Metromorfosi

Page 1


Cul -­‐ de – sac Non appena lo scrittore realizza che lo scopo della sua vita è uno solo – mettere la parola fine al suo romanzo filosofico– un’imperiosa rivendicazione s’impone al suo entourage domestico: do not disturb! Almeno fino a quando la stampante, e il suo brusio meccanico che agita le notti insolenti, non abbia espulso l’ultimo foglio strappandolo agli aghi inzuppati d’inchiostro nero. Lo scrittore è seduto alla scrivania, autentica roccaforte di strati di libri di vario formato e spessore, e sta componendo – le note di Malher invadono lo studio completamente isolato dal mondo esterno – l’ultimo paragrafo del secondo tomo della sua opera intitolata Ethica Politica Colitica. Eppure, come certi atleti che, lanciati sul traguardo, scorgono quest’ultimo allontanarsi man mano che la fatica s’impossessa dei loro muscoli, egli è letteralmente soffocato dall’impossibilità di arrivare alla fine, sentimento senza alcun dubbio riconducibile alla predominanza del concetto d’intersoggettività. . In una mattinata che invita a vagabondare per la città assolata, in questo caso Valbeneunamessa, lo scrittore è intrappolato in un vuoto fatto di mura che sembrano pian piano stringersi attorno a lui, la qual cosa gli procura una sensazione di claustrofobia e, peggio ancora, un sentimento di scacco -­‐ benché detesti a fondo i giochi di strategia. Lancia un’occhiata carica di odio alle pagine già scritte e impilate e alla loro incompiutezza fino a paragonarle ad un castello di


sabbia che, alla prima marea, consegnerebbe le chiavi della sua ragion d’essere, incapace di sopportare l’assedio delle onde. In preda allo sconforto e a nobili intenzioni si china allora sul cassetto della scrivania già aperto, in cui riposa, avvolta in un foulard di seta, una Smith & Weston, acquistata molto tempo prima, quando giurò a se stesso che non sarebbe sopravvissuto alla cessata creatività. Con un gesto deciso le sue dita ossute afferrano la canna e si avvicinano al grilletto... la porta si apre, e l’entrata in scena della moglie, lo costringe a ritardare il momento della resa dei conti. La moglie dello scrittore, con modi scontrosi per non dire furiosi, a giudicare dalla violenza che precede lo sbattere della porta, in apertura, non manca d'ispirazione: “ E adesso, poco importa cosa mai diavolo tu stia facendo, l'immondizia me la porti giù, e subito, chiaro, no! Mi mancava il marito filosofo! In quel preciso momento di smarrimento, tutto può succedere allo scrittore e, non è detto che toccato il fondo si risalga sempre. Ma, come a volte succede nella vita quando sopraggiunge una disgrazia di gran lunga superiore per intensità e durata di tutti i dolori messi insieme, è proprio in quel momento che la vittima si risolleva per racimolare le ultime energie necessarie all’assalto di una briciola di buon senso e di risoluzione . “ Ma certo, perché non averci pensato prima, cara, come farei senza di te, come potremmo noi scrittori sopravvivere se non ci foste voi, ma che idiota che sono, adesso si' che va. La moglie dello scrittore l’osserva con profondo stupore. Immobile, non si aspettava una risposta di quel tipo e soprattutto, dopo tanti anni di sonnolenza sentimentale, la curvatura sensuale delle parole che il marito le consegnava chiavi in mano. Ecco allora che gli si avvicina, come avrebbe fatto con un figlio, da madre premurosa,


che malgrado i capricci, non sarebbe avara di carezze, e con la stessa delicatezza deposita il sacchetto blu – Comune di Valbeneunamessa – di fronte alla scrivania, affianco alla poltrona totalmente devastata da Nietzsche e Wagner, i due gatti di casa. Lo scrittore attende che l’amata esca dal proprio campo visivo in modo da allargare l’orizzonte mentale, già abbastanza ristretto, prima dell’apparizione. Con un calcio chiude il cassetto e piegandosi sulla tastiera riprende la nota così: “ E poiché la questione dell’Essere suscita nei miei colleghi contemporanei solo un desiderio, quello di sbarazzarsene, non avendo il coraggio di farlo con i propri mezzi, aspettiamo, come Socrate aspettava la serva di Tracia, qualcuno che possa indicarci dove si trova il cassonetto della spazzatura. Fine. A seguire.... “ “ECCELLENTE”, esclama lo scrittore. E già assapora il momento in cui il suo editore gli esprimerà tutta la propria gratitudine per avergli affidato genio e parole-­‐ quelle della fine-­‐ perché l’editore comincia sempre dalla fine le sue letture. “Un buon caffè può far dimenticare un pasto mediocre”. II Lo scrittore impiega non più di dieci minuti a raccattare i pezzi sparpagliati della sua uniforme, cappotto e cappello, poi lanciando un “arrivederci” verso la cucina si precipita giù per le scale tenendo in una mano la cartella e nell’altra il sacchetto. Giunto al piano terra, si rende conto che la porta della cantina è bloccata dall’interno. “Non importa, tanto per strada mi imbatterò sicuramente in un bidone della spazzatura ”.


E invece no!, lungo tutta la strada tra casa sua e l’entrata della metro, nemmeno l'ombra di quei cosi verdi che costituiscono un vero affronto al buon gusto del cittadino medio che paga le tasse! Le lancette dell’orologio gli provocano prurito all’altezza del polso, e con gli occhi incollati al Rolex, come ogni volta che rischia di far tardi, si decide a prendere la metro armato di cartella blu, che gli fa da casa, nella speranza di trovare nei pressi della casa editrice un contenitore qualunque che faccia al caso suo. Entrato nel vagone, lo scrittore si fionda su uno strapuntino, per affrontare un viaggio che dura meno di venti minuti sulla linea Boulogne-­‐Gare d’Austerliz, l’unica a suo avviso a mantenere una certa purezza, visto che attraversa tutta Valbeneunamessa, senza nemmeno sfiorare i quartieri popolari. Diversamente, ad esempio, della linea, Porte d’Orléans -­‐ Porte de Clignancourt o peggio ancora Pont de Sèvre -­‐ Mairie de Montreuil, che da Nord a Sud, Est ad Ovest fanno a pugni con ogni sorta di umanità reietta. Inevitabilmente, per il fatto d’essere accompagnato da questa massa scura e maleodorante non conforme ai trasporti in comune – passeggero le cui dimensioni non si prestano ad essere occultate sotto un seggiolino – fin dal primo momento lo scrittore ha attirato su di sé sguardi del tipo: “ma signore, quel che fa è inammissibile!”. Tra i compagni di viaggio ritrova la stessa galleria di personaggi che una volta suscitavano in lui una specie di ammirazione religiosa: ragazzine in tenuta da equitazione, nonnine accompagnate da barboncine altezzose, bambini firmati griffati di griffe e Golden boys con borse stile Borsa in completo Piazza Affari. Lo scrittore comincia a sudare freddo, senza dubbio a causa delle occhiatacce che i vicini gli lanciano mormorando tra loro e talvolta indicandolo chiaramente col dito.


