Megan Hart
Piacere a nudo
Titolo originale dell'edizione in lingua inglese: Naked Spice Books © 2010 Megan Hart Traduzione: Alessandra De Angelis Tutti i diritti sono riservati incluso il diritto di riproduzione integrale o parziale in qualsiasi forma. Questa edizione è pubblicata per accordo con Harlequin Enterprises II B.V. / S.à.r.l Luxembourg. Questa è un'opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o persone della vita reale è puramente casuale. Harmony è un marchio registrato di proprietà Harlequin Mondadori S.p.A. All Rights Reserved. © 2010 Harlequin Mondadori S.p.A., Milano Prima edizione Harmony Passion settembre 2010 HARMONY PASSION ISSN 1970 - 9951 Periodico mensile n. 37 del 23/9/2010 Direttore responsabile: Alessandra Bazardi Registrazione Tribunale di Milano n. 71 del 6/2/2007 Spedizione in abbonamento postale a tariffa editoriale Aut. n. 21470/2LL del 30/10/1981 DIRPOSTEL VERONA Distributore per l'Italia e per l'Estero: Press-Di Distribuzione Stampa & Multimedia S.r.l. - 20090 Segrate (MI) Gli arretrati possono essere richiesti contattando il Servizio Arretrati al numero: 199 162171 Harlequin Mondadori S.p.A. Via Marco D'Aviano 2 - 20131 Milano
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«Ad Alex non piacciono le donne.» Patrick me lo disse come avvertimento. Guardavo quell'uomo con la coda dell'occhio. Lo avevo individuato tra gli invitati all'annuale festa di Natale a casa di Patrick. In mezzo a un tripudio di stelle di Natale e lucine ammiccanti che gli facevano da sfondo, Alex era uno spettacolo più affascinante degli addobbi natalizi. Era bello, non c'era dubbio, ma d'altronde tutti gli uomini presenti erano dei bei fusti. Patrick aveva gli amici più aitanti che io avessi mai visto. Più che una festa, sembrava un provino per un calendario per sole donne. Dopo il monito di Patrick, guardai Alex con maggiore attenzione, più che altro per stuzzicare Patrick. Era sin troppo facile farlo indispettire. «Ah, si chiama così?» mormorai con finta indifferenza. Patrick emise un piccolo sbuffo d'aria dalle narici per esprimere la propria disapprovazione. «Sì.» «Alex e poi?» «Kennedy. Però non...» «Gli piacciono le donne» conclusi io interrompendo. «Sì, ti ho sentito.» Poggiai le labbra sul bordo del mio bicchiere e annusai l'aroma intenso del vino, che mi accarezzò le narici e il palato, ma decisi di non bere e lo scostai dalla bocca per parlare. 5
«Non gli piacciono proprio, eh?» Patrick serrò le labbra e incrociò le braccia. «No» ribadì con fermezza. «Santo cielo, Olivia, smettila di fissargli il sedere.» Sollevai un sopracciglio. «Perché m'inviti alle tue feste se non per fissare il sedere degli uomini?» Patrick sbuffò di nuovo, infastidito. Mi piaceva provocarlo. A volte lo irritavo di proposito, come quella sera. Lui mi guardò corrucciato, poi stirò la fronte di colpo. Evidentemente aveva ricordato che aggrottare le sopracciglia faceva venire le rughe. Seguì la direzione presa dal mio sguardo, puntato su Alex che ci voltava le spalle dal lato opposto della sala da pranzo. Aveva appoggiato un braccio alla mensola sopra il caminetto e aveva un bicchiere di birra in mano. Da quando lo osservavo non lo avevo ancora visto bere un sorso. «E poi perché ti sei sentito in dovere di puntualizzare quest'informazione?» Bevvi un po' di vino e lo guardai intensamente, incuriosita. Patrick scrollò le spalle. «Bah, mi è parso che dovessi saperlo.» Mi guardai intorno. C'erano cinque o sei uomini intorno al tavolo del buffet e un'altra decina in salotto, dall'altra parte dell'arco che divideva le due stanze. Gli invitati ballavano, chiacchieravano o erano in cerca di qualcuno da rimorchiare. Per il novantanove per cento erano gay, e il restante un per cento pensava timidamente di passare all'altra sponda. «Guarda che so benissimo che per me è impossibile fare conquiste alle tue feste, Patrick» commentai, acida. Prima che potessi approfondire la questione, due braccia forti e muscolose mi afferrarono alla vita da dietro e un ventre sodo e piatto aderì alla mia schiena. «Fuggi via con me e vediamo quanto tempo impiega ad accorgersi che non ci siamo più» mi sussurrò all'orecchio una profonda voce baritonale. 6
