H2815 nell'harem dello sceicco

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CAROL MARINELLI

Nell'harem dello sceicco


Titolo originale dell'edizione in lingua inglese: Banished to the Harem Harlequin Mills & Boon Modern Romance © 2012 Carol Marinelli Traduzione di Anna Vassalli Tutti i diritti sono riservati incluso il diritto di riproduzione integrale o parziale in qualsiasi forma. Questa edizione è pubblicata per accordo con Harlequin Enterprises II B.V. / S.à.r.l Luxembourg. Questa è un'opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o persone della vita reale è puramente casuale. Harmony è un marchio registrato di proprietà Harlequin Mondadori S.p.A. All Rights Reserved. © 2013 Harlequin Mondadori S.p.A., Milano Prima edizione Collezione Harmony agosto 2013 Questo volume è stato stampato nel luglio 2013 presso la Rotolito Lombarda - Milano COLLEZIONE HARMONY ISSN 1122 - 5450 Periodico bisettimanale n. 2815 del 9/08/2013 Direttore responsabile: Alessandra Bazardi Registrazione Tribunale di Milano n. 22 del 24/01/1981 Spedizione in abbonamento postale a tariffa editoriale Aut. n. 21470/2LL del 30/10/1981 DIRPOSTEL VERONA Distributore per l'Italia e per l'Estero: Press-Di Distribuzione Stampa & Multimedia S.r.l. - Via Trentacoste, 7 - 20134 Milano Gli arretrati possono essere richiesti contattando il Servizio Arretrati al numero: 199 162171 Harlequin Mondadori S.p.A. Via Marco D'Aviano 2 - 20131 Milano


Prologo «Tornerò lunedì.» Il principe ereditario, sceicco Rakhal Alzirz, era irremovibile. «Passiamo ad altro.» «Ma il re esige che lasci immediatamente Londra.» All'insistenza di Abdul, Rakhal irrigidì la mascella. In effetti era raro che Abdul insistesse dopo che il principe aveva espresso la propria opinione in merito a un certo argomento, perché difficilmente cambiava idea e, soprattutto, non prendeva ordini dall'assistente. Ma in questo caso l'insistenza poteva essere giustificata perché Abdul riferiva ordini che provenivano direttamente dal re. «Il re vuole assolutamente che tu sia ad Alzirz domani. Non accetta obiezioni.» «Parlerò io con mio padre» s'impegnò Rakhal. «Non sono disposto ad accettare alla cieca il suo volere.» «Ma il re è malato...» Abdul chiuse gli occhi, il dolore e la preoccupazione evidenti sul viso. «E proprio per questo mi sposerò entro la fine del mese» lo interruppe Rakhal. «Capisco che è importante per il mio popolo sapere che il principe ereditario è sposato, soprattutto quando il re è malato, ma...» Rakhal non concluse la frase. Non sentiva la necessità di dare spiegazioni ad Abdul, quindi cambiò argomento, 5


lo sguardo che lo sfidava a interromperlo. «Perciò...» Non attese il cenno di assenso dell'assistente, «discutiamo invece di un regalo appropriato per celebrare la notizia giunta questa mattina da Alzan. Voglio esprimere le mie congratulazioni allo sceicco Emir di Alzan.» Un sorriso soddisfatto gli increspò le labbra perché, nonostante le notizie sulle condizioni di salute del padre, nonostante l'imposizione di tornare subito ad Alzirz e scegliersi una moglie, quella settimana gli aveva portato almeno una buona notizia. Anzi, due piccole meravigliose notizie! «Qualcosa di rosa» disse Rakhal e, per la prima volta quella mattina, anche Abdul sorrise, perché era davvero una buona notizia. La nascita di due gemelle alla corte di Alzan dava un periodo di respiro al regno di Alzirz. Non lungo perché, senza dubbio, lo sceicco Emir e sua moglie avrebbero presto avuto un erede maschio, ma per il momento c'era un buon motivo per sorridere. Molto tempo prima Alzirz e Alzan erano stati un paese solo – Alzanirz – ma in seguito a lotte interne il sultano dell'epoca aveva cercato una soluzione. La nascita dei suoi figli, due gemelli identici, e l'impossibilità di individuare con certezza il primo nato, gliene aveva fornito una, e alla sua morte il regno di Alzanirz era stato suddiviso tra i suoi figli. Doveva essere una soluzione temporanea, o almeno temporanea nell'accezione del deserto – perché i matematici e gli indovini del tempo avevano predetto che nel corso degli anni, sia pure centinaia di anni, i due paesi sarebbero stati riuniti. E non poteva essere altrimenti, perché in ognuno dei due paesi era stata promulgata una legge sulla successione che, a lungo ter6


