La signora è fuori per la funzione, la messa della domenica». Perché, certo, è domenica, e sono le sei del pomeriggio. Alberto entra nel cortile, sale le scale, raggiunge il salone con il camino acceso. Il suo passo è quello adulto di un soldato stanco, sul pavimento di legno della biblioteca, stanze in cui pare ancora di udire le voci allegre dei ragazzini che tiravano di scherma nei corridoi, divertendosi a trafiggere le pupille della nonna paterna nel quadro che la ritraeva già vecchia: Alberto contro Giovanni, il secondo dei tre fratelli, e poi Giovanni contro Ercole, il più grande, che tutti chiamavano Lino, che era campione di lotta greco-romana, e ad Alberto, più piccolo di lui di dieci anni, sembrava un gigante invincibile. E invece la Grande Guerra lo avrebbe vinto di lì a poco, tenente del Lucca Cavalleria, irrimediabilmente ammalato a causa delle sevizie subite nelle carceri austriache. Alberto si siede sul divano foderato di velluto blu. La sua mente corre all’alba di venti giorni prima, quando aveva scritto a sua madre per farle sapere del suo arrivo, nella penombra, in uno stanzone pieno di feriti, usando come scrittoio il davanzale di una finestra. Un giovane soldato ferito gli si avvicinò in silenzio e dopo, sottovoce: «Mi aiutate a scrivere una lettera a casa?». Allungò timidamente una mano per porgergli un foglietto ricavato dividendo in otto parti la pagina di un quaderno e pochi centimetri di lapis. «Come ti chiami?» «Paolino, signore». Alberto non gli chiese più nulla e rimase ad aspettare le parole del ragazzo: «Cara Maria, sono in ospedale, ma sto bene…».
Gli occhi di Alberto quasi si chiudono nel ricordo e nel sonno, la testa adagiata all’indietro, i capelli biondi tagliati cortissimi che risplendono sul cobalto della tappezzeria, la gamba allungata ad allentare le bende che gli fasciano il ginocchio sotto l’uniforme. I tratti del suo viso si distendono e le labbra sembrano accennare un sorriso, nel dormiveglia. A distoglierlo la voce fresca della mamma, un colpo di tosse di suo padre nella stanza d’ingresso. Alberto si alza dal divano, si accomoda i pantaloni sul ginocchio fasciato, curando che nessuno lo noti; come un soldato sull’attenti si sistema l’uniforme, quasi si stesse preparando alla solennità di un incontro con un generale, o a sfilare in una grande parata, ma non per mostrarsi orgoglioso e fiero, solo da semplice soldato, figlio devoto della sua giovanissima, adorata Italia. Raggiunge la soglia del salone quando lo sguardo di sua madre si apre in un sorriso pieno e felice, di meraviglia e di gioia.
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«Non ti aspettavamo, caro. Vieni qui, lasciati abbracciare». «Credo di avere ancora i pidocchi, mamà», risponde Alberto con ironia leggera. Ma sua madre gli si avvicina e lo abbraccia ugualmente. Suo padre, con il sigaro stretto fra le dita, lo guarda, un po’ distante, quasi riconoscesse in quei piccoli gesti tra suo figlio e la madre l’Alberto bambino.
Sedersi in poltrona davanti al camino, dopo cena, a chiacchierare, è un rituale che sa di casa, che restituisce intatta l’atmosfera familiare, come se di mezzo non ci fosse la guerra, come se anche Lino e Giovanni fossero con loro e non al fronte, liberi e non prigionieri, a leggere, a scrivere, non a combattere, non a tenere la posizione, non a ubbidire agli ordini dei guardiani in una prigione austriaca. E in questo stralcio di vita ritagliato all’ombra della guerra, Alberto si apparta con sua madre in biblioteca: «Vi devo parlare, mamà». «Che cosa vuoi dirmi, figliolo?». «Voglio chiedervi il permesso di sposarmi». Questa frase suona insolita alle orecchie della mamma, che fatica a frenare un sorriso: «Chi vorresti sposare?». «Una ragazza bellissima. È vedova di guerra e ha due bambini stupendi!». Nella voce di Alberto c’è ancora l’entusiasmo dell’adolescenza, l’incanto trasognato di un ragazzo che nemmeno la trincea ha saputo tradurre in buio cinismo. La mamma non gli risponde; abbassa lo sguardo, ma in lei si uniscono sentimenti di tenerezza e di preoccupazione: «Non sono cose da decidere così in fretta, mio caro». Prende tempo, cerca un modo per dire a suo figlio che non avrà mai il permesso di sposarsi adesso, non ora, con la guerra ancora aperta, gli studi da completare. E poi in lei il dubbio che questa donna, già grande, possa voler approfittare dell’ingenuità del suo ragazzo. Non gli dice nulla, ma Alberto sa che dovrà lui stesso capire, dai gesti, da piccole cose, se quel matrimonio rispecchia la volontà di sua madre, che ora, alzatasi dalla sedia, gli dà un bacio sulla fronte, come faceva quand’era bambino, gli accarezza il viso, e se ne va nella sua stanza. «Buonanotte, mamà».
Di notte, sotto le coperte, Alberto è agitato; non riesce a dormire. Non è il pensiero della giovane vedova a tenerlo sveglio, e neppure l’ansia di sapere se sua madre gli darà il permesso di sposarla. La ferita al ginocchio, così faticosamente dissimulata per risparmiarsi di dover raccontare troppe cose alla madre apprensiva e al padre, che avrebbe voluto conoscere ogni dettaglio di quella impresa, gli fa ancora male, e la mente di Alberto è tutta riempita proprio dalle immagini di quella volta, quando, con la pistola in pugno, costringeva i suoi soldati a remare, mentre il fuoco nemico sfiorava le loro teste, i loro corpi spaventati. Era sottotenente nel Genio Telegrafisti, allora, Alberto, e stabilire la comunicazione tra una sponda e l’altra del Piave era necessario, indispensabile perché si potessero ricevere e trasmettere gli ordini. Sa che non avrebbe mai sparato a nessuno di loro, eppure non riesce a
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dimenticare il terrore negli occhi dei suoi ragazzi, tenuti sotto tiro in quel barchino, che risaliva il fiume contro corrente. E poi quel nuotare disperato portando in spalla il telefono da campo, e il ritorno, per stabilire il contatto tra le due rive, mentre sentiva vicinissimo il fischio dei proiettili austriaci, esplosi dalle mitragliatrici, e, ancora, la sensazione acuta della ferita, di quella scheggia partita da un masso colpito da una granata sul greto del fiume. Solo immagini di guerra riempiono la mente di Alberto nella notte, una notte che gli pare fredda come quella in cui urlando e singhiozzando per l’orrore era riuscito a tirarsi fuori da una fossa piena di cadaveri, soldati austriaci uccisi dai gas asfissianti destinati al nemico italiano, e che il vento invece gli aveva rigirato contro. Irruppe allora in lui, che pure era partito volontario, un senso profondo di ribellione per quelle morti inutili. E ancora orrore e disperazione per i suoi compagni uccisi in un combattimento, pieni di sangue e ammucchiati gli uni sugli altri, indistinguibili, come un cumulo di sacchi accatastati in un deposito.
Al mattino Alberto non si rende conto di essere a casa. Resta seduto sul letto per alcuni minuti; respira profondamente, si rimette in piedi, quasi a volersi ricomporre, a recuperare la lucidità dell’adulto, del soldato responsabile e ubbidiente. I pensieri della notte sono ricacciati nelle retrovie delle battaglie concluse, delle trincee abbandonate. Sulla poltroncina Luigi XVI ai piedi del letto, una vestaglia di cachemire bordò che la mamma gli aveva regalato per Natale alcuni anni prima. Immagina l’espressione dolce e affettuosa del suo viso, nell’incarnato di neve, mentre posa la vestaglia sulla sedia guardando Alberto dormire. Scende in camera da pranzo, per la colazione. Cerca sua madre per casa, cerca la sua risposta per capire se potrà sposare la sua bellissima vedova. Poi, sul carrello accanto alla tavola apparecchiata, rivede, dopo tanti anni, il panierino che la mamma gli preparava quand’era bambino. Lo apre e dentro c’è la torta di mele che Alberto amava portare a scuola, un paio di frittelle con lo zucchero a velo e un biglietto:
«Ti voglio bene, piccolo mio. Un bacio, mamà»
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les nouveaux réalistes: Barbara Uccelli 1 agosto 2014
La ragazza del treno Barbara Uccelli
Due punte bianche su sfondo nero. Oggi le sue scarpe sono riconoscibili. E piove: inadatte, estive. Dalle scarpe che una persona indossa se ne capisce l’umore. Lei oggi voleva il sole e non ha creduto al luccichio sulla strada, all’acqua residua nelle fessure dell’asfalto. Nemmeno agli ombrelli aperti. La banchina del resto oscura il cielo e una volta lì sotto si può anche far finta di. Siamo stretti su questo lungo marciapiede, sembra che arriviamo sempre tutti insieme da est, da ovest, e prendiamo posto come gli uccelli sul filo, pronti per la migrazione. Immobili, fissi, sguardo avanti. Ogni tanto un’occhiata fugace a destra per vedere il compagno di viaggio. Capire se potremo fidarci oppure dovremo stargli alla larga. Così tutti i giorni si forma questo stormo migratore, ordinato e in attesa su una linea immaginaria che scorre parallela ai binari. Ehi, ciao come stai? Oggi ti senti ribelle, vuoi sfidare le intemperie e credere a tutti i costi che l’estate sia arrivata. Ti ammiro, coraggiosa, io non potrei pensare di restare con i piedi zuppi per un giorno intero. Lo so che anche se piove fa caldo, ma il senso di umido alle estremità mi tormenterebbe da sotto la scrivania e finirei per non combinare nulla in ufficio. E poi chissà. Forse volgerà al bello, forse le nuvole si apriranno e il sole di giugno ci riporterà alla giusta stagione e allora tu avrai avuto ragione. E camminerai per strada fiera della tua scelta iniziale. E io sarò felice, per te, per me.. Avrei voluto dirle tutte queste parole, in quest’ordine o anche in uno inverso. E avrei voluto usarne molte, per una questione matematica, per il tempo necessario a pronunciarle, con le rispettive pause. Non immaginavo anche una risposta, ma sarebbe stata a sentire, in silenzio, immobile. Guardandomi negli occhi e finalmente ne avrei scoperto il colore, la sfumatura vera, che immagino nera piuma di corvo. Ma lei è arrivata al solito un po’ in ritardo, un po’ in sordina, e non ha fatto passi verso il bordo, come se non aspettasse davvero il treno, ma fosse lì a osservare noi pronti a partire. Come se fosse venuta solo per salutare qualcuno e poi tornarsene a casa. È così il lunedì, il martedì, il mercoledì, il giovedì no. Il venerdì sì. Tranne quando è malata o quando lo sono io, la vedo quattro mattine a settimana e non le parlo mai. Sai noi ci conosciamo da parecchio, siamo compagni di viaggio. Che detta così sembra tanta roba e forse in un certo senso lo è. Volevo invitarti a prendere un caffè, anche se non so dove scendi, anche se non so dove il tuo viaggio finisce, se prima o dopo il mio. Ma potremmo fermarci insieme, in una stazione intermedia e ordinare un caffè in un bar che ha il dehor perché sento che ti piace stare fuori, anche se fa freddo. E così mentre vado al lavoro occupo con gli occhi i tavoli adatti, di tutti i caffè che incontro e ci sediamo su sedie di vimini e sul rigido ferro battuto ingentilito da cuscini a righe. Non so
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se ne vuoi uno macchiato o lungo, se lo riempirai di zucchero o ciondolerai con il cucchiaino senza mescolare alcunché, così a ogni caffè immagino qualcosa che potrebbe stare bene tra le tue mani. Ancora una volta passo del tempo a mettere in fila parole per lei. E lo faccio in questo viaggio che percorriamo insieme anche se non la vedo nè salire nè scendere, ma penso che fuori il paesaggio scorre per entrambi alla stessa velocità e con gli stessi colori. Mi piace condividere il tempo e lo spazio, sento che parlare con lei anche solo nella mia mente sia un moto a luogo e mi porta comunque lontano. Stamattina ero in ritardo, così dal parcheggio alla banchina ti ho preso per mano e abbiamo corso. In mezzo alla folla, come sciatori provetti o come fantasmi, scansavamo le sagome di gente regolare che teneva un ritmo monotono e prevedibile. La tua mano era liscia e fresca e avevo paura di perderla per strada, così l’ho stretta più forte e guidavo sicuro come a vedere i buchi che potevamo occupare tra una persona e l’altra senza andare a sbattere e passare entrambi, come fossimo uno solo. Stamattina mi hai parlato: sembriamo due adolescenti, hai detto e poi hai riso, leggera come una sedicenne che scappa al mare mentre tutti riposano in un pomeriggio agostano. Stamattina ti ho presa per mano e ti ho portata fino al binario, fino alla carrozza, e ho aspettato che mi guardassi salire e che mi salutassi con parole mute dietro un vetro sporco di pioggia seccata. Le tue labbra si muovevano lente, a scandire le sillabe. Ne ho capito ogni lettera, perché il tempo ha rallentato e il treno è andato indietro e io mi sono perso. Una manciata di secondi sospesi, come se le parole per staccarsi dalla tua bocca e raggiungere i miei occhi, attraversassero uno spazio atemporale. E mentre io solo partivo, ho capito che tu eri la ragazza del treno, quella che arriva al binario e si assicura che non resti più nessuno a terra. Lei sola aspetta immobile che il treno si allontani. Lei sola che saluta. Ho pensato che venissi tutti i giorni per me, per augurarmi buon viaggio e farmi capire che la stazione di partenza è quella giusta, che il treno è quello giusto, che il tragitto, anche se sempre uguale, può essere diverso. Così mi sono andato a sedere, con la tua mano ancora nella mia, e ci ho appoggiato il viso dentro per annusarti e conservare. Quando mi sono svegliato la distanza era trascorsa per metà e ho pensato che tu sei la ragazza del treno e che aspetti di vedermi partire, ma che non ci sei mai all’arrivo, come se l’importante non fosse la destinazione ma il viaggio.
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les nouveaux réalistes: David Shields 30 luglio 2014
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Reality hunger [Dissolviamo i generi; riformuliamo il diritto di autore.] Lisa Orlando Una delle opere più importanti di teoria letteraria pubblicata negli ultimi anni è Reality Hunger, dello scrittore e saggista statunitense David Shields (in Italia pubblicato da Fazi con il titolo Fame di realtà). E’ un’opera assolutamente straordinaria, poiché oltre a essere un quadro (perfetto) dello status quo narrativo, è una dichiarazione poetica nella quale si prospetta ciò che sarà (o racchiude l’essenza di ciò che si vorrebbe diventasse) la letteratura futura. Shields, infatti, audacemente ridisegna i confini per una nuova forma di letteratura capace di annullare i generi, e ristabilire il rapporto tra fiction e non fiction. Oltre a ritenere atrofizzato (e miseramente soffocante) il romanzo quale costruzione di una storia fatta di mera immaginazione, e di una serie ordinata di fatti: la trama – ormai da seppellire definitivamente sotto una pietra tombale? –; Shields si interroga su come realtà e finzione debbano confrontarsi sul terreno della pagina. La realtà, come una creatura di fiamma, irrompe nella scena letteraria, travolgendo (fino a incenerire) la distinzione tra verità e immaginazione. “Fiction e non-fiction non esistono più: esiste solo la narrativa”, sostiene Shields, “o forse non esiste nemmeno questa?”. Una citazione rilevante, e che riassume efficacemente il pensiero di Shields, posta (intenzionalmente credo) al centro del saggio, è questa: “Amo la letteratura”, afferma l’autore, “ma non perché ami le storie in sé. Trovo quasi tutte le mosse del romanzo tradizionale incredibilmente prevedibili, fiacche, improbabili ed essenzialmente inutili. Non ricordo mai i nomi dei personaggi, gli snodi della trama, i dialoghi, i dettagli dell’ambientazione. Non mi è chiaro cosa dovrebbero rilevare sulla condizione umana narrazioni simili. Invece sono attratto dalla letteratura come forma di pensiero, di coscienza, di sapienza. Mi piacciono le opere che mettono a fuoco non solo pagina dopo pagina, ma riga dopo riga quello che importa veramente allo scrittore, invece di sperare che tutto questo emerga chissà come misteriosamente dalle crepe della narrazione, che è quello che oggi accade in quasi tutti i racconti e i romanzi”. Uno dei motivi per i quali mi sono interessata realmente a questo saggio è ché vien messa in discussione l’idea di autorialità, tanto da rivoluzionare la struttura autoriale classica; lo stesso libro di David Shields è appunto costruito con frammenti di altri libri, ma senza riportare note, senza dichiarare l’appartenenza delle innumerevoli citazioni presenti nel saggio. “Un frullato di parole altrui, insomma, che genera, però, un distillato del tutto nuovo”. Un’eccellente innovazione, si direbbe, e che fornisce la chiave per una diversa forma di letteratura. Anche perché credo sia tempo di finirla col diritto d’autore; il concetto stesso, spiega Stefano Salis nella prefazione, tenderà inesorabilmente a dissolversi (insieme a quello di plagio – tra l’altro, cosa sarà mai il plagio nella nostra epoca?) in nome del remix, anche grazie (o per colpa di, a seconda dei punti di vista) alla enorme quantità disponibile simultaneamente, utilizzabile prontamente e visibile gratuitamente, che le nuove tecnologie (internet in testa) ci garantiscono. E poi, ancora, non è stantia l’idea di originalità a tutti i costi? Bacon che riprese Velàzquez, cosa fu? plagio?, imitazione?, deformazione?, citazione? All’epoca, tutti ne riconobbero la provenienza, ma nessuno si scandalizzò; perché, a dirla tutta, l’originalità (in modo assoluto) non è mai esistita – è sempre stato il velleitario tentativo in cui tutti hanno fallito? Dunque, Shileds, nel suo saggio, pare suggerirci, esortando tutti gli scrittori, ma non solo: desumo pur pittori, musicisti, cantanti, registi, attori, fotografi : copiate, imitate, interpolate, riformulate, riproducete, remixate, modificate, alterate, contestate, accettate, rifiutate, et cetera, et cetera – ad infinitum!
