Carezze sul marmo

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VIOLET CALWIND Carezze sul marmo

Nell'anno del Signore 1469 Firenze fu investita da un'ondata di speranza sotto la guida di Lorenzo de' Medici, detto il Magnifico.

Chi non vedeva un futuro molto roseo davanti a sé era Matilde Barucci. «Buongiorno, messeri, con quali pietanze gradite iniziare la vostra giornata? Oggi abbiamo uno stufato di cinghiale che vi delizierà.»

«Portatecene tre, signorina» disse un cliente seduto al tavolo.

«A dire il vero, a me delizierebbe alquanto un assaggio di questa giovane!» esclamò un altro, scherzando con il suo commensale.

Matilde ignorò il commento sgradevole e, arrossendo imbarazzata, scappò in cucina a riferire che a quel tavolo avrebbero preso tre stufati di cinghiale e poi tornò a dedicarsi ad altro. Era costretta a fare la cameriera in una locanda da quando aveva perso tutta la sua famiglia a causa di una malattia. Il lavoro in sé non sarebbe stato neanche troppo faticoso, se non fosse stato per gli avventori dell'osteria. Grezzi, sporchi e zotici il più delle volte. Per superare le giornate, Matilde doveva dimostrarsi cordiale e remissiva, gentile e affabile, ma senza dare l'impressione di essere troppo disponi-

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bile. Doveva premurarsi anche di dosare i sorrisi. Distribuirne troppi in giro le avrebbe reso la vita difficile perché gli uomini non sapevano distinguere la cordialità dalla disponibilità e la trattavano come se un sorriso fosse un invito. Così, quando i clienti si rivolgevano a lei con fare lascivo, lei non rispondeva mai e si limitava, come aveva appena fatto, a segnare le ordinazioni e a riferirle alla cucina, per poi girare il più lontano possibile da quel tipo di gente. Spesso Matilde, per darsi la forza di superare quelle giornate, cercava di pensare a come era arrivata fin lì, a quanto era fortunata ad avere un tetto sopra la testa e del cibo nel piatto. Nonostante fosse rimasta orfana e senza nessuno al mondo, le piaceva perdersi nei ricordi, che erano come un labirinto dal quale non riusciva a uscire.

La famiglia Barucci, prima del disastro, era composta da madre, padre e tre figlie, e viveva poco fuori dalle porte di Firenze. Il padre, Giuseppe, aveva faticato duramente come maniscalco giorno e notte, ed era riuscito a risparmiare per anni per permettere alla famiglia una nuova vita dentro le mura della grande città, così da dare la possibilità alle figlie, quando fossero state tutte in età da marito, di accasarsi con uomini quantomeno rispettabili. Lui e la moglie le avevano cresciute a pane e buone maniere, avevano poco e niente a tavola, ma ogni pasto veniva consumato rigorosamente dopo aver benedetto il cibo. E se per caso avessero visto qualcuno mendicare fuori dalla porta, sarebbe stato senz'altro il benvenuto. La Signora Barucci diceva sempre che dove si mangiava in cinque si riusciva a mangiare anche in dieci.

Matilde era la più piccola della famiglia, i suoi lunghi boccoli biondi erano come seta e i suoi brillanti occhi verdi avrebbero fatto sfigurare anche le più ricche dame di corte. Caterina invece era tutto l'opposto, olivastra e mora come la

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mamma, con un carattere schivo e riservato. Brunilde era la sorella più grande e aveva un cuore tenerissimo. Si innamorava di ogni uomo sui vent'anni che osava passeggiare davanti a lei togliendosi il cappello. Sognava un matrimonio semplice, ma elegante, con chiunque l'avesse accettata.

Le ragazze fin da piccole si erano date da fare come sarte. Non c'era stata occasione di far seguire a nessuna delle tre studi più approfonditi. Perciò, una volta cresciute, nessuna di loro sapeva né leggere né scrivere, ma erano doti che non servivano quando si svolgevano lavori manuali e faticosi.

Le professioni più distinte erano riservate agli uomini, le donne non avevano tempo o modo di sognare lavori prestigiosi o carriere importanti, avevano famiglie da crescere e fratelli da proteggere.

