SE74 PECCATI E PIACERE

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Foto di copertina: Shutterstock Titoli originali delle edizioni in lingua inglese: Animal Instincts The Blonde Geisha Getting Some HQN Books Spice Books Spice Books © 2006 Gena Showalter © 2006 Jina Bacarr © 2007 Kayla Perrin Traduzioni di Elisabetta Humouda/Grandi & Associati, Isabella Ragazzi/Grandi & Associati e Giorgia Lucchi Tutti i diritti sono riservati incluso il diritto di riproduzione integrale o parziale in qualsiasi forma. Questa edizione è pubblicata per accordo con Harlequin Enterprises II B.V. / S.à.r.l Luxembourg. Questa è un'opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o persone della vita reale è puramente casuale. Harmony è un marchio registrato di proprietà Harlequin Mondadori S.p.A. All Rights Reserved. © 2006 Harlequin Mondadori S.p.A., Milano Prima edizione Harmony Passion maggio 2007 Prima edizione Spice luglio 2006 Prima edizione Harmony Passion settembre 2007 Questa edizione Harmony Special Edition aprile 2010 HARMONY SPECIAL EDITION ISSN 1722 - 067X Periodico trimestrale n. 74 del 14/4/2010 Direttore responsabile: Alessandra Bazardi Registrazione Tribunale di Milano n. 102 del 24/2/2003 Spedizione in abbonamento postale a tariffa editoriale Aut. n. 21470/2LL del 30/10/1981 DIRPOSTEL VERONA Distributore per l'Italia e per l'Estero: Press-Di Distribuzione Stampa & Multimedia S.r.l. - 20090 Segrate (MI) Gli arretrati possono essere richiesti contattando il Servizio Arretrati al numero: 199 162171 Harlequin Mondadori S.p.A. Via Marco D'Aviano 2 - 20131 Milano


TOCCO GRAFFIANTE


LE DIECI COSE DA NON DIRE MAI A UN APPUNTAMENTO GALANTE

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Perché indossi quella roba? C’è uno strano odore. Dov’è l’aspirina? A pensarci bene, volevo uscire con tuo fratello. 5 Devo farti una confessione... 6 Mio padre ha un vestito uguale al tuo. 7 Quell’uomo è stupendo. Guarda. 8 Il mio ex, che bruci all’inferno... 9 Hai intenzione di ordinare quella roba? Davvero? 10 Quanti anni hai detto di avere?


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Una vera Tigre sa come mettersi in mostra. Avanza a testa alta, con il petto in fuori e l'aria di voler dire: “Ti mangerò vivo”. Sono uno zerbino. Ecco, l'ho ammesso. Se gli altri intendono pulirsi gli stivali infangati sulla mia vita, do loro il benvenuto e li ringrazio. Detto questo, qualcuno potrebbe smettere di rispettarmi. Ma lasciate che vi dica che sto migliorando. Sono più forte. Più decisa. Sto per liberare la mia Tigre interiore. Purtroppo oggi ho il guinzaglio parecchio corto: Vita-Tigre, 5-2. In mia difesa, aggiungo che la Vita è una vera stronza. Stavo ripetendo mentalmente il capitolo del libro Come liberare la vostra Tigre interiore quando, all'orizzonte, apparve il grattacielo in acciaio e vetro della Powell Aeronautics. La riunione sarebbe andata alla grande. Cercavo di rassicurare me stessa: sarei stata una vera e propria Tigre. Colma di determinazione, sollevai il mento e drizzai le spalle contro il sedile del taxi, mostrando al meglio il mio seno. Nonostante tutti i miei tentativi, non riuscivo proprio a sembrare un cannibale. Già, quando si hanno labbra piene come le mie, all'apparenza iniettate di collagene, e forse non è soltanto apparenza, l'unica espressione utile è quella che sottintende: "Costo duecento dollari all'ora”. E che, pensandoci bene, rischia di tradire la mia intenzione di sbranarmi vivo il primo che passa. Per Brad Pitt potrei fare un'eccezione. Per gli altri, be'... alzo le spalle. Mi spiace, ma questa è la mia espressione. Strinsi le labbra, poi le rilassai. Strinsi, rilassai. Volevo costruirmi una faccia dall'aria minacciosa. Quando notai il tassista 9