Un dito più difficile da sostenere di quello di Nostro Signore nella Creazione di Michelangelo. Allora dalla borsa estrae il manoscritto, l’unico che potrà rendergli giustizia di fronte al popolo. Ma proprio quando, dopo un’operazione neurofisiologica molto complicata che mobilita un centinaio tra nervi, tendini, fasce muscolari e micro cellule, egli avrebbe voluto, sotto l’impulso elettrico dell’emisfero sinistro del suo cervello, sollevare la mano, lo scrittore si accorge che tutto il braccio è a sua insaputa sprofondato nel sacchetto della spazzatura. Tenta inutilmente di tirarlo fuori e quando chiede aiuto ai ragazzini lì vicino, questi ultimi lo trattano da pedofilo e lo abbandonano al suo destino, non senza aver dato, prima di uscire, un calcio al sacchetto. Lo scrittore avverte un dolore acuto che lo obbliga a cacciare un urlo, come corpo di un unico corpo, la qual cosa gli fa vincere una nuova salve di sguardi severi e la sensazione di essere un tutt’uno con la “cosa”. Vorrebbe risvegliarsi da quest’incubo.-­‐ Ma dormiva?-­‐ Ora. Solo una manciata di fermate lo separa dalla sua destinazione finale. Sta per rivolgersi agli altri passeggeri per risolvere la faccenda, quando, facendo leva sul piede sinistro per permettere la torsione del bacino, fa i conti con una nuova sorpresa. I suoi piedi sono adesso parte integrante del sacchetto, fino alle ginocchia. Ed è a partire da questa scoperta che qualcosa cambia per sempre in lui. Alla sensazione di panico iniziale subentra una più gradevole sensazione di pace e benessere. La strana materia che adesso ingloba buona parte del suo corpo rivela un’umida dolcezza, una morbidezza di velluto e di miele che lo attraversa dalla testa ai piedi. “Se apro il giornale nessuno potrà vedermi, dice tra sé e sé lo scrittore, spalancando il suo esemplare del Figaro, che oltre ai meriti politici ed ideologici, offre una


superficie abbastanza grande da coprire un uomo seduto, come i barboni in centro sanno fin troppo bene. Quando il treno arriva al capolinea non c’è più nessuno nel vagone. La voce diffusa dagli altoparlanti ricorda ai passeggeri di non lasciare oggetti incustoditi nell’area della metro. Un uomo vestito di giallo, addetto alle pulizie, nota la presenza nell’ultimo vagone di (rischio attentati attenzione, Insieme) una borsa e di un sacchetto, li raccoglie senza esitazione e ritornato all’aria aperta li lancia nel camion della spazzatura che proprio in quel momento passa di là. Con la sua sirena luminosa, il camion verde, imperturbabile come una processione di monaci, percorre tutti i vicoli del quartiere con una lentezza terrificante.


Hors-­‐jeu Quella che valeva di più era la figurina di Dino Zoff. Per averla bisognava sborsare almeno quaranta giocatori, nessun doppione e soprattutto sperare che in banda non ci fosse qualcuno disposto a giocare al rilancio e a batterti sul tempo. Un po’ come quando cerchi di affittare un appartamento a Valbeneunamessa, vero e proprio periplo e psicanalisi dello spazio. Il proprietario infatti ha convocato quarantacinque persone per quella stessa ora. Li passa uno ad uno in rivista senza tralasciare alcun dettaglio. La postura, il modo in cui sono vestiti, la nazionalità ma soprattutto le buste paga. Poco importa quanto ti sembrino di sinistra, loro i proprietari, un bancario o meglio ancora un commercialista vale più di te. E hai come l’impressione di trovarti davanti a tuo padre nell’atto di soffocare miserabilmente dietro un ” ecco un altro che non ha saputo che farsene della vita” Eppure c’era un altro modo per procurarsela la figurina ed era al gioco. Quattro le discipline: il cuppulone, la calamita, la pizzica e il pée. Dietro una tale suddivisione si nascondeva una visione del mondo che mi sarebbe servita per sempre come punto di riferimento nel difficile mondo degli adulti. Come lo svolgimento di quattro modalità distinte di destino in cui il genere umano si sarebbe trovato incasellato, una volta raggiunta l’età della ragione.


Vero è che si dovrebbe parlare di sotto categorie. La prima divisione toccava ovviamente alla differenza di classe, in parole povere tra i ricchi e noi. Vale la pena aggiungere infatti che un album Panini perfettamente riempito da uno dei ragazzi di parco Gabriella non aveva lo stesso impatto dello stesso album di Tonino De Lucia. Il nome derivava probabilmente dal fatto che si dovessero mettere le mani a forma di cupola e consisteva nel colpire con tutte le forze accanto al mazzo di figurine i cui occhi restavano fissi e rivolti al cielo. Le si piazzavano per terra, sull’asfalto di strade che cambiavano il volto della città e le pietruzze nere ti si ficcavano nella mano arrossata o in qualche caso sanguinante. Ho visto con i miei occhi Alfonso Valentino riuscire a sollevarne un mazzo di sessanta con la sola forza delle dita. Lo schianto sugli scalini del portone aveva sottratto la portiera Carmela dal sonno pomeridiano spingendola ad inseguirci fino all’angolo di strada; l’unico che potesse reggere il confronto con lui era Giampo Brancaccio. La calamita invece era un gioco assai meno pericoloso. Come lo suggerisce il nome, bisognava rovesciare il pacchetto delle figurine grazie alla rapidità con cui la mano, a ventosa, avrebbe sollevato i giocatori. Se nel cuppulone non si poteva barare, nella calamita c’era, me lo ricordo bene, Raffaele Madonna, solo per fare un nome, che di nascosto si umettava le dita per riuscire nell’impresa. Un volta capitò che le figurine gli rimasero incollate alla mano suscitando l’ilarità dei presenti e l’incazzatura del contendente. La pizzica – in realtà aveva un altro nome ma proprio non me lo ricordo – si riduceva ad una tecnica puramente meccanica.


Bisognava mettere il pacchetto sul bordo del tavolo, o di uno scalino, in modo che un buon quarto restasse sospesa in aria. Con il pollice, trattenuto dall’indice e poi lasciato scattare come una molla, si colpiva il bordo del pacchetto in modo da far girare i giocatori. Perché lo scopo del gioco era quello di rovesciare le figurine . Se il colpo del giocatore andava a segno, e invece delle facce dei “calciatori”, e delle maglie della squadra appariva il dorso della figurina, giallastro col numero corrispondente al posto nell’album, quelle erano sue. Made in Panini, le edizioni. Ecco che allora, se il cuppulone era la prova più dura – nessuna concessione era lasciata ai giocatori, e quale che fosse la superficie in marmo o di pietra, su cui si metteva il pacchetto – il pée era il più vigliacco, buono solo per i figli di papà, i chiattilli (i fichetti). In effetti il pacchetto era messo alla stesso modo del cuppulone con la sola variante che invece di mandare al diavolo tutte le articolazioni che fanno di una mano, una mano e l’uomo un animale intelligente, ci si limitava , in questo caso, ad appoggiare le labbra sul pacchetto per poi soffiare con un’aria ebete, lasciandosi scappare “Pée” , da cui il nome. Colui o coloro che appartenevano alla prima categoria, per quella del cuppulone, erano dei ragazzi che in svariate occasioni avevano dato prova del proprio coraggio. Erano saltati dai muretti più alti cadendo sempre in piedi , baciato per primi una ragazza , rubato cioccolata e palle da tennis nei grandi magazzini, senza mai rompersi un a gamba, farsi beccare dai controllori della Standa o dell’Upim e soprattutto farsi respingere dalle ragazze.


Antonio de Renzis mi ricordo era uno che poteva farsi un isolato intero su una suola ruota di bicicletta, e Marco Decimo, soprannominato Sandokan, era scappato a una volante che lo aveva sorpreso nel lancio di cachi (‘o kakìs) dall’albero più alto di via G.M.Bosco sulle macchine più belle . Poi c’era Muller, Giggino, e tanti che non riesco nemmeno a immaginare cosa siano diventati. L’unica cosa che so per certa è che gli anni che seguirono furono assai duri. A un grado leggermente più basso c’erano i “calamitosi”. Mi fa allora sorridere il pensiero e a come l’appartenenza alla tribù della “calamita” si traducesse spesso con fallimenti sentimentali, l’interdizione d’ingresso in qualsiasi negozio e una collezione di fratture degna del più sfigato sciatore. Eppure erano simpatici, faceva tenerezza la loro aria di eterni perdenti, loosers con sempre una nuova sfida piantata in una tasca scucita dei pantaloni I praticanti della Pizzica, invece, erano del genere grandi calcolatori. Sempre prudenti, al momento giusto nel posto giusto. Mai beccati, ma se è per questo nemmeno esposti mai, al rischio di una grande impresa fuorilegge o a un qualsiasi gioco che andasse oltre le righe. Sempre apprezzati, raccomandati, portati, da capi e padroni su un palmo di mano e da ragazze di buona famiglia, pronte a offrire loro la verginità riconquistata di un futuro radioso. Di quelli che facevano parte dei pée, e già, la grande famiglia, la più grande tra noi ragazzini, una famiglia silenziosa, maggioritaria, pronta a gridare allo scandalo, a farsi moralisti nella sfortuna degli altri, pèe, meglio tacere.


