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Passione segreta - N. Cornick Un libertino da sposare - C. Jewel Un matrimonio combinato - S. James Il gusto della vendetta - A. McCabe I diamanti di Welbourne Manor D. Gaston - D. Marlowe - A. McCabe - I sogni di una debuttante* - A. Herries - La sposa inglese - L. Sands - Reynold de Burgh: il cavaliere nero - D. Simmons - I doveri di un cavaliere - L. Sands - Segreti a Londra - M. Moore - Ombre dal passato* - A. Herries - La sposa del guerriero - C. Thornton - Le confessioni di una duchessa** - N. Cornick - Lezioni d'amore - B. Gifford - La signora di Hanover Square* - A. Herries - Gioco pericoloso - E. Bryan - Scandalo nell'alta società** - N. Cornick - Novità a palazzo N. Cornick - J. Maitland - E.Rolls - Passione vichinga - J. Fulford - La città dei segreti - L. Lael Miller - Capricci di una gentildonna** - N. Cornick - Il segreto del Falco - D. MacTavish - D'amore e di ventura - E. Bricca - Sguardo da bandito - L. Lael Miller
Una Stagione a Londra Le Spose di Fortune's Folly
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ELISABETTA BRICCA D’amore e di ventura
Immagine di copertina: Fortin & Sanders / Agentur Schlück GmbH D'amore e di ventura © 2010 Elisabetta Bricca Tutti i diritti sono riservati incluso il diritto di riproduzione integrale o parziale in qualsiasi forma. Questa è un'opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o persone della vita reale è puramente casuale. © 2010 Harlequin Mondadori S.p.A., Milano Prima edizione I Grandi Romanzi Storici agosto 2010 Questo volume è stato impresso nel luglio 2010 presso la Rotolito Lombarda - Milano I GRANDI ROMANZI STORICI ISSN 1122 - 5410 Periodico settimanale n. 742 del 18/8/2010 Direttore responsabile: Alessandra Bazardi Registrazione Tribunale di Milano n. 75 dell' 1/2/1992 Spedizione in abbonamento postale a tariffa editoriale Aut. n. 21470/2LL del 30/10/1981 DIRPOSTEL VERONA Distributore per l'Italia e per l'Estero: Press-Di Distribuzione Stampa & Multimedia S.r.l. - 20090 Segrate (MI) Gli arretrati possono essere richiesti contattando il Servizio Arretrati al numero: 199 162171 Harlequin Mondadori S.p.A. Via Marco D'Aviano 2 - 20131 Milano
Uscire dal buio e risalire lentamente verso la luce, con coraggio, forza e dignità per tornare alla vita. Tu, papà , ce l'hai fatta. Questo libro è per te.
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Valle Imagna, Lombardia Novembre 1438 In una fredda alba della campagna lombarda, le truppe viscontee e quelle della Serenissima Repubblica di Venezia si scontravano in una sanguinosa battaglia che decretava la vittoria di Milano. A soli sedici anni, Federico da Montefeltro era a capo dello squadrone delle truppe viscontee che aveva riportato, in quel giorno, una vittoria schiacciante sui veneziani. Il braccio sollevato e l'elsa della spada stretta con forza nel pugno, il giovane, dal profilo già inconfondibile, possedeva tutta la spietata fierezza di un crudele angelo vendicatore e la tempra del condottiero. Calò di colpo l'arma e il comandante veneziano sussultò, mentre un gemito straziato gli fuoriusciva dal petto. L'uomo ricadde di schianto su un masso che si tinse del rosso del suo sangue, gli occhi fissi in quelli di Montefeltro. «Mio figlio mi vendicherà» sussurrò morente. Federico strinse la mano intorno all'impugnatura dell'arma e, facendo leva su tutto il corpo, mise a se7