che mi stava fissando dallo specchietto retrovisore, mi girai arrossendo verso il finestrino. Avrei dovuto esercitarmi a casa, ma avevo ricevuto una telefonata inaspettata dal mio ex marito, che muoia e bruci all'inferno per l'eternità, che mi aveva consumato il poco tempo libero rimasto. «Voglio che ci riproviamo» aveva detto. Chiamava una volta al mese con la stessa richiesta. Non sopportava l'idea che una donna non lo volesse. «Ti amo, tesoro, te lo giuro» concludeva sempre così il discorso. Sì, e i miei seni sono una settima di piacere. Non è vero, nel caso qualcuno se lo domandi. Raggiungo a malapena una terza. Sono orgogliosa di me stessa. Gli ho detto che speravo si beccasse un'infezione in cui i batteri divorano lentamente la carne tra atroci sofferenze, partendo dalla sua appendice preferita, e ho troncato la comunicazione. (Il primo punto a mio favore sul tabellone). Spero che la mia Tigre sia stronza come la Vita, ma ancora non l'ho sperimentata a sufficienza per esserne sicura. Mentre Richard e io stavamo ancora insieme, lui mi tradiva. Da brava ragazza, la prima gliela la lasciai passare. Lotta per il tuo matrimonio e stronzate del genere. Gli uomini sono sempre uomini, no? Ignora il fatto che sono puttane di sesso maschile. Ops. Avete percepito l'astio? Al secondo tradimento, l'ho lasciato per quattro settimane. Mi vergogno, ma devo ammettere che gli ho permesso di riconquistarmi: si era fatto tatuare il mio nome sui lombi. Chi può resistere a una cosa simile? E chi se ne frega se il mio nome giace accanto a quello della sua prima moglie. Al terzo tradimento, me ne sono andata e ho chiesto il divorzio. Questo è accaduto sei mesi fa. In veste di avvocato divorzista, alias rifiuto della società, sapeva bene come plasmare la legge a suo favore e difatti a lui è rimasto tutto quanto e a me niente. Se volete sapere da dove attingono le loro idee gli assassini depravati, credo proprio di averlo capito. Dalle donne deluse. Quante cose io avrei potuto fare con un bel ferro da stiro fra le mani o uno scalpello... Be', questo è un fatto discutibile. La telefonata di Richard era stata l'inizio perfetto di una giornata orrenda. Al mattino avevano disdetto il più grosso incarico che avessi mai ricevuto nella mia carriera di organizzatrice di feste. E solo perché mi ero rifiutata di partecipare a una festicciola 10


privata, come l'aveva definita lui, non io, con il proprietario delle Glasston Industries sul retro della sua limousine. Il licenziamento era arrivato dopo che io avevo passato ben quattro settimane della mia vita a progettare il banchetto annuale per i dipendenti delle Glasston Industries. Quattro settimane angoscianti, irte di difficoltà. A quella disgustosa offerta, era emersa la mia Tigre interiore che gli aveva sferrato un bel calcio ai testicoli. (Secondo punto a mio favore). Ma la cosa non era finita bene. Prima che lui potesse denunciarmi per aggressione, ero salita su un taxi e mi ero preparata all'incontro con il prossimo cliente. Avevo trovato un pezzo di cibo rancido sotto la cintura di sicurezza. Speravo si trattasse di cibo, non volevo nemmeno prendere in considerazione l'origine di quella macchia unta. Quel grasso, o qualunque altra cosa fosse, era l'ultimo dei miei problemi. Appena messo piede sul taxi, avevo pensato che l'autista avesse un grave problema di flatulenza. Mi sbagliavo, e di grosso. Il terribile fetore di cacca di cane che pervadeva l'auto proveniva dalle mie scarpe. Con ogni probabilità ne avevo pestato una certa quantità sulla strada che conduceva alle Glasston Industries. A quel punto, potevo solo augurarmi di essere riuscita a lasciarne un po' sui calzoni del signor Glasston. Pensate che sia molto cattiva se auguro a lui e a Richard di marcire insieme all'inferno? Aspettate. Ho di nuovo quel tono astioso. Non voglio sembrare una donna ostile. Voglio essere forte. Le donne forti sono felici. E io desidero esserlo con tutta me stessa. Alla ricerca di uno stimolo mentale, frugai nella borsetta ed estrassi la mia copia di Come liberare la vostra Tigre interiore. Le mie cugine gemelle, Kera e Mel, me lo avevano regalato per il mio trentunesimo compleanno, ossia due mesi fa, e grazie a quel libro stavo diventando una donna decisamente molto più forte e più felice. Una donna che aveva il proprio destino in mano. Una donna che non permetteva alla sfortuna di tagliarle le gambe. Tutto andrà bene, Naomi, aspetta e vedrai. Il taxi si fermò di colpo. Allungai una banconota da dieci dollari all'autista. «Tenga il resto» dissi, feci un respiro profondo e aprii la portiera. Non appena sul marciapiede, un giovane mi afferrò la cinghia della borsetta e me la strappò. Gridai, cercai di rincorrerlo. Purtroppo, dopo quattro passi, il tacco di dieci centimetri della scar11