Talvolta, per sfortuna spesso, li senti gridare nel mezzo di grandi cortei, il nome del nuovo padrone, e lamentarsi, sempre, di questa assurda idea di democrazia, contro zingari e omosessuali. E io? Chi ero io? E con chi? Con gli uni, i cuppuloni, eroi per un giorno solo, forse tutta un’infanzia, dalle mani sporche, o i sinistrati dagli affetti, i savi o…tutti quegli altri Bah, Io non stavo né con gli uni né con gli altri. Io ero solo una ragazza.


Hotel Terminus Nella camera 601 dell’Hotel Terminus c’è un tavolo lungo in stile belle époque, un armadio seminascosto nel corridoio, una sala da pranzo che occupa tutto il lato destro del palazzo e un bagno, con la vasca e il lavandino sospesi ai tubi bene in vista. L’assenza delle chiavi dagli scaffali dietro alla reception, fa pensare che lo sposo e la sposa siano ancora in camera. Sono le nove del mattino e Torino ha, da qualche ora, annunciato l’alba a modo suo: il cielo è coperto di grigio. Le tende sono ben chiuse, e nel buio della stanza, è lo sposo a sentire per primo la sveglia, marca Casio, regalata da un amico, più per desiderio di sembrare divertente che per un vero bisogno di sincronizzazione temporale e né lo sposo e ancor meno la sposa se n’erano serviti fin lì. E si badi bene, non perché non ne avessero bisogno, anzi. Tutti e due sono da qualche tempo confrontati al mondo del lavoro, del focolare domestico, delle uscite da scuola, dei rientri, insomma a quell’insieme di obblighi che i più chiamano ” vita in società”. La sposa è redattrice per un giornale interno ad una multinazionale basata in Francia, e lo sposo è redattore capo del medesimo giornale. In altre parole lo sposo è, nella vita professionale della sposa, il suo responsabile.


Nelle occasioni mondane del resto, la sposa non perde un’occasione , a questo proposito, di presentare il congiunto come proprio capo e di aggiungere sempre, alla fine, con un tocco di naturalezza – Eh si, proprio così , vado a letto col mio capo ! Che siano sposati o meno, questo non ha alcuna importanza, almeno per noi come per voi, ma a dire il vero ignoriamo ugualmente se la loro sia una relazione extraconiugale. Quando hanno chiesto una camera alla reception, era per “ Signore e Signora”, di qui la nostra scelta arbitraria di chiamarli “ lo sposo e la sposa ”. Lo sposo si alza facendo ben attenzione a non svegliare la sposa. Scivola sul lato sinistro del letto – dorme sempre a sinistra poiché la sposa preferiva occupare il lato destro, ma pare che sia così in generale – e una volta nel salone, tenta componendo lo zero di chiamare la reception perché gli servano la prima colazione, che era compresa, in camera. Nessuno risponde, e dopo aver ripetuto diverse volte la stessa operazione, si arrende all’evidenza. Decide di preparare da solo, nel cucinino, quello che da sempre costituiva per lui al mattino la sola ragione valida per lasciare il letto e la sposa: un buon caffè seguito a ruota da un’eccellente sigaretta. La luce è particolarmente forte. Fedele al grigio, il cielo si ricompone al di sopra della barriera di nuvole, e di fronte a tale spettacolo gli viene quasi istintivamente di dire, per una vita passata in Francia : merde !


Poi si volta verso la camera per riappropriarsi del tepore del letto matrimoniale e risvegliare, al momento opportuno, alla prima salve di odore di caffè, la sposa. E così facendo, cade per terra come se qualcuno gli avesse teso uno sgambetto. Ma a parte lui, non c’è nessuno e quando comincia a guardarsi intorno, nota nelle immediate vicinanze un oggetto che somiglia vagamente a una palla. Una palla irregolare con un buco in mezzo e china su un lato. Da più vicino lo si direbbe un goniometro; che si regge sulla parte destra, o una mezza luna; come se non bastasse , poco distante , giace tutta una famiglia di altri oggetti – lo sposo ne arriva a contare quattro, dalle forme diverse fatta eccezione per una coppia di rastrelli senz’asta. Le cause della caduta erano attribuibili alla mezza luna dal momento che l’insieme restava lì dove s’era ritrovato dal principio. Scrutando la disposizione si accorge con grande sorpresa, che le forme rappresentano quattro lettere, una M leggermente più grande delle altre; una R e poi due E. Si dirige verso il goniometro per poterlo sistemare accanto alle altre , ma gli è impossibile spostarlo d’un millimetro a causa del peso esagerato. Ora tutto gli è più chiaro e allo stesso tempo estremamente oscuro. Il goniometro rappresenta in effetti una D e quando organizza mentalmente la lavagna, davanti agli occhi gli si presenta immediatamente la soluzione: M-­‐ E-­‐ R-­‐ D-­‐E. Quel che lo turba di più non è la cosa in sé. Si ricorda della lezione tenuta dal suo professore di linguistica in facoltà sul fatto che la parola cane non mordesse, tanto più vero ora che la parola “merde” messa lì in mezzo al salone non abbaiasse. Diciamo che lo sposo ha contemporaneamente un moto d’attrazione e di


ripulsa verso il biancore gotico e quasi mortifero che ammanta le lettere Lo sposo se ne sta seduto sul divano, religiosamente immerso in quel bagliore di luce e vi rimane in silenzio per un tempo indefinito fino a quando la caffettiera non emette prima un fischio e poi un vero grido. In quel preciso momento, proprio dietro di lui, la sposa varca la soglia del salone vestita della sola camicia da notte trasparente ed appoggiata come un sudario lungo i fianchi inarcuati e le gambe lunghe ed affilate. Caro che combini a quest’ora? Dice, scorgendo una per una le lettere che man mano si materializzavano disponendosi un po’ ovunque, senza un ordine preciso. Con esattezza me lettere C-­‐ O-­‐ M-­‐ B-­‐ I-­‐ N-­‐ I guardavano la sposo con un tono minaccioso, di rimprovero. La si sarebbe creduta una vera e propria rappresaglia . E niente al mondo, e men che meno la raccomandazione della mamma, la suocera dello sposo, che gli aveva confidato un giorno ” conta fino a dieci prima di parlare” può trattenerla dal lanciare subito dopo: “ merde alors ! ” Stavolta quasi spuntando dal pavimento, fino ai piedi dello sposo fanno la loro apparizione il punto esclamativo e la parola A -­‐L – O-­‐ R-­‐ S, mentre l’altra – non la ripeteremo per delle ragioni letterarie – viene inglobata nella primogenita Capita l’aria che tira, la sposa, non aggiungendo una parola di più, si avvicina allo sposo senza una ragione apparente. Una causa fisica, per esempio, evidentemente la solleverebbe, come quando a causa di un’inondazione si telefona subito ad un