gno l'affondo finale. La lama affilata penetrò fino all'elsa, spezzando le ossa del torace del veneziano. «Ho mandato i miei uomini a Venezia: nessuno vi sopravvivrà, Conte Mocenigo, né vostra moglie né i vostri figli!» Ormai in fin di vita, il conte fu scosso da tremiti e, prima di rendere l'anima a Dio, una lacrima scese a bagnargli il volto. Nello stesso momento a Venezia Gran ballo in maschera, Palazzo Ariani «Prendetemi. Oh, sì, vi prego, Cesare!» La dama ansimò sollevando i fianchi nascosti dall'ampia veste dorata. Ruotò la testa di lato e la fiamma ramata di una torcia ne sottolineò il profilo mascherato e le labbra tumide socchiuse in una muta preghiera di piacere. Una figura slanciata era in piedi dietro di lei. La luce soffusa metteva in risalto, a tratti, la maschera d'argento, tempestata di diamanti, che gli copriva il volto e le braccia fasciate di velluto. «Siete una piccola ingorda, Costanza.» L'uomo si chinò su di lei e le sollevò le gonne, scoprendo le natiche nude, sode e rotonde. Lei gemette e aprì le cosce, mentre un mugolio sommesso le fuoriusciva dalla gola. I rumori della festa arrivavano fin nei giardini e il pensiero che, da un momento all'altro, qualcuno degli invitati potesse sopraggiungere e scoprirli acuiva l'eccitazione dei due amanti. «Ferma.» Il giovane mise una mano sul fondoschie8
na della donna e, premendo con forza, la spinse verso il bordo della fontana, in modo da farle sollevare di più i fianchi. L'afferrò alla vita con entrambe le mani e con una lunga, potente spinta la penetrò. La dama gorgogliò e gettò la testa all'indietro, mentre lui affondava più volte con vigore, fino a raggiungere l'estasi selvaggia. Senza pronunciare una parola, quasi la donna non fosse più lì, si staccò da lei e cominciò a risistemarsi la calzabraca. «Hai vinto la scommessa, Cesare.» Una voce emerse dall'oscurità e una moneta tintinnò a terra, accanto ai piedi del giovane. Costanza sollevò di scatto il volto dai lacci del corpetto e le sue labbra persero colore. Guardò con la bocca spalancata prima Cesare e poi l'altro giovane, appena sbucato da dietro un cespuglio. Il sangue le defluì dal viso. Si portò le mani alla gola come se stesse per soffocare. Le sue dita rimasero a mezz'aria. Parve ripensarci. Sollevò un braccio e fece per schiaffeggiare l'amante, ma una mano le artigliò il polso. «Su, su, signora. Appena un momento fa eravate tutta rossori, voglie e gemiti.» «Mocenigo, siete un bastardo!» «La mia diletta madre, a differenza della vostra, mai disertò il talamo maritale, dolce Costanza.» L'altro giovane avanzò con lenta indolenza e la luce della luna giocò sui suoi capelli biondi. Cesare gli sorrise, di un sorriso scanzonato, mentre la dama correva lontano in lacrime. 9
«Le hai spezzato il cuore, Cesare.» «Ti ricordo che hai scommesso il tuo stiletto di rubini, Filippo.» L'amico sospirò al pensiero di doversi separare da un oggetto così inutile ma prezioso, che suo padre aveva acquistato in uno dei suoi numerosi viaggi di rappresentanza per la Repubblica da esperti e raffinati orafi ottomani. Una scommessa, tuttavia, era pur sempre una scommessa e lui doveva mantenere la sua parola di gentiluomo. Si slacciò la graziosa arma dalla cintola e la lanciò all'amico, che la prese al volo e se la infilò nel farsetto. «Rientriamo, ho voglia di bere.» Cesare gli diede un colpetto amichevole, poi gli cinse le spalle con un braccio e, come due discoli reduci da una birichinata, ridendo e scherzando tra loro lasciarono i giardini risalendo alla volta del palazzo. Dentro, avvolti in preziose sete, velluti e veli, sfolgoranti di gioielli, i volti celati dietro maschere stravaganti, gli invitati danzavano alla luce soffusa dei doppieri. Si era in guerra contro i Visconti e il Doge, insignito della carica di vescovo di San Marco, aveva mostrato, più di una volta, di non gradire l'ostentazione del lusso da parte delle nobili famiglie veneziane. Gli Ariani, tuttavia, erano tra quelli che ignoravano quel tipo di divieto e il ballo in maschera, organizzato quella sera, rappresentava l'ennesima dimostrazione della ricchezza di cui godevano. Piramidi di frutta, cigni di marzapane glassati di canditi, cacciagione e cinghiali interi deliziavano il 10