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les nouveaux réalistes: Francesco Forlani 26 luglio 2014
Riflessi condizionati Francesco Forlani
Vorrei raccontare di un uomo che, addormentato su un lettino da spiaggia, non si accorge di sé.
Una distesa di ombrelloni azzurri. Prima un riflesso. A perdita d’occhio le sdraio appaiate in file interminabili a ridosso della riva. E i lettini con i capezzali rovesciati. Due riflessi, poi, leggermente sincroni. Il brusìo delle prime ore del pomeriggio fa da rumore di fondo all’annuncio distratto dell’altoparlante. Ora son diventati cento, mille, i riflessi che sembrano moltiplicarsi e seguono a vista le onde fino a perdersi nella sabbia. La spiaggia è abitata per lo più da famiglie e in una fila poco distante dalla passerella, sopra a un lettino è disteso un uomo. La tranquillità dello sguardo spento dagli occhiali da sole, la posizione neutra, le braccia lungo il corpo, le mani penzoloni con le dita quasi a toccare sabbia, le gambe leggermente divaricate e i piedi all’ombra di poco inclinati e puntati sui due lati: il piede sinistro sulle nove e quello di destra sulle quattordici. La particolarità delle spiagge a conduzione familiare sta nella presenza accanto ad ogni ombrellone di suppellettili giocattolo per lo più ingombranti, colorati e gonfiabili. Come statue a guardia delle facciate dei palazzi qui sembrano custodi degli effetti personali e governano l’andirivieni dei bagnanti dal bagnasciuga alla sabbia asciutta e cocente delle postazioni. Il lido, che diremo di Lerici per comodità, ha una disciplina del personale di terra e mare a immagine e somiglianza della coppia di proprietari; lui è uno scrittore di romanzi d’avventura e lei una ex modella che è rimasta tale; lui e lei sono semplicemente e oggettivamente belli; di una bellezza che porta in sé qualcosa di naturale e non la costruzione sofisticata di corpi estranei a sé e portati in modo maldestro in giro, per lo più. Vorrei raccontare di un uomo che, addormentato su un lettino da spiaggia, non si accorge di sé. Non può rendersi conto, perché dorme un profondo sonno, dell’erezione che sta avendo, visibile e impertinente per quanto involontaria e dunque irresponsabile. Una distesa di ombrelloni azzurri. I riflessi ora si perdono al largo dove non c’è più piede. A tratti risalgono lungo gli alberi maestri delle imbarcazioni ormeggiate al porticciolo. La spiaggia si popola adesso di giovani alle prese con la maturità: ripeness is all. La prima ad accorgersi della cosa è una signora dall’aria intelligente. Ha l’aria intelligente perché sul tavolinetto ci sono due libri, quello di Luciano Gallino e uno di Fabio Volo che sicuramente appartiene alla figlia adolescente scesa da poco e che è in acqua insieme alle amiche. “Gallino in Volo” ha sicuramente pensato spostandoli per prendere la crema solare; è stato proprio nel mentre di quel movimento di leggera torsione del busto che ha scorto dapprima il libro del vicino, un libro di Sinistra e a seguire l’erezione del lettore. Un leggero turbamento la coglie, un trasalimento la porta a guardarsi intorno per precauzione e prova un lieve imbarazzo in quell’atto di vedere e non vedere. Tanto più che pochi minuti dopo la scoperta si accorge di come, dal costume aderente a strisce bianche e rosse del vicino, quasi rispondendo alla sicuramente inconscia domanda della signora, la cosa si stia facendo strada superando il debole fuoco di sbarramento che un elastico un po’ rilassato stenta a fare, cedendo.
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Vorrei raccontare di un uomo che, addormentato su un lettino da spiaggia, non si accorge di sé. Non può rendersi conto, perché dorme un profondo sonno, dell’erezione che sta avendo, visibile e impertinente per quanto involontaria e dunque irresponsabile. Dapprima castigato dal costume, insolito per questi lidi, poi evidenziata dalla fuoriuscita del prepuzio a cielo aperto. Quando le amiche della figlia della signora, ormai impegnate nel rito del dopobagno, seguendo le istruzioni della figlia, si passano prima gli asciugamani poi le creme con gesti meccanici e rodati da catena di montaggio, ridendo e scherzando, la signora gli fa cenno di fare silenzio; lo fa dapprima abbassando il palmo di mano in linea con il braccio teso come quando si regola il volume di una radio, e portandosi quasi contemporaneamente l’indice dell’altra mano tra le labbra e la punta del naso: shhhhhhh! Nelle spiagge a conduzione familiare è un gesto che ricorre spesso per quanto indirizzato ai componenti della stessa tribù, tra uno slalom e l’altro in mezzo ai passeggini parcheggiati in doppia fila, sotto lo sguardo vigile delle mamme affrancate dal dormiveglia dei pargoli, libere per poche ore dall’esercizio costante dell’attenzione verso le piccole macchine da guerra. Lo spirito del tempo si offre alla vista in modo inequivocabile, nella sua istanza demografica; le madri per lo più e i pochi padri presenti sono cinquantenni alle prese con figli alle prime armi della parola e del camminare. A quella prima vista si sarebbe potuto scambiarli per i nonni ma allora i veri padri e le vere madri dov’erano finiti? Era come se una guerra avesse spazzato via una generazione, quella di mezzo, uno Tsunami avesse scatenato un’onda in grado di rendere la situazione anomala e inconcepibile fino a pochi anni prima. Vorrei raccontare di un uomo che, addormentato su un lettino da spiaggia, non si accorge di sé. Non può rendersi conto, perché dorme un profondo sonno, dell’erezione che sta avendo, visibile e impertinente per quanto involontaria e dunque irresponsabile. Dapprima castigato dal costume, insolito per questi lidi, poi evidenziata dalla fuoriuscita del prepuzio a cielo aperto. Un dettaglio nello sterminato paesaggio marino, in grado di scatenare una reazione incontrollata e maldestra, una reazione anticipata dell’eletto. Le amiche della figlia della signora fanno capolino e scoprono l’arcano; sul chi va là le ha messe la figlia che ha raccolto il messaggio della madre all’inverso e mettendo il Volo davanti alla faccia, a non farsi vedere, in quello stesso grado di separazione se la ride sotto i baffi contaminando le amiche come quando si sbadiglia. L’azione asseconda la prima volontà della madre a questo punto preoccupata di due cose, uguali e contrarie. Intanto un coccodrillo gonfiabile gigante con la testa appoggiata tra i seni di una madre di seconda fila sbuca tra gli ombrelloni. Il sudore e l’acqua di mare in mezzo agli occhi fanno pensare alle lacrime dell’animale. Da poco sopraggiunti gli amici metropolitani della signora, invitati alla casa al mare, sono informati dell’accaduto, dei fatti. Il fatto è che nel frattempo l’ospite ingrato, leggermente arrossato, arrotondato in punta e sovrastato da un taglio come da scalpello aveva guadagnato terreno grazie a piccole spinte che lo fanno pulsare come un cuore. Il leggero movimento coordinato al respiro pesante dell’uomo, fumatore, lo rende di colpo più umano, quasi infantile; la stessa innocenza di un bruco, di un baco da seta, sospeso nell’incerto divenire, nell’ipotesi di una metamorfosi l’unica in grado di fargli spuntare le ali come il cielo agli uccelli; la stessa operosità dei pesci che tentano con tutte le forze di aprirsi un varco in mezzo alle reti, la stessa tenacia di uomini e donne a forgiarsi un destino in un pezzo di vita.
Nessun oltraggio pare configurarsi al di là del comune senso del pudore. La naturalezza del corpo scappato, evaso dal costume bandiera di altre intimità non suscita alcuna reazione stizzita negli uni,
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accorsi poco dopo per passaparola e negli altri, quando ormai c’è una piccola folla, nessun moto di scandalo o riflesso di respingimento. Una giovane turista tedesca si è perfino proposta di rimboccarlo, di rimetterlo sotto coperta, rassicurando i presenti con la promessa di un tatto leggero e accorto al punto di non svegliare il signore. La questione che si pone adesso è infatti ben illustrata dalla signora che con padronanza di linguaggio e gestualità controllata spiega agli astanti come nei due casi, qualora il signore si svegliasse spontaneamente o per manipolazione della turista nulla avrebbe potuto sottrarre la folla all’imbarazzo generale, in primis del malcapitato. Nonostante l’estraneità di quest’ultimo all’inottemperanza del prepuzio che certamente in un battibaleno si precipiterebbe nella risacca, accucciandosi sul lato sinistro come per lo più accade agli uomini di buona volontà, alla vista del capannello sarebbe minimo minimo morto di vergogna, annegato nelle pupille quasi cento degli spettatori. Se poi la causa del risveglio fosse un’incauta manovra della volontaria nordica dalle trecce bionde il signore si sentirebbe oggetto e vittima di molestie pretendendo immediatamente un risarcimento a quell’offesa magari facendo ricorso alle vie legali. Ecco perché il bagnino corre ad avvisare il proprietario che sopraggiunge per rimediare al guasto che aveva intaccato la magnifica macchina di sabbia. La soluzione? Sgombrare il campo da ogni iniziativa in grado, come una turbativa d’asta, di mettere a repentaglio il principio di domanda e offerta, con relativi servizi e benefici di cui il Lido, va detto, meritatamente gode. E il prepuzio? Anche lui pare godersela un mondo per quell’inaspettata e provvida attenzione a lui rivolta al punto che respira da sé in una totale indipendenza dal battito del sognatore. Dopo una breve consultazione con prefetto e questore, il proprietario avvisa la clientela di lasciare la spiaggia con un’ora di anticipo rispetto all’orario di chiusura. Lo fa a mezzo bagnino e non via altoparlante per fare in modo che al risveglio il prezioso cliente non ritrovi nessuno al capezzale del proprio lettino e ritrovare nell’intimità la parte ribelle di sé a prescindere dal fatto che fosse dentro o fuori, la partita, e nel secondo caso accomodandolo come meglio avrebbe creduto, lontano da occhi indiscreti. Una saggia decisione malgrado la protesta degli uni, coloro che avevano pagato l’intera giornata ai bagni e soprattutto gli altri privati del finale della storia. Ai primi il proprietario offre un ingresso gratuito per l’indomani e ai secondi, sempre per il giorno dopo, il racconto dettagliato che il suo bagnino fidato, unico autorizzato a restare nella torretta di avvistamento, avrebbe con dovizia di particolari rivelato. Così, tutti cominciano, seppure a malavoglia, le operazioni di evacuazione della spiaggia. Si rivestono e coprono ogni centimetro di carne nuda indossando da prima mutandine e costumi, poi le camiciole e i bermuda. Sono stati autorizzati a lasciare i giochi di mare sotto gli ombrelloni con l’assicurazione del proprietario a prendersene cura. Da nudi che erano, integralmente e naturalmente dal momento che il lido in questione lo permetteva, tollerando chi non se la sente di varcare la soglia della propria totale nudità lasciandosi indosso il costume, raggiungono mesti chi la propria stanza d’albergo chi le bianche camere con vista sul golfo dei poeti, quasi increduli di come un semplice prepuzio li abbia di colpo riportati ad un’epoca felice e illusoria, come i riflessi sulle onde del mare. Vorrei raccontare di un uomo che, addormentato su un lettino da spiaggia, non si accorge di sé. Non può rendersi conto, perché dorme un profondo sonno, dell’erezione che sta avendo, visibile e impertinente per quanto involontaria e dunque irresponsabile. Dapprima castigato dal costume, insolito per questi lidi, poi evidenziata dalla fuoriuscita del prepuzio a cielo aperto. Un dettaglio nello sterminato paesaggio marino, in grado di scatenare una reazione incontrollata e maldestra, una reazione anticipata dell’eletto. In una spiaggia di nudisti.
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les nouveaux réalistes: Ilaria Seclì 18 luglio 2014
Avvertimento al forestiero Ilaria Seclì Arriverai alle tre. Verranno a prenderti compassi, righelli, inchiostri neri. Ti spingeranno, non finirai il nome, e saranno archi e finestre vuoti, tempere azzurrefuoco, impasti fitti di grano e stoppie. Bentrovate geometrie del silenzio, dovrai dire. Sappi che l’aria è densa e il fuoco che sbava alle 8 cade e mattona sul naso con la precisa volontà di spezzarti il fiato. Così le donne nere pupille di pece pelle di sirena e miele. Prova a guardarle. Dimenticavo: entrando, lo sguardo del custode ti farà mettere nella cassetta delle cose perse la volontà dei giorni, le liste della spesa e delle cose da fare, calcolo delle opere anoressiche. Metti in conto che da una rimessa uscirà una carrozza e i cavalli ti punteranno, ti verranno addosso impazziti. Lasciali fare, saprai dopo quel che succederà. Il giorno dopo, ti sveglieranno campane, stazze di mitologici ferrovieri con campanacci al piede, obbedienti all’ordine millenario di svegliare i pesci appesi all’orizzonte. E’ la seconda prepotenza dacché hai dato alla terra il primo pianto. Un pozzo delle 12, piazza di Acaja, ti supplicherà di interrogarti sulla profondità e la natura dell’elemento che lo bagna. Ti sommergeranno sussurri di bestie ammazzate, affogate lì, cori e cantilene di bambini, belle lavanderine tutti giù per terra un due tre stella. La sera fino all’alba le streghe nelle piazze, ciocche eterne di capelli avvinghiano sguardi e anime, polpi terrestri invocanti. Più in là, guarda, scrivono che il dottore, al capezzale degli infermi e nei tuguri dei derelitti, sentì balzare radiosa nell’animo la visione di una nuova umanità; leggerai mentre aquiloni filati ti spezzeranno lo sguardo e nuvole-sirene si insinueranno con formule della preistoria, segreti di dinosauri confessati per pudore solo al forestiero. Tuttavia nell’amore vi è la conoscenza. Bruciati nella loro carne, fino all’intimo del proprio essere, fino alla vertigine di ciò che non è più. Anche il vuoto, sai, vuole il suo specchio, e nel lago deserto delle cave, la luna precipita maledicendo il suo eterno bisogno di un letto. Di notte, sporgiti, curvati, è lo Jonio, è verde è trasparente, allungati, entra, formule di fattucchiere conservano intatti i corpi degli annegati e del mostro onnipotente che scandisce i palpiti del sole e della luna su clessidre di sconosciuti calendari. Su, su, continua, vai avanti, è dal tempo del niente che non stupivi, hai fatto bene a venire. Dopo il suono di Gerusalemme, guarda la campana “Principe Umberto”, il circolo Vittorio Emanuele. Manichini e fantasmi si giocano a dadi la presa dei due megafoni sporti alla piazza come due orecchie. Ne hanno cose da urlare ai gechi, alle lumache senza casa, alla scritta che piange sul muro. Quelli della frutta, dai tricicli dei contadini vendono polvere eleusina e mele biancaneve. Prendine, saprai dopo quel che succede. Felice chi entra sotto la terra dopo aver visto queste cose. Conosce la fine della vita, conosce anche il principio di Zeus. Ora vai, rinfresca la mappa della metropolitana, la vocina aliena del tram. Ricorda le password, il da farsi, la clessidra, il tuo nome nella polvere.
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les nouveaux réalistes: Alessio Arena 16 luglio 2014
Simón Mago Alessio Arena “In un lontano paese visse tanti anni fa una pecora nera. Fu fucilata. Un secolo dopo, il gregge pentito le eresse una statua equestre molto bella, in mezzo al parco. Così, da quel momento in poi, ogni volta che apparivano pecore nere venivano subito fucilate affinché le future generazioni di volgarissime pecore comuni potessero esercitarsi anche nella scultura.” Augusto Monterroso, La oveja negra y demás fábulas, 1969
Dopo la prima settimana di convalescenza era arrivato il momento più temuto, lo stesso che avevo sognato proprio durante l’operazione, quando tenevo la bocca così aperta, spalancata, che quella poi diventava il portone d’ingresso della Giuseppe Parini, e io ci ero già dentro, caduto, immobile, senza la possibilità di uscirne mai. La cosa peggiore di tutte, però, era che il mio ritorno a scuola, dopo un evento di tale portata, che mi aveva sconvolto le parole di bocca, sarebbe avvenuto in tutta solitudine, e sia all’andata che al ritorno, avrei dovuto percorrere i rumori assordanti di via Padula fino all’incrocio con via Boccaccio, e poi scendere verso la chiesa di Santo Strato, senza la mano nervosa di nonna Valeria che stringeva la mia, e senza la mano inconstante di nonno Vittorio che mi accarezzava l’altra. Ero profondamente triste non solo per quello che mi aspettava quando sarei entrato in classe, introducendomi in silenzio nella prima fila di banchi, ma perché quei due vecchi mi avevano proprio abbandonato nel momento del bisogno: se n’erano andati, prima ancora che uscissi dalla sala operatoria, a chiudere le trattative di vendita della loro vecchia casa di Caracas, dove mancavano da un po’ di anni. – Allora tutto a posto? – aveva chiesto mia madre alla loro prima telefonata, il giorno dopo l’operazione – Avete già visto i nuovi proprietari? – Figlia mia, quali proprietari? Io non voglio vedere nessuno. – disse nonno Vittorio – Aspettiamo solo di firmare le ultime carte con l’agenzia. Ma, senti, passami il carajito, com’è sta? Si è messo a piangere? – Uh, peggio, peggio ancora.