mine, avrebbe portato a una riunificazione. Una legge che solo il regnante dell'altro paese avrebbe potuto revocare. Ad Alzirz, il paese in cui Rakhal sarebbe stato presto re, la legge imponeva che il sovrano potesse prendere una sola moglie, e il primogenito, maschio o femmina, sarebbe stato l'erede. Sua madre, Layla, cagionevole di salute, era morta mettendo alla luce Rakhal, l'unico figlio e il paese era rimasto con il fiato sospeso mentre il piccino, nato prematuro, lottava per sopravvivere. Per un certo periodo parve che le predizioni degli anziani assumessero una certa consistenza e che il regno di Alzirz sarebbe passato ad Alzan, perchÊ come avrebbe potuto sopravvivere un bimbo cosÏ piccino? Ma Rakhal non solo era sopravvissuto ma, fuori dal ventre materno, si era irrobustito. Ad Alzan la legge era diversa: alla morte della moglie, il re poteva sposarsi di nuovo, ma l'erede doveva essere maschio. Per ora Emir era padre di due femmine. C'era da festeggiare ad Alzirz... il loro paese era salvo. Per adesso. Avendo compiuto i trent'anni, Rakhal non poteva piÚ rimandare. Aveva discusso in proposito con il padre, tuttavia ora era costretto a scegliersi una moglie. Una moglie che avrebbe portato a letto soltanto nel periodo fertile, che avrebbe visto soltanto per il rapporto fisico e in occasioni formali. Lei sarebbe vissuta nel lusso, viziata e coccolata, in un'ala speciale del palazzo; si sarebbe occupata dell'educazione dei figli che lui avrebbe visto raramente. Emir, invece, avrebbe visto i suoi figli... Rakhal provò un certo astio al pensiero del rivale, 7


ma non lo riconobbe per ciò che era: invidia... perché sapeva di avere tutto. «Hai qualche idea per il regalo?» Abdul s'insinuò nei pensieri di Rakhal. «Forse due diamanti rosa?» buttò là Rakhal. «No, devo pensarci. Voglio qualcosa di più particolare... qualcosa che quando Emir lo riceve si senta ribollire.» Ovviamente lui ed Emir, quando s'incontravano erano estremamente cortesi, ma sussisteva una profonda rivalità, una rivalità che risaliva a prima della loro nascita e che sarebbe stata trasmessa per generazioni a venire. «Una volta tanto mi divertirò a scegliere un regalo.» «Molto bene.» Abdul raccolse le proprie carte e si accinse a lasciare lo studio di Rakhal nella lussuosa suite d'albergo. Ma arrivato alla porta non poté fare a meno di accertarsi: «Parlerai con il re, vero?». Rakhal lo congedò con un cenno della mano. Non era necessario rispondere. Aveva detto che avrebbe telefonato e questo era sufficiente. In effetti telefonò a suo padre. Era l'unica persona che non si lasciava intimidire dal re. «Devi ritornare immediatamente» esordì il re. «Il popolo comincia a preoccuparsi e deve avere la certezza che hai scelto una moglie. Mi auguro di andare nella tomba sapendo che hai avuto un erede. Devi tornare e sposarti.» «Certo» rispose calmo Rakhal, perché su questo punto non c'erano discussioni. Ma rifiutava di assecondare il padre... avevano due personalità forti e orgogliose che spesso si scontravano. Entrambi erano nati con l'attitudine al comando e non sopportavano che si dicesse loro cosa fare. In realtà c'era un altro motivo che imponeva a Ra8