idraulico, ma in tal caso chi chiamare? I pompieri, dei grammatici, o forse meglio un esorcista? A dire il vero né lo sposo né la sposa, provano un sentimento di pericolo, piuttosto della meraviglia; dello stupore, più vicino ad uno stato di grazia che d’una sensazione di paura. Sono allora calati nel silenzio più assoluto quando il telefono squilla, facendo scattare immediatamente la segreteria messa a disposizione dal direttore per onorare la fedeltà dei due sposi, all’albergo. Una massa di altre vocali e consonanti invade i locali Da qualche parte c’è un B-­‐ U -­‐O-­‐N , un L-­‐ E–I-­‐ , un N-­‐O-­‐I-­‐ N-­‐ O -­‐N -­‐ C -­‐I-­‐ S-­‐ I -­‐A-­‐ M-­‐ O-­‐ tutto attaccato e poi un L-­‐ A-­‐ S-­‐ C-­‐ I-­‐ A-­‐ R-­‐E, e ci sarebbe certamente stato anche un M-­‐ E-­‐ S-­‐ S-­‐ A-­‐ G-­‐ G -­‐I-­‐O se i due non si fossero gettati su quella dannata macchina vomita parole per zittirla per sempre staccando la spina. In verità la parola era stata semplicemente decurtata in M E S S A e , in un luogo popolato ormai da tutte quelle cose non rimaneva che uno spazio la cui esiguità si poteva superare solo compiendo salti e scalate Il gesto atletico che hanno appena compiuto li ha avvicinati; e occupando il solo metro quadro libero a loro disposizione – non possiamo essere più precisi-­‐ lo sposo e la sposa sono come allacciati l’uno all’altro, mischiati, amalgamati, fusi Prima che dica alcunché, lui le fa segno di non parlare. La sposa gli fa segno di sì con il capo e senza sapere né perché né per come gli tende un sorriso . Lo sposo e la sposa sono uno davanti all’altra, uno nell’altro, insieme, senza parlare;.


Perché di solito lo sposo e la sposa non la smettono un solo minuto di parlarsi. -­‐Quando un uomo e una donna non si parlano più, beh allora significa che non hanno più niente da dirsi-­‐ amava ripetere lo sposo. -­‐Niente sarebbe più torturante per me del tuo silenzio, un silenzio abitato da parole che, ahimè, non sarebbero a me destinate -­‐ diceva la sposa. Lo sposo capiva ogni cosa detta dalla sposa perché parlavano la stessa lingua. Ma ora. Come fare perché anche i loro rispettivi silenzi comunicassero? Lei si appoggia allo sposo per potersi rialzare, ma lui la trattiene a sé, sul petto. Lei vi appoggia le labbra tracciando delle linee di baci e saliva. Lo sposo sente i seni duri della sposa puntati al cuore. Ne osserva gli addominali tesi – lo sposo ha ricominciato a fare sport e palestra da quando lei gli aveva fatto notare di come gli amici coetanei avessero messo su pancia. La sposa è dunque risalita lungo il corpo dello sposo in modo che i due volti si trovassero alla stessa altezza. Accarezzandogli la nuca, con una mano, ridisegna l’orlo delle sue labbra, con l’altra. Lo sposo la libera della camicia e la stringe a sé, come per evitare che se ne vada via. La sposa accoglie con un fremito il braccio di lui che le scivola lungo la schiena. La prima lettera a volare via è la M. La si direbbe una bolla d sapone che levandosi verso il soffitto giri su se stessa tre volte


prima di esplodere, senza rumore. Ed una dopo l’altra, le lettere risalgono su, come certa pasta fresca a cottura rapida – lo sposo e la sposa facevano la spesa al dì per dì-­‐ che dal fondo della pentola riaffiorano in superficie, disperdendosi dal centro lungo i lati. Consonanti e vocali, maiuscole e minuscole, punti esclamativi, virgole, punti, puntini sospensivi, investiti del dono della leggerezza, ancora inimmaginabile fino a qualche minuto prima, s’involavano ritornando, probabilmente, laddove se ne stavano prima, cioè in nessun luogo, e comunque noi non siamo tenuti a saperlo. Quando la cameriera apre la porta della 601 con l’aiuto di un passepartout trovò un vuoto ed un silenzio che non somigliavano a nient’altro al mondo.


Titoli di coda

Per fare la spesa, lo scrittore dedica, in media, quel tanto di tempo che sua moglie, la moglie dello scrittore, vorrebbe che lui vi sacrificasse, ma, siccome le storie delle coppie confidano il segreto del proprio successo ad una contabilità imperfetta, colei che noi abbiamo definito la moglie dello scrittore è convinta che lui non faccia abbastanza per la casa. Perché il focolare domestico abbisogna di legno e di fuoco, di mani sapienti e forti, di occhi precisi, un misto d’intuizione e d’organizzazione. – Proprio come leggere un libro – aggiunge. Ecco perché l’amata insiste nel dire che lui dedichi molto più tempo all’acquisto di libri che non di detersivi. Scegliere un libro è un’operazione non meno complessa di quella legata ai prodotti domestici – lo scrittore si rifornisce da Ed, un discount all’angolo della strada: e lo seducono quelle meravigliose bottiglie di colore blu e bianco che campeggiano sui ripiani a prezzi molto meno cari che altrove. Data la fortuna per lo scrittore di abitare in via della Roquette, precisamente a metà di quella strada che parte dalla piazza della Bastille e che va dritta dritta al cimitero del Père Lachaise, quella particolarità topografica gli aveva inspirato la frase: – e che la si smetta una volta e per tutte di dire che l’anima è prigioniera del corpo. E’ il corpo, il vero sequestrato!


Del resto secondo la sua madre lingua si doveva dire “andare di corpo” e non “andare di anima”. Comunque sia, per acquistare un buon libro c’è innanzitutto bisogno di una libreria. Ed evidentemente di un libraio. Allo scrittore, gli piace annusare i libri, ed è dall’odore che ne riconosce l’autore. La libreria dello scrittore, Epigramme, e l’amico libraio, Christophe, si trovano nella prima metà della strada, quella che scende verso la Senna, proprio come il caffé des anges, le divan, la lavanderia del Poïo, e l’edicola di Thierry. Ragione per cui la sua vita – nella parola francese “ville”città, c’è “vie”, la vita – si svolge principalmente nella prima parte della rue de la Roquette. Le sole volte che supera la frontiera data al proprio territorio – all’altezza della sinagoga – si giustificano per la consueta visita settimanale al celebre campo santo, quando rende onore agli eroi del suo immaginario. Perché, diciamolo pure, la contemporaneità è per lui troppo temporanea e troppo “conne” scema per farci un monumento; tanto più che , per la vita postuma ha già provveduto all’acquisto di quattro metri per quattro, di terra, in prossimità del muro dei caduti per la Comune di Parigi. In una giornata così- è da poco passato mezzogiorno – sua moglie l’ha letteralmente espulso di casa permettendone il ritorno alla sola condizione di presentarsi con dodici rotoli di carta igienica, e non di una marca qualsiasi. Una griffe che si trova unicamente nel supermercato alla fine della strada, cioè cinquecento metri a salire oltre la linea di confine. L’imbarazzo dello scrittore ogni volta che gli grava una tale incombenza è inenarrabile. Quanto più che, tutto considerato, fare la spesa gli procura veramente un grande piacere. Scegliere, controllare, riporre, infilare, comprare, pagare, aspettare e farsi aspettare, digitare il codice, sollevare le buste, farsi aprire le porte vetrate , passare e in


ultimo, un’ora a truccare lo scontrino. Perché gli uomini che fanno la spesa acquistano i prodotti più cari, la qualcosa, lo si sa, è per una donna, la propria, insopportabile. Ma, percorrere lungi tragitti con la carta igienica –confezioni insolenti che fanno capolino tra gli avambracci e che non entrano mai nelle buste– è veramente la più gran pena che si possa infliggere a uno scrittore. Con la carta igienica, si può incontrare chiunque. E non uno qualunque. Ogni volta si tratta di un ex. L’ex migliore amico, l’ex fidanzata, l’ex moglie, l’ex sessantottino, lex dura lex sed lex, e per uno come lui che non aveva mai voluto studiare diritto…E’ mezzogiorno passato, e dopo aver incrociato il servizio di sicurezza alla uscita del tempio giudeo e lanciato un’occhiata in un negozio d’ antiquariato, ripensa a un verso di Eugenio Montale – spesso il male di vivere ho incontrato – ed è su quelle note che varca la soglia del supermercato in questione. Ne fuoriesce pochi minuti dopo, e , chiedendosi se valga la pena tradurre i poeti , ritorna sulla via della Roquette. A una cinquantina di metri di là scopre con un leggero trasalimento una insegna di legno – Solaris -, e giusto sotto la scritta, qualcosa di ancor più sorprendente: una libreria. Sospinta la porta, saluta il libraio sulla sinistra e incomincia a guardare gli scaffali. Vi si respira un odore di chiuso, stantio, niente affatto sgradevole, e nel fondo c’è tutto ino scomparto riempito di ellepi’. Il suo ex, il rock è tutto li’:.Franck Zappa, Genesis, Pink Floyd, Jefferson Airplanes. La triade Carole King, James Taylor, Jim Croce, Lou Reed, David Bowie, Celentano. E poi i gialli, l’esoterico René Guenon, Jules Evola, la collezione completa d’Athanor. E chiede. Il libraio, è un giovane molto disponibile, probabilmente studente, e con somma gioia lo scrittore vede, o almeno crede di vedere, proprio dietro alla sedia su cui è sistemato, due buste di plastica, contenenti la stessa