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Infatti non mi ero messo a piangere, nemmeno una lacrima avevo versato quando l’anestesia si era andata a stropicciare sulle punte delle mani e dei piedi, staccandosi poi via dal mio corpo come la pelle di un serpente. E certo, mi faceva male. Ma alla sorpresa del dolore se n’era subito aggiunta un’altra: avevo paura di parlare, e poi, nell’imprevedibile passo successivo, non ne avevo neanche più voglia. Sentivo che un treno invisibile mi aveva attraversato la gola e si era portato via tutte le parole che stavano lì, tutti i suoni che mi servivano a dare un nome alle cose della mia vita di bambino del casale di Posillipo, il primo della classe nella quinta C della Giuseppe Parini. – Ma come, non parla? Passamelo, passami il carajito. – diceva nonna Valeria, puntuale al telefono, ogni sera alle otto come il telegiornale, durante la settimana che io stavo al letto. – Niente, è impossibile fargli uscire una parola. Secondo me è scemo. – tirava corto mia madre. – Il medico del Cardarelli mi ha detto che sta benissimo e che ci sono decine di bambini come lui che si operano di tonsille ogni giorno. – E allora? – Allora non lo so! Gli ho spiegato che così fa ridere i polli, che non c’entrano niente le tonsille con le corde vocali. Ma quello deve fare sempre di testa sua: pensa che mangia pure le cose solide, ché quando mi avvicino al letto con le pappine fa una faccia verde, ma di parlare, di dire una vrenzola di parola? Niente. – ¡Ay, Dios! – Eh, mammà, ti devo riattaccare, ja’. Ero arrabbiato con i miei nonni. Li immaginavo preoccupati, tristi davanti al panorama della giungla di cemento dove si erano trasferiti giovanissimi, e da dove poi se n’erano preventivamente andati, quando tutto era diventato politica, come diceva nonno Vittorio, anche fare la spesa, anche andare al bagno e pretendere di trovarvi la carta igienica. Ero stato a casa per giorni a sorbire dalla cannuccia lo stesso succo di parchita che i vecchi mi rifilavano da piccolissimo, e pensavo che quando fossero tornati da Caracas avrei voluto tanto chiedergli se si ricordavano della mia voce. Ma questo sarebbe stato impossibile, perché io non parlavo più. – Come stai? Com’è andata? Hai avuto paura? Bentornato! Quel giorno in classe fu esattamente come lo avevo immaginato. – Uh anema, ma t’hanno tagliato ‘a lengua? – disse Nicola Piccirillo, il mio compagno di banco, che era l’unico vero “straniero” del Casale, l’ultimo di una chiassosa famiglia di Santa Maria a Vico che aveva comprato un appartamento nel Parco Primavera, proprio dietro alla scuola. – Allora gli devi imparare a parlare come i muti, mae’! – fece rivolgendosi alla maestra Giovanna, una arrivata da poco pure lei, con molte lentiggini, a sostituire la signorina Buccirosso. – Ma no. Vedrai che dopo l’intervallo gli tornerà la voce. – rispose lei, con una voce tutta abbrucata, maltrattata dagli allucchi che le servivano a mantenere il controllo della classe. – Ha solo avuto la tonsillite. – Uh anema, ‘a tonzilli’!
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Nicola si alzò dalla sedia e cominciò a muovere le mani come un forsennato. In un batter d’occhio ebbe l’appoggio di tutta la classe: in piedi, sulle sedie, cominciarono a improvvisare una coreografia simile a quelle che gli animatori dei lidi di Miseno insegnavano sul bagnasciuga. A pieni polmoni, seguendo Nicola, tutti i miei compagni di classe ripetevano quella parola mozzicata, storpiata, che io vedevo saltare dalle loro bocche come un insetto: Tonzilli’! Tonzilli’! Ton-zi-lli’! Quando la maestra Giovanna riuscì a farli stare zitti, minacciando di far venire la direttrice, aspettai che proseguisse la sua lezione di matematica, mi mostrai calmo, e poi, con un gesto inequivocabile, chiesi di andare in bagno. – Mae’, statti attenta, che se ne scappa! – sentii che diceva Nicola, appena fuori l’aula – Lo fa sempre. Ma il paesanotto aveva ormai perso qualsiasi credibilità di fronte alla maestra, che lo zittì con un fulminante: – Se dici un’altra scemità, ti dò la parte del bambino gesù nella recita di Natale! L’odioso Piccirillo aveva ragione, l’avevo già fatto diverse volte, con la signorina Buccirosso. Questa nuova non poteva immaginarlo. Uscire dalla scuola senza che nessuno ti chiedesse dove stavi andando continuava ad essere una cosa facilissima. Mentre scendevo le scale del primo piano, controllai che Olga, la bidella, stesse pulendo la palestra, e mi infilai nel giardino dell’ingresso come un insetto, come quello che stava in bocca ai miei compagni. Tonzilli’, tonzilli’, mi ripetevo sul marciapiede, ma senza pronunciare quella parola, a bocca chiusa. Da quando mi ero operato e avevo smesso di parlare, tutto quello che normalmente mi suonava attorno, i rampicanti sui muri di Via Santo Strato, i claxon delle macchine, le carte che rotolavano sul selciato della discesa Coroglio, i tombini che sussultavano sotto l’autobus, tutto rimbombava, e sembrava intonare quello che io avevo in mente, anche se mai mi sarebbe venuto di reclamare la paternità di quelle cose, quelle parole che avevo la sensazione di sentire. Mai avrei voluto mettermi pure io dentro alla partitura invisibile di quell’orchestra. La mia intenzione adesso era di andare al Virgiliano: sin da prima dell’operazione volevo ritornare nel parco per vedere con più calma quella statua che avevano messo il mese scorso, e che nonno Vittorio e nonna Valeria avevano applaudito con molto poco entusiasmo, fieri e impettiti vicino a Magaly Arocha, quella signorina con la gonna rosa stretta, la console del Venezuela a Napoli. Feci la strada più lunga per risalire sul viale Virgilio, perché qualsiasi vicino mi avesse visto avrebbe dato subito l’allarme a scuola, o a mia madre, che a quell’ora doveva stare sdraiata sulla sua sedia imbottita del consolato di via De Pretis, il suo posto di lavoro, dove mi aveva portato diverse volte a bere i succhi di parchita offerti dalla console, come no. Entrai nel parco dall’ingresso principale, c’era pochissima gente, e il rumore degli alberi camminava frettoloso per i viali asfaltati e le terrazze panoramiche, dalle quali il mare, almeno quel giorno che aveva smesso di piovere sì e no una decina di volte, sembrava una enorme big babol scamazzata dal piede di qualcuno, enorme pure lui, chiaro. Arrivai alla statua senza perdermi, senza avere nessuno alle spalle. – Questo è il libertador – mi aveva detto nonno Vittorio quando era stata inaugurata la statua – Simón Bolívar: un uomo perseguitato da sciagure familiari, che nacque ricco e morì povero per liberare il suo popolo dal giogo del…
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– Bla, bla, bla, leva mano, Vitto’… – lo aveva interrotto nonna Valeria, aggiustandosi con le sue mani tremolanti la permanente che esibiva quel pomeriggio, anche se con un certo imbarazzo – Era una pecora nera, carajito. Tu sai cosa fanno con le pecore nere a volte? Mia mamma l’aveva richiamata dall’altra parte della terrazza, facendole segno che la console voleva salutarla. La statua teneva sotto agli occhi un bellissimo scorcio del golfo. Era di bronzo, credo. I suoi occhi di bronzo stavano fissi sul Vesuvio perché, nonno Vittorio mi disse pure questo, da giovane, prima di fare la rivoluzione in Venezuela, Bolívar era venuto qui con un signore tedesco che ne sapeva parecchio di vulcani, di nome Von Humboldt, che l’aveva accompagnato fino a sù, al cratere, dove il libertador aveva potuto vedere il suo futuro. Non so se era per il nervosismo, per la stanchezza di quella giornata, per questo mio nuovo modo di stare nel silenzio del mio quartiere, e della mia casa, e della natura del parco, ma appena arrivato avevo avuto la precisa sensazione che la statua si fosse in qualche modo accorta di me. A Bolívar lo avevano fatto senza gambe, il suo busto arrivava fino a qui, alla bocca dello stomaco, quasi uguale a quella di Santo Strato che il 17 agosto portavano in giro in processione per tutto il Casale. Sotto teneva una colonna di pietra, e io gli stavo su un fianco: senza guardarlo fisso negli occhi, lui non poteva vedermi. Mi misi a sedere per tentare di tranquillizarci, sia io che lui. Passò un po’ di tempo e nella mia mente si fece spazio un pensiero più rumoroso di tutti gli altri: pensai che se lui aveva potuto vedere il suo futuro nel Vesuvio, con un po’ di impegno e di coraggio, avrei potuto cercare anch’io un poco del mio nei suoi occhi. Stavo zitto, sempre zitto, e all’improvviso sentii una specie di voce. Una specie di vento che attraversava la corona di fiori che avevano lasciato al collo del libertador, e faceva muovere i petali con un tintinnio assordante, manco fossero stati di ferro filato. Sentii che Bolívar mi diceva un sacco di cose, ma era una musica incomprensibile, nella quale, solo appizzando le orecchie e facendomi passare la paura, avevo colto i nomi dei miei nonni, e altre parole che iniziavano con la lettera V. Improvvisamente ebbi una gran pena per Simón Bolívar e per i due vecchi, seduti nervosi e delusi, per l’ultima volta, nella terrazza della loro casa di Carcas appena venduta, a bere parchita. Pensai che nonno Vittorio e nonno Valeria credevano, a quel punto, che non ci fossero dubbi su di me: che io ero una pecora nera. Allora mi tappai le orecchie, mi alzai da terra e mi misi proprio davanti alla statua del libertador, lottando contro il suo sguardo. – Zitto, statte zitto! Non dire scemità! – urlai a squarciagola, con tutta la mia voce – Non dire una parola!
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les nouveaux réalistes: Claretta Caroppo 14 luglio 2014
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Lovematic Claretta Caroppo Lavoro in una lavanderia a gettoni, di quelle che in uno stanzone contengono grandi lavatrici, otto per la precisione, tre da cinque chili, tre da sette chili e due da nove chili, più quattro asciugatrici. Il funzionamento è semplice: si inseriscono le monete in un distributore e si preme il tasto corrispondente alla lavatrice che si vuole utilizzare, si aggiungono poi detersivo e ammorbidente negli appositi scomparti, si preme il tasto di avvio. Il candeggio dura normalmente quarantacinque minuti, più tempo se si lava a 90 gradi. Le lenzuola andrebbero lavate a 90 gradi, a meno che non siano di seta o colorate, in quel caso vanno lavate a 40 gradi, con la bustina trattieni colore. La mia funzione è semplice, me ne sto seduto otto ore nella stanza attigua a quella della lavanderia e sono a disposizione tutte le volte che i clienti hanno bisogno di aiuto. A volte può capitare che i macchinari si inceppino, oppure che salti la luce, peggio ancora che il distributore in cui si inseriscono i soldi non fornisca il resto. Il cliente deve soltanto premere un tasto rosso e luminoso sotto la scritta Servizio Assistenza e la mia voce fuoriesce dall’altoparlante; il più delle volte i problemi si risolvono senza che io mi sposti dallo stanzino alla sala con le lavatrici, perché ormai conosco molti trucchetti per far funzionare le mie macchine. Non mi piace leggere durante il lavoro né sfogliare le riviste di cucina come Anna, la mia collega che fa il turno al mattino.
Passo le ore a fissare dalle telecamere la gente che si sussegue a fare le lavatrici, spero che sbaglino temperatura, gioisco quando scorgo qualcosa di rosso tra le lenzuola bianche e mi aspetto le facce deluse o incazzate dal bucato rosa, quando gli abiti si rimpiccioliscono, si infeltriscono, si smaterializzano, mi ipnotizzo a guardare come tutte quelle persone trascorrono il tempo dopo aver avviato il lavaggio o l’asciugatura. La sera, prima di chiudere, metto insieme la biancheria che è rimasta nelle macchine o che è caduta per terra, raccolgo tutto in una cesta di vimini per gli abiti smarriti. Il mio paradiso dei calzini è fatto di pois, righe, marchi Renato Balestra o Achille, a cui si aggiungono mutande di pizzo, mutande con gli animaletti, mutande a vita bassa, mutande contenitive, perizomi elasticizzati, culotte, ferretti, bottoni. I ferretti e i bottoni sono il nemico numero uno delle lavatrici, se si staccano dai reggiseni o dalle camicie sono costretto a piegarmi bocconi e a pulire i filtri e poi devo lavarmi le mani a lungo per togliermi di dosso quell’odore misto di laguna e pozzanghera. La maggior parte delle persone che usa le nostre lavatrici attende in religioso silenzio che le macchine abbiano finito di adempiere al loro dovere, se si annoiano giocano a Ruzzle, oppure chiamano gli amici con il cellulare, ma non riesco a capire cosa gli raccontino, perché c’è questa idiozia per cui riprendere con la telecamera è legale, ascoltare no. Per questo mi sento molto solo nella mia stanzetta, perché nessuna voce mi fa compagnia. I più giovani si annoiano ad aspettare. Lasciano la lavatrice a girare senza padrone per quarantacinque minuti, escono e attraversano la strada diretti al bar più vicino a prendere un caffè, ritornano quando tutto è finito, azionano l’asciugatrice ed escono a prendere un altro caffè, anche se l’asciugatrice ci mette appena otto minuti a terminare il ciclo. Qualcuno l’ho sorpreso a rubare le mutandine alle ragazze, o a mettere direttamente nell’asciugatrice i vestiti già lavati e bagnati che cadevano per terra e che venivano sollevati assieme alla polvere e alle macchie che si trasferivano dal pavimento alla loro massa umida. Chissà perché le persone sono più sporche se pensano di non essere viste.
Le peggiori clienti sono le ragazze che fanno le intellettuali, quelle che nell’attesa del lavaggio portano con sé un libro da sfogliare sedute sulle nostre panche e che, secondo me, leggono per finta. Purtroppo
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la telecamera non ha lo zoom e quasi mai riesco a scorgere i titoli di quei testi, ma mi immagino che i russi vadano per la maggiore e mi domando come diamine sia possibile leggere Dostoevskij con il rumore delle lavatrici in funzione, con il caldo asfissiante, l’aria consunta, il campanello che trilla ogni volta che qualcuno entra o esce dalla stanza e che io ho comprato e montato affinché la nostra lavanderia possa essere riconosciuta come quella con la suoneria divertente. Ogni martedì, subito dopo pranzo, arriva un vecchietto molto alto; deve essere vedovo, credo infatti sia stato sposato a lungo, perché cammina come qualcuno che per anni è stato abituato ad andare in giro accompagnato, che ha fatto da sostegno alla camminata di un altro essere umano, mi immagino una moglie ammalata, minuta, con i capelli raccolti in una treccia da rifare ogni mattina. Mentre aspetta che la lavatrice abbia terminato il lavaggio, si muove su e giù per la stanza e ogni tanto si appoggia il braccio sinistro vicino al gomito destro, tocca una mano immaginaria di cui sente la mancanza; indossa tutti i martedì sempre gli stessi abiti: pantaloni di fustagno marroni, gilet grigio con lo scollo a V, una camicia a scacchi con piccole righe beige e grandi righe blu; le volte in cui non passeggia si addormenta su una panca con la testa reclinata, la bocca aperta, il mento lasciato cadere indolente, le braccia incrociate sul ventre piatto e io resto ad osservarlo dalla telecamera, mi aspetto che non si risvegli più, lo vedo sussultare al suono del campanello e non morire mai.