Poi, mentre tutta Firenze era immersa nei festeggiamenti nel giorno del matrimonio di Lorenzo il Magnifico, prima si erano ammalati la madre e il padre, a seguire tutto il resto della famiglia, di tisi probabilmente. Nessuno di loro era riuscito a guarire, soltanto Matilde era sfuggita alla terribile malattia. Del loro sogno di trasferirsi a Firenze erano avanzati solo polvere e sogni.

Matilde era rimasta da sola, con l'unica eredità di un'educazione rigorosa e un fazzoletto ricamato con le sue iniziali. I corpi dei suoi erano stati bruciati in mezzo ai campi insieme ad altri con sintomi simili. Avevano già imparato dall'epidemia di peste come ci si doveva comportare con i corpi dei malati. Emarginarli e salvarsi finché si era ancora in tempo, queste erano le regole, e Matilde le aveva seguite alla lettera per sopravvivere.

Fortunatamente suo padre era sempre stato un uomo gentile e di buon cuore. Oltre ai suoi soliti lavori, aveva rifornito di lana e utensili gran parte dei locandieri di Firenze. Così,

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alla sua morte, molti si erano sentiti in debito con lui. Soprattutto Alfredo, il proprietario di una locanda poco lontana dalla cattedrale di Santa Maria del Fiore. Non ci aveva pensato due volte a offrire un lavoro a Matilde, che altrimenti non avrebbe avuto di che vivere e sarebbe morta di stenti come molti altri, sulla strada con i primi freddi.

Matilde era davvero grata ad Alfredo per quel posto, anche se la paga era miserabile, perché almeno aveva vitto e alloggio. Già dal primo giorno, però, aveva capito che quello non era il lavoro adatto a lei. Non si sentiva a suo agio con gli sguardi languidi dei clienti addosso. Alfredo non solo non faceva nulla per proteggerla da quegli uomini, bensì sembrava apprezzare il fatto che le sue cameriere fossero appetibili. Più le ragazze erano belle da vedere, più i clienti bevevano per farsi coraggio per avviare una conversazione.

Matilde aveva capito con il tempo che non serviva lamentarsi, doveva solo sopportare e aspettare che il turno finisse. Era così tutto il giorno, tutti i santi giorni. Non aveva un vero e proprio obiettivo, se non quello di arrivare a fine giornata, era il minimo indispensabile per sopravvivere. Era convinta che prima o poi le cose sarebbero migliorate, sarebbe uscita da quella condizione di povertà estrema, uno spicciolo alla volta.

Un giorno forse sarebbe riuscita a comprarsi un abito che sostituisse il suo, ormai logoro, di lana verde con la sottoveste ruvida di canapa, ma finché non fosse arrivato quel momento avrebbe dovuto stringere i denti, tenere duro. Pensava ai suoi familiari che non ce l'avevano fatta e sentiva il peso di dover realizzare il loro sogno anche perché riposassero tranquilli nella pace eterna.

Il primo passo era fatto: vivere a Firenze.

Ridestata dal mondo dei ricordi, mentre serviva ai tavoli,

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vedeva intorno a sé le altre cameriere che non esitavano a prendere degli spiccioli in più per farsi palpare dai clienti nel vicolo sul retro, ma lei no. Elargiva occhiatacce a destra e a manca e più volte era stata rimproverata da Alfredo perché non era più accomodante con i frequentatori abituali del posto. In fondo era la cameriera più giovane e bella, era fresca e la sua pelle non aveva ancora i segni della stanchezza e della rassegnazione sul viso.

La voglia di fuggire da quella situazione scomoda era tanta, ma non c'erano molte altre possibilità, soprattutto con la brutta stagione che stava per arrivare. Nessuno cercava braccianti per il raccolto e l'alternativa, per una ragazza attraente come lei, sarebbe stata sicuramente peggio che servire pietanze a un manipolo di maleducati ubriaconi.

Matilde cercava di tenersi il più possibile informata sulle novità origliando le conversazioni altrui a spizzichi e bocconi. Ascoltava talmente tanto e parlava talmente poco che spesso veniva scambiata per muta, ma non le dispiaceva quando succedeva, almeno aveva una scusa per non doversi dilungare a intrattenere noiose conversazioni.

Sapeva bene che, da quando la famiglia de' Medici era salita al potere, Firenze risplendeva di una nuova luce, ma era forse vero per la gente di una classe sociale più elevata. Per i poveri e le sguattere come lei cambiava ben poco.