Io mi girai ridendo e mi contorsi, solleticata dalla barba sul lobo dell'orecchio. «Oh, Patrick, non sapevo che avessi invitato James Bond alla tua festa!» risposi ridendo. «No, aspetta... Tu non sei James Bond. L'agente zero zero sette non porterebbe mai quel maglione. Ciao, Teddy.» «Ragazza, non schernire il mio maglione. La mamma di Patrick lo ha fatto per me con le sue manine sante e il suo bambino ne ha avuto uno uguale per Natale» mi spiegò Teddy, strizzando l'occhio a Patrick. «La differenza tra noi è che io sono abbastanza uomo da portarlo.» Teddy mi abbracciò, mi strinse forte, mi baciò e mi diede una pacca sul sedere nell'arco di due secondi, poi passò a sottoporre Patrick allo stesso trattamento. Patrick, ancora imbronciato, gli diede dei buffetti come se scacciasse una mosca molesta e lo respinse mentre Teddy rideva e gli scompigliava i capelli. Torvo, Patrick si lisciò il ciuffo, ma permise a Teddy di dargli un bacio su una guancia. «Allora, di che parlavate?» mi chiese Teddy, ormai fatta pace con Patrick. Io indicai gli invitati con il bicchiere. «Sta cercando di convincermi a non sbavare sul sedere di un tizio.» «E perché? Credevo che fossimo tutti qui appositamente per guardare gli uomini!» Io e Teddy scoppiammo in una risata fragorosa. «Batti cinque!» esclamò. Io obbedii e ci lanciammo in una specie di danza della vittoria per celebrare la sua battuta spiritosa, muovendo il bacino e dandoci dei colpetti con i fianchi, inebriati dallo spirito festaiolo del Natale, mentre Patrick ci guardava imbronciato e a braccia conserte, scuotendo la testa. «Scusami se cerco di comportarmi da vero amico mettendoti in guardia» brontolò. Io e Patrick eravamo amici da tanto tempo. Ancora prima stavamo insieme, e Patrick era convinto che la nostra storia passata gli desse il diritto di fare la chioccia 7
con me e comportarsi come una vecchia zia premurosa e un po' asfissiante, sempre piena di buoni consigli da elargirmi. Io glielo permettevo perché gli volevo bene... e soprattutto perché nella mia vita non ero mai stata amata tanto da potermi permettere di respingere l'affetto che mi veniva dato. Però tanta ansia mi sembrava eccessiva persino per un tipo iperprotettivo come Patrick. Io e Teddy ci scambiammo un'occhiata perplessa e io scrollai le spalle. «Vado in cucina a stappare un'altra bottiglia di vino, amorini miei» annunciò Teddy. «Ne volete?» «Io sono a posto» risposi sollevando il bicchiere mezzo pieno. Patrick fece segno di no. Seguimmo entrambi Teddy con lo sguardo mentre si faceva largo tra gli ospiti. Solo quando non fu più a portata d'orecchio, mi voltai verso il mio ex fidanzato. «Patrick, se è un modo discreto per informarmi che hai fatto sesso con Alex...» esordii. La risata secca, breve e aspra con cui Patrick m'interruppe era così diversa da quella solita che mi zittì di colpo. «Oh, no, no!» Non mi sfuggì il modo in cui distolse lo sguardo evitando di guardarmi negli occhi. Fu quello il particolare rivelatore che mi raccontò tutta la storia che c'era sotto, senza bisogno di parole. Non serviva neanche che Patrick mi facesse un disegnino per capire al volo la situazione. Il mio sorriso si spense di colpo come una lampadina fulminata. Patrick non aveva mai fatto mistero della sua vivace vita privata, e avevo sentito dalle sue labbra più storie sulle sue prodezze sessuali di quante ne avrei volute sentire, e non perché fossi una che si scandalizza facilmente. Era raro che Patrick venisse respinto se ci provava con qualcuno, per intenderci. Notai un leggero rossore diffondersi sui suoi zigomi perfetti. Mi voltai di nuovo in direzione di Alex Kennedy. 8
«Non dirmelo! Ci hai provato e lui ti ha dato il due di picche?» esclamai, incredula. «Ssh!» sibilò Patrick, anche se il volume della musica e delle voci era così alto e le risate così fragorose che non avrebbe potuto sentirci nessuno. «Wow, incredibile...» mormorai. Lui strinse le mascelle per un istante, poi m'intimò: «Non una parola di più». Tornai a guardare Alex Kennedy, che era ancora nella stessa posa con un braccio sulla mensola del caminetto. Lo scrutai con maggiore attenzione, notando il modo in cui i jeans neri gli fasciavano i fianchi e il maglione nero di lana morbida e sottile gli aderiva alle spalle ampie e al busto ben modellato. Era elegante e sexy, come d'altronde tutti gli invitati. Dalla distanza a cui ero mi sembrava di vedere che avesse gli occhi scuri e i capelli castani con dei riflessi ramati, scompigliati come se avesse passato una mano tra le ciocche oppure si fosse appena alzato dal letto, ma sospettai che fosse un effetto creato ad arte con il gel o la schiuma. Non lo vedevo bene in faccia e avevo solo l'impressione che avesse bei lineamenti e una bocca sensuale. Alex era carino, questo sì, ma se Patrick non mi avesse ammonito ponendomi il veto di guardarlo troppo, probabilmente lo avrei degnato solo di un'occhiata fugace. «Com'è che non l'ho mai conosciuto?» chiesi a Patrick. «Non è di queste parti.» Continuai a fissare l'uomo da cui Patrick tentava in ogni modo di tenermi lontana. Alex sembrava essere immerso in un colloquio serio con un altro amico di Patrick. Avevano entrambi l'espressione concentrata, non stavano flirtando. L'interlocutore di Alex beveva un sorso di vino ogni tanto, con rabbia. Vedevo il pomo d'Adamo che si muoveva freneticamente quando inghiottiva. A volte sollevavo le mani per provare un'inquadratura, con la punta dei pollici contro gli indici, come a formare 9