esecrabile cosa che fino a qualche minuto prima era al centro delle sue riflessioni solitarie ed esistenziali. Il giovane, che voltandosi s’era accorto dell’interesse del nuovo cliente verso la sua, di carta,lo guarda come per dire: “non ci sono dubbi, è la migliore. – Per caso avete della letteratura straniera?- domanda. – Ma certo, guardi lì in fondo , accanto al settore dei saggi .A quale settore è interessato? – Ehm, letteratura italiana, per esempio. – Mi segua che le faccio vedere dov’è. Lo scrittore lo segue, e nonostante il pacchetto voluminoso è riuscito a passare dietro alle colonnine di esposizione delle cartoline illustrate d’epoca. Si è inginocchiato, il ragazzo è ritornato alla lettura di un album di fumetti di Munoz, Sampajo,”Il poeta”, e davanti a sé fa una scoperta molto strana. Un numero impressionante di opere dell’Adelphi è allineata e coperta negli ultimi tre scaffali. Si tratta di libri molto belli ma soprattutto di quelli apparsi negli ultimi anni, le cosiddette novità. Lui si gira per richiamare l’attenzione del venditore e venire così a sapere, immediatamente, quanto viene a volume. Ma facendo perno sui talloni si ritrova davanti al totem bianco-celestino della carta igienica e arrossisce. L’associazione carta-libro-cultura-autore-culo-morbidezza – o forse la posizione scomoda – gli procura un giramento di testa. Ma velocemente liberato, emancipato, dai cattivi pensieri riprende il controllo della situazione trovando il coraggio di porre la sua domanda. – Quale ? gli risponde il commesso. – Sandor Marai, per esempio.


– Viene dieci franchi, tutto è a dieci franchi. – Ma, senta, l’hanno pubblicato due anni fa, il prezzo italiano è di trentamila lire che fa circa 100 franchi. – Dieci franchi, Signore, sono molto lusingato dalla sua franchezza, ma il padrone… – Se è Lei che lo dice, pazienza, è solo che non volevo passare per un approfittatore, coi tempi che corrono, veda, e poi, se il negozio non è suo, capisce… -Ne sono molto lusingato .- risponde allora prima di immergersi di nuovo nel suo album. Adesso a noi , mormora lo scrittore e avrebbe voluto gridarlo, prendendo d’assalto lo schieramento di libri italiani, conquistato oltre che dalla varietà, dall’ansia di scegliere bene, dal momento che non uno dei titoli presenti lo lascia indifferente. E meno che mai acquistare tutto, visto che avrebbe preso l’aria di un pezzente. Lo scrittore, sentendosi nel suo elemento, e con l’enfasi di un telecronista, quasi a mancargli il respiro, recita uno ad uno i nomi di quella straordinaria formazione: Bruce Chatwin, Sulla collina nera, Ingeborg Bachmann, Tre sentieri per il lago, Milan Kundera, Lo scherzo, Fleur Jaeggy, I beati anni del castigo, Thomas Bernhard, Danilo Kis, Alvaro Mutis, Annamaria Ortese…; per ogni nome declama i titoli. Come recitando una preghiera. Il ragazzo incuriosito dalle voci, si avvicina e chiede se tutto va bene. – Sta bene? – Sì, grazie, soltanto, sa, è come trovarsi d’un tratto in una miniera d’oro.


– Lei è italiano? – Si capisce? – Dall’accento. E poi, il modo di parlare, très italien. – Comunque grazie, per oggi redo che possa bastare: mi accontento di questi tre, Sandor Marai, Nabokov e Kundera. A proposito, lo sa che questo libro Kundera l’ ha scritto in francese e pubblicato ovunque salvo che in Francia, così. – L’ignoravo. – Devo andarmene, però mi vedrà spesso. – La ringrazio. (Mi lusinga molto.) Lo scrittore è tra la folla che scende verso la Bastille, con in una mano tre illustri colleghi che, per di più, gli parleranno nella sua lingua madre, e nell’altra… Accidenti! Ha dimenticato il prezioso carico nel negozio. Ci ritorna, il ragazzo gli tende il pacco che avrebbe rimesso in equilibrio la giusta bilancia dei valori d’uomo, e prima di uscire, lo scrittore gli lancia: – A proposito, è un buon amico. – Chi? – Munoz. – Chi? – Lasciamo perdere, arrivederci e grazie La moglie dello scrittore è già andata al lavoro. Lei gli scrive i biglietti su foglietti colorati, adesivi, che dissemina un po’ ovunque


nelle varie camere. Il gioco consiste a che lui ne raccolga il maggior numero possibile per conservarli nella scatola da cioccolatini che si trova a fianco della scrivania. Ogni giorno gli scrive un biglietto diverso. Lo scrittore pretende di amarla. Perché la moglie dello scrittore è sempre la stessa. Lo scrittore passa una settimana, completamente assorbito dalla lettura. Non conosceva Marai e il suo percorso gli pare molto interessante. Come la scrittura. Così riconciliato con il mondo delle lettere, riesce a superare tutti i pasticci che la vita quotidiana gli presenta ogni giorno a mo’ di conto ed effettivamente si tratta principalmente di pagamenti delle fatture o di passare l’aspirapolvere. Le sue piante fidatissime reagiscono con nuove foglie alle attenzioni che gli porta, e la moglie dello scrittore ha manifestato a più riprese gioia di essere in sua compagnia. Va tutto a gonfie vele. .E senza un filo di vento. Questa mattina come ogni mattino da qualche settimana a questa parte si reca alla libreria in questione , tutelato dal clima di fiducia che regna tra lui ed il commesso a cui ha perfino regalato un libro del celebre fumettista argentino, suo amico, Munoz con tanto di dedica. – Molto lusingato- dice il libraio. Si è organizzato in un modo ai poter restare nel suo posto al meno una parte della mattina. Questa libreria non lo spaventava come altre che ti sbattono in faccia tutta la tua ignoranza di lettore. A meno che non ci sia il tuo amico libraio, Fortunato Tramuta, il felice che trasforma, così lo scrittore l’ha soprannominato per questa sua capacità di iniziare ad un mondo, all’immaginario presupposto da un mondo del quale l’autore è un elemento, e non l’unico, perché l’alchimia riesca. Dunque Alì, venuto dall’Azerbaigian per studiare all’accademia delle belle arti e diventato il libraio d’ arte più noto nel decimo arrondissement. Christophe, sempre dolce e generoso nell’affidamento dei segreti del mondo dei gialli, con una libreria