Il secondo martedì di Aprile sono saltato dalla sedia insieme a quel vecchietto dalla panca della lavanderia, il suono all’entrata è divenuto straziante quando è arrivata mia madre con un trolley gigante, blu elettrico, dozzinale, che doveva essere davvero pesante per come lo ha gettato per terra. Ha scelto la lavatrice con il carico da nove kg e l’ha riempita tutta, senza fare una selezione tra il cotone, la lana, la seta, e mi sono chiesto se anche quando ero piccolo lavasse tutto indistintamente a 30 gradi, se fosse per questo che i miei calzini di spugna erano sempre un po’ giallini sulle punte e sui talloni. Mia madre si è seduta accanto al vecchio e hanno parlato ininterrottamente per quarantacinque minuti, per via di quella cosa dell’illegalità non ho potuto sentire cosa si sono detti, ma hanno riso, e si sono fermati per qualche secondo ad ascoltare un rumore, o una voce, chissà, che credo provenisse da fuori. Sono stati fermi come se avessi premuto il tasto pausa alla telecamera da cui potevo vederli. Non ho aspettato di scoprire che cosa mia mamma avrebbe tirato fuori dalla lavatrice, da lì avrei potuto capire molto, ma mi sono distratto immaginando che il vecchio le avesse chiesto quelle cose banali che le persone si domandano appena si sono conosciute e che lei gli avesse mentito dicendogli che figli non ne aveva, o che erano morti, o criminali. Avrei voluto sentire che cosa si erano detti, e poi sarei voluto entrare nella stanza insalubre e vischiosa della lavanderia e dire ‘Piacere, sono Carlo, il figlio della signora. E sono vivo e non sono criminale e questo lavaggio glielo regalo’. E poi andare via, lasciarli in quell’imbarazzo e nel frattempo girarmi una sigaretta e accenderla per la prima volta nello stanzino dove è vietato fumare, chiamare il mio responsabile e chiedergli di cambiare zona, città, di assegnarmi ad un’altra lavanderia.
Tutte le lavatrici hanno un nome, all’inizio avevo attribuito a ciascuna un numero, ma alcuni numeri mi piacciono più di altri, mentre i nomi per me sono tutti uguali e non volevo che la manutenzione della 7 o della 3 fosse più accurata di quella della 8 o della 4. Le lavatrici piccole si chiamano Donna, Jenni, Betty, Sasha, quelle medie Zerlina, Violetta, Manon, le più grandi Novita e Felicita senza accento, che di per sé mi pareva un elemento di disparità, mentre anche così si capisce benissimo la gioia che ho provato quando ci sono state portate dal magazzino dalla sede centrale. Le asciugatrici non hanno un nome, non se lo meritano, fanno quello che dovrebbero fare il sole o il vento, anche se in questa città non ci sono né sole né vento; le asciugatrici sono per persone che non sanno aspettare, che quel giorno in particolare vogliono mettere un vestito in particolare, ed io non le capisco, perché anche gli abiti, come i nomi, alla fine sono tutti uguali, l’ho imparato in questi sei anni e mezzo di lavanderia a gettoni, me lo ricordo ogni volta che guardo il cesto della biancheria smarrita.
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les nouveaux réalistes: Alessandro Zannoni 12 luglio 2014
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Genesi di un principe azzurro Alessandro Zannoni Sono figlio di quella che una volta veniva chiamata pettinatrice. Ho trascorso gran parte della mia infanzia nel negozio di mia madre circondato da donne di ogni età, ceto sociale e bellezza. Coccolato da tutte, amato da molte, promesso sposo di alcune. Mi sono sempre sentito un privilegiato, quasi un prescelto, come un semidio o una roba del genere. Vivrai tra le donne e imparerai a conoscerle, ne amerai quante più potrai, godrai dei frutti della loro terra etc etc… Ero un bambino felice e un futuro radioso mi aspettava, perché dentro quelle quattro mura colorate di rosa antico ho imparato tutto sulle donne, tutto quello che bisogna sapere per farle sentire amate e felici, comprese, protette, complete. Ho imparato tutto direttamente alla fonte, mentre ascoltavo le lamentele sui mariti e i fidanzati, mentre i caschi sparavano rumorosa aria bollente e mia madre acconciava certe cofane che mi sembrava sempre un miracolo della fisica, e le sue aiutanti limavano e pitturavano unghie di mani che faticavano a stare ferme mentre le donne parlavano. Sembrava che facessi altre cose, che non badassi a loro, che fossi troppo piccolo per capire o per interessarmi alle dinamiche più importanti dell’equilibrio del mondo e della vita stessa, invece ascoltavo eccome; magari non capivo proprio tutto ma ascoltavo e incameravo, inconsciamente, nozioni che mi sarebbero state utili più avanti. Crescendo ho imparato a conoscere le donne anche dalla posta del cuore di Cosmopolitan, che sul tavolino delle riviste non mancava mai, leggendo le richieste di auto di ragazze inesperte o di mogli disperate, e le risposte illuminanti di una entità femminile onnisciente. Oggi credo proprio che tutti gli uomini dovrebbero trascorrere i primi dieci anni di vita nel negozio di una parrucchiera, lo penso davvero. Tra uomo e donna le cose andrebbero meglio, di certo. Ripensando alla mia infanzia tra tutta quella bellezza di cosce nude di prime minigonne e camicette sbottonate, di magliette scollate e culi insaccati in jeans stretti, di tacchi alti e calze velate e reggicalze e gonne lunghe con gli spacchi e bocche con rossetti pesanti e occhi truccati e sopracciglia curate e ascelle ancora orgogliose di peli, ripensando a tutta quella bellezza che ammiravo e che sarebbe diventata poi il mio campo da gioco e d’amore – ripensandoci, adesso – posso confessare che esisteva una nuvola, unica ma enorme, che offuscava quel mio radioso futuro, e che mi angustiava parecchio: il principe da fotoromanzo. All’epoca ero molto preoccupato, non c’è niente da ridere. I fotoromanzi erano la vera letteratura pop degli anni ’70/’80. Le clienti, tutte, erano avide lettrici di quelle storie a fotogrammi dove si coronavano sogni romantici di amori difficili. Il problema era che, in quelle storie così moderne, veniva alimentato il mito del principe azzurro. Liberazione sessuale o meno, quello era un mito troppo radicato nella loro visione della vita, era il punto debole attaccabile di un super eroe perfetto, l’ostacolo fatale dopo un percorso netto. Io ricordo gli sguardi di quelle donne di ogni età, e ne ricordo perfettamente ogni espressione, mentre sfogliavano quelle storie. Riconoscevo, in quegli occhi e nei respiri trattenuti, la voglia di essere le protagoniste di quegli amori, di quei baci, di quell’epica azzurra. L’amore era il loro sogno, il desiderio primo di tutte quelle donne. Ma non ero io quello che glielo avrebbe fatto assaporare, non ero io che bramavano e sognavano, quello per cui avrebbero lasciato il marito o il fidanzato in macchina ad aspettare fuori dal negozio di mia madre. Ennò.
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Il principe azzurro dei loro sogni era Franco Gasparri. Moro, alto, ben fatto, bellissimo. Non c’era nessun altro attore da fotoromanzo che gli tenesse testa. All’apice della fama, Franco menava pure Alain Delon, anche se aveva la erre moscia – cosa di cui chiedeva sempre scusa al pubblico. Avrei dovuto odiarlo, come da copione, perché due capibranco non possono coesistere, ma segretamente mi era simpatico, anche se era più bello di me, e parteggiavo per lui in ogni fotoromanzo in cui appariva.francogasparri64 Pure Brunetta, la ragazza che lavorava da mia madre, bella mora con due tette generosissime, stravedeva per lui. Per lui e Boninsegna. Brunetta tifava l’Inter. Anche sua sorella Nicoletta tifava Inter, ma le piaceva Bordon. Ricordo che partivano i mercoledì di coppa con i loro fidanzati e seguivano la squadra dovunque. Non capivo, dall’alto dei miei pochi anni, come potessero, quei ragazzi, permettere alle fidanzate di andare a vedere giocatori di cui erano palesemente innamorate, e di cui tenevano spudoratamente i poster in camera. A volte Brunetta, quando tornava da qualche vittoriosa trasferta europea, diceva che forse Bonimba era più bello di Franco Gasparri, ma la cosa durava solo un giovedì, perché poi il venerdì tornava a sospirare sulle pagine dei fotoromanzi insieme alle clienti. A volte Brunetta mi diceva che da grande mi avrebbe sposato, nonostante Franco Gasparri e Roberto Boninsegna, e se mi lavavo i capelli in negozio era lei che me li asciugava, e questo era sicuramente un segno d’amore. Ma devi sbrigarti a crescere, concludeva. Io guardavo mia mamma per vedere se aveva sentito, come a farle intendere che stava a lei aiutarmi in quell’impresa, e mia madre ogni volta rideva e faceva sì con la testa, e diceva sempre chissà che fila di donne ci sarà che ti vorranno sposare. Io mi gonfiavo di orgoglio maschio, ché pure le clienti facevano sì con la testa e le davano ragione e mi sorridevano, e Franco Gasparri mi sembrava meno pericoloso, e certe volte ho pensato pure che saremo diventati amici e che ci saremo divisi equamente le fidanzate, perché i grandi uomini sono pure generosi. Di regola gli ultimi colpi d’asciugatura li facevo seduto in poltrona, tre cuscini sotto il sedere e la testa dentro al casco, perché quell’aggeggio mi faceva sentire un po’ astronauta che in quel periodo erano molto di moda, con i capelli che volavano dentro lo scafandro bollente che puzzava di plastica bruciata, mentre tenevo in grembo un fotoromanzo e guardavo Franco che baciava la belloccia di turno, la baciava con la bocca tenca e gli occhi chiusi, e pensavo che un bacio così, alla Brunetta, chissà quando glielo avrei dato.
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les nouveaux réalistes: Ivan Ruccione 11 luglio 2014
Chiedi alle ceneri Ivan Ruccione Sono ancora rincitrullito dalla sbronza solenne di ieri sera, penso seduto a tavola, ma i filetti di manzo li ho cucinati alla perfezione. Tu ben cotto ed io al sangue. Tu una porcheria ed io burro, in pratica. Quante volte, quante cazzo di volte ti ho spiegato che il filetto non è un taglio che va fatto ben cotto ma oh!, nada, ben cotto l’hai sempre voluto. Mamma non c’è, mamma fa il turno di notte, penso, papà. Meglio così. Voglio cenare con te. Io e te soli. Vorrei riuscire a parlarti senza vergogna. Senza la paura del tuo silenzio, la paura del tovagliolo che pieghi e nascondi sotto il bordo del piatto quando qualcuno o qualcosa ti delude. Non vorrei parlarti e poi vedermi annegare nella profondità delle rughe sulla tua fronte quando non sai cosa dire. Le parole da dirti sembrano appiccicate alle corde vocali come bandiere a mezz’asta bagnate fradice. – Hai visto che figuraccia, l’Italia? – dico riempiendo i bicchieri. – Comunque quel bastardo di Suarez l’hanno squalificato per nove giornate con la nazionale, mi pare, più quattro mesi di allontanamento da ogni attività calcistica. Prandelli al Galatasaray, cinque milioni l’anno per tre anni. Io e te qui con un filetto ogni tre mesi. Sorrido. Poi brindo e faccio roteare il vino dentro il bicchiere. Lo porto alle labbra, bevo un sorso. Staccandomi espiro nel vetro, col naso. – L’ho tradita, – confesso decisamente a papà, appoggiando sulla tovaglia il bicchiere. Penetro coi rebbi della forchetta nella carne e affondo la lama del coltello. – Cazzo pà, l’ho tradita. Ho tradito Giulia – dico sommessamente, pucciando nella salsa al pepe verde il tocco di filetto infilzato nella forchetta. Mi ha svegliato mamma verso le undici quando ha sbattuto le ante della finestra e ha urlato: Gesù Cristo! Senti, senti che puzza di alcol! Poi ho sentito la tapparella arrotolarsi rabbiosamente con due soli colpi di corda. Dopo il secondo strattone c’è stata una botta mostruosa che mi ha fatto trasalire dallo spavento. L’ha rotta, ho pensato, le è rimasta in mano la corda e mo la tapparella si schianta giù. Ha preso il catino rosso dei panni che avevo messo accanto al letto e mi ha colpito tre volte. Alzati, cretino!, ha detto con tono schifato.
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Schiudendo le labbra ho sentito l’odore del gin. Mi sono alzato e per un attimo sono rimasto immobile sul bordo del letto. Ubriacone!, ha detto mamma uscendo dalla stanza, con lo stesso tono schifato. Ho barcollato fino al bagno, ho abbassato la tavoletta e mi sono seduto. Ho appoggiato i gomiti sulle cosce. Con la mano destra ho sorretto la testa, con la sinistra ho spinto il coso all’ingiù e ho pisciato. Ho cominciato a ricostruire la serata. Sì, che fosse la festa di laurea di Giulia me lo ricordavo. Che fossimo a casa sua pure. È quando ho pensato a come e con chi fossi tornato a casa che… – Mi hai visto. Tanto lo so che mi hai visto, – dico a papà col boccone davanti alle labbra. Se solo non ci fossero stati i genitori di Giulia io avrei dormito da lei, con lei, penso col boccone ancora davanti alle labbra, non fossi stato così ubriaco non sarebbe successo, papà. – Chi è?! Papà che importa “chi è”? È “chi sono?”, la domanda. Mi ha portato a casa l’Errico, penso masticando la carne tenera come burro, sì l’Errico, lo conosci l’Errico, ma sì che lo conosci, abbiamo fatto asilo elementari medie insieme, l’Errico il figlio del meccanico di via Cavour, lui. Lui, quel mio amico là che ti avevo detto che aveva cambiato vita, che si era deciso di cambiare vita e l’immagine comune dell’amore. Ecco papà, lui, penso deglutendo. – Mi hai visto? Papà fa’ qualcosa se mi hai visto! Batti un colpo per dire sì, fa’ qualcosa! Ti faccio schifo? Certo che ti faccio schifo, penso mentre sorseggio nervosamente il vino rosso, mentre la mano e le labbra mi tremano, non come stanotte, no, stanotte non mi tremavano le labbra e le mani mentre io e l’Errico eravamo in macchina parcheggiati vicino casa, vicino alla rotonda dove stava la puttana che hanno ammazzato, no, non mi tremavano le mani mentre lo sentivo caldo e sodo e ritto nelle mie mani, non mi tremavano le mani mentre le sue labbra ansimavano nell’abitacolo, no, non mi tremavano le mani e le labbra come adesso, mentre sorseggio nervosamente il vino rosso, no, non mi tremavano le mani e le labbra mentre sentivo caldo e sodo e ritto e liscio il suo amore nelle mie mani, e poi caldo e sodo e ritto tra le mie labbra, no, stanotte non mi tremavano le labbra mentre aderivano al glande e la lingua sulla corona, non mi tremavano le labbra e le mani, poi, in quel bagno agrodolce d’eccitazione. – Mi hai visto papà? Di’ qualcosa! Ti faccio schifo? – dico, e poi prendo il mio piatto e il suo piatto e li butto nel bidone, e poi afferro mio padre, mio padre che non dice niente, mio padre che non può dire niente, mio padre che si fa portare in braccio in camera da letto, mio padre che dorme sopra il comodino, sempre accanto a mamma, mio padre che ha il cuore in cenere.
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les nouveaux réalistes: Anna Giuba 9 luglio 2014
Il corpo sommerso e la lingua salvata Anna Giuba L’opaca impenetrabilità del corpo che noi avvertiamo e viviamo come la resistenza delle cose è, dunque, la precategorialità di cui parla Husserl, per il quale il corpo si dà come materia (impenetrabile, opaco, passivo) ma proprio nel suo essere tale è contemporaneamente una modalità del corpo-proprio di esperire la materia […] in me c’è dunque un’enigmatica qualità per cui la materia, costitutiva di me stesso, è — nel mio rapporto con le cose — il mio modo di esperire, la mia possibilità di vivere in mezzo all’oggettualità delle cose. (F. Basaglia)
Nel novembre del 1993, una giovane donna sulla trentina fu portata da Parigi a Torino, una notte, in autostrada, in sole cinque ore. L’autista, neuropsichiatra, sosteneva si trattasse di “ideazione delirante”. Velocità media 200 km orari, paesaggi nudi come anime. La donna non sapeva altro se non di soffrire, ma manteneva la sua perfetta lucidità consueta. Chiedeva soltanto perché. Una settimana dopo, venne ricoverata nel reparto psichiatrico dell’ospedale più austero e giallastro della sua città: rifiutava i farmaci. Sosteneva che le facevano perdere consapevolezza e immaginazione e li buttava nel cesso di casa. Chiedeva soltanto perché. All’epoca, nel 1993, nei reparti psichiatrici era strana consuetudine accompagnare le diagnosi mentali con esami fisiologici: raggi x, esami ematici, etc. La giovane donna era piuttosto belloccia, e le fu riservato un trattamento particolare: fu aggiunta una visita ginecologica. Si chiese perché. La visita si svolse in una stanza con grandi finestre opalescenti, che lasciavano filtrare luce, ma nascondevano le facce di quattro ginecologi chini sulle sue gambe spalancate. I quattro avevano altezze diverse, forme diverse, ma erano egualmente grigiastri. La giovane donna pensò ad un racconto di Kafka, ma non riusciva a ricordarne le parole esatte, perché il suo sguardo era fisso al soffitto, asciutto, senza acqua di sale. Gli occhi sbarrati chiedevano perché. La visita durò un’ora esatta: la giovane donna ricordò soltanto i divaricatori di acciaio gelido nell’ano e nella vagina. Poi, tutto divenne opalescente come i vetri delle finestre. Scolorò. Non chiese più perché. Per molti anni la donna non chiese nulla, fino a quando capì che per quella domanda sepolta così a lungo, non ci sarebbe mai stata una risposta, solo perché non era mai esistita una domanda. Si chiese quando avrebbe potuto ricordare e dimenticare e ricordare e dimenticare e poi ancora ricordare e poi ancora dimenticare e poi morire. Poi si addormentò stanca, cullando la propria innocenza come fosse appena nata.