una cornice, prima di fare una foto. Ma ora non mi serviva; lo facevo mentalmente mentre cercavo di capire perché stessero litigando. Clic, clic, clic. Non avevo la macchina fotografica, ma immaginavo le foto, con Alex un po' decentrato e fuori fuoco. Patrick brontolò qualcosa, poi mi diede una gomitata nel fianco. «Olivia!» esclamò in tono di rimprovero. Mi voltai verso di lui. «Smettila, Patrick. Mi credi una stupida?» Lui si accigliò. «No, non penso affatto che tu sia stupida, ma Alex Kennedy è un tipo pericoloso e non vorrei che...» Teddy tornò da noi in quell'istante, per cui Patrick s'interruppe e mi fece un sorrisetto teso, che riconobbi, così come riconobbi al volo il suo sguardo. Non vedevo quell'espressione sul suo viso da tanto, ma la conoscevo. Mi stava nascondendo qualcosa. Teddy passò un braccio intorno alle spalle di Patrick e lo attirò a sé, poi avvicinò il naso alla sua guancia, come un cucciolo. «Il buffet è stato razziato e stanno finendo le scorte di vino. Vieni in cucina con me, amore, che ti do un bel bocconcino...» Finché non aveva conosciuto Teddy, Patrick non era mai stato con nessuno più tempo di quanto fosse stato con me. Adoravo Teddy nonostante ciò, o forse proprio per questo motivo, perché sapevo che Patrick lo amava, anche se non lo ammetteva quasi mai. Volevo bene a Patrick, per cui desideravo che fosse felice. Patrick guardò Alex dall'altra parte della stanza, poi tornò a fissarmi. Per un attimo mi parve che stesse per aggiungere qualcosa, ma alla fine si limitò a scuotere la testa e si lasciò trascinare via da Teddy. Io, invece, ripresi a sbavare per il bel didietro di Alex Kennedy. «Livvy! Buon Natale!» esclamò Jerald, un altro amico di Patrick, che aveva posato per me diverse volte. Gli avevo fatto dei bei ritratti che lui aveva messo nel suo 10
book da modello. «Quando mi farai altre foto?» «Quando vuoi. Passa da me, sai dove trovarmi.» Jerald mi elargì un sorriso con la sua dentatura candida e regolare. «Non te ne pentirai, vedrai...» sussurrò con voce calda, insinuante, anche se entrambi sapevamo perfettamente che era solo una posa, come quella da macho che assumeva quando lo fotografavo. Jerald era etero quanto Teddy, cioè per nulla. Parlammo un po' su come impostare il servizio fotografico, poi Jerald mi abbracciò e mi abbandonò per andare in cerca di qualcuno con degli attributi che io non avevo. Non m'importava restare sola. Non avevo bisogno che Patrick mi facesse da anfitrione; conoscevo quasi tutti i suoi amici. Quelli più recenti mi occhieggiavano con curiosità come se fossi un reperto archeologico, una specie di reliquia del tempo in cui Patrick non aveva dichiarato apertamente la sua omosessualità, però erano tutti cordiali con me, anche grazie all'alcol che scorreva abbondantemente nelle loro vene. Gli amici più vecchi, quelli dei tempi dell'università, quando io e Patrick stavamo insieme, si comportavano con naturalezza, e ridevano e scherzavano con me senza quell'occhiata di vaga compassione che mi lanciavano le nuove conoscenze. Comunque il vino aiutava anche loro a essere disinvolti con me, senza dubbio. Con il bicchiere in mano, mi diressi verso il buffet e mi riempii il piatto. Anche se gli invitati si erano serviti senza fare complimenti, c'era ancora parecchio da mangiare. Misi nel piatto dei dadini di formaggio con miele e mostarda, un po' di hummus con del pane azzimo, due tartine. Patrick e Teddy erano dei padroni di casa eccellenti e non badavano a spese quando davano una festa. Anche se era il sabato successivo all'abbuffata della Festa del Ringraziamento e non avevo ancora smaltito il tacchino, nel mio stomaco c'era spazio per quelle prelibatezze. 11
Stavo decidendo se provare il roast beef al sangue o l'insalata con mele, noci e crostini, quando qualcuno mi bussò sulla spalla. «Ehi!» Mi voltai e vidi la vicina di casa di Patrick, Nadia, che mi sorrideva. Era sempre stata eccessivamente espansiva nei miei confronti; non aveva motivo per non essere cordiale con me, ma sospettavo che lo facesse non per amicizia, bensì per dimostrare qualcosa. Quella sera ne ebbi la conferma. «Ti presento Carlos, il mio ragazzo» mi annunciò con un sorriso smagliante. Aveva un viso regolare ma non particolarmente degno di nota. Però aveva un bellissimo sorriso che la trasformava. Quando mi sorrideva, avevo voglia di farle una foto. «Piacere» mugugnò Carlos, masticando. «Piacere» risposi io. Ci fu una pausa e Nadia ci guardò entrambi come se si aspettasse che dicessimo qualcos'altro. Io e Carlos ci guardammo in silenzio, poi lui si voltò verso Nadia, che gli era abbarbicata al braccio. La sua carnagione bianca spiccava contro quella scura di lui. Pensai che anche Carlos, come me, aveva capito cosa volesse Nadia da noi, ma nessuno dei due era intenzionato a darle soddisfazione. Non sapevo di essere nera prima della seconda elementare. Sì, certo, mi ero resa conto di avere la pelle più scura di quella dei miei genitori e dei miei fratelli, e lineamenti diversi. Non mi avevano mai nascosto il fatto che ero stata adottata, e festeggiavamo anche la data in cui ero entrata a far parte della famiglia, oltre al mio compleanno. Non mi ero mai sentita un'intrusa, meno amata o accettata. I miei mi volevano bene, i miei fratelli mi viziavano, essendo molto più grandi di me. Ero stata adottata nel tentativo di salvare un matrimonio traballante, e 12