palato degli ospiti, accompagnati da vino del Reno servito in raffinati bicchieri di vetro soffiato di Murano. L'ampio balcone che affacciava sul canale, oltre l'immenso portego, rosseggiava della fiamma brunita delle torce, il cui riverbero si infrangeva contro le vetrate creando una cortina di una luminosità opalescente. «Mi aspettavo di vedere Beatrice, questa sera. Perché non l'hai portata?» Filippo porse un bicchiere di vino a Cesare e insieme uscirono nell'aria fresca della sera. «È ancora troppo giovane e tu sei un debosciato.» Il giovane erede del Conte Mocenigo rise e mandò giù una corposa sorsata di vino. «Dovremmo fare una scommessa su di lei. Se vinco, avrò il tuo permesso di baciarla.» «Dovrai rassegnarti a guardarla mentre va in chiesa» scherzò Cesare, ma Filippo ebbe la sensazione che fosse terribilmente serio. Il rumoreggiare della folla nel salone attrasse la sua attenzione e il suo sguardo fu catturato da quello assassino, vendicativo, della fanciulla della scommessa. Fece un cenno con la testa in direzione degli invitati che danzavano. «Ti guarda come se volesse ucciderti.» Cesare si voltò. Dopo aver soppesato con occhio attento ma distaccato l'espressione amara della bocca della dama, le rivolse un inchino beffardo e bevve un altro sorso di vino. «È soltanto una sgualdrina che mi provocava da tempo. Ha avuto quello che meritava.» Distolse lo sguardo, annoiato. 11
Cesare, a volte, sembrava troppo cinico persino agli occhi di Filippo. Era sempre stato così. Si conoscevano da quando, bambini, fuggendo al controllo disperato delle balie, si rincorrevano nei vicoli umidi e sporchi di Rio Canerizzo, facendo a pugni con i figli dei pescatori. Erano diventati inseparabili come fratelli. Cesare era cresciuto ostinato, bellissimo, viziato e adorato. Sin da piccolo ostentava già quella sicurezza tipica di chi dalla vita ha avuto tutto: amore, ricchezza, splendore. Lui, Filippo, apparteneva a una delle famiglie più gloriose della Repubblica: era sveglio, biondo come un angelo e allegro. Loro due, insieme, rappresentavano degnamente la spensieratezza della gioventù veneziana, ma Filippo mancava di quel carisma innato che era proprio di Cesare e che oscurava chiunque gli stesse accanto. Filippo poteva essere paragonato alla calda luce dell'ambra, Cesare allo splendore sfolgorante di un diamante nero. Anche in quel momento, il giovane Mocenigo sembrava porsi al di sopra di ciò che lo circondava. Rideva, scherzava, corteggiava, ma i suoi occhi rimanevano freddi, il sorriso di circostanza. Si sentiva superiore a ogni altro individuo presente nella sala e, in effetti, lo era: per il modo che aveva di muoversi, aggraziato e virile al tempo stesso; per l'eleganza felina che lo distingueva dagli altri gentiluomini e che, in lui, era innata. Non doveva compiere alcuno sforzo per apparire raffinato o per attirare l'attenzione. Era l'unico, tra gli uomini presenti, a portare una perla a forma di goccia al lobo dell'orecchio destro e l'unico a indossare una 12
maschera tempestata di piccoli diamanti veri. Questi vezzi femminili, che su altri sarebbero risultati eccessivi, sottolineavano in lui, per contrasto, la natura virile e l'approccio alla vita quasi ferino. Filippo, invece, portava una semplice mantellina nera ornata di piume di cigno in tinta ed era abbigliato nello stesso colore. I suoi capelli biondi brillavano come oro. Gli occhi del gentiluomo vagarono per il salone. Di colpo, catturarono la figura di Arnolfo Ariani, suo padre, e i loro sguardi si incrociarono dietro le maschere. «Aspettami qui.» Si congedò da Cesare e cercò di farsi largo tra la folla, ma la ressa gli impediva di avvicinarsi al genitore. Scorse sua madre seguire Arnolfo in una delle camere che si aprivano lungo lo stretto corridoio alla fine del portego. A stento Filippo riuscì ad aprirsi un varco tra un gruppetto di dame discinte e ubriache che, tra risate argentine, protesero le braccia e tentarono di afferrarlo, ma infastidito lui se ne liberò e riuscì finalmente a raggiungere la porta della stanza. Dall'interno, provenivano una voce maschile cupa e alterata e un lamento femminile sommesso e sofferto. Filippo mise la mano sul battiporta e fece per aprire, ma qualcosa lo fermò. Parole spezzate, frasi dette a metà: tradimento, mostro, guerra... Poi, il pianto improvviso, secco, di sua madre. Non poteva più indugiare. Entrò. La prima cosa che vide fu la mano stretta, come un artiglio, intorno al fragile polso della donna in ginoc13