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les nouveaux réalistes: Stefania Hauser 6 luglio 2014
“I don’t like Mondays” Stefania Hauser
Il lunedì non è un giorno come un altro. Non che gli altri siano migliori, semplicemente il lunedì è noioso. Non so perché, ma lo penso da sempre. Di certo, lo penso da trentacinque anni e voglio sperare che a San Diego non ci sia una fottuta anima viva che l’abbia scordato. Anzi no, sono sicura, lo ricordano eccome: hanno costruito anche un monumento per non dimenticare. Me l’hanno fatto ripetere sino alla nausea, raccontare per filo e per segno ogni secondo di quella mattina del 29 gennaio come se ci fosse granché da dire, poi, a parte che era lunedì e che dalla finestra della mia camera, come ogni giorno, potevo vedere quel mucchio chiassoso di bambini entrare a scuola, sempre gli stessi, sempre quel mucchio chiassoso di bambini delle elementari. Cosa avessero da dirsi, ogni volta, non l’ho mai capito. Forse nemmeno loro erano elettrizzati all’idea d’entrare in classe, altrimenti perché alle otto e venti erano ancora tutti fuori? A San Diego non fa mai freddo, nemmeno d’inverno, però ricordo che l’erba del prato era ghiacciata perché c’erano delle bambine che accarezzavano il prato con la stessa eccitazione con cui avrebbero toccato un istrice, se solo ne avessero mai visto uno. Io non amo gli animali, ma nemmeno li odio. Mi fanno schifo i topi: tutte dicono che qui ce ne sono ma io non ne ho mai visto uno. Scarafaggi, quelli sì: alle volte li schiaccio, altre ci gioco, altre ancora fingo di non vederli, dipende. Ho perso il filo del discorso. Mi succede sempre, come se non potessi stare troppo tempo con lo stesso pensiero in testa. A scuola mi addormentavo, infatti. Però mi piaceva fare fotografie e ho anche vinto un premio. Adesso non ne faccio più, però sono molto brava a guidare un carrello elevatore e cose di questo genere. Non serve che lo dica, ma lo faccio lo stesso: so anche sparare. In vita mia ho avuto una sola arma, un fucile semi-automatico calibro 22, un regalo di mio padre per Natale. Avevo chiesto una radio e non me l’aspettavo proprio, anche perché quello stesso anno i servizi sociali avevano detto ai miei genitori che mi divertivo a prendere gli uccelli a pallettoni con una pistola ad aria compressa e a scuola mi avevano accusata di atti di vandalismo e furto con scasso. Dicevano anche che avevo tentato il suicidio, che ero depressa e che dovevo essere messa in uno di quegli ospedali psichiatrici, ma mio padre non gli ha creduto. Vivevo con lui, da quando i miei avevano divorziato. Io e mio padre siamo molto amici: mi viene a trovare tutti i sabati. Fa cinque ore di macchina, ogni volta. Nel 2001, quando il mio avvocato ha presentato la prima richiesta di libertà sulla parola, hanno messo agli atti che avevamo un rapporto malato: una mia dichiarazione in cui parlavo di sodomia. Resto in carcere. Di me e dei miei fratelli, a mia madre, non è mai interessato un granché. I vicini, invece, non facevano altro che impicciarsi e dicevano che molestavo i cani e i gatti del quartiere. L’ho già detto, io non odio gli animali. I miei colori preferiti sono il rosso e il blu. Ecco perché il primo bersaglio è stato un bambino con un giubbotto blu. È stato facilissimo, avevo il mirino. Non mi sono fermata: il Ruger ha un caricatore da dieci cartucce, al primo sparo si è ricaricato e ha armato il cane automaticamente, per cui tanto valeva continuare. L’impressione che ho avuto è che nessuno si fosse reso conto di cosa stava succedendo, però io a scuola l’avevo detto che avrei fatto qualcosa di sensazionale e che sarei finita in televisione.
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Con il secondo colpo ho preso una bambina. Era davvero facile, sembrava di sparare a delle papere in uno stagno. Il lunedì ha iniziato a movimentarsi e i bambini a gridare. È uscito il preside, gli ho sparato. È uscito il custode, gli ho sparato. È arrivata la polizia: uno di loro si è precipitato dai bambini, ho sparato anche a lui. Venti minuti. Trentasei colpi. Undici centri. Otto bambini, tre adulti. Due morti. Avevo sedici anni ma mi hanno processato come un’adulta. Pena: da venticinque anni all’ergastolo. Ecco perché posso chiedere la libertà sulla parola. Sono passati trentacinque anni. Non ricordo la sparatoria, ma so che sono stata io a sparare. Delle sei ore successive, sempre nella mia camera, ho parlato al telefono con qualcuno ma non ricordo cosa ho detto. Dicono che mi hanno chiesto il perché di tutto questo e che io ho risposto perché non mi piacciono i lunedì. Non sono così convinta d’averlo detto, invece mi ricordo d’avere detto che era stato divertente sparare ai bambini. Mi domando, poi, perché ci deve sempre essere un perché? Mi annoiavo, questo sì. In carcere mi danno pastiglie per curare la depressione e l’epilessia: le prendo, non mi costa niente farlo. Nel 2005, quando il mio avvocato ha presentato la seconda domanda di scarcerazione, è stata messa agli atti una mia nuova dichiarazione: il 29 gennaio avevo iniziato a bere birra già dalle sette della mattina e così, hanno tirato fuori il discorso della premeditazione. Durante il primo interrogatorio, ventisei anni prima, non ricordo d’averlo detto e dagli esami del sangue non risultava traccia di alcol. Nemmeno di droga, se è per questo. Il fatto è che poco tempo prima dell’udienza ho rotto con la mia compagna e con un temperino mi sono scritta sul collo coraggio e orgoglio: per me era solo un tatuaggio, ma per loro è la dimostrazione che non so gestire lo stress. Resto in carcere. Nel 2009, quando il mio avvocato ha presentato la terza domanda di scarcerazione, ho chiesto scusa a tutti quanti. Resto in carcere. Nel 2019, quando il mio avvocato presenterà la quarta domanda di scarcerazione, non ho proprio idea di cosa dirò.
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les nouveaux réalistes: Olga Campofreda 27 giugno 2014
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Lezioni di italiano Olga Campofreda
A South Kensington c’è una strada che si chiama come un giardino, c’è poi il numero quarantanove, interno due, citofono laccato in oro. Mi ci specchio ogni volta in superficie mentre qualcuno, dall’altra parte, percorre il tragitto che da una poltrona costosa arriva ad aprirmi il portone, che fa un rumore sordo, un clank secco, come di una cassaforte dopo la combinazione esatta. La mia combinazione è stata esatta, immagino. Sarà anche per questo, il rumore, un fatto di coerenza. Lungo la strada che si chiama come un giardino ci sono parcheggiate solo Mercedes, Maserati, Carrera e io non ne so proprio nulla di automobili, ma lo capisco quando si tratta di un convegno dov’è gradito l’abito scuro e una tassa di iscrizione al club particolarmente alta. La mia combinazione è stata sfacciata, soprattutto. Prima di salire al primo piano passo in rassegna il mio volto ancora una volta, raduno tutte le rughe che posso, le divido tra quelle che significano stanchezza (le congedo) e quelle che significano esperienza, maturità (mi concentro su quelle, le tengo strette, le scavo). Non sono un’insegnante di italiano, ma sono italiana. Questo forse dovrebbe bastare. Sono italiana e sono sfacciata e tutto quello che devo ripetermi per convincermi a salire le scale del palazzo (scale rivestite in moquette rossa, uno scorrimano in legno bianco e dorato) è che sono una professionista della mia lingua madre, la parlo quasi da quando sono nata e questo è tutto, niente può scalfirmi. Conosco la pronuncia delle parole, il significato, i sinonimi, l’ordine in cui prediligono essere disposte. Conosco il senso proprio, il doppio senso, l’assenza di senso. Conosco il modo di dire e mentire da vent’anni, dal primo non-sono-stata-io che ho pronunciato. Ci sarebbe questa signora di una certa età, mi avevano detto all’Istituto, questa signora vorrebbe fare delle lezioni di italiano, impararlo in fretta, parlarlo subito. E’ sembrata molto insistente. La signora si chiama Lila, me la sono immaginata vestita di un grembiule a fiori rosa e violetti, con un cappello di paglia, china su una porzione di serra. Ho pensato a Lila come una di quelle artiste di decoupage con l’attitudine spiccata alla preparazione delle torte di mele. Una signora di una certa età. A cosa dovrebbe servirle l’italiano? A leggere Dante, ho pensato. Ho pensato a lungo. Le uniche volte in cui sono in anticipo sono i primi appuntamenti, così pensando impiego quel lembo di tempo. Non ha fatto eccezione la prima volta da Lila, quando ho iniziato a camminare lungo la strada di casa sua, la mia immagine che saltava da una lamiera cromata a un’altra. Sono salita alle sei e cinquantanove minuti e alle sette spaccate ho suonato il campanello dell’appartamento. Allora, inaspettatamente, ho imparato subito qualcosa di nuovo, e cioè come una vocale non scritta possa contenere un mondo e separarne due. Non mi era mai passato per la testa che Lila potesse pronunciarsi [Laila]. Laila è una canzone maliziosa, sensuale, appena la sussurro spazza via la serra, il vestitino a fiori e il profumo di torte di mele come una violenta folata di vento. Al suo posto si impone un bacio alla francese, un movimento sensuale della lingua, un’assonanza con lascivo, lascivia, lascio, permetto.
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Entra pure. Che puntualità. Laila è una modella newyorkese. Si è trasferita a marzo a Londra, vive in questo appartamento con il suo compagno, un inamidato pezzo della finanza che lavora nella City. Lei fa shopping, lo aspetta a casa, si concede il lusso di dedicarsi alla bellezza in mezzo alla bellezza, circondata da un cumulo infinito di cuscini bianchi, una cucina con tre frigoriferi e un lavandino con tre uscite per l’acqua: fredda, calda, bollente. Mi offre del tè ed è pronto in un secondo. Un getto diretto nella tazza di porcellana. In cucina ci sono dei fiori riposti in un vaso, la sola cosa che posso collegare a quanto pensavo di trovare e non è stato, la serra, la vecchia di cui sopra. Fiori del Waitrose, fiori di supermercato. Non avevano il resto, dice lei. Ho preso questi, ma stanno già morendo. Li tira fuori dall’acqua e li riversa a testa in giù nel secchio della spazzatura. Questo nel giorno del nostro primo incontro. In quelli successivi ci siamo sistemate nel salotto, sul tavolo davanti al camino, illuminate da una foto di Marilyn in bianco e nero che legge un giornale. Vado a casa di Lila due volte alla settimana. Quando tardo di cinque minuti, per il primo quarto d’ora di lezione lei se ne resta con le labbra serrate e un po’ imbronciate, poi le passa. Non vedo l’ora che le passi ma non faccio mai nulla per arrivare in orario. Mi piacciono le sue giustificazioni, immagino servano a coprire l’assenza delle mie, che invece non arrivano mai. A Roma la buttavo sui trasporti, qui non posso, non a Londra. In genere finiamo per le otto spaccate perché lei deve andare a una cena o aspetta il futuro marito per una partenza, per un rientro. So tutto di lei perché la faccio parlare. Le ho insegnato a dirmi di dov’è (New York), cosa ha studiato (economia, poi ha mollato), com’è composta la sua famiglia, com’è la sua casa. Ci sono tanti tipi di case, -le dico- tanti modi di dire casa, anche in italiano. C’è l’appartamento, c’è il monolocale, la villa, l’attico. Attico? Una specie di penthouse. Lila sorride. Come si dice I want? Voglio, si dice voglio. Io voglio un penthouse. Io voglio un attico? Non lo so, lo vuoi? Annuisce. -Si dice così? Io voglio un attico.
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Corretto. Brava. Anche io, – aggiungo. Cosa? Un attico. Ho una mia amica che ne vende uno- annuncia Lila, strappando il velo di impaccio dal suo volto che cerca di mimare la mia lingua. Magari ti interessa. Magari, Lila, magari. Poi vediamo. Adesso però guarda. Nota: l’ironia che va insegnata, poco prima o poco dopo il periodo ipotetico dell’irrealtà. Passo a indicarle le parti della casa, i mobili. Pieces of forniture. I comodini, gli armadi, il tavolo, lo stereo. Voglio due comodini. È corretto? È corretto. Ma magari puoi anche dire che ‘ho bisogno’. Bisogno è need? Esatto. Tipo per vivere. Una cosa importante. Le cose che vuoi e che non hai non ti impediscono di vivere serenamente, non ti crea problemi se per un po’ le resti a desiderare senza averle. Quando hai bisogno di una cosa invece ne hai bisogno, ti serve proprio. Voglio un televisore. Nuovo. Esatto, le dico. Mi volto a guardare quello vecchio e noto con piacere che è più grande dello schermo del vecchio cineclub di Casagiove, in provincia di Caserta, ai tempi della prima del Titanic. Lo vuoi? Sì, mi dice Lila, lo voglio. Ti serve proprio? Allora magari lo vuoi veramente. E mentre soddisfatta ricavo quanto l’allieva abbia capito la differenza tra volere e avere bisogno mi passano davanti agli occhi tutti i cuscini della casa, e i quadri e il terzo frigorifero e il terzo rubinetto, quello con l’acqua bollente. E i fiori freschi a testa in giù nel bidone scintillante della cucina. Mi congeda con un rotolo di pound nel palmo della mano, mi dice ciao a domani, scappo a fare i capelli, ed è bellissima e gentile,e non ha più la smorfia sulle labbra serrate, ma sorride e perfino mi dice che poi se davvero mi interessa può mettermi in contatto con la sua amica, quella della penthouse, una vista clamorosa a ridosso di Southbank. Ok, ci penso, magari, ci penso, ti dico. A giovedì. *
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Ci sono i verbi della prima coniugazione. Ho pensato che un mucchio di fotocopie mi avrebbero facilmente aiutato a vestire i panni dell’insegnante di lingua. Tutte le insegnanti di lingua portano agli allievi fotocopie provenienti da libri misteriosi. È tutto lì il segreto, immagino. E i tacchi. Il rumore dei tacchi quando si entra in casa o in classe. Io e Lila torniamo a posizionarci in salotto e lei mi dice che non fa nulla che oggi non esce, possiamo stare qualche minuto di più. Noto con sorpresa che ha i capelli sporchi. Resterà a casa, non si sente bene e Gabriele è fuori per lavoro. Le dico che sarà facile, che sono cose facili, anche se so bene quanto lei detesti la grammatica. Le spingo avanti la fotocopia che porta stampate le colonne di coniugazioni, presente indicativo. Poi cominciamo una lettura. Sandra e Federico sono fidanzati. Sandra è di Milano, fa la maestra e lavora in una scuola elementare. Federico è di Roma e lavora in banca. Abitano nella stessa casa ma non passano molto tempo insieme, pranzano fuori e cenano ogni sera. Sono innamorati anche se qualche volta litigano. Le chiedo allora di sottolineare i verbi che non conosce ancora: Sandra e Federico sono fidanzati. Sandra è di Milano, fa la maestra e lavora in una scuola elementare. Federico è di Roma e lavora in banca. Abitano nella stessa casa ma non passano molto tempo insieme, pranzano fuori e cenano ogni sera. Sono innamorati anche se qualche volta litigano. Le spiego che hanno in comune il modo in cui si coniugano, eccetera eccetera. Una volta che ha imparato può usare qualsiasi verbo della stessa categoria. Non a caso nella prima coniugazione ci sono queste cose fondamentali, la grammatica pare fatta apposta, chissà quanto è stato fatto apposta. Cosa? Ma guarda, non vedi? Pranzare, cenare. Come fai a vivere senza? Lavorare. Litigare, dice lei. Brava- le dico, ma poi mi accorgo che ha pronunciato solo la parola, senza il suo significato, incluso. Ha gli occhi vuoti e chiedono. Litigare, come discutere, dico in inglese. Ed è necessario?-domanda lei. Certe volte sì. Certe volte è necessario, credo. Ne abbiamo bisogno. Io-ho-bisogno-di- litigare, scandisce. Lentamente, come qualcuno che per la prima volta dopo anni emette un suono. Un risveglio dopo il coma. A volte sì, Lila, certe volte ne abbiamo bisogno. Lei sorride e passiamo avanti. Sono- innamorati. Legge. Che significa? Significa che they love each other. Come amare.
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Si passa le mani tra i capelli, poi sul viso. Pensa. Coniuga il verbo lavorare, un po’ claudicante. Le dico brava, vai bene, quando torna Gabriele potrai intrattenerlo per un paio di minuti almeno. Non servirà parlare oltre, immagino. Lila mi guarda ancora con quell’espressione vuota e penso di nuovo che non siamo arrivate così avanti, per adesso siamo ferme in equilibrio sopra un senso solo, quando riusciamo a trovarlo. Voglio o bisogno. Voglio lavorare, dice Lila, appena finito di coniugare il verbo per intero. Un po’ mi annoio. Voglio lavorare, pure se non ne ho bisogno. E a volte sono triste. E’ la prima volta che mi dice qualcosa di veramente privato. Cala un silenzio imbarazzato che non so gestire. E amare? Le chiedo, ancora un altro verbo e poi chiudiamo. Ma lei fraintende. Voglio o bisogno? Le dico non fa niente, lo faremo la prossima volta, che sono ormai le otto e già mi vedo alla Piccadilly line ostruita dal rientro. In realtà non lo so, non è davvero per questo. E’ solo che improvvisamente ho troppa voglia di tornare a casa.