khal di mantenere la propria posizione e non tornare fino a lunedì. Se fosse salito subito su un aereo, se avesse obbedito senza protestare, suo padre avrebbe capito che stava realmente per morire. E stava morendo. Conclusa la conversazione, Rakhal chiuse gli occhi e si prese il capo tra le mani. Il giorno precedente aveva parlato a lungo con il medico di corte e sapeva che suo padre aveva pochi mesi di vita. Le conversazioni con suo padre erano sempre difficili. Da bambino Rakhal era stato allevato dalle bambinaie e aveva visto il padre solo in occasioni speciali. Una volta, da adolescente, aveva raggiunto il padre nel deserto per apprendere la saggezza degli anziani. Adesso, invece, quando il comando stava per passare a lui, pareva che suo padre volesse discutere con lui di ogni cosa. Era uno dei motivi per cui Rakhal amava Londra. Gli piaceva la libertà di quella terra straniera in cui le donne parlavano liberamente di far l'amore e chiedevano al partner cose che ad Alzirz non era possibile chiedere. Voleva godersela ancora qualche giorno. Aveva un profondo legame con quella città, un legame di cui mai si parlava. Solo per caso aveva scoperto di essere stato concepito proprio in quell'albergo in cui risiedeva... un'infrazione alle leggi del deserto che non solo era costata a sua madre la vita, ma che minacciava seriamente il paese che presto avrebbe governato. Si accostò alla finestra che dava su un parco e su una strada del centro e osservò il panorama grigio, la 9


pioggerellina fitta e le strade trafficate e piene di vita. Non poteva capire in pieno il fascino di quel paese, perchĂŠ lui apparteneva al deserto, e al deserto sarebbe ritornato. Il deserto che gli stava intimando di tornare a casa.

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1 L'agente di polizia non poteva avere un'aria più annoiata mentre intimava a Natasha di compilare il modulo. Sì, nello schema generale delle cose non era piacevole che le avessero rubato la macchina e non era neppure una tragedia, ma era stata l'ultima goccia, e Natasha avrebbe appoggiato il capo sulla scrivania e sarebbe scoppiata a piangere. Ovviamente non lo fece. Doveva semplicemente venire a patti con tutto ciò che le capitava... quell'anno era così. I lunghi capelli rossi erano fradici per la pioggia e gocciolarono sul bancone quando chinò il capo. Li scostò dagli occhi con dita gelate. Se proprio dovevano rubarle la macchina, avrebbero dovuto farlo tra un paio di giorni, quando lei non ne avrebbe saputo niente. Avrebbe dovuto trascorrere quella triste giornata organizzando una vacanza. Era l'anniversario della morte dei suoi genitori e, in qualche modo, doveva accettare la situazione. La sua intenzione era di proseguire con la solita vita, ma alla fine aveva ascoltato il suggerimento degli amici di prendersi una pausa – una vera pausa – non necessariamente costosa. 11


Come supplente, non era stato difficile farsi sostituire per un paio di settimane e, proprio quel giorno, dopo la visita al cimitero, aveva stabilito di prenotare una vacanza nel luogo più caldo e più a buon mercato del pianeta. Invece si trovava in un commissariato, evitando educatamente di ascoltare la donna al suo fianco che lamentava un incidente domestico. La voce dell'agente donna s'interruppe all'improvviso. Anzi l'attività nell'intera stanza parve fermarsi e Natasha alzò gli occhi mentre una porta si apriva. Notò che la donna poliziotto arrossiva e, seguendo il suo sguardo, ne capì il motivo. Stava entrando l'uomo più affascinante che avesse mai visto. Decisamente il più affascinante, si corresse mentre l'uomo superava il bancone. Era alto, dall'aspetto esotico, dotato di un'eleganza innata anche con una camicia strappata e un occhio tumefatto. Aveva i capelli scompigliati e la barba lunga, e lo strappo alla camicia permetteva la visione di una spalla ampia e muscolosa. Mentre cercava di abbottonarsi la camicia, Natasha distolse lo sguardo non prima di aver scorto un petto poderoso con una leggera peluria scura. A quel punto dovette sforzarsi per ricordare il numero di targa della macchina che possedeva da più di cinque anni. «Forse le conviene andare a sedersi per compilare la denuncia» suggerì la donna poliziotto. Natasha era certa che volesse solo essere d'aiuto tuttavia, adesso che l'uomo si era mosso, lei le bloccava la visuale del prigioniero esotico. Comunque non era male sedere di fronte e di tanto in tanto alzare lo sguardo dalla denuncia per osservarlo mentre infilava la cintura nei passanti e poi, quando gli furono consegnate, calzare le scarpe. 12