chio e il suo viso disperato quando si volse a guardarlo. Filippo non si fermò a riflettere. Furioso, si scagliò contro il padre e lo spinse via. «Madre!» Si chinò e l'aiutò a rialzarsi. «State bene?» Lei rimase muta, la bocca tirata in una piega amara. Alcune ciocche di capelli, sfuggite all'acconciatura ormai disfatta, le ricadevano sul viso conferendole un'aria trasandata. La maschera era volata via, rivelando due profonde rughe ai lati del naso. «Non ti immischiare, Filippo!» Arnolfo Ariani era fuori di sé. Rosso in viso, con le vene del collo gonfie e gli occhi che gli fuoriuscivano dalle orbite, gli si avventò contro. Fu uno scudo umano che gli si parò davanti, quello di sua moglie, che si frappose tra lui e il figlio. «Non azzardatevi a toccarlo.» Lo scricciolo indifeso, che era stata Laura Ariani pochi attimi prima, aveva lasciato il posto alla grinta di una leonessa. Arnolfo sollevò il braccio per colpirla, ma la presa d'acciaio di Filippo lo bloccò. Non gli avrebbe permesso di toccarla, non davanti ai suoi occhi. La manica dell'ampio abito da antico romano di Ariani scese, rivelando un segno sulla pelle dell'avambraccio, una spirale di un verde acceso che l'uomo, liberandosi dalla stretta del figlio, si affrettò a ricoprire subito. Gli occhi di Filippo divennero vitrei sotto il riflesso dei raggi della luna che, dal lucernario sul soffitto, baluginavano all'interno della stanza. Era un serpente quello che aveva visto tatuato sul 14
polso di suo padre, sì, ne era certo. Un serpente... simbolo del male, ma anche di rinascita. Lo sapeva, grazie agli insegnamenti del suo precettore che era stato, oltre che un uomo di cultura classica, anche un esperto alchimista. Perché Arnolfo se l'era tatuato? Cosa poteva significare? Filippo si voltò verso Donna Laura, lo sguardo interrogativo, l'espressione trasognata. Sua madre abbassò il viso e rimase in silenzio. Aveva paura. Era terrorizzata dal marito. Prima che il ragazzo potesse parlare e prima che tutte le domande che gli ronzavano in testa trovassero risposta, suo padre lo anticipò bruscamente. «Non sono cose che ti debbano interessare. Vattene e lasciaci soli.» Il volto del giovane Ariani divenne di pietra. Non si mosse, i pugni stretti lungo i fianchi. Non era la prima volta che sua madre subiva le scenate e le percosse di Arnolfo, che era un uomo ambizioso, violento e dispotico. Lui stesso era stato più volte rinchiuso nei sotterranei per aver disobbedito alla legge paterna. Non riconosceva e non aveva mai accettato l'autorità di quel bruto e non avrebbe permesso, ancora una volta, che la madre pagasse sulla propria pelle le conseguenze dei suoi scoppi d'ira. «Ti prego, angelo mio, vai.» Donna Laura si era aggrappata al suo braccio e lo scrutava con occhi colmi di angoscia. Filippo le accarezzò la nuca con una mano. Un tocco leggero, delicato, denso di amore. 15