pa sinistra si ruppe e caddi a terra a faccia in giù. Ciuffi di capelli neri mi impedivano di vedere e rimasi senza fiato. La valigetta scivolò sul cemento. Era l'inizio di luglio, una tipica mattinata a Dallas: soffocante, secca, orribile. Il marciapiede bollente bruciava sulle ginocchia sbucciate. Il ladro si era dileguato dietro l'angolo e nessuno aveva cercato di fermarlo. Credo anche di aver sentito il commento di una donna: «Hai visto che bel culetto aveva quel tizio?». Ero distesa per terra: la gente si scontrava per sorpassarmi, altri si fermavano, guardandomi e ridendo. Con le guance rosse, cercai di rialzarmi, ma ricaddi pesantemente a causa delle ginocchia doloranti. Sarebbe stato bello se l'autista del taxi fosse sceso ad aiutarmi. Ma una bionda decisa mi oltrepassò e si accomodò nell'auto come un razzo. A quel punto, il taxi si allontanò sputandomi in faccia una nuvola di gas di scarico. Tossii, mi rialzai e raccolsi le mie cose. Per fortuna, avevo lasciato tutte le mie carte di credito a casa. In compenso, il rossetto e la cipria erano spariti. Maledizione! Ci mancava solo questo. Zoppicante e sporca, riuscii a riprendermi ed entrai nel palazzo della Powell. Nonostante lo scippo, dovevo sembrare sicura di me. Quel lavoro era troppo importante. Nell'atrio, ignorando gli sguardi curiosi della gente, trovai il bagno. Era affollato. Le voci gracchianti e stridule delle donne erano più fastidiose del fumo di una sigaretta galeotta. Tossii e mi infilai in uno dei bagni. Gettai la giacca macchiata nella spazzatura e posai la fronte sulla parete di legno. Una parte di me avrebbe voluto singhiozzare, un'altra spaccare la faccia al primo che passava. Fui costretta a trovare una via di mezzo. Assalire un potenziale cliente come una bestia selvaggia non era consigliabile. Così chiusi gli occhi, feci un respiro e recitai mentalmente il mio mantra: Sono in un prato di felicità. Sono in un prato di felicità. Perché non mi ero levata le scarpe per inseguire quel bastardo di ladro? Sono in un prato di felicità. Per quale ragione, io non avevo denunciato le avances disgustose del signor Glasston? Sono in un maledetto prato di felicità! Perché non... 12