interamente consacrata al mondo dei polar. Perché quella del libraio non è una professione, né un’arte, ma una missione, una vocazione. Il libraio è un farmacista, e si dovrebbe prevedere, nella previdenza sociale, un rimborso per quest’attività dedita alla cura del pensiero convalescente. Ed ecco che lui va e ritorna e ogni volta, carico di libri, dalle copertine pastello, ocra, blu, rossa, oltrepassa la soglia della sua casa corridoio. Perché l’appartamento dove abita con sua moglie, c’è un grandissimo corridoio dove a sinistra in fila si aprono il salotto e le camere. – Vedi, i nostri sogni saranno sempre di sinistra, lei gli ha detto un giorno Certo, provava fastidio, diciamolo pure, per l’aspetto economico della cosa. Ha ormai comprato una cinquantina di volumi a un prezzo ridicolo , quasi un dono del destino, e poi, è così, punto e basta. Brodskij, Simenon, i romanzi, Landolfi, Sciascia, Milosz, Walcott, Cioran, i titoli che gli dicono qualcosa ma che in fondo non conosce e che giorno dopo giorno facevano breccia nel muro che voleva separati, vita e coscienza, come se lo scopo fosse riuscire a farne una sola, unica cosa. Lo scrittore prosegue sul cammino certo dei segni che lo accompagnano. E così gli capita di comprare anche qualche disco. The lamb lies down on Broadway, dei Genesis, è un prodigio dell’arte barocca. Esce di buon’ora questa mattina. Fa freddo fuori e anche se gli è difficile abbandonare sua moglie e il tepore del suo collo schiacciato sul suo petto, lui sa che deve recarsi in libreria all’apertura, ed acquistare l’ ultima parte dello stock, cinque libri, prima che a qualcuno venga in mente di fare la stessa cosa . Gli piacerebbe, a missione compiuta, gustare una colazione a base di caffè e cornetto, di fronte, al cielo. Da lontano lo scrittore s’accorge


di che la libreria è chiusa. Eppure vede un tipo – non è il commesso suo amico – più anziano abbastanza corpulento che prima solleva la saracinesca poi tira fuori un altro mazzo di chiavi per aprire la porta. Lo scrittore gli è dietro, quasi addosso. Una frazione di tempo e quello si volta di scatto quasi a temere un’ aggressione. – Ah, è Lei. Fa così tanto tempo. Tutto a posto? Va bene? Lo scrittore non si ricorda di lui. Lo confonde certamente con un altro. La luce invade la libreria. Un vecchio manifesto ingiallito con Orson Wells si stacca dal muro. Lo scrittore resta immobile. La mano nella tasca appesantita dalle monete necessarie all’ultimo acquisto. – Prego, si accomodi, – gli dice l’uomo, il proprietario della libreria. A proposito, ho una bella da raccontarle. Si ricorda dei libri usati che mi ha venduto l’anno scorso, a un prezzo simbolico, s’intende, giusto per non buttarli, quei bei libri italiani, tutti colorati, se ne ricorda, e bene, cosa incredibile ma vera, insomma, sono riuscito a venderli tutti. O quasi. Lo scrittore resta in silenzio ad osservarlo, qualche minuto. Immobile. Non dice niente. Ascolta, soltanto. Ma no, lui, lo scrittore, non se ne ricorda.


Bouquiniste

Durante la passeggiata Elisabeth ed io non abbiamo scambiato una parola. O almeno. Ci abbiamo solo provato perché come i miei amici sanno, parlo molto, parlo troppo. E scrivo poco. Il motivo dell’appuntamento era d’altra parte il seguente: come fare per rendere ai compagni di penna un’opera autentica. Non una raccolta di novelle pubblicate qua e là in riviste improbabili, tra Francia e Italia. No, no, ma un vero romanzo di quattrocento pagine e passa con lo scrittore in persona che in più dichiara in un’intervista: “ho eliminato molti passaggi, in tutto qualche centinaio di pagine.” Un unico libro che fosse l’equivalente di quanto abbia mai potuto scrivere, e pubblicare, tesi universitaria e lettere d’amore o d’addio incluse. Certo non è la quantità che conta, dicono. Ma la qualità, penso. Ed è per questo che oggi ho passeggiato con Elisabeth. I lungo Senna per i parigini sono come le rive del Gange. Talvolta mi ci devo immergere per conquistare quell’universo misterioso e inafferrabile che è la lingua francese. La lingua, ma non solo quella, è un’intera cultura che si nasconde fra i chiaroscuri di una pellicola che si srotola alla stessa velocità dei bato’ musce. Quando abbiamo costeggiato il fiume, era alla nostra sinistra. Ripercorro il tratto da solo in senso contrario e capisco la differenza. Non abbiamo parlato molto. Una donna seduta sulle ginocchia, circondata da altre, alcune molto giovani, si è alzata di scatto al nostro passaggio per dirci che eravamo una bella coppia. Dai capelli neri, ho aggiunto io.


Occhi neri e luminosi i suoi; bocca minuta dalle labbra severe la pelle chiara picchiettata di lentiggini; collo slanciato; sguardo clemente; gesti essenziali e una vocazione alla malinconia. Uso questa parola perché Elisabeth in realtà è una vincente, ma con la bellezza dei vinti. Mi ha intimato, a un certo punto di starmene zitto e all’improvviso non sapevo più cosa dire. Ci siamo seduti sul bordo di pietra del corso delle cose e l’ho guardata in silenzio. Il cielo era rosso e io calmo, con i piedi nel vuoto e la testa rivolta al tramonto.

– Solo la letteratura può salvarci, e ancorché. – So di cosa ho più bisogno, ma sarà doloroso. – Sogno un incontro. – Senza padroni né dio. – Baciami, posso?

Mi ricordo tutto; gli odori sulla superficie di una giornata di luglio; gli altri seduti di fianco; il suo profumo; il rumore delle utilitarie oltre il muro di cinta; l’anima leggera; il desiderio acquattato nel più profondo dello stomaco; delle gambe; delle punte dei piedi; delle punte dei seni. Eppure ho dimenticato tutto. Rifaccio lo stesso percorso, nell’altro senso e sono solo. La strada deserta; i semafori gialli intermittenti; tutto chiuso; la brezza appena nata; le auto che dormono coperte da sottili membrane. Cammino spedito, quasi a coprire la distanza tra i ricordi e me stesso, e ho l’impressione che qualcuno mi segua. O quasi. In realtà il suono diventa più forte delle scarpe sull’asfalto. Ma presto s’affievolisce. Mi accorgo di


essermene ormai allontanato e, nel silenzio incestuoso di notte e metropoli, torno sui miei passi per stabilire una volta e per tutte che non si tratti affatto di qualcuno che chieda, disperatamente, aiuto. È all’altezza di uno di quegli oggetti grigi metallici, disseminati sul bordo della Senna, librerie portabili e sospese tra cielo e terra, minuscole fortezze che custodiscono frammenti di letteratura, che il suono si muta in voce. -Aiuto ti prego, fa’ qualcosa, per Dio ! Un uomo è chiuso in quello spazio angusto e francamente non so che fare se non dirgli: -Ma come vi siete cacciato lì dentro? -Scemo, non lo so, ad ogni modo non ne so più di te su quelli che mi ci hanno ficcato. La sola cosa che posso dirti è che non riesco a venirne fuori, capisci ora? Infatti un pesante catenaccio serrava i due sportelli del… coso, della cassa metallica. Lo si sarebbe detto uno scrittoio. – Che strano. – Cosa? – No, no, mi dicevo… per carità non la vostra situazione, ci mancherebbe altro. Pensavo solo a una storia che mi riguarda. – Andiamo, suvvia, io adoro le storie e poi visto che non puoi fare niente per tirarmi fuori di qui, almeno aiutami a passare il tempo.


Mi sono seduto accanto alla prigione e ho tirato fuori una sigaretta dal pacchetto che avevo riposto a terra insieme alle chiavi di casa. Sto per cominciare il mio racconto, e quello m’interrompe bruscamente… -Avresti la gentilezza di offrirmene una? -Ah, ma allora volete proprio farla finita! Arso vivo come Giordano Bruno! Certo che con tutta quella carta… -Mi sa che hai proprio ragione, ma non ti nascondo che a volte avrei voglia di farlo colle mie stesse mani. -Darvi fuoco? -Ma no, scemo, parlo dei libri. Se soltanto si mettesse fine una volta e per tutte a un tale scempio di alberi e foreste. Pensa a quanta carta è servita per fabbricare milioni di libri inutili scritti da Gutenberg in poi. – Ci provo. -No, no, tu non puoi immaginarlo. O forse mi sbaglio. La questione è che non si può subito determinare l’inutilità di un libro. Ci sono libri che nascono inutili un giorno ed un altro diventano capolavori. Storie così ne succedono, altro che se non ne capitano. Ma non è una regola. Ma adesso dimmi perché prima ridevi? -No, è una sciocchezza… -Tanto meglio. -Un giorno, un noto scrittore in una trasmissione televisiva disse che l’esercizio più importante per un autore è di incollare il culo alla sedia.