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les nouveaux réalistes: Paolo Valoppi 22 giugno 2014
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Regoli Paolo Valoppi
«’Mazza quanto è bono ‘sto hamburger». Il tono solenne, grave, con una punta di compiacimento, come si addice a chi in questa serata sta mangiando per la prima volta i panini e i piatti dell’Hamburgeseria Burger di Piazzale Flaminio, quella nuova, “quella che ha aperto da poco”. Le birre, gli sfilacci di pollo, le patate croccanti, gli anelli di cipolla, i bastoncini di mozzarella panati, la cameriera e i suoi jeans aderenti che i commensali fissano con golosità fagocitante, con le bocche semiaperte e i bocconi ancora nodosi e sfibrati, impastati tra i denti e le gengive. «Quello di T-bone è molto meglio». Sulle pareti del ristorante ci sono le foto in bianco e nero di pugili che si allenano, che combattono, che alzano al cielo un trofeo o una cintura, foto di palestre e di ring del passato, di sacchi consumati e guantoni usurati, spellati. Il ristorante si allarga per tre sale una contigua all’atra, il vociare dei clienti è un flusso continuo e condiviso, modulato, un dedalo di chiacchiere rizomatiche e frammentarie, risate improvvise, gridolini striduli, bocche mosce masticanti e pastose. «Io l’hamburger migliore l’ho mangiato a New York». La conversazione procede per accumulo di immagini, di parole, di intuizioni subito convertite in verbo, un sovrapporsi di idee e lemmi che ricorda i regoli colorati con cui i bambini giocano sovrapponendo i tasselli policromatici fino ad arrivare in cima alla piramide, l’estremità architettonica su cui poggia il più piccolo tra i pezzi: il regolo bianco. La costruzione verbale divora ogni tassello precedente e le parole divengono pesanti come pietre, come sassi fiondati nel vuoto. «Io l’ho mangiato a Londra. Troppo buono». Si arriva al regolo bianco senza troppi indugi, di fretta, senza verificare l’esattezza del regolo marrone, la solidità di quello arancione, la coerenza e la profondità di quelli verdi e gialli, il piacere della loro comunione, della loro narrazione concatenata, condensata; una percussione a pressione, un presente battente che ingurgita ogni tentativo di continuità comunicativa. In questa conversazione si può solo esordire. «Dobbiamo provare quello a Piazza Cavour». L’esperienza culinaria come unica militanza possibile, il discorso sul cibo come anestetico e sedativo, una zona franca in cui potersi rifugiare, a cui potersi abbandonare, un territorio neutro dove chiunque è autorità e prestazione. A questo tavolo hanno ordinato quattro Bacon Cheeseburger con formaggio Cheddar e insalata, maionese e ketchup a parte; un panino per quattro persone, un esercizio di condivisione gastronomica, un’esperienza unica e multiforme per un giudizio finale che deve essere netto e definitivo. “Che voto gli dai?” «M’hanno detto che quello a Piazza Cavour non è niente di che».
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Ogni incursione, anche la più partecipata, la più attiva, si risolve in se stessa, si esaurisce nel suo ritmo e respiro, e subito dopo essere stata pronunciata, annunciata, sembra un’esperienza lontana, inutile, trascurabile. I regoli si ammucchiano, la piramide cresce e l’impianto narrativo si scarnifica fino all’essenzialità e all’imprecisione. Invece di avvicinarsi all’esattezza, ogni parola si allontana dal suo significato, dalla sua levigatezza formale, dalla sua esplosività. Ogni parola si accontenta. «Vi porto qualcos’altro ragazzi?» L’improvvisa irruzione della cameriera – alta, dai fianchi corti – è come se polverizzasse in pochi secondi l’impalcatura verbale edificata nei momenti precedenti alla sua invasione; la ragazza crea nuovi percorsi possibili (“qualcosa ce lo potresti dare sicuramente”), nuove incertezze culinarie (“forse un dolce me lo prenderei”), ma soprattutto proietta il tavolo e i suoi convitati verso l’atto conclusivo di questo cenacolo serale: il regolo bianco (“Vabbè, va’, portaci il conto”).
Al tavolo cominciano i riti del dopocena, le dita sui telefonini per controllare gli ultimi messaggi, le mail, le mani sui portafogli, tra le banconote, previsioni e scommesse sul toto-conto; qualcuno si alza per andare in bagno, smania per fumarsi una sigaretta, gli altri rimangono seduti con le gambe stese lungo il tavolo, le braccia allargate, la lingua che mulina sotto le labbra in cerca di residui pastosi, organici, in attesa del verdetto finale, del pezzetto di carta con la propria porzione di conto da pagare, il contributo doveroso a questa prestazione alimentare, a questa cena tra amici.
«Alla fine amo’ mangiato bene». «Ma poi senza spende’ tanto». «Pure il posto era carino». «Voi che voto je date?».
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les nouveaux réalistes: Matteo Cavezzali 20 giugno 2014
La libertà dura sette giorni Azione di popolo per il centenario della settimana rossa Matteo Cavezzali Per chi non c’era, per chi non ricorda o soprattutto per chi vuol dimenticare questa è la storia della Settimana Rossa. Sette giorni in cui tutto fu possibile. Il vero comunismo fu messo in pratica ad Alfonsine, a Fusignano, altro che in Russia! Ma durò solo una settimana. Tutto iniziò a seguito dello sciopero antimilitarista che si svolse ad Ancona del 7 giugno 1914. Gli anarchici protestarono contro l’esercito per richiedere l’abolizione delle compagnie di disciplina, la liberazione dell’anarchico Arturo Masetti. Cercarono di bloccare la parata militare, seguirono violenti scontri e tre ragazzi furono assassinati. Furono uccisi dai militari Nello Budini di 24 anni, Attilio Giambrignani di 22 e Antonio Casaccia di 17. Quando la notizia si diffuse scoppiarono sommosse in tutta Italia. Fu la Settimana Rossa un’ insurrezione popolare che coinvolse repubblicani, socialisti e anarchici nelle Marche, in Romagna e in Toscana per sette giorni. Dal 7 della protesta di Ancona fino al 14 giugno dell’anno 1914. Giovanni Capucci – Era sera, il 10 giugno, eravamo alla casa del popolo, come tutte le sere. A Fusignano, ovviamente. Allora è arrivato di corsa Pino Grossi e mi dice che a Ravenna è successo un ’48, che durante un comizio organizzato dei compagni repubblicani, socialisti e anarchici assieme sono arrivate più di diecimila persone. Hanno dato fuoco alla Prefettura… Pino diglielo mo tè che c’eri cosa hai visto. Pino Grossi – C’erano fiamme alte sei o sette metri. La Prefettura prendeva fuoco come una catasta di fieno secco d’estate. Quel coniglio del Prefetto aveva anche tentato di darsela a gambe, ma i compagni l’hanno fermato e l’hanno arrestato. L’avete mai visti voi dei contadini che arrestano un Prefetto? Allora è partita una raffica di fucili, ma non ho capito chi sparasse a chi, perché non ha colpito nessuno. Solo un gran botto. E poi coi tizzoni ardenti via a dar fuoco anche alla Chiesa. G – E al pretaccio? Gli avete dato fuoco alla tonaca? P – Il prete? Quello era volato via come un fulmine ancora prima che si cominciasse a fare sul serio. Si era messo una gabbana sopra per camuffarsi, ma due calci nel sedere se li è presi! Don Luigi Tellarini – Ah! Che disperato dolor nel core mi preme a ricordare questi momenti! G – E questo chi è? P – Che vuole? Don – Sono don Luigi Tellarini, parroco di quel demoniaco territorio che è la città di Alfonsine. Più volte avevo sollecitato le forze dell’ordine a setacciare queste terre di blasfemi. Basti pensare che in Alfonsine ci sono ben 180 biciclette per capirlo! Era logico che fosse una terra del diavolo! Perché altrimenti il bisogno di andare così di fretta se non per rubare e fare attentati! Quanto dolore, vergogna e raccapriccio per quello che accadde in quelle giornate. Iddio, nella sua infinita misericordia tocchi il
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cuore di quei sacrileghi iconoclasti e li conduca pei sentieri del ravvedimento e alla salvezza… Ero in canonica a lavorare, come ogni anno, in questi giorni fervono i preparativi per la processione del Corpus Domini previsto per l’11 giugno. Nel silenzio della chiesa nulla lasciava presagire ciò che di sinistro sovrastava il paese di Alfonsine. Quando verso sera un gruppo di banditi iscritti alla fazione degli anarchici, si scagliò verso il portone della sacrestia come degli animali abbattendola con una spallata. Il pianto disperato di bambini non bastò a sedare i loro animi. Il Cappellano, don Mario ebbe una vivace discussione con loro e finì con il prendere uno scapaccione e una spinta talmente violenta che dal limite della sagrestia fu scagliato in mezzo al cortile a piedi all’aria. La porta era allora spalancata. Uno sguardo secco lanciò uno di loro alla folla in piazza e via entrarono di gran corsa all’assalto. La posta, il telegrafo e il telefono furono le prime vittime. Fracassano gli apparecchi. Uno si arrampica sulle impalcature della casa accanto e taglia i cavi dell’elettricità. Certo! Ci vogliono isolare. Altri entrano nel circolo monarchico. Forzano il portone con un palo di ferro. La turba furibonda si dà all’assalto e al saccheggio. Vidi volare fuori dalla finestra le immagini di Re Vittorio e anche della regina d’Italia! Poi sedie, tavoli di marmo, bottiglie, bicchieri. Come un’ orda di selvaggi che non ha più leggi né freno. Urlavano “compagni, lavoratori, finalmente Vittorio Emanale è caduto. Andate nelle casa e tirate in pieno petto alla borghesia. Evviva la rivoluzione”. Io ero ad origliare dietro le tende della canonica, però udivo e vedevo ogni cosa. Si vedevano giovinetti con un accanimento indescrivibile, afferrare bottiglie con liquori di ogni colore e sbatterli contro le colonne della casa con gioia pazza e tale ironia che faceva fremere d’orrore… e l’aria era talmente satura di alcol da non potersi descrivere. G – come stavamo dicendo… Don – Non ho finito. Il giorno seguente constatai che il busto di gesso del defunto parroco don Riccibiti era ormai senza naso, senza un occhio e senza un orecchio. C’erano lampade rotte, brandelli di statue, candelieri spezzati e addirittura crocefissi e immagini sacre gettate a terra. I cancelli in stile gotico della graziosa cappella di Lourdes affissi al muro erano spaccati. Avanti ancora: Mio Dio!! Che si vede là a terra? La statua di San Luigi era stata d-e-c-a-p-i-t-a-t-a e il tronco… giaceva a terra senza testa! (Mi ha confidato il cappellano don Serafino che il carnefice di questo povero santo fu il signor Massimiliano Maiani il quale ce l’aveva a morte con lui perché è il santo della purezza!) Era rimasto intatto ancora, perché inosservato, il bell’organo costruito dalla ditta Strozzi di Ferrara: in un baleno un gruppo sale nell’orchestra, con bastoni si comincia a percuotere la tastiera d’avorio e il meccanismo interno, riducendo il tutto a un informe groviglio di ferri, poi si tolgono dal loro posto le magnifiche canne di stagno della facciata e poi quelle di piombo e di zinco, in tutto circa 800, e si danno ai bambini, i quali suonando a tutto fiato, corrono nella piazza e incomincia allora quella musica barbara, quella nenia che i poveri selvaggi dell’Africa sogliono fare durante le loro feste cannibalesche! G – Quando ci raccontò questa formidabile storia alla casa del Popolo esplose un fragoroso applauso. Erano cinquant’anni che noi si aspettava l’inizio della rivoluzione. Non abbiamo neanche dovuto fare una riunione per parlarne, era già tutto pronto! Tutto! Sapevamo esattamente cosa fare per cacciare via quelle fecce monarchiche dalla Romagna e dall’Italia intera! Ci erano arrivate rassicurazioni su quello che stava accadendo nel resto d’Italia. E poi gira quella voce… A pensarci adesso sembra impossibile, ma ci credevamo tutti. A quella cosa. Me lo avevi detto te Pino! P – Mé? Ma va là! A me quella vicenda lì me l’aveva detta Olindo. Olindo Masetti – Mo propì! era stato Ultimo, no, non Ultimo, … coso… coso dai quello che abita là in fondo al borgo. Non quello che ha tirato giù la statua di San Giovanni, quell’altro, coso. Non Primo, no… coso, coso. Quello che c’ha tutta quella fila di prosciutti appesi nella cantina… Vituperio! Non Vituperio, l’altro. Coso… P – Sì, ma dillo se hai il coraggio, dillo cosa andavi a dire in giro…
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O – Tempesta! Ecco come si chiamava. Ma non era lui, era l’altro. Coso… G – Andava a dire in giro, sto patacca qua, che Vittorio Emanuele III era stato spodestato, che il Re d’Itala era dovuto fuggire in Francia a causa della rivoluzione. Vigliacca di una vigliacca! Ma come si fa a dire una roba così se non si è sicuri come si è sicuri che c’è il sole di giorno! O – Il Vendetta! Era stato il Vendetta a dirmelo, che poi a lui glielo aveva detto però un altro. Coso… G – Fin dalle prime ore dell’alba, che il gallo non aveva ancora cantato, eravamo già tutti al circolo Socialista dove il comitato dava gli ordini per far procedere la manifestazione come doveva senza disperdere energie… P – La prima regola fu il divieto delle osterie di servire il vino. Altrimenti si sa come sarebbe andata a finire! Per festeggiare i compagni si sarebbero subito infilati alla prima osteria e poi col fischio che si faceva la rivoluzione da ubriachi! Don – Oh Vergine Santa! Questa regola fu tradita da coloro i quali si macchiarono dell’orrenda strage di sacre immagini e di regali effigi! Ho visto con questi occhi un anarchico ubriaco indossare la sacra tonaca e dopo aver simulato una benedizione ai suoi compari gettare una croce tra le fiamme in mezzo alle risa generali! G – Va beh, ci si divise in squadre. Una doveva assicurare cibo agli ammalati, un’altra avrebbe imposto la chiusura a tutte le chiese e ai pubblici negozi e ad esporre la bandiera abbrunata. Tutto chiuso, tranne le farmacie. Anche dal municipio fu annodata la bandiera in segno di rivolta. La folla di manifestanti si aggirava per le strade del paese, mentre il sole splendeva alto nel cielo azzurro, in attesa di buone notizie, le quali non tardarono. Un gruppo di sconosciuti, giunto in bicicletta, riferì dell’incendio del Palazzo Comunale di Alfonsine, du quello della stazione di Castel Bolognese, di Imola, della chiesa di Mezzano e delle altre conquiste della rivolta. A quel punto tutta la cittadinanza si unì a noi! O – L’idea fu di Emilio o di Carlo, non ricordo, fatto sta che arrivò a quel punto una delegazione del comitato che era stata mandata nel bosco del Marchese Calcagnini. Trasportavano un frassino lungo quindici o sedici metri… Erano dieci a tenerlo. Lo portammo fino in piazza Corelli e lì, di fronte alla chiesa del Suffragio, lo tirammo su. In cima, là a quindici o sedici metri d’altezza sventolava la bandiera rossa! L’idea di Giovanni o di Palmiro, si rifaceva a un disegno che avevano visto incorniciato alla sede del partito Socialista. Era una raffigurazione della Rivoluzione Francese, quella dell’albero della Libertà. Eretto l’albero tutto il paese era in piazza. Molti gridavano “evviva” e a quel punto iniziammo a cantare la Marsigliese, poi l’Inno dei lavoratori e l’Inno di Garibaldi e la banda si unì spontaneamente alla festa. Non so nemmeno come fecero a recuperare gli strumenti così velocemente. Accadde tutto spontaneamente. Fu una gran festa! Luigia Bertozzi – Gli uomini si lanciarono subito in grandi ragionamenti sulla Rivoluzione Italiana, come niente sarebbe più stato come prima, come quella grande avventura sarebbe stata ricordata dai posteri. Arrivò persino il vecchio Valentino Badeschi, di novant’anni, che quella stessa piazza avevano fatto il 1848 e nel vedere rinnovato il sogno rivoluzionario si commosse e pianse. Strano per un uomo d’ordine e religione come lui. Domenica-del-corriere--7-gi G – La foto di noi sotto l’albero scattata da Antonio Preda, maestro della scuola elementare e dilettante fotografo, fu pubblicata dai più illustri giornali da La Domenica del Corriere a L’Illustrazione Italiana! O – Per non parlare di quanto circolò negli uffici della Pubblica Sicurezza…
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G – Poi, visto che si era fatta l’ora di pranzo, la folla si disperse e ognuno tornò a casa propria per mangiare. Di Carabinieri in giro non ce n’era neanche l’ombra. Sarà che in tutta la caserma di Fusignano ce n’erano appena quattro e quando hanno capito che tirava una brutta aria si erano chiusi dentro ben bene. O – Benedetto Gessi! Ecco come si chiamava. Il repubblicano di Alfonsine che arrivò in moto tutto trafelato e con gli occhi congestionati, in preda a evidente agitazione. Fu lui a dire che gli era appena arrivata notizia da un concittadino alfonsinese appena giunto da Roma che il re era fuggito e anche parte dell’esercito si era ribellato. Che tutte le grandi città italiane erano insorte e che a Ravenna la casa del popolo gremita da un migliaio di dimostranti era assediata dai soldati ed ora era per noi doveroso intervenire, armarci e marciare alla volta di Ravenna. G – Fu a quel punto, radunate le armi che avevamo a disposizione, che partì la marcia verso Ravenna. Eravamo 500 persone e gridavamo “Viva la rivoluzione” e “Abbasso la monarchia!”. Altri come noi erano partiti da Mezzano, da Alfonsine e da altre città della provincia. Intanto in paese venivano erette barricate per mantenere il presidio. Però dovevamo avere velocemente notizie sicure da Ravenna, in bicicletta ci avremmo messo troppo, allora venne l’idea di sequestrare un auto. Proposta che fu votata all’unanimità. Le auto disponibili in città erano un paio, si scelse di sequestrare quella del Dottor Carlo Piancastelli, ricco fusignanese. Immediatamente una colonna di dimostranti si recò alla villa del Piancastelli, ma dopo aver bussato ripetutamente alla porta nessuno ci aprì, allora la porta fu atterrata a pedate. L’auto fu allora presa, con promessa di non arrecarvi danni, e guidata dal autista del dottor Piancastelli. Non è che ci fossero altri capaci di governare un’ automobile sulla strada! Luigia Bertozzi – Intanto a Villa Savio i compagni avevano catturato il generale Agliardi! In realtà non fu proprio catturato. Era in un giro di perlustrazione, senza sapere quasi niente di cosa stava accadendo che si imbatté in un manipolo di socialisti in rivolta. Non ebbe molta scelta e si dichiarò prigioniero. I compagni non sapevano bene come comportarsi. Certo a qualcuno era capitato di essere arrestato dai militari, ma il contrario… un s’era mai vist… Allora dato che loro dovevano andare a fare le barricate ce lo diedero a noi: trattoria caffé Torsani. Che non era il massimo come prigione, ma lì in zona non c’era nient’altro… Due donne e tre anziani a badare al prigioniero Generale Luigi Agliardi, pluridecorato bersagliere di Cina e di Libia. Lo mettemmo lì a sedere, ma non sapevamo come comportarci. Iniziammo a parlare e finì che l’Ivana tirò fuori un po’ di Sangiovese… dopo qualche bicchiere Vittorio iniziò a tagliare il salame e finimmo a giocare a beccaccino. Poi fecero anche le tagliatelle, coniglio con patate arrosto e portarono anche altro vino. Solo la sera mi accorsi che non gli avevamo nemmeno tolto di dosso la sciabola… O – Mentre la macchina sfrecciava alla volta di Ravenna in città c’era chi parlava di assalire i magazzini dei ricchi per distribuire le loro sostanze al popolo… Ma arrivò la grandine che spense gli animi e tutti si ripararono al coperto. Ma la vera pioggia ghiacciata che ci cadde in testa fu quella che arrivò di lì a poco quando tornarono loro da Ravenna… G – Quando arrivammo a Ravenna non c’era più niente… I negozi erano aperti, la gente passeggiava per le strade… Che succede? Dove sono tutti? P – La Confederazione del Lavoro ha deliberato la fine dello sciopero. Non c’è più nulla. È finita. G – Che sciocchezze! E la rivoluzione? Il re fuggito? L’esercito in subbuglio? P – Ma di che parli. Le sommosse sono state solo qui nelle campagne romagnole e marchigiane. Già a Ferrara non ne sapevano nulla.