Riaprii gli occhi e strinsi i pugni. La meditazione che mi aveva insegnato il mio patrigno non faceva altro che peggiorare ulteriormente la mia ansia. Era meglio lasciar perdere prima di mettermi a urlare, piangere, fare kung-fu contro i muri del cesso. Il mio patrigno è uno psichiatra, ma con me i suoi metodi non funzionano. Non capisco perché continui a provarli. «Posso farcela.» Bugiarda, disse la mia Tigre e subito ribattei: Stronza. Dio, forse sono schizofrenica. Cercando disperatamente di rilassarmi, a quel punto uscii dal bagno. Osservai la sala gremita, notando dettagli che prima mi erano sfuggiti. Ogni donna presente indossava qualcosa di verde. Giacche verde pisello, gonne verde scuro, camicie verde oliva. Mi sembrava di essere caduta in un'insalata di avocado. Perché il verde?, mi chiesi, guardando la mia lunga gonna marrone. Poi gemetti. Che diavolo importava? Anche se avessi saputo che il verde era di moda, non possedevo vestiti di quel colore. Negli ultimi tempi preferivo il marrone, il nero e il bianco. Colori da donna in carriera. Colori peraltro noiosi. Un altro argomento nella lista del: Perché la mia giornata fa schifo. Davanti allo specchio erano in troppe e non c'era spazio per aggiustarmi i capelli, così rinunciai e me li lisciai un tantino sul collo, lasciando alcune ciocche libere sulle tempie. In compenso, io ero ben decisa ad affrontare la riunione senza zoppicare. Dopo essermi pulita le scarpe, passai dieci minuti a cercare di renderle pari. Diventarono entrambe basse. Non zoppicavo più, certo, ma sembravo una dodicenne. Con il mio metro e sessanta, avevo disperatamente bisogno di ogni centimetro disponibile. Il bagno diventava sempre più affollato e mi sembrò che le pareti si stringessero. Uscii. Davanti all'ascensore, nell'atrio, c'era una guardia dalle spalle enormi e la pancia che gli sporgeva sopra la cintura dei pantaloni. Quando cercai di sorpassarla, alzò il braccio e mi impedì di andare avanti. «Le domande vanno presentate alla reception» disse. Fui sul punto di rispondere che ci sarei andata subito, ma mi fermai in tempo. Sono sicura di me stessa. Sono decisa. «Non sono qui per presentare nessuna domanda.» In realtà, ero lì per un lavoro, ma di altra natura. Drizzai le spalle come spiegato nel manuale di autoaiuto. «Ho un appuntamento con Royce Powell.» La guardia grugnì. «Provaci con qualcun altro. Non mi bevo le tue stronzate.» 13


Rimasi a bocca aperta, ma la richiusi subito. «Sto dicendo la verità.» «Senti, o spedisci la tua domanda come le altre, oppure metto il tuo nome sulla lista dei cattivi e verrai scartata d'ufficio.» Di solito, quel tono paternalistico mi avrebbe bloccata. Dopotutto avevo anni di esperienza alle spalle con il mio vero padre (che si rivolti nella tomba con dolore) e con Richard (che lo raggiunga presto e si rivolti con dolore insieme a lui). Ma, come ho già detto, sto diventando una donna nuova. Una donna nuova che non accetta queste stronzate da un uomo. A essere onesta, il pensiero di finire sulla lista dei cattivi quasi mi eccitava. «Ascolta» ribattei, puntandogli contro un dito. «Oggi non è stata decisamente una buona giornata. Ti consiglio di spostarti, se non vuoi fare una brutta fine.» Rise divertito, poi tuonò: «Di qui non mi muovo, signorina!». «Le-va-ti-di-mez-zo.» Ogni sillaba era tagliente come una lama. «Scordatelo.» Mi fece un sorrisino e mostrò i denti piccoli e ingialliti. «Non ti lascerei passare nemmeno se fosse Dio a spostarmi.» In quel preciso momento, venni sopraffatta da qualcosa di strano. All'improvviso, quella guardia rappresentava tutto ciò che era andato storto quel giorno, il giorno prima, e in tutta la mia vita. Passargli davanti non era necessario solo per ottenere il lavoro. Era determinante per la mia pace mentale. «Forse non posso coinvolgere Dio, ma posso darti un calcio nel culo!» Il viso butterato della guardia si aprì in un'espressione sorpresa, ma subito dopo si accigliò. «Dio mio, quanto odio le donne con la sindrome premestruale.» «Se è questo che vuoi, ti darò una sberla premestruale. Che ne dici?» «Fagliela vedere, tesoro» urlò qualcuna. Mi voltai. Tutte le donne del bagno si erano allineate dietro di me come nella processione di San Patrizio. Ringalluzzita dalla loro solidarietà, mi rigirai, certa della mia espressione Ti mangio vivo. La guardia fece un passo indietro. «Ti do due secondi per levarti dai piedi» dissi, decisa, «o te ne pentirai. Tre giorni fa ho parlato con Linda Powell...» 14