A malincuore considerò che il padre probabilmente sarebbe rimasto deluso dal suo triste destino. Giuseppe Barucci aveva sognato una vita di trine e merletti per le sue tre piccole principesse, una più deliziosa dell'altra. Sarebbero decisamente rimasti dei sogni...

Tutte le donne che lavoravano nella locanda, cinque in tutto, condividevano una stanza per la notte. Mangiavano e dormivano insieme, ma soprattutto si prendevano gioco di Ma-

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tilde, si chiedevano come facesse a essere così ingenua. La chiamavano la duchessa perché si esprimeva sempre con un linguaggio molto educato e stava sempre con la schiena ben dritta.

La esortavano a essere meno dura con i clienti e le dicevano che, se almeno per qualche minuto fosse andata nel vicolo con qualcuno di loro, avrebbe avuto l'impressione di essere meno sola, e forse così avrebbe smesso di piagnucolare tutta la notte. Ma l'idea faceva un vivo orrore a Matilde, che non replicava a quelle battute cattive e continuava a lavorare.

Le giornate si ripetevano una uguale all'altra in una spirale che vorticava sempre di più verso il basso. Le cameriere si svegliavano molto presto la mattina, anche perché l'acqua era poca e chi la finiva doveva andare a prenderla al pozzo, e avevano un solo catino, un solo specchio e un solo pettine. Era quindi sempre una gara. Poi andavano a letto molto tardi la sera, esauste. Se alla fine la giornata si rivelava buona, Matilde ringraziava il cielo di avere un tetto sopra la testa e di non aver fatto nulla di avventato come scappare o scegliere il convento. Ma quando, invece, era una giornata pessima, Matilde aveva più di un ripensamento.

Ogni tanto si perdeva a guardare fuori dal locale, vedeva persone ben vestite che entravano in chiesa, gentiluomini in carrozza e signore con vestiti e cappelli colorati. Poi tornava alla realtà.

La locanda era piena di forestieri venuti da ogni dove per il mercato. C'erano commercianti di tutti i tipi, affamati e assetati, e non guardavano in faccia a nessuno. La cucina sfornava continuamente piatti ricolmi di pancia di maiale arrostita, salsiccia, anatra con salsa di prugne e pasticcio di fave. Caraffe strabordanti di Chianti e birra proveniente dalle abbazie vicine. Qualche minuto dopo mezzogiorno, molti dei tavoli

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diventavano giacigli per quegli uomini che bevevano senza ritegno e cadevano svenuti prima della fine del pasto. Le sue colleghe, quando questo succedeva, tiravano un sospiro di sollievo. Almeno per un po' avrebbero potuto rilassarsi, e a volte provavano anche a derubarli. Non sapeva quanto potessero fruttare loro quelle malefatte, se nonostante queste continuavano comunque a patire la fame.

Alfredo, anche quel giorno, diede l'ordine di togliere dai tavoli i boccali mezzi vuoti cosicché, quando i clienti avessero ripreso i sensi, avrebbero dovuto pagare di nuovo per la stessa bevanda di prima. Matilde stava eseguendo il compito, quando uno dei commensali si alzò improvvisamente facendola inciampare. Tutto quello che lei aveva in mano – due vassoi di legno e altrettanti boccali in peltro – rovinò a terra. I contenitori non si ruppero, ma il cibo e il vino si sparpagliarono dappertutto.

Alfredo cominciò a urlarle che era un'incapace, che si doveva vergognare, che non era brava a fare nulla, che era lì solamente per il buon nome di suo padre. Era la prima volta che la trattava in quel modo, ma sembrava che provasse un discreto gusto a umiliarla. Come se volesse farlo da tempo. Le ordinò di pulire il vino rovesciato sul pavimento mettendosi carponi mentre lui l'avrebbe punita con la cinghia.

Matilde, tremando, prese uno strofinaccio e si inginocchiò a terra tirandosi su le gonne, davanti alle facce estasiate degli avventori, che erano stati svegliati dal trambusto, e inorridite delle altre cameriere.

D'un tratto un avventore solitario dall'angolo della sala si alzò in piedi esclamando: «Fermate questo scempio! Non azzardatevi a toccare questa fanciulla, signore!».