«Sicuro che non vuole un passaggio a casa?» gli domandò un sergente. «Non è necessario.» La voce era bassa, profonda, con un accento straniero e, a dispetto delle circostanze, l'uomo esibiva una certa alterigia mentre prendeva dalle mani del sergente la giacca, scuotendola prima di indossarla. Il gesto, mentre qualche granello di polvere cadeva sul pavimento, era curiosamente insolente, come se dicesse ai presenti che lui era superiore a tutto quanto. «Siamo davvero spiacenti per il malinteso...» riprese il sergente. Velocemente Natasha abbassò lo sguardo sul modulo mentre lui si avvicinava alla panca dov'era seduta, posando subito dopo un piede al suo fianco per allacciarsi la scarpa. Fu raggiunta da un leggero profumo, le ultime tracce di colonia miste a un aroma tipicamente virile, e benché cercasse di resistere, benché facesse di tutto per impedirlo, il corpo agì di sua iniziativa e, a dispetto delle migliori intenzioni, Natasha alzò gli occhi. Vide un viso squisito, occhi che parevano neri per poi assumere la tonalità blu indaco del cielo a mezzanotte. Lui le permise l'esplorazione, le permise di perdersi nel suo sguardo, poi la privò del piacere tornando a concentrarsi sulle scarpe e per un attimo Natasha si sentì persa. Talmente persa che non voltò il capo, ma rimase a guardarlo, la bocca semiaperta, mentre lui serrava le labbra quando il sergente gli rivolse di nuovo la parola. «Come ho detto prima, Vostra Altezza...» Natasha spalancò del tutto la bocca. Non c'era da stupirsi che il sergente fosse così mortificato. Ci sarebbe stato un incidente diplomatico. 13


«Posso solo scusarmi...» «Lei faceva il suo lavoro.» Allacciate le scarpe, si alzò in tutta la sua rimarchevole altezza. «In primo luogo non sarei dovuto essere là, adesso lo capisco.» Guardò l'agente e annuì. Un cenno che era un impegno, che confermava che stava dando la propria parola. «È tutto dimenticato.» Il sollievo si diffuse sul viso dell'agente, anche se Sua Altezza schioccò le dita. «Ho bisogno del mio cellulare.» «Certo.» Natasha moriva dalla voglia di sapere cosa fosse successo, di che malinteso si fosse trattato, ma sfortunatamente non poteva dilungarsi oltre fingendo di compilare la denuncia, così fu costretta ad andare al bancone per riconsegnare il modulo. Percepiva il suo sguardo sulle proprie spalle mentre parlava con la donna poliziotto e, quando si voltò per andarsene, i loro occhi per un attimo s'incontrarono brevemente per la seconda volta. Brevemente, perché Natasha distolse subito lo sguardo percependo in quegli occhi uno strano magnetismo che non sapeva spiegare razionalmente. «Buongiorno.» Il saluto era deliberatamente rivolto a lei che si sentì costretta a riportare lo sguardo sull'uomo che la salutava in una circostanza in cui sarebbe stato normale ignorare un'altra persona. Era del tutto inappropriato avviare una conversazione in quel luogo, e Natasha arrossì restituendogli il saluto. «'giorno.» Ci fu un minimo rialzo delle sue labbra, quasi impercettibile, quasi che lui avesse trovato piacevole la sua voce, e inoltre continuava a guardarla. Natasha avvertì una strana sensazione di pericolo e 14


il cuore partì al galoppo, il respiro divenne affannoso. L'istinto le suggeriva di correre, soprattutto quando quelle labbra si rialzarono un poco di più assestandosi in qualcosa di simile a un sorriso. Era una sorta di invito. Il corpo le intimava di scappare... ma non da lui. «Grazie.» Natasha si rivolse alla donna poliziotto ringraziandola per la cortesia poi, non avendo scelta, passò accanto all'uomo e raggiunse l'uscita. Fu un'impresa quasi impossibile, perché non era mai stata tanto consapevole non solo di lui, ma del proprio corpo: l'eco dei passi mentre gli passava accanto, il fremito delle narici che ancora una volta inspirarono il suo aroma, l'impatto del fuoco dei suoi occhi che la seguivano fino alla porta. Fu un sollievo essere fuori sotto la pioggia perché mai le era successo che un uomo avesse un tale effetto su di lei. Affrettò il passo e si mise a correre quando scorse l'autobus. Ma il mezzo pubblico quasi le sbatté le portiere in faccia, lasciandola sotto l'acqua, con la netta sensazione di cosa sarebbe successo. Cercò di non guardare, si rifugiò sotto la pensilina deserta della fermata cercando di nascondersi, ma ovviamente non era possibile. Lui scese i gradini del commissariato con lo smoking stazzonato e invece di rialzare il colletto come avrebbe fatto chiunque, espose il viso alla pioggia, chiuse gli occhi e si passò una mano sulla faccia come se stesse facendo la doccia. Era riuscito a rendere improvvisamente splendida un'uggiosa mattinata invernale. Era riuscito, con quella sola immagine, a rendere una giornata infame degna di essere vissuta. Natasha lo osservò mentre prendeva il cellulare per poi guardasi intorno, come se fosse disorientato, ma 15