forse anche per questo i miei genitori si erano tanto prodigati per dimostrarmi il loro affetto. Avevo sempre creduto di essere speciale, ma fino alla seconda elementare non avevo mai capito di essere diversa. Desiree Johnson si trasferì ad Ardmore, dove andavo a scuola io, da un'altra scuola al centro di Philadelphia. Aveva una pettinatura a treccine. Ne aveva tantissime, piccole e strette, fermate all'estremità da elastici colorati. Portava magliette con scritte dorate e tute di ciniglia, aveva scarpe da ginnastica bianche e troppo grandi per lei. Era diversa da noi, e quando entrò in classe per la prima volta la fissammo tutti sgranando gli occhi. La maestra, la signorina Dippold, ci aveva detto solo che quella mattina sarebbe arrivata una nuova compagna. Si era raccomandata di essere gentili con lei, soprattutto perché non era come gli altri. Ci aveva letto la storia di Zeke, il cavallino a strisce che aveva scoperto di non essere un cavallo diverso dagli altri, ma una zebra. Avevo subito capito la morale della storia, tuttavia non avevo afferrato il motivo per cui la maestra fece sedere Desiree accanto a me. Ero lusingata di essere stata scelta per fare amicizia con la nuova arrivata e mi sentivo piena di responsabilità. Mi chiedevo se mi fosse toccato quell'onore perché ero la più brava della classe in ortografia, o perché ero sempre pronta a prestare la matita e la gomma a chi le aveva dimenticate a casa. Non era per questi motivi che ero stata scelta, ma non immaginavo quale fosse quello vero. «Ecco, Desiree, siedi qui, vicino a Olivia. Sono sicura che diventerete amiche» aveva detto la signorina Dippold. Desiree mi aveva guardato, scrutando la mia gonnellina a pieghe, i calzettoni bianchi e le scarpe alla bebè, la fascia in testa e il mio cardigan. Per essere una bambina di seconda elementare, Desiree 13
era parecchio sfacciata. «Sta scherzando?» aveva esclamato. La signorina Dippold era rimasta interdetta e aveva battuto più volte le palpebre dietro le spesse lenti degli occhiali con la montatura di tartaruga. «Che problema hai, Desiree?» La mia nuova compagna di banco aveva sospirato come un'adulta, alzando gli occhi al cielo. «Nessuno, signorina.» Quel giorno, dopo pranzo, avevo steso il collo per sbirciare gli scarabocchi che faceva sul quaderno. «Anche a me piace disegnare» avevo detto. Desiree aveva risposto con una smorfia. «Sarà per questo che la signorina Dippold ha pensato che potessimo essere amiche» le avevo spiegato. Lei aveva sollevato le sopracciglia, si era guardata intorno, poi era tornata a puntare lo sguardo su di me. Mi aveva preso la mano e l'aveva messa sul banco vicino alla sua. «La signorina Dippold non sa niente dei miei disegni. Lo ha detto solo perché io e te siamo... be', lo sai.» «Siamo cosa?» Desiree aveva sbuffato, esasperata, e aveva alzato gli occhi al cielo. «Perché siamo tutte e due nere» aveva detto seccamente. Ora ero io a battere le palpebre, perplessa. Mi ero guardata intorno a mia volta e avevo visto un mare di facce bianche. Anche Caitlyn Caruso era stata adottata, ma era cinese, per cui la vedevo come diversa. Però Desiree aveva ragione; me lo aveva fatto notare come se avesse dato per scontato che lo sapessi. Ero nera. Quella rivelazione mi sbalordì tanto che rimasi in silenzio tutto il pomeriggio, finché non fu ora di tornare a casa. Appena rientrata, presi l'album di famiglia e guardai le nostre foto. Ero nera! Perché non me n'ero mai accorta prima? 14
La risposta era semplice, perché i miei genitori non lo avevano mai detto, non vi avevano mai fatto caso. Mi erano stati inculcati principi di uguaglianza e di rispetto della diversità. La mia madre biologica era bianca e mio padre nero, ed ero stata adottata da piccola da due genitori diversi per religione, ma non per razza. Mia madre adottiva era ebrea e suo marito era cattolico non praticante; avevano divorziato quando avevo cinque anni, ma prima di allora non avevamo mai parlato del colore della mia pelle, e anche in seguito le mie origini etniche erano state considerate una questione priva di importanza. Desiree non rimase a lungo nella nostra classe. I suoi genitori si trasferirono di nuovo qualche mese dopo. Tuttavia non l'avrei mai dimenticata perché era stata lei a farmi notare un particolare che avrei dovuto sapere da sempre. Però era questo il motivo per cui persone come Nadia