«Linda Powell?» Con sguardo improvvisamente terrorizzato, mi lasciò passare. «Perché non lo ha detto prima? Prenda l'ascensore veloce. Diciannovesimo piano.» Tutt'a un tratto, la guardia aveva preso a darmi del lei. Sconvolta da quell'inaspettato successo, riuscii soltanto a lanciargli un'occhiataccia. Le donne alle mie spalle si gettarono in avanti. Presa alla sprovvista, venni spinta in ascensore. Riuscii a restare in piedi. «Io ho parlato con Linda Powell» gridarono molte donne. «È vero. Lo giuro.» «State indietro, ragazze» disse la guardia a quel punto, mentre le porte si richiudevano alle mie spalle. Salendo, mi accorsi che avevo le mani sudate e il cuore che mi batteva nel petto all'impazzata. Non per l'altitudine, ma per la consapevolezza di poter sprofondare e morire. Grazie a Dio, l'ascensore arrivò senza problemi e giunsi davanti all'ufficio con qualche minuto di anticipo. Uno dei vantaggi di partire sempre per tempo. Una donna in abito nero era seduta alla reception. Portava i lucidi capelli neri perfettamente pettinati all'indietro in uno chignon stretto e aveva gli occhi a mandorla. Pallidissima (perfino più di me, che sono praticamente diafana), sembrava una vampira. «È questo l'ufficio di Royce Powell?» chiesi. «Sì» rispose severa, guardandomi da sotto le sopracciglia nere. «E lei è...?» «Naomi Delacroix. Ho un appuntamento» mi affrettai a rispondere. Mi squadrò da capo a piedi e, ovviamente, mi trovò insufficiente. Aggrottò la fronte ancora di più. «Le domande dovrebbero essere spedite e non consegnate di persona» mi fece quindi notare. Domande? Santo cielo, che cosa avevano tutti in quel palazzo? Royce Powell mi aveva chiamata mesi prima; a essere sincera, aveva chiamato più volte, ma avevo fatto finta di nulla e non lo avevo mai richiamato. Mi era mancato il coraggio di trovarmi faccia a faccia con un uomo estremamente sexy che avevo visto in una sola occasione, ma che avevo sognato infinite volte. Ma adesso il diavolo ci aveva messo lo zampino. Quando Linda Powell mi aveva contattata qualche giorno prima, le avevo parlato. Voleva che incontrassi suo figlio per scoprire se ero la persona adatta a organizzare la festa del suo sessantesimo compleanno. Cercai di spiegare il tutto a Elvira, la 15


Signora delle Tenebre. «Non devo presentare alcuna domanda, sono...» «Tesoro, tutti devono presentarne una e puoi trovare il modello a pianoterra. Come hai fatto a oltrepassare Johnny?» «Ho tirato dritto.» Per dare più enfasi alle mie parole, sventolai il braccio a mezz'aria. «Credo di averle spiegato che non sono qui per presentare una domanda. Io un lavoro ce l'ho già.» Be', non era proprio una bugia, ma quasi. Non si erano ancora discussi i termini né firmato un contratto. «Devo solo parlare con il signor Powell.» «Non c'è bisogno di diventare aggressiva.» «Come, scusi?» Era forse drogata? «Io non sono aggressiva.» «Mi guardi con fare minaccioso.» Strinsi forte i denti. «Se ora vuole dire al signor Powell che sono qui...» «Santo Dio, vado a prenderti il modello della domanda.» Si alzò. «Aspetta qui e non toccare niente finché non torno.» «Ma non sono qui per...» La mia voce si spense quando mi accorsi di essere rimasta sola. E se le domande in questione riguardavano l'organizzazione della festa e tutte quelle donne nell'atrio erano le mie avversarie? Restai senza fiato. Poco dopo, sempre Elvira, la Signora delle Tenebre, mi presentò sotto il naso un pacchetto di fogli azzurri. «Compila questi e spediscili.» Gettai un'occhiata ai fogli. Hobby preferiti, informazioni sull'ultimo fidanzato. Abitudini sessuali. Che diavolo? Io non avevo nessunissima intenzione di compilare quella roba. Non sapendo che cosa fare dei fogli, li infilai nella valigetta. «È per l'organizzazione della festa o per un lavoro regolare?» Grugnì. «Non si tratta di una domanda di assunzione, tesoro, ma di una domanda per diventare la signora Powell.» Rimasi di stucco, convinta di aver frainteso. «Come dice?» «Oh, basta fingere di non essere qui per sposarlo. Il Tattler ha riportato la storia qualche giorno fa. Da allora non fanno che arrivare donne a fiumi.» «Raccoglie le domande per trovare moglie? Davvero?» Ma che uomo era se si aspettava di trovare la compagna della sua vita con un questionario? Niente di più egoista. Presuntuoso. Disgustoso. Eppure la cosa andava a meraviglia con la mia giornata. Come se avessi pensato a risposarmi. Come se non preferissi 16