subito fece qualche passo e lesse il nome della strada sull'angolo di un edificio. No, non viveva a Londra. Mise in tasca il cellulare e si appoggiò al muro e in quel momento si accorse che lei lo stava osservando. Natasha fece di tutto per dare l'impressione che non fosse così... deliberatamente non voltò il capo, anzi fece scorrere lo sguardo oltre lui, lungo la strada, augurandosi che comparisse un altro autobus, ma con la coda dell'occhio poteva vederlo. Sapeva che si era scostato dal muro e, ignorando il passaggio pedonale, si dirigeva verso di lei, raggiungendola sotto quello che era stato il suo riparo. Ma non era dalla pioggia che Natasha aveva bisogno di riparo. Si avvicinò a lei più di quanto consentisse la decenza e Natasha subito fu a disagio perché ben presto sotto quella pensilina ci sarebbe stata una folla in un mattino piovoso come quello, tutti pressati come sardine. Ma per il momento, essendoci solo loro due, lui era troppo vicino, soprattutto quando era certa che non avesse nessuna necessità di trovarsi lì. Non era possibile che Sua Altezza si servisse di un mezzo pubblico. Cosa ci faceva lì? Avrebbe tanto voluto saper rispondere. E poi... di che malinteso si era trattato? «Il marito è tornato a casa.» La voce calda diede una risposta alla sua tacita domanda e, nonostante le buone intenzioni di ignorarlo, Natasha si lasciò sfuggire una risata nervosa, poi si voltò a guardarlo. Se ne pentì subito, perché quegli occhi la aspettavano, quel viso, quel corpo, persino il suo aroma. Era fin troppo bello per una conversazione... meglio che le rimanesse impresso nella mente come un'immagine, un 16


ricordo, piuttosto che come un essere reale. Qualcosa la avvertiva che non doveva dare confidenza, che sarebbe stato meglio ignorarlo, ma non ci riusciva, e lo sguardo si concentrò sulla sua bocca mentre lui proseguiva. «Era convinto che fossi in casa a rubare.» Rakhal la fissò con. La vide arrossire e socchiudere le labbra in un sorriso. Ma la risposta istintiva fu di breve durata, perché notò che lei velocemente cambiava idea. Il sorriso svanì e le parole furono taglienti. «Tecnicamente lei stava rubando.» Natasha rivolse di nuovo lo sguardo alla strada e Rakhal combatté un insolito desiderio di giustificarsi. Sapeva che quanto era successo la notte precedente non lo metteva in buona luce ma, se la loro conoscenza era destinata ad approfondirsi, riteneva importante che sapesse il motivo per cui era stato arrestato. E lui aveva tutte le intenzioni di conoscerla meglio. Era di una bellezza rara. Le rosse non gli erano mai piaciute, ma quel mattino trovò il colore dei suoi capelli intrigante. Scuriti dalla pioggia, le scendevano a ciocche sull'impermeabile. Avrebbe voluto prendere un asciugamano e asciugarli, osservare i riflessi ramati che emergevano. Gli piaceva la tonalità pallida della sua pelle che tradiva così facilmente i sentimenti; adesso era rosata intorno alle orecchie. Avrebbe voluto che si voltasse a guardarlo, avrebbe voluto un altro contatto con quegli occhi verdi. «Non lo so.» Notò che le orecchie si facevano ancora più rosse. «Questa, comunque, non è una giustificazione.» Per questo motivo aveva rassicurato l'agente che non avrebbe sporto denuncia... perché lei aveva ragione: tecnicamente lui stava rubando e questo non gli 17