si comportavano in modo innaturale con me; si dichiaravano progressiste, ed erano fiere della loro apertura mentale, ma in realtà di me vedevano solo il mio colore. Nadia non mi aveva presentato il suo ragazzo perché avevamo gli stessi gusti musicali, né per pura cortesia, e io e Carlos lo sapevamo. Nadia continuava a chiacchierare, cercando di coinvolgerci nel discorso, citando nomi come se avessi dovuto conoscerli e facendo riferimenti a cantanti hip hop. Carlos intercettò il mio sguardo e fece un'impercettibile scrollata di spalle di cui Nadia non si accorse. Tuttavia lui la guardava con evidente affetto e alla fine la interruppe con delicatezza. «Ehi, piccola» sussurrò dolcemente. Lei lo fissò confusa e gli sorrise. «Eh?» «Ho bisogno di mettere qualcosa sotto i denti prima che non rimanga più nulla al buffet. Oggi ho saltato il pranzo e adesso ho così tanta fame che divorerei un elefante intero!» 15
«Carlos fa tanta palestra» mi confidò Nadia mentre il suo ragazzo aggrediva il buffet armato di piatto e forchetta. «Ha sempre fame, e non solo di cibo» commentò strizzandomi l'occhio. Per fortuna un certo scompiglio che proveniva dal soggiorno mi risparmiò l'onere di fare un commento. Avevo continuato a seguire Alex Kennedy con la coda dell'occhio e avevo visto che non si era allontanato dal caminetto, però ora la conversazione si era fatta più animata. L'uomo con cui parlava aveva alzato la voce e gesticolava con foga; ogni tanto puntava il dito verso Alex con fare accusatore. Non sarebbe stata la prima volta che scoppiava una lite durante una festa a casa di Patrick. Lui diceva sempre che c'era molta rivalità nell'ambiente gay. Diversi invitati si voltarono a guardare l'uomo che dava in escandescenze contro Alex, che invece si limitava a scuotere la testa tra un sorso e l'altro di birra. «Sei uno stronzo!» gridò l'altro con voce strozzata. Un po' lo compativo, ma ero anche imbarazzata per lui per la scenata che stava facendo. «Non so proprio perché io abbia perso tempo con te!» La risposta era facile e scontata. Aveva perso tempo con Alex Kennedy perché era un gran pezzo di figo. Lo fissavo quasi con ammirazione per come riusciva a resistere con stoicismo agli insulti che l'altro gli vomitava addosso, finché alla fine non si stancò e se ne andò indignato. Alex era rimasto impassibile e chi si era voltato a guardare la lite tornò a badare ai fatti propri. Non era stata neanche una scenata plateale; da Patrick avevo visto di peggio. Per la fine della serat, tutti avrebbero dimenticato l'episodio, tranne le due persone coinvolte direttamente. E io. Ero rimasta affascinata dall'incidente. Non gli piacciono le donne, mi ammonii mentalmente. Tornai a guardare il buffet e ricordai che, prima che Na16
dia m'interrompesse, ero assorta nel delicato compito di decidere tra il roast beef e l'insalata. Nel dubbio presi tutte e due le pietanze, e al diavolo la dieta. Quando alzai lo sguardo dal piatto stracolmo, Alex Kennedy non c'era più. Era una bella festa, una delle più divertenti date da Patrick. Verso mezzanotte, però, avevo avuto la mia buona dose di cibo, vino e pettegolezzi. Soffocai uno sbadiglio con la mano, cercando di non farmi vedere per non essere accusata dai miei amici di lunga data di essere diventata una vecchietta. In soggiorno l'atmosfera si era scaldata. Teddy e Patrick avevano messo in uso il karaoke e quasi tutti cantavano a squarciagola e ballavano. Anche l'albero di Natale in un angolo partecipava, perché i rami si muovevano, scossi continuamente dagli invitati che li urtavano facendo dondolare gli addobbi. Un invitato particolarmente esibizionista stava cantando Like a Virgin di Madonna, copiando quasi alla perfezione le movenze della cantante nel video, anche se era di parecchi anni addietro, quasi un reperto storico. Tutti cantavano in coro e applaudivano, e forse solo io ero abbastanza sobria da accorgermi che l'emulo della Ciccone aveva lo sguardo puntato su una persona precisa, come se fosse un'odalisca che si esibiva per il sultano. Seguii la direzione dello sguardo e vidi che Alex Kennedy era tornato in posizione vicino al caminetto. Non volevo neanche pensare alle implicazioni della canzone, se il cantante improvvisato lo aveva inteso come un messaggio subliminale per il bel tenebroso Alex. «Su, fai una bella faccina allegra e svegliati» mi raccomandò Teddy all'orecchio, fermandosi accanto a me per riempirmi il bicchiere anche se non volevo altro vino. «La festa non è ancora finita.» Emisi un gemito e mi appoggiai a lui come a un'ancora 17