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Qualche minuto prima che la cameriera facesse cadere un vassoio pieno di bicchieri, il famoso scultore Federico Alberesi era seduto nella locanda sorseggiando del vino stantio e pensando a tutto quello che era andato storto nella sua vita. Certo, aveva una grande casa, cibo in tavola e un lavoro che lo faceva sentire soddisfatto e appagato. Ma sentiva come un vuoto dentro, talmente grande che a volte lo risucchiava in una spirale di tristezza e paura. L'amore, in passato, era stato la forza che più lo aveva ispirato, che lo aveva spinto ogni giorno a dare il meglio di sé. Vivere senza quella spinta non era certo la stessa cosa.

Aveva visto, negli ultimi tempi, famiglie di poveri morire di freddo e di stenti per strada: si spegnevano così, tutti insieme come erano vissuti. Lui sicuramente nell'ultimo giorno della sua vita sarebbe stato al caldo, nel suo letto, sotto una pesante coperta di pecora, se fosse stato inverno, o un fresco lenzuolo di seta in estate. Ma sarebbe stato da solo.

Faceva pensieri oscuri quando beveva, non gli piaceva per niente. Ma aveva appena consegnato una grossa scultura a un cliente e si era fermato proprio davanti all'osteria all'ora di pranzo. Sarebbe stato sciocco non fare una sosta, anche se gli era già capitato in passato e ogni volta se ne era pentito.

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Sapeva bene che quella locanda era una bettola, ma quel giorno, stranamente, aleggiava nell'aria un odore invitante che lo convinse a fermarsi. C'era molto movimento, soprattutto verso le scale che conducevano al piano di sopra, dove c'erano delle stanze, inizialmente pensate per i pellegrini, data la vicinanza con la cattedrale, ma in realtà usate dalle donne di malaffare per il loro lavoro. La clientela era per la maggior parte di basso livello, rumorosa, sporca e sboccata. Non era di certo un ambiente che avrebbe gradito frequentare troppo spesso. I tavoli erano tutti pieni, qualche avventore si era appisolato dopo aver divorato piatti di stufato e a Federico era sembrato che una delle cameriere gli frugasse nelle tasche.

Anche l'oste aveva le guance rubizze per il troppo vino e sembrava nervoso e arrabbiato. Le donne lavoravano instancabilmente, servivano i piatti, sparecchiavano con solerzia e parlavano molto poco, se non per adescare qualche cliente dalla mano lunga. Avevano i volti stanchi, emaciati e pieni di rughe.

Solo una sembrava più impacciata, sicuramente più giovane e inesperta. Urtava spesso contro i tavoli e chinava la testa chiedendo perdono, anche se non sempre avrebbe dovuto. Parlava in modo educato, la sua camminata era composta e il nodo del grembiule ordinato.

Federico pensò che sarebbe stata perfetta come modella per le sue statue, poiché sembrava che fosse nata per essere una musa. Le sue forme erano proporzionate e armoniose, le mani piccole e ben fatte. Si rese conto che la stava guardando un po' troppo insistentemente.

Anche lei ricambiò il suo sguardo per un secondo, ma appurato che non dovesse venire servito, tornò indietro, non vide un cliente che intralciava il suo passaggio, così cadde. A

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quel punto l'oste si infuriò e cominciò a prendersela con lei, come se l'avesse fatto apposta.

Federico non riuscì più a vedere la giovane trattata in quel modo e si alzò in sua difesa.

«Fermate questo scempio! Non azzardatevi a toccare questa fanciulla, signore!»

Alfredo si fermò con il braccio a mezz'aria e con la cinghia in mano si diresse verso l'uomo che aveva osato interromperlo.

«Chi siete voi e come osate darmi ordini nella mia locanda?»

«Mi chiamo Federico Albaresi, sono uno scultore. Vi consiglio di stare attento a come parlate con me, signore.»

Alfredo si irrigidì per un attimo, intimorito dalla velata minaccia e dal nome, che doveva per forza conoscere: Federico aveva rapporti d'affari con degli aristocratici e persino con la curia. Ma, comunque, l'oste non cambiò affatto idea su Matilde. «In ogni caso, Signor Albaresi, la fanciulla, come la chiamate voi, è un'incompetente che ho accolto con buona volontà per amore del suo defunto padre, è di mia proprietà e decido io come educarla.»

I due erano sempre più vicini. Federico poteva sentire distintamente l'odore del fiato caldo e marcio dell'oste.

«La ragazza non è proprietà di nessuno. Voi non avete il diritto di umiliarla così.»