partecipare a La Talpa e mangiare carogne di scarafaggi avvolte nell'utero di una scrofa, il tutto condito da sangue di mucca. A quel punto, cercai di assumere un tono calmo, razionale. «Sono qui per discutere i dettagli della festa di compleanno della signora Linda Powell. Nient'altro.» La mia nemica alzò un sopracciglio. «Nome?» mi domandò. Glielo avevo già detto, ma sorrisi con educazione. Forse eravamo sulla strada giusta, finalmente. «Mi chiamo Naomi Delacroix.» Una lunghissima unghia rosso sangue scorse i nomi sull'agenda. «Bene, bene, bene. Sai una cosa? Non sei nella lista.» Il sorriso mi si gelò sulle labbra. «Glielo assicuro. Ho un appuntamento. Lunedì. Ore un... undici...» balbettai. «Oh, ti credo.» Il tono sarcastico era tagliente come una lama. «Dev'essere entrata una fatina che ha cancellato il tuo nome.» Forse era stato il suo amante, Satana. «Controlli un'altra volta, per favore» insistetti. «Non ci penso nemmeno. Siediti laggiù» mi ordinò, indicandomi una scomodissima sedia rigida. «Ti chiamerò se il signor Powell avrà un momento libero. A proposito» aggiunse con una smorfia diabolica, «hai una striscia di sporco sulla guancia.» «Grazie.» Stronza. «La ringrazio.» Il mio sorriso ormai era sparito, ma non corsi a pulirmi la faccia. Aspettai che si fosse voltata prima di strofinarmi entrambe le guance con rabbia vendicativa. Perché il taxi non mi aveva investita quando c'era stata la possibilità? Mi avrebbe risparmiato un sacco di guai. Sarebbe stato un gesto di pietà. Mi avvicinai a piccoli passi alla sedia e mi misi ad aspettare come un bambino in attesa della punizione. Avrei preferito andarmene a casa e mangiare una pizza con la salsiccia e dei biscotti al cioccolato. E una scatola di cioccolatini. E un sacchetto di patatine. E una lattina di Coca-Cola. Che mi importava del colesterolo e delle placche arteriose, quando era in gioco addirittura la mia salute mentale? Passò molto tempo e il sedere incominciò a farmi male. Non riuscivo a trovare una posizione comoda. La sedia non era foderata e, ogni volta che mi spostavo, vedevo le stelle. A un tratto, sulla porta apparve una donna dai lunghi capelli grigi e l'aria regale, che non guardò né a destra né a sinistra. Una zaffata di profumo costoso raggiunse le mie narici. Appena Elvira si accorse della sua presenza, si alzò di scatto, il viso contorto in una smorfia di disgusto. E un accenno di timore. 17


«Non è necessario annunciarmi» esordì in un tono che non dava adito a discussioni. «Entro da sola.» Con quelle parole, sorpassò la reception. «Mi spiace tanto, signora Powell, ma non posso permetterglielo.» Elvira allungò una mano e fermò la donna. «Mi dia un secondo per avvisare che è qui.» Le due si affrontarono. Le unghie sfoderate e i capelli dritti in testa. Bastava un nonnulla per scatenare un putiferio. In quel preciso momento, dimenticai il dolore al culo e la giornata disastrosa. Sarebbe stata una scena fantastica ed Elvira si meritava di perdere. Forza, vecchia signora, forza. «Non ho bisogno di venir annunciata a mio figlio» sbraitò la signora Powell. Era più spaventosa di persona di quanto lo fosse al telefono. Se fossi stata nei panni di Elvira, avrei battuto in ritirata da un pezzo. «Si levi di mezzo, altrimenti se ne pentirà.» Elvira si leccò le labbra e incrociò le braccia. «Mi ci vorrà solo un secondo. Si può accomodare in sala d'attesa, con quell'altra donna che non ha un appuntamento.» Senza aspettare la risposta, sollevò la cornetta. «Signor Powell, sua madre...» La signora Powell non aspettò. Sorpassò la reception e si avviò con fare risoluto lungo il corridoio. Il viso di Elvira divenne funereo e borbottò nella cornetta: «Troppo tardi. Sta arrivando». E riappese con veemenza. In un attimo, lo show si era concluso e rimasi ad aspettare. Ad aspettare. Ad aspettare.

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Questo volume è stato stampato nel marzo 2010 da Grafica Veneta S.p.A. - Trebaseleghe (Pd)


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