di salvezza. «Sarà meglio che vada a casa, ho bevuto troppo» mi lamentai, sollevando il bicchiere pieno. «Tutta colpa tua!» Teddy rise. «Non pensarci nemmeno, o ti sequestro le chiavi della macchina» mi ammonì scherzosamente severo. «Eravamo già d'accordo che saresti rimasta a dormire da noi, così avresti potuto bere quanto avessi voluto.» Non sarebbe stata la prima volta che mi fermavo a passare la notte da Patrick e Teddy, più per amicizia e perché mi sentivo a casa mia, che perché mi fossi ubriacata alle loro feste. Però stavolta mi ero pentita di aver accettato il loro invito a restare fino al mattino dopo. Avrei potuto decidere di tornare a casa a piedi, ma era troppo lontano e poi era freddo e a notte fonda non era consigliabile avventurarsi in strada da sola. Pensai di chiedere un passaggio a qualcuno, ma gli invitati rimasti non sembravano intenzionati ad andare via tanto presto e comunque nessuno abitava dalle mie parti. Soffocai un altro sbadiglio. «Mi ci vuole un caffè» borbottai. Teddy scosse la testa. «Povera Livvy, lavori sempre così tanto!» «Se non lo faccio io, chi mi aiuta?» «In ogni caso sono proprio colpito, brava. Sei stata coraggiosa e intraprendente a lasciare il lavoro per metterti in proprio. Patrick è molto fiero di te» annuì Teddy. Non ero proprio sicura che Patrick avesse il diritto di essere fiero dei miei successi, ma non feci alcun commento al riguardo e decisi di essere accomodante. Mi lasciai abbracciare da Teddy che mi diede dei colpetti sulle spalle con fare da vecchio zio. Come potevo resistere a un omone grande e grosso, infagottato in un maglione fatto a mano con una grossa testa di renna dal naso rosso ricamata sul torace possente? Quando mi staccai, gli porsi il bicchiere. «Tieni, vado a farmi un caffè» annunciai. 18
Ero indecisa se non fosse meglio andare subito a dormire, ma temevo di non riuscire comunque a chiudere occhio per il baccano. Andai in cucina, che era ipertecnologica e dove c'era una macchina per il caffè espresso che, secondo me, poteva essere adoperata solo da chi aveva una laurea in ingegneria. Mi ci avvicinavo sempre con circospezione, come se temessi di farci saltare in aria se avessi premuto il pulsante sbagliato. Non sapendo come usarla per preparare il caffè, aprii tutti i pensili in cerca di una normale moka, perché ricordavo che tanto tempo prima Patrick l'aveva. Era il tipo che non buttava mai via niente, neanche una spilla. Conservava tutto, anche le cose rotte o inservibili, gli indumenti fuori moda, i calzini bucati e le magliette stinte... non si era sbarazzato neanche di me! Ero sicura che la caffettiera fosse ancora da qualche parte in cucina. Pensai che forse la teneva nella veranda coperta, che aveva attrezzato come ripostiglio con dei capienti contenitori di plastica per tutte le sue carabattole, promettendo a Teddy che prima o poi avrebbe fatto una cernita e buttato tutto quello che non serviva più, anche se non lo aveva mai fatto. Rabbrividendo per il freddo, aprii la porta posteriore e uscii in veranda senza accendere la luce perché mi bastava il chiarore che proveniva dalla cucina. Aprii il primo contenitore, ma non trovai quello che cercavo, solo la collezione di riviste porno di Patrick. Avanzai verso l'estremità più lontana del porticato, aggirando le poltroncine di vimini coperte da teli di plastica trasparente e una pila di sdraio pieghevoli accatastate in fondo. In un mobiletto da esterni trovai dei piccoli elettrodomestici che Patrick non usava più: un frullatore, una grattugia elettrica e la famigerata caffettiera in una scatola contenente anche un barattolo di caffè in polvere. Patrick non buttava davvero mai niente, anche se ora faceva il 19
caffè con un'avveniristica macchinetta espresso con le cialde. Soddisfatta, stavo per tornare in cucina, quando vidi l'ingresso posteriore che si apriva, sbattendo contro la parete come sotto la furia della passione. Le sagome di due uomini avvinghiati apparvero nell'arco della porta. Il più basso spinse il più alto verso il muro. La mia prima reazione fu di annunciare la mia presenza con dei colpi di tosse e sgattaiolare in cucina con il mio bottino, ma rimasi immobile, trattenendo il fiato, quando il più alto dei due voltò la faccia verso la luce che proveniva dall'interno della cucina. Il chiarore che ne illuminava i lineamenti conferiva una luce drammatica alle sue fattezze, come il chiaroscuro in un quadro o in una scultura di Michelangelo. Come avevo fatto a considerarlo semplicemente carino?, mi chiesi. Il profilo di Alex Kennedy era di una bellezza struggente. In piena luce, i suoi lineamenti erano regolari, interessanti; ora, con l'ombra che gli divideva il volto a metà, notavo che aveva il naso un po' troppo affilato, la mascella dal taglio troppo netto per rendere il suo viso perfetto e simmetrico, anche se era decisamente interessante. Aveva un ciuffo che gli ricadeva sulla fronte e lo vidi fare una smorfia quando l'uomo che era davanti a lui s'inginocchiò e gli abbassò la cerniera dei pantaloni. Ero troppo ben nascosta in fondo alla veranda, dietro i mobili, perché potessero accorgersi della mia presenza. Inoltre mi sembravano entrambi ubriachi o così assorti da avere i riflessi annebbiati e non prestare attenzione ad altro. Però avevo ancora il tempo di farmi notare e avvertirli che avevano pubblico per il loro spettacolino sexy. Avrei potuto fermarli se avessi voluto veramente. Il problema era che non volevo interromperli. «Evan» sussurrò Alex con voce profonda. «Non devi...» cominciò. L'altro lo interruppe. «Sta' zitto e lasciami fare.» Il suo 20