-Fammi fare almeno un tiro. Infilo la sigaretta su una piccola presa d’aria dove il ferro era consumato dalla ruggine. Ha aspirato così forte che penso: “ora si strozza”. Poi un accesso di tosse amplificato dalla cassa di metallo provoca una mezza esplosione. -Vi ammazzate così… -Non preoccuparti per questo. La voce acuta, stridula, metallica; dall’accento indecifrabile, piena e ridondante. -Uomo o donna? – chiedo. -È importante? -Dipende. -Uomo o donna, uomo e donna. D’altronde in letteratura si dovrebbero omettere i nomi. I veri autori sono come angeli. Non hanno sesso. Madame Flaubert c’est moi. -Non era proprio così ma se permettete… ho una domanda che mi tormenta, da un po’ di tempo… -Dimmi, ma ti avviso, prendo di più per le consulenze… -Se siamo a questo punto allora me ne vado…- mi alzo raccogliendo chiavi e sigarette come per congedarmi. -Piantala, scemo, era solo per riderci sopra. Dimmi sono tutto orecchi. -Come si fa a vivere della propria penna?


-Parli ancora di letteratura? -Ma allora non mi state a sentire. Ho detto penna – ho ripetuto appoggiando le labbra al cassetto ed il tono sull’ultima sillaba -Anche i ragionieri se ne servono. -Ora, non più. -E gli scrittori? -Avete ragione. -Hai qualcosa da aggiungere. -Niente di particolare. -Allora ricordati una cosa, la più importante, e non farne parola con nessuno. Solo i gradassi e i pubblicitari se ne escono in certe serate con frasi ad effetto del tipo “io vivo della mia scrittura” e fandonie del genere. Di letteratura, e stammi bene a sentire, ho detto, l-e-t-t-er-a-t-u-r-a, di letteratura si muore, e questo è quanto. Anche la Senna dorme un meritato sonno. E i semafori all’angolo della strada. E i negozi vuoti giacciono freddi e stanchi come rapiti da un sogno ultraterreno. E non mi viene nemmeno di fare altre domande. E non ho voglia di rincasare. E bisogna che vegli sul mio amico. E l’idea di un’attesa forse lunga, non mi spaventa ed è necessaria. Perché ci sono momenti in cui l’essenziale accade in un posto diverso da un proposito partorito dalla propria volontà. Mi addormento. La città si sveglia alle prime luci dell’alba. Un sole timido, nordico, si apre un varco tra le costruzioni in pietra e la cattedrale di Nostra Signora sfodera le sue vetrate ai pellegrini distratti. Colui che mi sembra essere il libraio, proprietario del


mobile – vedo i suoi piedi calzati senza un minimo di eleganza – resta davanti a me e prima che mi rifili un calcio, bonario ma pur sempre un calcio, levo lo sguardo a trattenerlo dal farlo. -Signore, complimenti, lei ha proprio una bella faccia riposata, voleva dirmi qualcosa? -Che ore sono? – gli faccio tentando un’ipotesi di risveglio -Lei esagera? Sono forse il suo orologio personale? -No, ma – e penso subito alla creatura in gabbia. Chissà se respira ancora. E mi tiro su appoggiandomi al parapetto. -Chi ha scassinato il mio negozio? Ci sono pedate ovunque! Ancora ladri, ne ho piene le scatole!- urla -Guardi che sono stato io a tentare di liberare la persona che stava là dentro. -Chi? Che cosa? Ma è fuori di testa? Costringere il bouquiniste ad aprire il catafalco. Essere certo di non aver sognato. Chiamare la polizia. Telefonare ai pompieri. Sporgere denuncia. Forzare le pesanti catene. Comprare qualcosa. Farmi una doccia. Radermi. Chiamare un’ambulanza. Sincerarmi. Obbligare il bouquiniste. Scrivere. Raccontare. Scrivere…


Il maestro

Tremante, insicuro, calzato bene, teso e muscolare, ad arco, apparve così. Un vecchio signore, dall’aria e dai modi gentili, le lenti spesse come fondi e una cartella sotto il braccio. Giusto di fronte all’entrata del vagone con quella luce giallastra che ti intima, la luce: «Su, sbrigati che si va» seguita come se ciò non bastasse dal grido, acuto e stridente di sirena omerica, delle porte. Intanto lui, il vecchio signore, dall’aria e dai modi eleganti benché di faccia non rasata, e cappotto liso, tremava dalla testa ai... al piede, ché di entrare non se ne parlava proprio. E la luce era sempre più luce e il suono, quel suono come sorto dal nulla, proseguiva imperterrito da quasi stacco finale il suo corso fino al silenzio. Un grappolo di passeggeri s’era raccolto intorno a lui e chi gli diceva: – Forza u’ No’ – Ce la potete fare – arrivò a dire una donna – Forza e coraggio – dissero i bambini. Si sbracciavano impazienti e a volte esausti, impensieriti, agitando i gomiti e lasciando cadere per terra le borse da lavoro. Gli fa- cevano segno di avanzare, perché poteva, le porte era- no alla portata di... piede. E più il tempo passava e più le porte restavano aperte sul vecchio signore, cogli occhi spalancati dall’enorme fatica, ma dai modi di un maestro di musica, di un generoso direttore d’orchestra. L’esitazione del piede tremante – perfino il conduttore era disceso dalla macchina e gli intimava di entrare, par dieu – aveva spinto,


chissà come e chissà perché, anche due grossi signori ad agire – col secchio al fianco avevano appena finito d’incollare manifesti pubblicitari – e s’erano messi al punto dove le porte si rincorrono, per bloccar- ne lo slancio, e guadagna- re una manciata di secondi. La meccanica del tempo e della metropoli – una gran- de città è soprattutto tempo, prima tempo e poi denaro – richiuse le porte come richiamate a un ordine antico e che parvero crollare sotto i colpi della tecnica e della durata, del ritmo frenetico che si conta in centoventi secondi fra un convoglio e l’altro. E man mano che i secondi passavano la folla aveva il sentimento che l’impresa fosse votata allo scacco. Il mondo macchina ha i suoi obblighi, le sue misure ed assai bruscamente, negli istanti che si susseguirono, ogni cosa riprese il suo corso. Ed il treno ripartì senza chiedere niente a nessuno né tanto meno fornendo spiegazioni. E lui, ma lui, il vecchio signore dalla barba non fatta e dai modi e dall’aria gentile, nell’istante esatto in cui il convoglio aveva percorso il suo ultimo tratto di curva, quando anche il culo dell’ultimo vagone era sparito dall’orizzonte aveva ritratto il piede, e s’era messo a camminare leggero come un ballerino del Bolscioi, un centrocampista d’altri tempi, in tutt’altra direzione. Altrove. Dov’è la vita.


Il senso della fila

Nel più profondo delle sue speranze, l'esule - ma lo potremmo chiamare l’isolato, il solitario, - varca la soglia del mercato della letteratura, ancora una volta e nonostante tutto, in occasione dell'inaugurazione della Fiera del Libro. Pochi giorni prima ha ricevuto un invito per intercessione del suo amico scrittore, vecchio compagno di classe e con il quale ha condiviso alcuni anni della propria giovinezza metropolitana, un’epoca ansiosa ed avara. L’amico scrittore è un autore di romanzi filosofici che vanno per la maggiore e ha sposato una donna che potrebbe contare tra i propri meriti di musa terrena, l’allontanamento dei due migliori amici del marito. Una rottura consumata in silenzio e punteggiata occasionalmente da gesti, biglietti di auguri e ricordi, pezzetti di memoria sospesi ad ammiccamenti, incontri casuali, vecchie fotografie.