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G – Smettila di dire stupidaggini! Dove sono i compagni! Abbiamo le armi! P – Tanto era stata grande e generale l’illusione della sommossa dell’intero popolo Italiano e l’instaurazione della Repubblica che non si volle crede alla notizia. G – Che dici! Dobbiamo lottare, questa è la volta buona! P – Vi fu anzi chi tentò di smentirla e dire che fosse stata divulgata da agenti governativi. Mentre altri esortavano la massa a non disperdersi. G – E voi che fate!? Non mettete via le armi! Non ascolterete questo traditore di un monarchico! La vittoria sarà del Movimento Rivoluzionario! Viva la Repubblica! Viva la libertà! P – La vita era già tornata alla normalità. I giovani deposero le armi e tornarono a casa. Ad aspettare che giungessero le ritorsioni. Era stato bello, ma in quei pochi giorni molti di loro erano stati schedati a vita come anarchici, pericolosi repubblicani e socialisti. Molti furono riconosciuti e arrestati. Ma la fine fu per loro ancora peggiore. Pochi mesi dopo scoppiò infatti la Prima Guerra Mondiale. I prigionieri politici, anarchici e insurrezionalisti furono liberati dalle prigioni e inviati nelle prime linee. Non gli fu dato il cambio guardia, mai. Rimasero là, a combattere una guerra decisa dallo stesso re contro cui avevano lottato. Gli misero un fucile in mano e li mandarono sulle Alpi. Gente che non aveva mai visto nemmeno una collina. Cresciuti nei campi e nella sconfinata pianura. Morirono tutti là. Quasi nessuno fece ritorno. Ma erano riusciti a compiere un’ impresa unica. Un’impresa che non ripeté più con quel candido fervore che li aveva animati. Avevano combattuto per la più nobile ed effimera delle cause perse. Erano stati liberi. Anche se solo per una breve settimana. Erano stati veramente liberi. [NOTA: Il testo è stato scritto facendo fedele riferimento alle testimonianze dell’epoca: gli atti dei processi, i diari e le lettere inviate dai preti al Vaticano per chiedere il risarcimento dei danni arrecati alle chiese. Lo spettacolo è stato messo in scena dal TeatrOnnivoro dal 9 al 12 giugno per il centenario della settimana rossa. Alcuni zelanti cittadini, in particolare il prete di uno dei paesi della settimana rossa si sono opposti alla rappresentazione. Il parroco ha scritto una lettera aperta pubblicata su un giornalino del paese contro chi vuole ricordare questi vandali di anarchici… A dimostrazione che in cento anni la storia ancora è vissuta come cronaca odierna. Le rappresentazioni si sono alla fine svolte in un’ atmosfera festosa in ogni paese: Mezzano, Villanova di Bagnacavallo, Alfonsine e Fusignano, tutti in provincia di Ravenna. ]
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Immagine- Quadri e tazze- di Attilio del Giudice
les nouveaux réalistes: Giorgio Di Gennaro 15 giugno 2014
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Lettera a un editore Giorgio Di Gennaro
Lei mi chiede di dirle qualcosa di me. Intanto la ringrazio per l’interesse e la disponibilità; poi, come si fa spesso quando ci si presenta, le dico cosa faccio per campare: sono un operaio meccanico, aggiusto auto, o almeno ci provo (proprio ora, le sto scrivendo dal computer dell’officina, mentre fingo di eseguire una diagnosi a una Xsara Picasso). Lavoro a Roma e vivo fuori dal Raccordo, sono sposato e non ho figli. Ho una laurea in Teoria della Letteratura, conseguita tanti anni fa, in un pomeriggio di Luglio, un Luglio maligno che mi bruciava la pelle e mi faceva sudare. Il presidente della commissione era un tizio piccolo e sorridente, aveva baffi folti e grigi, e un gilet pieno di tasche, tipo quello dei pescatori o dei cercatori di funghi. Inoltre, indossava un paio di pantaloni color avana e sandali consumati che mostravano alluci grossi e fastidiosi. Io rimasi sorpreso da tanta sciatteria, e rimasi sorpreso anche da questa parola che mi venne in mente, sciatteria appunto, una parola che non usavo mai, che quasi mi sembrava classista, ma poi mi venne in mente che, insomma, uno non può mettersi a controllare anche i propri pensieri. Pensai “Cazzo, questo è un presidente di commissione, perché io sono qui con una camicetta e righe mentre lui sembra uscito da Easy Rider?” E mi scusi, mi scusi sul serio signore se uso parolacce e se getto fango su uno che potrebbe essere un suo collega… Almeno credo insomma; in fin dei conti cos’è che separa un editore da un professore universitario? Magari il metodo; possibile? Ad ogni modo, lui se ne stava lì, con questo suo volto simpatico e accogliente, così tanto che non fui capace di sentirlo antipatico, oppure ostile. Pensai “Va bene, lui è il presidente, e i presidenti si sa che comandano, io devo solo trovare una fine sensata, una fine burocratica, che dia una ragione a cinque anni di solfeggi mentali, e questa fine si chiama laurea”. Così passai una mano sulla mia fronte e asciugai il sudore di quel mese di Luglio bollente. Allora quando venne il mio turno, penultimo della giornata, non pensai troppo a Robbe-Grillet, e nemmeno a Butor e al romanzo in seconda persona. No, mi concentrai sulle tasche del gilet del presidente, e la cosa più incredibile fu che questo mi aiutò a fare una figura decente, a superare l’ansia e i timori, a pronunciare in maniera credibile quelle formule che mi permisero non solo di sostenere il gioco, ma anche di simulare una specie di brillantezza che, in realtà, non mi è mai appartenuta. Arrivai quasi al centodieci, e mi sentii in gamba, mi sentii promosso, pronto, preparato per qualcosa di buono. Capisce signore? Non so riesce a intendermi, è una sensazione particolare… voglio dire, almeno per me lo è stata. Se ci penso ora, dopo tanti anni e tanti cambiamenti, spiegare non è facile. Poi, devo essere sincero, so bene che tutto questo sa di ricordo, malinconia, quasi rimpianto; ma vorrei trovarne una, di persona, una soltanto in questo emisfero occidentale e grasso, che non rimpianga certi trascorsi, o che non li abbia idealizzati almeno un po’.
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Ognuno si costruisce la sua filosofia, una visione della vita, ed è tutto da dimostrare che quella di un professore sia migliore di quella di un commesso di Ikea; anche perché, vede, i tempi sono cambiati, e capita sempre più spesso che i due siano la stessa persona. Pressappoco è quello che è successo a me, che da dottore in lettere e filosofia sono passato magazziniere, poi redattore in una minuscola casa editrice, quindi docente per scuole e sottoscuole, e infine, ormai da tanti anni, operaio riparatore-manutentore in un’officina di Montesacro, Roma. Meccanico, signore… in poche parole, un meccanico. E anche qui mi ci è voluto il titolo di studio, che il Gruppo ’63 non bastava come credenziale, e nemmeno tanti anni di apprendistato nell’officina di mio padre: no, m’hanno detto che per avere la qualifica ci vuole il corso, proprio come in Germania, lì sì che sono civili, lo sanno tutti, anche un mio amico me lo diceva sempre, che in Germania c’è un corso per qualsiasi cosa, anche per pulire il culo ai vecchi, usava quest’espressione. Infatti, poi, è andato a finire a Berlino e nelle e-mail mi dice sempre che le mignotte per strada hanno una specie di divisa e rilasciano una ricevuta. Io non so se credergli, ma è un amico, e pare che agli amici si debba credere. Ad ogni modo, mi scusi per la divagazione, signore; riprendo il discorso dicendo che sono finito meccanico perché non ho trovato nulla di meglio da fare e perché amavo una donna e detestavo l’idea di avere un padrone per tutta la vita. Ecco, di questo vado orgoglioso, posso affermarlo, del mio orgoglio, appunto.Detto questo, però, che coglione che sono stato! Il lavoro, l’ho capito troppo tardi, non nobilita l’uomo, lo rende debole e arrabbiato. E impotente, soprattutto di questi tempi. E allora ci vuole un attimo a sentirsi schiavo e a passare un’esistenza sognando bombe e attentati mentre ogni giorno si prende il treno alle sette e dieci di mattina. Per quel che ne so una volta non era così: raccontano – i libri, le riviste, i film – di una fierezza e di una felicità da tute blu, di una dignità da sberleffo, di schiena dritta e sguardo consapevole… Con l’idea che un’ideologia, o magari due, possano essere speranza e futuro, progetto, emancipazione e libertà. Però, signore, perché tutto questo ormai suona così male, ormai, quasi ridicolo e amaro? E io, io che vivo questi anni, non so che farmene di mitologie e fumetti… E quando scendo dal treno, alla stazione Nomentano, non ho pensieri profondi per la testa, e nemmeno coscienza di classe… Forse, addirittura, nemmeno più una classe; al massimo, l’immagine precisa della ragazza schiacciata addosso a me, in piedi, tra un vagone e l’altro, in mezzo alla calca, in una specie di erotismo da pendolare. La verità è che, dopo appena dieci minuti a piedi, arrivo in officina e indosso anche io una tuta, ma non è detto che sia blu, e non è detto nemmeno che sia della taglia giusta… Poi, soprattutto, ho un’espressione stanca e irritata, anche se non sono ancora le otto. Dovrebbe vedermi… o forse no… insomma faccia lei. Sono lì che indosso un paio di guanti, di quelli usa e getta, lattice mi sembra, o qualcosa del genere, e mentre ragiono di bestemmie con me stesso mi viene in mente la poetica degli oggetti, la realtà materiale e fenomenologica, Husserl e compagnia bella, insomma un sacco di cose di cui in realtà non importa una mazza né a me né a quelli con cui lavoro. Qui di oggetti ce ne sono fin troppi, e non c’è bisogno che venga un filosofo a dirci che essi sono la realtà: lo sappiamo benissimo, ce ne accorgiamo quotidianamente, ma l’unica cosa che interessa, in fin dei conti, purtroppo o per fortuna, è il maledetto stipendio. Proprio come alle elementari: ricavo meno spesa, uguale guadagno. Questa è l’unica questione da tenere sempre alla ribalta, che merita una discussione, e magari anche un’alzata di voce.
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Un meccanico, un operaio, vive di oggetti, o almeno vive con loro, e che essi stabiliscano una specie di dialogo con lui è una cosa ovvia, scontata, che non ha nemmeno bisogno d’esser ricordata. Si combatte con gli oggetti, oppure ci si affida completamente a loro, proprio come accade con gli amici in carne e ossa, secondo dinamiche molto simili. Parlo di attrezzi, macchinari, computer, centraline e pezzi di ricambio. Toccare è fondamentale in questo mestiere, ma magari è la stessa cosa per molti altri lavori… In fin dei conti mitizzare qualcosa, raccontarlo come unico e inafferrabile, è il modo migliore per neutralizzarlo e renderlo anonimo e innocuo. Ora sono qui e non faccio mica nulla di eccezionale, e mi pare evidente l’errore sostanziale di Marx: come poteva sperare che qualcosa di buono potesse venir fuori da gente come me? Faccio avanti e indietro sotto la pancia di una Polo, il guanto sinistro ha uno sgarro sull’indice e a terra la segatura si mescola con gocce di olio e polvere; sotto le scarpe anti-infortunio sento scricchiolare una poltiglia grumosa che, appena avrò finito qui, spazzerò via con la scopa. Per staccare la testina del braccio oscillante dal fusello della ruota, bisogna svitare il dado da diciannove, di solito con una chiave a occhio. Io lo faccio, in piedi sotto al ponte sollevatore; ho la mano sinistra posata sul fianco e fischietto un motivo di Santo e Johnny, molto popolare all’inizio degli anni ottanta grazie al film per cui faceva da colonna sonora, un film con Bud Spencer di cui ora non ricordo il titolo. Ero poco più di un neonato allora, ma conosco perfettamente questo brano perché anche mio padre ha passato la sua vita a fischiettarlo mentre lavorava. Ecco una perfetta rappresentazione della scalata sociale nel nuovo millennio. Sarà per il post-moderno, per questa cosa della storia che è finita, o per la natura barbara di ogni persona che svolge un lavoro manuale, come il sottoscritto. Intanto il dado è uscito completamente dalla filettatura della testina, lo poso sul carrello e prendo due mazzette. Questo, tra tanti e molto diversi tra loro, è il lavoro che maggiormente detesto: schiodare una testina. Il motivo è che mi è successo di farmi male, all’incirca due anni fa, proprio svolgendo questa operazione. Una volta tolto il dado, infatti, la testina resta infilata nel fusello, con una pressione enorme, “ammappata” come diciamo in officina, con un linguaggio che non so se definire slang, dialetto, codice o chissà cos’altro. Per staccarla, dunque, è necessario colpirla molto forte in un punto preciso, stando attenti a non colpire altro, ad esempio il disco. Per fare ciò è necessario usare due mazzette: una, più piccola, da tenere appoggiata con la mano sinistra sul punto da battere; e un’altra, più grande, da usare per colpire violentemente sull’altra. Ed è qui che subentra il fottuto problema, il motivo per cui, appena posso, evito di fare questa cosa. Perché vede, signore, mazzetta contro mazzetta rischi che parta qualche scheggia di metallo da una delle due. Pezzi acuminati e veloci che nemmeno li vedi. È proprio in questo modo che mi sono fregato il dito, qui dove ormai c’è un perenne formicolio: io battevo e battevo, perché non è che venga tutto al primo colpo… Battevo e battevo, un po’ mi piaceva sinceramente, c’è sempre questa cosa che abbiamo noi uomini di poter sfogare fisicamente un po’ di aggressività… che cazzata che è, lo so bene, ma a volte quanto ci piace fare le cazzate… Comunque sono lì che mi diverto a colpire quando all’improvviso sento una schicchera sul dito, nulla di troppo doloroso, ma come un sassolino che ti pizzica la pelle. Poso le mazzette e guardo la mano, il guanto è bucato e c’è un po’ di sangue. Allora lo sfilo per vedere meglio, e sembra solo un taglietto, nulla di importante insomma. Impreco un po’, come è giusto che sia, mentre vado a mettere la mano sotto l’acqua fresca. Infine, applico un cerotto sul dito, dopo averlo pulito col disinfettante.