tono era a metà tra l'ordine imperioso e la supplica. Le ombre indistinte, confuse tra loro, ripresero la forma di due figure, una alta e l'altra curva ai suoi piedi. La luce del lampione in strada era troppo fioca per rendere visibili i particolari dell'atto, ma era sufficiente per darmi un'idea di quello che stavano facendo e per lasciarmi in ombra. Se si fossero voltati nella mia direzione, per quanto dubitavo che volessero farlo, non mi avrebbero visto perché ero rannicchiata in un angolo in fondo, dietro la pila di sdraio. Se fossi rimasta immobile e zitta, non avrebbero mai saputo che c'era qualcuno. Evan abbassò i jeans di Alex fin sotto le ginocchia con uno strattone. Trasalii e mi morsi una mano per non fare rumore. Non gli vidi il pene, ma ammetto che cercai di scorgerlo. Quello che vedevo era la mano di Evan che lo accarezzava con un movimento ritmico, in su e in giù. Alex rovesciò la testa all'indietro, urtando il muro con un piccolo tonfo, e soffocò una risata. Mise una mano sulla testa di Evan e gli strinse le ciocche nel pugno, tirandogli i capelli per fargli alzare il viso, poi lo scostò bruscamente per guardarlo negli occhi. «Fai sul serio?» ringhiò. Evan emise un gemito che evidentemente ad Alex parve convincente, perché lasciò la presa. La testa di Evan fu proiettata in avanti e udii distintamente un lieve risucchio quando le sue labbra incontrarono la carne di Alex. Non avrei mai immaginato di trovarmi in una situazione simile, neanche se avessi partecipato a mille feste di checche... «Dio, che bello!» mormorò Alex, sospirando estasiato. Evan si ritrasse solo per un istante. «Lo so io cosa ti piace» osservò compiaciuto. Alex rise sommessamente. «E a chi non piace?» Forse c'era qualcosa di perverso in me perché mi eccitava vedere due uomini che facevano sesso, ma non mi soffermai ad analizzare la cosa. 21
Nel silenzio ovattato del portico, il frastuono della festa non arrivava. Si udivano solo i rumori sommessi di una bocca che leccava e succhiava. L'unica cosa che m'impediva di mettermi una mano tra le gambe per calmare il calore pulsante e il formicolio che avvertivo all'inguine era il fatto che ero ipnotizzata dalla scena a cui stavo assistendo. Non era un film porno gay, ma uomini veri, e questo mi eccitava terribilmente. Strinsi le cosce e quel leggero movimento bastò a provocarmi un fremito. Lo feci di nuovo, diverse volte, e anche se non mi provocava lo stesso piacere che avrei provato accarezzandomi, la contrazione regolare dei muscoli mi creava una pressione che aumentava l'eccitazione. Battei le palpebre. La mia vista si era abituata al buio e ora potevo distinguere il lampo candido degli occhi di Alex che guardava Evan, o il sorriso soddisfatto di Evan quando si ritrasse. Alex lo riavvicinò a sé e l'altro riprese a succhiare. Alex gemette ed Evan rispose con un suono soffocato. Le assi del pavimento del portico scricchiolavano e io ero impietrita, bene attenta a non fare rumore. Ero anche leggermente mortificata perché sapevo già che quello sarebbe stato il massimo della vicinanza che sarei riuscita ad avere a un organo genitale maschile quella sera. Non avrei avuto niente di meglio, e soprattutto purtroppo sapevo già che non avrei partecipato attivamente a nessun tipo di rapporto intimo. Ero sessualmente frustrata, c'era poco da dire. Aprire la mia attività, con un mio laboratorio di fotografia, era stato gratificante ma impegnativo. Aveva prosciugato il mio conto in banca e la mia vita sessuale. Non avevo tempo per conoscere uomini o per dedicarmi a una relazione fissa, sempre che avessi trovato un soggetto con cui valesse la pena fare lo sforzo di costruire un legame stabile. Non avevo tempo neanche per avventure fugaci e rapporti occasionali, perché avere un'attività in proprio 22