faceva onore. Avrebbe potuto vivere e morire cento volte cercando di interpretare le regole di quel paese – esistevano fedi matrimoniali, ma alcuni decidevano di non portarle. Esistevano titoli, ma alcuni non se ne servivano; c'erano ovviamente donne che preferivano mentire. E, in particolar modo, lo confondeva il fatto che, quando entrava in un salone, il suo fascino indiscusso faceva sì che molti anelli scivolassero in una borsetta. Ma, invece di cercare di interpretare le regole, quel mattino voleva capire quella donna. L'approccio fu diretto. «Come mai era in commissariato?» Lei fu tentata di ignorarlo, questo però avrebbe lasciato intendere l'impatto che aveva su di lei, così rispose come se si trattasse di una qualsiasi altra persona alla fermata dell'autobus, desiderosa di avviare una conversazione oziosa. «Mi hanno rubato la macchina.» «Fastidioso» considerò Rakhal osservandola mentre irrigidiva le spalle. «Un poco» borbottò Natasha. Per lei era molto più che fastidioso, ma se lui era un nobile, se era davvero ciò che le apparenze lasciavano intendere, il furto di una macchina era semplicemente un fastidio. Tuttavia era stata un po' sgarbata. Dopotutto non aveva fatto niente di male. Era la sua personale reazione a lui a essere inappropriata. «Sarei dovuta partire per una vacanza...» «Una vacanza in macchina?» Lei rise. Neanche per sogno! «No.» Si voltò leggermente verso di lui. Le pareva scortese parlare voltandogli le spalle. «Oltremare.» Lo sconosciuto socchiuse gli occhi stupendi mentre cercava di afferrare il problema. «E aveva bisogno 18


della macchina per raggiungere l'aeroporto?» Fu più semplice annuire e dire di sì, poi voltarsi e pregare che l'autobus arrivasse in fretta. Rimasero qualche attimo in silenzio, mentre l'arrivo di altre persone lo sospinse più vicino a lei. Natasha colse di nuovo il suo aroma poi, dopo un silenzio che le parve interminabile, lui riprese la conversazione e inaspettatamente la fece ridere. «Non può prendere un taxi?» Adesso si voltò del tutto a guardarlo accettando la conversazione. Rakhal si godette la vittoria così come si era goduto la breve schermaglia, perché raramente una donna non era disposta ad ascoltarlo. «È un po' più complicato.» Era molto più complicato che semplicemente prendere un taxi e andare all'aeroporto. Prima di tutto non avrebbe potuto permettersi una vacanza, anche perché aveva prestato a suo fratello Mark una notevole somma perché saldasse i debiti di gioco, ma ne aveva bisogno più di qualsiasi altra cosa. Comunque fosse, non era necessario raccontarlo a quell'estraneo... lui però la incalzò. «In che senso?» Stava cercando di continuare la conversazione, Natasha questo l'aveva capito. Insisteva quando altri avrebbero lasciato correre. «Semplicemente, è un problema.» Lui aggrottò la fronte. Evidentemente si aspettava che lei chiarisse il concetto. Raccontare i fatti propri a un uomo che non conosceva? Del quale non sapeva niente se non che ignorava le normali regole del vivere sociale? E continuava a ignorarle, perché quando la folla sotto la pensilina s'infittì, le posò una mano sul gomito 19


invece di mantenere una conveniente distanza, facendole inoltre da scudo contro il pigia pigia. Era decisamente scorretto. Scorretto come il suo pensiero, mentre le sue dita le premevano sulla manica dell'impermeabile, perché aveva la vaga sensazione che se la folla fosse aumentata lui avrebbe potuto baciarla; un pensiero pericoloso mentre il corpo era premuto contro il suo. Mosse il braccio, cercò di scostarsi e quando scorse l'autobus provò... sollievo o rimpianto? Alzò la mano per far segno all'autobus e così fece lui. Ma subito Natasha si accorse che non era all'autobus che lui faceva un segno, ma a una limousine nera con i vetri oscurati. La macchina mise la freccia e rallentò. «Posso darle un passaggio a casa?» «No!» La voce era venata dal panico, ma non per la sua proposta. Se la limousine si fosse fermata, l'autobus avrebbe proseguito. «Non si può parcheggiare qui...» Lui non afferrò la sua urgenza, o era incapace di aprire da solo la portiera perché rimase in attesa di un individuo in divisa che scese e gliela aprì. «Insisto» ribadì. «Se ne vada» lo supplicò Natasha, ma ormai era troppo tardi. L'autobus sorpassò allegramente la fermata bloccata dal suo veicolo e lei udì le recriminazioni e le proteste di coloro che erano in coda dietro di lei... Non che lui si preoccupasse minimamente. «Mi ha fatto perdere l'autobus!» «Allora deve proprio accettare il passaggio.» Sapeva che non avrebbe dovuto accettare passaggi da sconosciuti, sapeva che quell'uomo aveva uno strano effetto su di lei. 20


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