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Riprendo a lavorare, anche se ho un po’ di fastidio. E a fine giornata, dopo essermi lavato e cambiato, ho un dito che sembra un panino, gonfio e livido, e io lo guardo mentre pulsa come se ansimasse. Sono costretto ad andare al pronto soccorso, anche se so che dovrò aspettare per ore. Infatti me ne sto seduto in sala d’attesa dalle otto di sera fino a mezzanotte e mezza. Ogni tanto Sara mi telefona per chiedermi come vanno le cose, se è il caso che debba venire a farmi compagnia. Io le dico che va tutto bene e che no, è meglio che non venga, che se ne vada a dormire e ci vediamo più tardi. Io sono un codice verde, e allora vedo passarmi davanti quasi tutti. Quello conciato peggio è un tizio che arriva sulla sedia a rotelle, con la testa fracassata e il corpo pieno di sangue. Il padre è dietro di lui che piange, ma è un pianto preoccupato, non disperato, di quelli che in qualche modo nascondono la presenza, ancora, di speranza. Il figlio è cosciente, ma bianco come la neve. Lo osservo e credo di non aver mai visto tanto sangue in vita mia. Come cazzo fa a non svenire, mi chiedo. Nell’aria si diffonde, dopo pochi minuti, l’odore del sangue che si va seccando sui suoi vestiti. “Ma non vi fanno entrare subito?” chiedo al padre. Lui mi guarda con gli occhi ancora lucidi e lo sguardo stralunato, come se uscisse da una dimensione in cui si era infilato perfettamente. “Sì” mi dice, “hanno detto che è questione di pochi minuti”. Nemmeno finisce di pronunciare queste parole, che subito arriva un infermiere che afferra la carrozzina e porta dentro il ragazzo. Dice al padre di restare fuori. Lui prima guarda l’infermiere, poi torna a sedere e guarda me con rassegnazione. Mi dice qualcosa, ma stavolta sono io a essermi isolato. Rispondo con un sorriso di circostanza e mi alzo per andare fuori. Penso che vorrei non aver mai smesso di fumare, e avere sigarette adesso, con questo dito gonfio e sonnolento, goffo e impacciato, pronto per una fine ingloriosa e anonima, in un pronto soccorso di periferia, a mezzanotte. Nel frattempo la gente continua a entrare e uscire, è incredibile quante persone si facciano male… oppure no, è perfettamente credibile, invece. Arrivano donne e uomini di tutte le età, e soprattutto un sacco di stranieri, tutti dell’Europa dell’est. In sala d’attesa si chiacchiera: si raccontano gli incidenti e soprattutto si parla di malasanità, di comportamenti scandalosi e raccapriccianti di medici e infermieri, di quanto siamo tutti trattati di merda nonostante paghiamo le tasse. Io penso che delle tasse non me ne frega niente; penso, piuttosto, che all’essere umano piace raccontare, e questo non è né un bene né un male. Penso che ovunque, anche qui dove siamo tutti acciaccati e doloranti, la gente non fa altro che raccontare, inventando pure un sacco di stronzate, mentendo insomma, e tutto questo per rendere migliore il proprio racconto. A cosa serve tutto questo, mi chiedo, mentre il dito mi formicola e si addormenta sempre di più. Non lo so, magari a niente, ma è esattamente così.
A mezzanotte e mezza, finalmente, mi fanno entrare. Dopo avermi fatto una lastra, la dottoressa mi dice che ho una scheggia di quasi mezzo centimetro infilata nel dito indice, nel punto in cui questo si attacca al palmo della mano.
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Mi dà un foglio da firmare e mi dice di tornare due giorni dopo per una piccola operazione in cui la scheggia mi sarà estratta. Poi mi dà dell’antibiotico da prendere due volte al giorno. Io dico che non ci torno tra due giorni, che voglio che la scheggia mi venga tolta adesso e che non posso mica lavorare con un dito conciato in quel modo. Lei risponde che non può farci nulla, che toglierla adesso non è possibile, perché si tratta di una cosa delicata, che bisogna fare in ambulatorio e bla bla bla. Io dico che cazzo. Lei nemmeno mi guarda. Io dico allora facciamola domani, non posso aspettare due giorni. Facciamola domani. Lei, di nuovo, nemmeno mi guarda. E mi dice domani no. No perché è già tutto pieno. “E si renda conto”, conclude, “che lei è anche fortunato: avrebbe potuto aspettare anche molto di più”. “Certo”, rispondo, “sono proprio fortunato, io”. Scendo dal lettino sui cui ero seduto e me ne vado pensando di avere un gran culo.
Vede signore, cosa significa mazzetta contro mazzetta? Due giorni dopo mi tolsero una scheggia tozza e squadrata da questo dito indice, questo dito indice che non si è più svegliato del tutto, che continua a rimandare, pigro e svogliato come in un pomeriggio di luglio. Io ogni tanto penso beato lui, che può dormire o almeno riposare, sonnecchiare come i gatti sui pavimenti dei salotti. Lo penso anche adesso, mentre batto di nuovo mazzetta contro mazzetta; ma questa volta non mi faccio male, al secondo colpo la testina si schioda e io posso estrarla dal fusello. Posso abbassare il braccio oscillante e far uscire il semiasse, finalmente. Lo poso sul bancone e chiamo il ricambista per ordinare il pezzo. Mentre aspetto, prendo la scopa e inizio a pulire. Al contrario di ciò che la gente crede, in un’officina la pulizia è fondamentale. Arriva una Opel Astra vecchia e ammaccata. Entra di retromarcia e si ferma al centro dell’officina. Miralem, il ragazzo dello sfascio, scende e lascia lo sportello aperto. Va verso mio padre e gli dice: “Oh, sciao, ho portato cambio che tu volevi. Quello Nissan Micra… Alla fine abbiamo trovato”. Nel dire queste parole sorride e compie un gesto esplicativo: porta la mano destra all’altezza del petto, di taglio, e l’abbassa velocemente verso il basso, come a spingere qualcosa. Ripete il gesto un paio di volte, per essere chiaro, e noi capiamo tutti che non serve fare domande sulla provenienza di quel cambio. Io finisco di spazzare, mentre Miralem, mio padre e un altro operaio tirano giù il pezzo dal portabagagli dell’Opel Astra.
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Adesso, signore, ho un momento di pausa, fino a quando non arriverà il semiasse nuovo che ho ordinato. Allora dovrò riprendere il lavoro. Ora posso uscire un attimo da questa officina di lampade al neon, appoggiarmi sulla porta e magari guardare un sole primaverile che litiga con le nuvole. Ma, devo essere sincero, non fa per me: non ho nessun particolare affetto per il cielo, e non trovo nessuna particolare consolazione nei raggi del sole. Al massimo, la promessa di un buon umore, questo sì. Per oggi è questa la prosa, oppure la poesia maldestra e rimandata, dipende dai punti di vista; è questa comunque la letteratura: di braccia e gambe, di olio e semiassi, di parolacce e scontri sulla leva da scegliere per estrarre un iniettore. Fino al fine settimana e al sospiro di sollievo. E poi di nuovo un lunedì nero, e mazzetta contro mazzetta cercando e sperando di evitare le schegge.
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les nouveaux réalistes : Attilio del Giudice 14 giugno 2014
Per Elisa Attilio del Giudice
Ieri ho rivisto zio Sergio, il fratello di mia madre. Ci siamo incontrati in occasione di una spartizione proprietaria davanti al Notaio, insieme ad altri parenti. La ricchezza della nostra famiglia ci garantisce una vita agiata, ma i rischi di un declino finanziario sono sempre in agguato e una maggiore vigilanza da parte di tutti non guasterebbe. Questa è stata la raccomandazione del notaio, che cura con sospetta solerzia i nostri interessi da quasi cinquanta anni. All’esortazione, profusa col solito tono apodittico, abbiamo risposto con un silenzio serioso, sapendo, però, ciascuno dentro di sé, che lo sperpero (più lo sperpero amministrativo o l’incuria, che un vero e proprio scialacquamento edonistico) avrebbe caratterizzato a tempo indeterminato i nostri comportamenti. Una questione mai approfondita in famiglia, un argomento noioso di cui ora non mi va di parlare. Lo zio ed io abbiamo raggiunto la Cervinara, la villa di famiglia a piedi. Mi faceva un certo effetto camminare con lui a fianco, che non mi arrivava nemmeno alla spalla. Mi ha fatto pena. S’è invecchiato. E va be’, questo me lo dovevo aspettare e, naturalmente, anche lui mi avrà trovata con tutti i segni del tempo, che porto sul viso e non solo, ma quello che mi ha fatto più impressione è stata la gobba. Anche da giovane la gobba stava là e non la si poteva ignorare, ma ora sembrava molto più invasiva e quasi raddoppiata. Ho notato che i miei due fratelli con le rispettive mogli, nel salutarlo sotto il palazzo del notaio, prima di mettersi in macchina, lo hanno abbracciato e con nonchalance gli hanno toccato la gobba. Sì, perché non c’è niente di più efficace che toccare una gobba maschile, per propiziarsi la fortuna. E’ una credenza diffusa, trasversale nei vari ambienti e classi sociali, alla quale, anche i miei fratelli e specialmente le mie cognate , non hanno saputo sottrarsi. Io, no! Anzi dovrei credere esattamente il contrario. “Zio Sergio, ma che hai fatto? Da dromedario, sei diventato cammello?” Gliel’ho detto, papale papale. Io mi posso permettere di parlagli in tal modo, senza rispetto e lui non può offendersi più di tanto, questo perché, tra noi, c’è un segreto antico, che posso gestire a mio piacimento e, se voglio (non so perché. finora non l’ho mai fatto), lo posso mettere alla gogna e lui questo lo sa perfettamente, almeno così pensavo. Non si è offeso, anzi si è messo a ridere, del resto è stato sempre spiritoso. “Sai, zio, ho vinto un concorso letterario per racconti brevi”. Nel dirgli questa frase, non avevo progettato niente, in verità; mi è venuta in mente come per caso, all’improvviso, una sorta di libera associazione, però, subito mi è venuta anche la curiosità maligna e irresistibile: ”Voglio proprio vedere come la prende”. Mi sono detta. “Davvero? – ha risposto – Questo mi rende felice. Sono orgoglioso che la mia nipotina si faccia strada con la sua creatività” E ha sorriso quasi commosso. “Si, ma non sono una nipotina, ormai sono una nipotona… Zio, ho quarant’anni.” “Quarant’anni? Sembra ieri che eri una bambina, con quelle treccine dorate e impertinenti. Però conservi il volto dolce e pulito di un’adolescente e sei ancora portatrice di incanto e di poesia.” “Grazie zio, belle parole. Allora ti faccio leggere il racconto col quale ho vinto il premio o preferisci di no?” “Ma certo che voglio leggere!” “Okey, però aspetta un attimo, lo tengo sul computer, te lo stampo.”
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“Posso leggerlo direttamente sullo schermo, se vuoi.” “ No, no, te lo stampo, faccio in un minuto, è breve.” Ho stampato e gli ho dato in mano il foglio. “Zio, ti prego leggi ad alta voce, ho voglia di gustarmi la tua voce calda. Mi ricordo quando mi leggevi Cime Tempestose, non mi stancavo mai di ascoltare.” Così ha inforcato gli occhiali e si è messo a leggere. Il ricordo Elisa era ricca, ricchissima e, forse, bella. Ma sì, era ancora bella! Le piaceva starsene distesa, al sole, completamente nuda, leggere un buon libro e fumare una Davidoff di fronte al mare. Verso l’una, un vento caldo di scirocco portò una nuvolaglia gravida di pioggia e disciolse un grumo della memoria. La stessa luce, la stessa nuvolaglia livida. Era il maggio odoroso. Giocavano a nascondino. Sempre allegro zio Sergio, il fratello della mamma. Sempre divertente! Nonostante fosse gobbo. Venne la pioggia forte. Ripararono nel fienile. E, lì, nel fienile, per gioco, zio Sergio la stuprò. Elisa aveva undici anni, in quel maggio odoroso. Ha mantenuto il controllo fino alla fine, sempre con quella sua bella voce da attore. Poi, senza mostrare nemmeno una briciolo di imbarazzo, ha detto:” Sono contento che proprio con questo racconto brevissimo ma assai intenso, hai vinto il concorso. Alla base della buona letteratura, c’è sempre un’esperienza forte e personale e credo che, da questo episodio non banale della tua vita, potrai trarre altri spunti, altri bei racconti. Io, Elisa, te lo auguro con tutto il cuore. Tu hai grande capacità di sintesi e questo è un talento raro e prezioso. La nostra epoca, l’immaginario collettivo, fortemente legati ai prodigi della tecnologia che, come sai, brucia i tempi, impongono, anche nella prosa narrativa, l’alta velocità e le risoluzioni essenziali.” Si è tolto gli occhiali e ha sorriso un’altra volta.” Vedi, tu hai attinto dalla realtà, mentre oggi la fonte è un’altra, vale a dire: il pornografico, capisci? Cioè, l’eros preconfezionato, senza individualità, senza rischio, senza mistero, senza il tormento del desiderio e dell’attesa, che noi abbiamo felicemente sperimentato. L’eros mortuario, ripetitivo, ossessivamente omologo alle produzioni seriali del mercato e servo del determinismo medianico.” Mi guardava e sorrideva spudoratamente come una vecchia puttana e senza esitazioni ha completato la prolusione: “ Insomma, Elisa, si tratta di un’oscenità importata e imposta dalla cultura del consumo, in altre parole: dal residuo fecale della modernità, della nostra stupida, orrenda, modernità”. Così, questo vecchio porco, con la gobba ineludibile, la furberia e la voce flautata era capace ancora di sorprendermi e io, a quarant’anni, lo stavo ancora ad ascoltare senza sputargli in faccia, porca vacca! Quanto mi potrà costare un Killer che metta le cose a posto?
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Indice
les nouveaux réalistes: effeffe
p3
les nouveaux réalistes: Raul Montanari 5 settembre 2014
p5
les nouveaux réalistes: Barbara Gozzi 2 settembre 2014
p 11
les nouveaux réalistes: Simone Ghelli 11 settembre 2014
p 15
les nouveaux réalistes: Leonardo Staglianò 9 settembre 2014
p 17
les nouveaux réalistes: Angelo de Matteis 6 settembre 2014
p 21
les nouveaux réalistes: Emmanuele Bianco 31 agosto 2014
p 25
les nouveaux réalistes: Annarita Briganti 30 agosto 2014
p 29
les nouveaux réalistes: Stefano Felici 28 agosto 2014
p 32
les nouveaux réalistes: Olga Gambari 26 agosto 2014
p 37
les nouveaux réalistes: Luca Ricci 23 agosto 2014
p 38
les nouveaux réalistes: Giorgio Mascitelli 17 agosto 2014
p 40
les nouveaux réalistes: Keith Botsford 16 agosto 2014
p 43
les nouveaux réalistes: Silvia Tessitore 14 agosto 2014
p 46
113
les nouveaux réalistes: Valerio Evangelisti 11 agosto 2014
p 50
les nouveaux réalistes: Andrea Ponso 8 agosto 2014
p 57
les nouveaux réalistes: Luigi Spina 5 agosto 2014
p 60
les nouveaux réalistes: Maria Luisa Putti 4 agosto 2014
p 62
les nouveaux réalistes: Barbara Uccelli 1 agosto 2014
p 66
les nouveaux réalistes: Lisa Orlando 30 luglio 2014
p 69
les nouveaux réalistes: Francesco Forlani 26 luglio 2014
p 70
les nouveaux réalistes: Ilaria Seclì 18 luglio 2014
p 73
les nouveaux réalistes: Alessio Arena 16 luglio 2014
p 74
les nouveaux réalistes: Claretta Caroppo 14 luglio 2014
p 79
les nouveaux réalistes: Alessandro Zannoni 12 luglio 2014
p 82
les nouveaux réalistes: Ivan Ruccione 11 luglio 2014
p 84
les nouveaux réalistes: Anna Giuba 9 luglio 2014
p 86
les nouveaux réalistes: Stefania Hauser 6 luglio 2014
p 87
les nouveaux réalistes: Olga Campofreda 27 giugno 2014
p 90
les nouveaux réalistes: Paolo Valoppi 22 giugno 2014
p 96
les nouveaux réalistes: Matteo Cavezzali 20 giugno 2014
p 98
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les nouveaux réalistes: Giorgio Di Gennaro 15 giugno 2014
p 104
les nouveaux réalistes : Attilio del Giudice 14 giugno 2014
p 110
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