Alfredo trattenne una risata, che in quel momento sarebbe stata fuori luogo, ma evidentemente Federico aveva detto qualcosa di davvero divertente, perché l'oste strinse ancora di più la cinghia in mano.

«Oh, Signor Albaresi, permettetemi di dissentire. La ragazza in questione è più orfana e randagia di un cane che vaga per i campi e io sono tutto ciò che ha. Quindi quello che

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mi deve è come minimo un briciolo di rispetto. Mi toccherà non farla mangiare per tre giorni con tutto quello che ha rovesciato a terra.»

Matilde era ancora china a terra, con le mani si proteggeva la testa, anche se in realtà avrebbe avuto bisogno di uno scudo su tutto il corpo. Non aveva il coraggio di guardare negli occhi il signore che per qualche strana ragione stava tentando di proteggerla e che continuava imperterrito a sostenere lo sguardo di Alfredo. La voce dello sconosciuto era profonda e tranquilla, le scarpe, l'unica cosa che Matilde riusciva a vedere, erano lucide e di pregevole fattura.

Federico gli rispose: «Allora, se per voi è un tale disturbo occuparvi della ragazza, non preoccupatevi. Questi dovrebbero bastarvi per liberarvi da tale peso».

Quello che si era dichiarato uno scultore lanciò addosso al locandiere un sacchetto di pelle marrone che cadde a terra con un tonfo considerevole. Era sicuramente pieno di monete d'oro.

Poi lo scultore prese il proprio soprabito e tese la mano a Matilde, che finalmente alzò gli occhi per guardare il suo salvatore dritto in viso. Era un uomo giovane ed elegante, era vestito di broccato rosso e aveva un mantello di lana nero. La povera cameriera si aggrappò alle sue mani forti per sollevarsi da terra.

«Venite con me, signorina, vi porterò al sicuro, in un luogo dove non potrete più essere considerata proprietà di nessuno se non di voi stessa.»

Matilde si spazzò la polvere dalle ginocchia e uscì sbattendo l'uscio di legno dietro di sé. Non pensò neanche di andare negli alloggi né di salutare le sue colleghe. L'unica cosa che possedeva, il suo fazzoletto ricamato, l'aveva sempre con sé

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dentro il corsetto, e non aveva bisogno di nient'altro.

Era un errore? Matilde ebbe paura di pentirsi di quella decisione, ma nel suo cuore aveva una certezza: nessun luogo sarebbe stato peggiore di quello in cui stava, la locanda di Alfredo era stata una sistemazione d'emergenza finché ne avesse avuto bisogno, non aveva certo intenzione di starci in eterno. Vedeva nello scultore una via di fuga e decise di coglierla prima che lui cambiasse idea.

In silenzio lo seguì fin dentro la sua carrozza. Era nera e lucida, i sedili e le tende erano color fumo.

Guardando meglio la bruna capigliatura, la carnagione olivastra, il viso liscio e i grandi occhi scuri del Signor Albaresi, Matilde si rese conto di averlo già visto alla locanda qualche volta, anche se non era di sicuro un cliente abituale. Forse più uno della domenica che veniva per lo stufato di selvaggina, o che passava di là per altre questioni. Era sicuramente un uomo ricco, si vedeva dal rispetto che incuteva ai passanti, che lo salutavano levandosi il cappello.

Matilde non sapeva se sarebbe stata trattata meglio da lui che da Alfredo, ma c'era un solo modo per scoprirlo: seguirlo ovunque la stesse portando. Non aveva molte alternative, in effetti.

La carrozza era trainata da due cavalli neri e maestosamente alti, curati, non rozzi come quelli che si vedevano per strada, che spostavano nuvole di mosche con la coda lurida e aggrovigliata.

Il cocchiere era discreto ed elegante, con delle scarpe a punta di velluto e una giacca doppiopetto blu con bottoni color burro.

Quando l'aveva fatta salire a bordo, le aveva rivolto un cenno con la testa, nient'altro.

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Matilde si rese conto che, a una prima occhiata, probabilmente gli aveva fatto una pessima impressione. Il suo vestito, già sdrucito e con varie toppe, era inoltre impregnato del vino rosso che aveva sbadatamente rovesciato. L'odore stava cominciando a darle fastidio. I capelli biondi e solitamente intrecciati e raccolti sul capo, nascosti dalla cuffietta di cotone legata sotto il mento, dopo la caduta erano sciolti e ribelli, alla mercé dello scultore pressoché sconosciuto, che ancora non le aveva rivolto la parola.