«Ti prego, lasciaci» lo supplicò di nuovo Laura con voce flebile. Lui inspirò e serrò la mascella. Come poteva farlo? Cercò il volto di suo padre cristallizzato in un'espressione di freddo compiacimento. «Me ne vado» sentenziò con il piglio di una dichiarazione di guerra. «Ma badate bene di non sfiorare mia madre nemmeno con un dito, o stavolta vi pentirete amaramente delle vostre malefatte.» Avvicinò il viso a quello della donna e la baciò su una guancia. «Vi attendo nel salone.» Poi, dopo aver lanciato un'ultima, velenosa occhiata ad Arnolfo, aprì la porta e se la sbatté con violenza alle spalle. Si immerse di nuovo tra la calca variopinta del salone. La festa scemava e le prime luci dell'alba irrompevano nel buio della notte. Intravide la figura di Cesare, appoggiato di schiena a uno dei camini, un bicchiere in una mano e un braccio a cingere la vita di una dama dalla maschera di pavone e dal vestito indecentemente scollato, che gli si premeva contro senza vergogna. Appena lo scorse, l'amico la spinse via da sé, con fastidio, e gli si fece incontro. Filippo notò che riusciva a stento a reggersi in piedi. «Sei completamente ubriaco. Dovresti tornare a casa.» Le labbra di Cesare si incurvarono in un sorriso sornione. «Non ancora.» Socchiuse gli occhi come un gatto e bevve un altro sorso. Fece per muoversi, ma inciampò. Filippo fu pronto a sorreggerlo e lo rimise in posi16
zione eretta. «Ti faccio accompagnare» decise allora. Cesare scosse la testa. «N... no... so cavarmela da s... solo» biascicò con voce impastata, mentre tentava di annodarsi il giustacuore slacciato. La folla, intorno a lui, aveva visi distorti, sfocati. Sentiva le gambe molli, tremanti. Se non fosse riuscito a raggiungere Palazzo Mocenigo a causa di quella colossale sbornia, avrebbe dormito in un meandro buio di qualche calle. D'altronde, non era certo la prima volta che sua madre mandava un servo a ripescarlo nei vicoli. «Ti aspetto più tardi.» Salutò l'amico, cercando di darsi un contegno, ma era davvero difficile apparire serio, quando tutto il mondo intorno girava vorticosamente. Filippo lo accompagnò nel vestibolo e gli mise il mantello sulle spalle. «Fatti una bella dormita.» Cesare si avvolse intorno al corpo il leggero drappo di velluto, gli strizzò l'occhio e uscì nella fresca brezza del primo mattino. L'alba rischiarava ormai timidamente la laguna e accarezzava i canali con le sue dita impalpabili, poggiandovi sopra il proprio manto opalescente che conferiva all'acqua i colori del miraggio. Cesare si sfilò la maschera che gli copriva il volto e scosse leggermente il capo. La fiamma tremolante delle torce, ancora accese lungo le calli, fece rilucere di bagliori bluastri il nero corvino dei suoi capelli. Palazzo Mocenigo si ergeva a ridosso del Canal Grande e vi specchiava l'armoniosa e appuntita facciata moresca. Cesare affrettò il passo e il tappert, il corto mantello ornato di zibellino che portava gettato con noncuranza 17
sulle spalle, ondeggiò lungo il dorso dritto e ben modellato. Di lì a breve, si sarebbe riscaldato al tepore dei bracieri posti nella sua camera da letto fino a sprofondare in un sonno pesante, per svegliarsi solo al vespro, momento in cui sarebbe sceso per cenare nel salone. Affrettò il passo, pregustando la soffice carezza dei cuscini e il frusciare delle coperte di seta, mentre sentiva sempre più pressante il dannato bisogno di ritrovarsi nell'intimità dei propri appartamenti e di chiudere il mondo fuori. La testa gli pulsava in maniera dolorosa e fitte acute gli dilaniavano le tempie; aveva bevuto tanto, troppo vino e quel malessere diffuso, concluse tra sé, era il pegno da pagare per la sbronza. Quello dagli Ariani era stato l'ennesimo ballo della stagione, sfarzoso e scabroso quanto bastava per attirare la gioventù dorata di Venezia. Cesare sorrise tra sé: essere un Mocenigo aveva molti vantaggi, essere Cesare Mocenigo ne aveva innumerevoli. A diciotto anni, era considerato il più bel giovane della città, tanto che perfino il maestro Pisanello lo aveva quasi implorato di posare, nelle vesti di un dio greco, per una serie di affreschi nel Palazzo Ducale. E Cesare, vanesio com'era, aveva accettato solo per il piacere di concedere un favore all'artista più in voga del momento. Pochi attimi dopo, arrivò davanti al portone del palazzo e lo trovò spalancato. Forse, qualche servitore era già uscito per recarsi al mercato del Canal Grande e aveva dimenticato di richiuderlo alle proprie spalle, ma a quell'ora i banchi erano ancora chiusi e, poi, lui 18