significava lavorare quasi sempre da sola. Facevo altri due lavori per poter pagare il mutuo della casa, ma non mi davano la possibilità di conoscere uomini. Per mestiere facevo foto nelle scuole per gli annuari e la cerimonia di consegna dei diplomi, e anche per le squadre sportive, per cui giravo spesso, ma gli unici individui papabili in cui m'imbattevo erano attraenti padri di allievi o giocatori, ma quasi tutti sposati. Avevo anche un impiego a Foto Folks, divertente e ben retribuito, ma le mie clienti erano invariabilmente mamme che volevano ritratti graziosi dei loro pargoli abbracciati a un orsacchiotto gigante o in mezzo ai cubi colorati delle costruzioni. Era un lavoro ripetitivo e poco stimolante, ma remunerativo. Nel complesso, anche se ero stanca e correvo sempre, mi sentivo realizzata perché fare la fotografa era il mio sogno e la fotografia la mia vita. Però, con una macchina fotografica come compagna, di sesso ne facevo ben poco... Era per questo che fissavo rapita Alex che ora sporgeva i fianchi in avanti e respirava affannosamente, prima di emettere un lungo gemito strozzato. Stava venendo. Chiusi gli occhi e abbassai la testa. Non potevo guardarlo, per quanto fosse eccitante, per quanto fossi morbosa e depravata. Almeno non sentivo più freddo, pensai. «No» disse Alex, categorico. Il suono della sua voce mi fece riaprire gli occhi. Vidi che Evan si era rialzato, ora che Alex aveva finito. Non erano più vicinissimi; c'era una fetta di luce tra le loro due ombre. Evan si piegò leggermente in avanti e Alex si scostò di lato, come in un balletto. «No?» ripeté Evan con voce querula. «Ti fai succhiare l'uccello ma non vuoi baciarmi?» protestò. Udii la cerniera che veniva sollevata di nuovo, poi vidi l'ombra delle spalle di Alex che si sollevava. «Sei veramente uno stronzo!» inveì Evan. 23
«Lo so» rispose Alex, calmo. «Ma lo sapevi anche tu prima di venire qui fuori con me.» Evan si mise a pestare i piedi, cosa che mi parve ridicola e patetica, neanche Patrick nei suoi momenti peggiori si comportava come un bambino capriccioso. «Ti odio!» strillò, isterico. «Non è vero» obiettò Alex, impassibile. «Invece sì» insistette Evan. «Non osare più tornare da me. Scordatelo!» «Non preoccuparti, non ci pensavo proprio.» Feci una smorfia e avvertii una fitta di compassione per il povero Evan. La sua risposta, pronunciata con distacco e indifferenza, aveva colpito anche me. Se fossi stata Evan, avrei odiato anch'io Alex, se non altro per il suo tono di superiorità. «Ti detesto» replicò Evan. «Non avrei mai dovuto darti un'altra possibilità.» «Te lo avevo detto di non farlo» precisò Alex, calmo. Evan rientrò in cucina con il piglio drammatico di una eroina tragica che ha appena fatto la sua scena madre. Alex rimase ancora un paio di secondi fuori, appoggiato alla parete, ansante. Io cercai di non muovermi e di non fare assolutamente alcun rumore; mi batteva il cuore così forte che mi girava la testa e vedevo dei puntini luminosi ai margini del mio campo visivo. Temevo che mi sentisse respirare, ma Alex non si accorse della mia presenza. Alla fine rientrò e io capii senz'ombra di dubbio che non mi sarebbe più servito il caffè per tenermi sveglia.
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Il pittore e le sue muse di Amanda McIntyre Nella Londra Vittoriana, la Confraternita dei Preraffaelliti getta scandalo tra i circoli accademici con un nuovo modo di dipingere, di vivere, d’amare. Un pittore audace e trasgressivo trova l’ispirazione conquistando tre bellissime muse e divenendo la loro ossessione. Con il suo genio ribelle, Thomas Rodin cattura la sensualità vibrante, la vitalità e la bellezza delle sue muse, travolgendole con la sua arte, la sua passione e il suo amore, in un turbinio di sospiri e gemiti, d’estasi e piacere, di sguardi maliziosi e carezze audaci. La bella e innocente Helen, dalla chioma fulva, conosce i brividi della passione erotica con Thomas, ma è contesa tra il pittore e suo fratello, il riservato William, che l’attende paziente. La bruna e ambiziosa Sara vuole qualcosa di più dalla vita di un rapporto nel buio della stalla con un cocchiere. Il bel mondo con le sue luci l’affascina, Thomas Rodin la conquista e un ombroso pittore gallese l’amerà per sempre. La bionda e voluttuosa Grace è costretta a prostituirsi per colpa di un destino crudele. Aprirà il cuore al suo migliore amico, Thomas Rodin, poserà per lui, lo accompagnerà in tutte le sue vicissitudini felici e infelici, e riuscirà a donargli una nuova vita.
Piacere a nudo di Megan Hart Olivia guarda il mondo da dietro l’obiettivo della sua macchina fotografica, che riesce a fissare volti e corpi, sguardi e caratteri, quando tutto intorno a lei è fluido, indecifrabile, malgrado i tentativi di etichettare e incasellare le appartenenze in base al colore della pelle, alla religione, ai gusti sessuali... E poi conosce Alex, tanto ambiguo quanto affascinante, che la seduce, la conquista e la fa innamorare, nonostante gli ostacoli che incontra tra i suoi amici e la famiglia. Non vorrebbe rischiare di soffrire, ma lui è irresistibile. Non vorrebbe legarsi, ma Alex ottiene sempre ciò che vuole... e vuole lei.
ESCLUSIVO:
ritorna a GENNAIO 2011 con 2 romanzi intensi e passionali delle autrici pi첫 amate e apprezzate.
Preparati a una lettura... incandescente e scopri le trame sul sito
www.eharmony.it
Questo volume è stato stampato nell'agosto 2010 presso la Mondadori Printing S.p.A. stabilimento Nuova Stampa Mondadori - Cles (Tn)