- Lui non ama la vita, guardalo, tutto in lui è triste, sembra aver perso qualcosa, non ha nemmeno preso moglie, e del resto come avrebbe mai potuto – lei dice a lui ogni volta che se ne presenta l’occasione, pur consapevole che il legame tra di loro ormai s'è ridotto soltanto ad un filo di inchiostro colato su pagine vuote o su un cartoncino d’invito.


II

Tuttavia, come previsto, l'esule trova la hall d’ingresso alla fiera piena di gente di tutte le età, che rispettosamente fa la coda, generalmente accompagnata e ben esercitata a porgere l’invito al personale di servizio, rigoroso nel controllo della legittimità degli invitati a una serata riservata ai soli professionisti del settore. Su entrambi i lati della fila, due altre masse brulicanti di persone s’agitano tra dentro e fuori; vanno avanti e indietro, tra la hall e le porte, i primi nervosi, impazienti di assicurarsi dell’esattezza del luogo concordato con secondi e terzi per l’appuntamento. Perché tutti aspettano qualcuno, e quelli già in possesso del cartoncino sembrano più innervositi degli altri, sprovvisti che, in ultima analisi potrebbero sempre accettare l'offerta da parte di un conoscente, un amico, un collega, disponibile a fare coppia e così superare il fuoco di fila dei controlli. L'esule preferisce aspettare un po’ prima di seguire il flusso di persone dirette ai grandi stand delle case editrici importanti, dove lunghi tavoli bardati di rosso espongono secchielli col ghiaccio e bottiglie, migliaia di petits fours.

L'esule lancia un’occhiata distratta intorno a sé e inforca gli occhiali per dare uno sguardo al programma della manifestazione ricco di incontri con le più alte personalità del mondo letterario, della cultura, del tempo. Trattandosi di un evento chiuso al pubblico, il tasso di mondanità è molto alto, anche troppo per l'esule che si sente improvvisamente come assalito da un senso di profondo disagio e inappartenenza a quel mondo. Possiamo immaginare tale malessere anche dall’indifferenza che pare mostrare a così tanta bellezza e


eleganza sciorinata come un fiume in piena oltre i valichi mentre lui se ne sta fermo, immobile con il pieghevole aperto sotto al naso.

L'esule è affetto, in ultima analisi, da una sorta di agorafobia, paura patologica di luoghi pubblici e se, più o meno segretamente, spera da una parte di incontrare il suo amico scrittore, dall’altra non può sopportare l'idea di renderlo partecipe di questo profondo senso di esclusione. Fuori piove, ed è stato emozionante vedere poco prima di arrivare nella hall, una sorta di grande tenda di velluto nero, implodere alla chiusura degli ombrelli per lo più neri per rivelare i volti, facce di donne e uomini estremamente concentrati nelle singole operazioni. L'esule si offre la possibilità di fumarsi una sigaretta in quella terra di nessuno tra le due barriere di vetro poste all'ingresso. Altri fanno lo stesso e improvvisamente si ritrova in compagnia, anche se solo per pochi minuti, giusto il tempo che le persone attese da questi occasionali compagni di fumo giungano facendosi precedere da parole di scuse e circostanza per il ritardo.

Ha anche avuto la possibilità di fare due chiacchiere, non una vera e propria discussione sui"massimi sistemi", ma raccogliendo l’amarezza di un uomo stanco di quel tempo, o una donna che si aspettava per quest'anno una ben altra primavera. Per non tacere di una coppia pentita di essere venuta lasciando i loro figli a casa con la babysitter, mettendo in conto l'aspetto economico della questione e l'equivalente in libri di quanto pagheranno alla ragazza inglese lentigginosa nel caso in cui rimanessero fino alle ventidue e trenta, orario di chiusura della fiera.


Non se ne parla proprio! Aveva detto la donna.

L'esule per fortuna non ha alcuno di tali vincoli, ma quando improvvisamente gli pare di vedere una cara amica in compagnia di altre persone dall’aria familiare, invece di farsi notare, fare un cenno, abbassa lo sguardo e si fa scudo dietro al gorilla della security in attesa che la combriccola venga come tutto il resto inghiottita dalla fila in movimento.

Ma perché? Perché rifiutare una tale opportunità di ridurre la distanza del mondo, di porre rimedio ad un'estraneità che lo fa soffrire, che lo rende infelice?

Non lo sa nemmeno lui, probabilmente. Eppure si trattava di una ragazza che gli piaceva, per la quale aveva anche provato, per un periodo della propria vita, un sentimento diverso da quello del semplice affetto che peraltro lei gli aveva sempre manifestato, ma è andata com’è andata, e non possiamo di certo fargliene una colpa.

A un certo punto un ragazzo, con occhiali spessi da miope e un sorriso sopra le righe, gli chiede l’ora. - Che ora è? - Presto le otto.


- Grazie.

L'esule era lì dalle sei e mezza, come del resto era indicato sul cartoncino dove, all'altezza della cifra trenta, figura allo zero la firma stilografica del suo amico scrittore. Firma preceduta da questa raccomandazione: non tirarmi un pacco come tuo solito. Così si è deciso ad entrare e quasi istintivamente prende la corsia di destra posando lo sguardo sulla nuca di una donna e la mano sinistra nella tasca della giacca a tenere stretto tra due dita l’invito.

Un profumo di soirèe s’è introdotto nelle narici procurandogli un formicolio. Cerca il fazzoletto vergato con le sue iniziali, rovista nelle tasche del cappotto e non lo trova. D'altra parte, sembra poco conveniente e opportuno toccarsi il naso con le dita o peggio con il dorso della mano. Per non cadere in una tale incongruità, socchiude gli occhi e apre la bocca permettendo ad ogni elemento della sua faccia di riposizionarsi in un modo più congeniale. Una volta riapertigli occhi l’esule nota che al posto della donna c'è un uomo e che la fila non si muove di un centimetro a causa dell’uscita del Président de la République accompagnato dal Sindaco di Valbeneunamessa, con gli uomini della scorta a fare bella mostra di sangue freddo e di autorità.

L’esule prova, in quel preciso momento, una sensazione molto strana. Il colletto della camicia della persona che gli sta davanti ha lo stesso difetto della sua. Una minuscola macchia d'inchiostro, molto discreta, in verità, e che nessuna lavanderia di quartiere era stata in


grado di rimuovere. Il perché ci tenga particolarmente a questa camicia, non ci è dato saperlo ma quando comincia a guardarsi intorno per vedere se c'è ancora gente, si rende conto che un poco più a sinistra, qualcuno indossa un paio di scarpe identiche alla sue. La qual cosa di per sé è abbastanza sorprendente, dato che si tratta di un regalo che si era offerto per Natale acquistandole da un calzolaio italiano che le fa su misura in base alle richieste dei clienti. Poi è stata la volta del cappotto, acquisito alla Samaritaine durante i saldi, e una vertigine lo coglie quando al polso di un altro, poco più avanti, scorge lo stesso suo orologio, quello d’oro che il padre gli aveva regalato il giorno in cui aveva discusso la sua tesi di laurea in letteratura nordica. Una tesi intitolata "Pipistrelli", in omaggio alla scrittrice islandese Steinunn Sigurdardottir e accolta dalla commissione con misurato entusiasmo. Il colmo lo raggiunge però quando, voltandosi verso l'uscita, vede una donna venirgli incontro tenendosi all’altezza delle labbra un fazzoletto con in bella mostra le stesse sue iniziali. Incrocia il suo sguardo – è forse la prima volta che i suoi occhi incrociano quelli di una donna con una tale intensità, -per un tempo che gli sembra durare in eterno. La folla intanto ha ripreso il suo corso subito dopo. Per terra, all’altezza di un contenitore per la differenziata, giace una busta con su scritto il suo nome. Un nome che non ha importanza. Per noi sarà l’esule, ma avremmo potuto chiamarlo l’isolato, il solitario…



Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.