conosceva bene l'accortezza della servitù del padre. Di colpo, si era alzato un vento sferzante che spirava nella calle con un fischio sinistro. Cesare indugiò, scosso dal terribile presagio che cominciava a farsi strada nella sua testa. L'antro, appena illuminato, gli apparve come una bocca infernale pronta a divorarlo. Un latrato ruppe il silenzio: un lamento inquietante, sofferto, straziato. Cesare sobbalzò e portò d'istinto la mano al pugnale. Poi, con timore, oltrepassò il portone aperto. Un fascio di luce penetrava dall'apertura nella volta del soffitto e rischiarava la corte interna del palazzo. Tutto taceva. «Giove! Marte!» Cesare chiamò i suoi cani, senza accorgersi che stava urlando, ma l'unica risposta che ottenne fu quella del sibilo di Eolo che faceva sbattere gli scuri delle finestre. «Giove, Marte! Dove siete, belli? Venite qua!» gridò ancora, il cuore in gola. Fu in quel momento che li vide. I due mastini si trovavano nel vano semibuio del sottoscala, immersi in una pozza di sangue. Cesare corse e si inginocchiò al loro fianco. Chiuse gli occhi, senza riuscire a trovare il coraggio di guardare lo scempio che ne era stato fatto, poi li riaprì. Giove presentava uno squarcio aperto sul fianco sinistro, ma respirava ancora; il ventre di Marte era stato squartato fino alla gola e gli intestini erano sparsi sul pavimento. Cesare inspirò forte e strinse i pugni. «Mio Dio, chi vi ha fatto questo... perché? Perché?» urlò, disperato. Allungò una mano e li accarezzò un'ultima volta. Poi estrasse il pugnale e, con la morte nel cuore, recise la gola a Giove, ponendo così fine alla sua sofferenza. 19
Si rialzò, le gambe che gli tremavano, e lanciando intorno a sé occhiate guardinghe imboccò la rampa di scale che conduceva al piano nobile. L'aurora ammantava le grandi vetrate del portego, avvolgendo gli affreschi sul soffitto di un chiarore lattiginoso. Cesare si avvicinò alla rastrelliera d'armi e prese uno spadino. Quel silenzio assoluto gli feriva le orecchie, peggio di una confusione di suoni. Se i nemici si fossero nascosti da qualche parte, li avrebbe stanati e ammazzati senza alcuna pietà, così come loro avevano fatto con i suoi cani. Scandagliò con occhio vigile ogni anfratto e nicchia, senza riuscire a scorgere anima viva. Dov'era la servitù? E dov'erano le donne di sua madre? Il silenzio continuava ad annidarsi ovunque. Una sensazione opprimente gli pesava sul cuore, facendogli presagire una terribile verità. In preda a quel tipo di furore dettato dalla disperazione, raggiunse la camera d'oro e si fermò. Un respiro, poi un altro più profondo, infine poggiò entrambe le mani sul doppio battente e lo spalancò con violenza. Sangue. Un fiume di sangue. Sangue ovunque. Sul pavimento, sulle mura affrescate, sui mobili. Sangue scuro, sangue amato: il sangue della sua famiglia. Panico. Dolore. Follia. Cesare si sentì soffocare. Si sentì morire. La sua mente captò a tratti la scena del massacro: la madre con le gonne sollevate e il viso sfigurato e Beatrice, l'adorata sorella minore, inchiodata al tavolo da uno spadone. I corpi delle donne del seguito e dei servi, trucidati e squartati senza alcuna pietà, avevano assunto posi20
zioni scomposte e innaturali e formavano uno scenario grottesco, partorito dal peggior incubo. Cesare vacillò e si portò una mano al petto, mentre una fitta acutissima lo dilaniava dall'interno. Una forte nausea gli attanagliò lo stomaco e un conato di vomito gli riempì la bocca. Il giovane si accasciò a terra e rigettò, le viscere che si contraevano come a squarciarsi. Le ore cadevano lente nella penombra: uno strazio implacabile che dilatava il tempo e gli perforava la mente. Rimase immobile, estraniato, in silenzio, prigioniero del suo stesso orrore. Tornò ad alzarsi, avvertendo dentro di sé quella freddezza che solo una pena inclemente sa donare, e con gesti attenti e premurosi si occupò delle sue donne. Le depose composte sul pavimento, le coprì con il proprio mantello e si inginocchiò accanto a loro. Una lacrima gli solcò il viso e con rabbia l'asciugò con il dorso della mano. Deglutì cercando di ingoiare il nodo che gli serrava la gola, ma le lacrime continuavano a scendere, suo malgrado. Una vita di ricordi felici gli attraversò la mente, una vita che per lui non aveva più alcun senso. La luce tremolante delle torce, ancora accese, rendeva la camera tetra, simile a una bocca demoniaca. E tutto quel sangue... No, non poteva essere reale. Di lì a poco si sarebbe svegliato e sua madre lo avrebbe accolto con un dolce sorriso, accarezzandogli i capelli con gesto lieve, sfiorandogli la fronte con le labbra, come quando era bambino. Ma uno sguardo al corpo straziato di Beatrice lo trascinò di nuovo tra i demoni crudeli della follia. Un 21
grido scoppiò nella sua testa, un furore cupo, che non aveva nulla – nulla! – di umano. Piegò la testa di lato e le scostò una ciocca di capelli dal viso. Beatrice, la sua dolce Beatrice... Si chinò su di lei e le prese una mano, piccola e candida, tra le proprie, portandosela alle labbra. Com'erano state abili quelle dita nel ricamo, quante ballate avevano suonato con il liuto per lui e con quale amore solevano rammendargli le camicie di bisso... Oh, Beatrice... In quel momento, nel suo campo visivo apparve una macchia rosso vivo. Cesare lasciò andare dolcemente la mano della sorella e si alzò. Raccolse il pezzo di stoffa dal pavimento e un brivido lo scosse davanti all'aquila coronata dei Montefeltro che, poggiata sull'elmo piumato, lo fissava grifagna. Strinse forte nel pugno il tessuto e vagò ferocemente con gli occhi alla ricerca dell'ipotetico colpevole. Dove sei, bastardo? Dove sei, assassino di donne e bambine? Un grido roco, animalesco, gli fuoriuscì dalla gola, mentre con violenza scaraventava lontano da sé il mantello con lo stemma della famiglia urbinate. Inspirò per inalare aria, percependo l'odore acre, ferroso, del sangue, sollevò il viso e vide la propria immagine riflessa nel grande specchio chiazzato da mille rivoli rossi. Chi sei tu per esserti salvato? Dov'eri, quando imploravano il tuo aiuto? Se fossi stato qui, non sarebbe successo. Quell'ultimo pensiero lo trapassò come il colpo di una spada. 22
Afferrò un vaso, lo scagliò contro lo specchio e il prezioso cristallo esplose in schegge lucenti; poi si avvicinò e ammirò di nuovo la propria immagine scomposta, quasi grottesca, nei frammenti rimasti. Un sorriso amaro gli alterò i lineamenti. Cosa ne farai della tua faccia d'angelo? Dov'eri, Cesare? Dov'eri, maledetto? La mano scese a stringere l'elsa del pugnale alla cintura e il braccio fece ciò che la sua mente aveva già deciso. Portò l'arma al viso, la puntò all'altezza dello zigomo e conficcò la lama nella carne, poi con un unico taglio deciso si squarciò il volto sino al mento. Il coltello aprì un orribile sfregio, ma Cesare non fiatò, non si lamentò, non gemette. Raccolse il mantello con l'insegna dei Montefeltro, ne strappò un pezzo e lo intinse nel proprio sangue e poi in quello delle due donne, legandoselo stretto al polso. Vendetta era giurata. Rimase seduto a lungo alla tavola dei banchetti, a scrutare i corpi della madre e della sorella, allargando la visione sullo scempio delle decine d'altri cadaveri sparsi. Non si mosse, quando il sole rosseggiò sulla laguna né quando dei passi risuonarono per le scale e una figura si stagliò contro lo stipite della porta. Cesare sollevò appena gli occhi neri e vide Filippo Ariani. Vacillando come un ubriaco davanti a quella carneficina, l'amico fece un passo indietro, poi crollò a terra, sconvolto. «Mio Dio, Cesare...» farfugliò, scosso dai singhiozzi, rialzandosi a fatica e avvicinandosi a lui con passo malfermo. Lo abbracciò, in lacrime. L'odore dolciastro, terribi23
le, di carne viva e di sangue gli dava il voltastomaco. Cesare non reagì, limitandosi a fissare un punto lontano. Filippo si scostò da lui, impressionato. Lo guardò negli occhi e non lo riconobbe: quello non era Cesare, il suo compagno d'infanzia; quel volto stravolto e orribilmente sfregiato non poteva appartenere al suo migliore amico. E quello sguardo! Non aveva più la scintilla vitale che lo aveva fatto brillare. Era cupo, duro, spietato e faceva paura. «Filippo...» Cesare scorse il viso dell'amico, come se fosse stato quello di un estraneo. «Devi fuggire, Cesare, prima che tutta Venezia lo sappia, prima che il Consiglio dei Dieci apra un'inchiesta e mandi le sue truppe. Devi fuggire, nasconderti.» Cesare scattò in piedi. Appariva controllato, ma Filippo lo conosceva troppo bene per non sapere che sotto l'apparente padronanza si celava una violenza distruttiva. Era solo una questione di tempo: Cesare era un sanguigno, un istintivo, un passionale e alla fine sarebbe esploso in maniera dirompente e devastatrice, lasciandosi dietro una scia di sangue e di cadaveri. Filippo lo osservò mentre si chinava sulla madre e le posava le labbra sulla fronte, poi lo vide prendere un pezzo di stoffa dal tavolo e portarselo al volto. «C'è sopra ancora l'odore del sangue della mia famiglia.» Glielo lanciò e il giovane trasalì alla vista dello scudo dei Montefeltro. La voce irriconoscibile, cavernosa e stentorea, Cesare giurò sull'altare del suo strazio e della sua rappresaglia: «Oggi mi sei testimone, Filippo. Non avrò pace finché non avrò ottenuto la mia vendetta». 24
Ariani serrò forte tra le mani il mantello. «Montefeltro manderà di nuovo i suoi uomini per ucciderti.» Il giovane Mocenigo staccò dal muro una delle spade del padre e se la infilò nella cinta. «Aiutami a dare sepoltura ai miei cari, poi andrò in Valle Imagna a cercare mio padre.» «Verrò con te.» Filippo gli posò una mano sul braccio. «E sia.» Cesare Mocenigo era morto. Era morto allora, in quel maledetto giorno.
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Capricci di una gentildonna NICOLA CORNICK Inghilterra, 1810 - Nat e Lizzie sono amici da sempre. Poi lui decide di sposare una ricca ereditiera, e la giovane gentildonna capisce di volerlo per sé! Ma come impedire le nozze?
Il segreto del Falco DAWN MACTAVISH Cornovaglia, 1812 - Lady Jenna sposa a sorpresa il Conte di Kevernwood. Dopo la prima notte di passione, però, scopre che l'affascinante marito le nasconde qualcosa. E decide di indagare.
D'amore e di ventura ELISABETTA BRICCA Italia, 1438 - Cesare Mocenigo è un capitano di ventura bello e dannato che s'innamora dell'unica donna che non può avere. Perché Viola Ripamonti Sforza è la nipote del suo peggior nemico.
Sguardo da bandito LINDA LAEL MILLER Arizona, 1907 - Wyatt è pentito del proprio passato da fuorilegge e Sarah sembra la donna giusta per rimetterlo sulla retta via. Eppure, anche lei ha più di un segreto da tener ben celato...
Il bacio del visconte MARGARET MOORE Inghilterra, 1820
Lord Bromwell si innamora di un'irreprensibile gentildonna. E Lady Eleanor Springford ricambia il suo affetto. Possibile che sia tutto un imbroglio?
Incantesimo francese JUNE FRANCIS
Francia - Inghilterra, 1475
Lady Anna Fenwick è accusata di essere una strega. Jack Milburn però non crede a certe superstizioni. Eppure il fascino di Anna lo induce a dubitare.
La dama inglese CAROL TOWNEND Wessex , 1070
Emma di Fulford è una nobildonna con la reputazione rovinata. Sir Richard è uno stimato cavaliere normanno. Che per lei dovrà scegliere tra la ragione e il cuore.
Le avventure di una gentildonna CAROLYN JEWEL
Inghilterra - Turchia, 1811
Sabine Godard è in Turchia con l'anziano zio. Poi un malvagio pascià la rinchiude nel proprio harem. Ma il Marchese di Foye, sfidando il buonsenso, corre a salvarla.
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