Matilde avrebbe voluto ringraziarlo perché l'aveva sottratta all'ira di Alfredo, ma non osava parlare per prima. Era sempre stata abituata a essere educata e sottomessa, soprattutto con la gente di rango superiore. Prendere l'iniziativa, anche solo esprimendo gratitudine, sarebbe stata una mossa troppo sfacciata. Quindi taceva.

Si erano ormai allontanati dalla frenesia del mercato centrale, la carrozza aveva appena aumentato la velocità di marcia, quando finalmente Federico Albaresi parlò.

«Signorina, perdonatemi. Mi sono presentato in modo fin troppo cortese dinanzi a quel villano, ma ho dimenticato di chiedere quale fosse il vostro nome. E soprattutto se aveste una dimora alla quale potervi portare, così da renderlo noto al cocchiere.»

Matilde era di fronte a lui; avrebbe voluto guardare il paesaggio fuori, ma se ne stava con il capo chino, le braccia allungate e le mani in mezzo alle ginocchia, come se stesse pregando.

A quelle parole, diventò rossa in volto. Per non farsi scoprire continuò a guardare il pavimento della carrozza, che era lustro come avrebbe potuto essere solamente il desco del papa.

«Messere, non vi preoccupate, mi chiamo Matilde Barucci.

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Sono un'umile serva alla locanda e vi ringrazio di avermi tratto in salvo. Non voglio rendere vano il vostro gesto, che ho apprezzato molto. Ma quello che diceva l'oste era corretto. Purtroppo, non ho altro posto dove andare e la locanda per mia sciagura era anche la mia casa. Vi sono comunque infinitamente grata di aver provato a rendere la mia giornata migliore e vi sarei ulteriormente riconoscente se poteste accompagnarmi al convento più vicino.»

Federico la fece finire di parlare come avrebbe fatto qualsiasi gentiluomo e poi rispose: «Signorina Matilde, mi turba molto ascoltare la vostra storia e, perdonate la mia arroganza, ma ho ragione di credere che il convento non sia la vostra più profonda vocazione. Come forse avete sentito prima, io sono uno scultore. E scusatemi se ve lo chiedo, ma vorrei offrirvi un impiego che spero vi ripaghi delle sciagure che avete dovuto sopportare finora. Mi piacerebbe che veniste nella mia dimora come domestica. Ovviamente vi concederei una stanza solo per voi, vitto, alloggio e un compenso adeguato».

Matilde rimase a bocca aperta: non sapeva come esprimere al meglio la propria gratitudine e si limitò a buttarsi ai piedi di Federico. Era sempre spaventata dai nuovi inizi, ma sicuramente non poteva che andarle meglio rispetto al sopruso mascherato da compassione che aveva subito all'osteria. Pensò a sua madre, che diceva sempre, ogni giorno, fino a quando la malattia non l'aveva portata via, che dovevano essere grati a Dio di tutto quello che avevano. Matilde ogni volta si guardava intorno, come a sottolineare che avevano poco e niente. Ma la mamma diceva che avevano un tetto sulla testa, del cibo in tavola e un letto nel quale dormire. Soprattutto però avevano una bella famiglia, e c'erano persone che non avevano quella fortuna, che la peggiore delle disgrazie era vivere senza amore. Fino all'ultimo giorno che il Signore l'aveva vo-

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luta sulla terra, aveva continuato a ripetere che era la donna più fortunata del mondo, anche se ricoperta di piaghe e bruciante di febbre, perché moriva fra le braccia di chi la amava. Matilde era quindi doppiamente grata a Federico, perché le dava l'impressione di accoglierla in famiglia, anche se sapeva bene che non si faceva mai niente per niente. Sarebbe stata un'eccellente e instancabile domestica, di modo che lui non avesse nulla da rimproverarle... Ma c'era forse un altro motivo che lo aveva spinto a salvarla? Ci rifletté. Prima o poi il vero intento di Federico sarebbe venuto allo scoperto, e lei sarebbe stata pronta.

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Carezze sul marmo

VIOLET CALWIND

FIRENZE, 1469 - Il noto scultore fiorentino Federico Albaresi salva Matilde da una vita di stenti e, accortosi del suo talento di pittrice, la incoraggia a coltivarlo. Divorata dalla febbre artistica, lei scopre un altro tipo di passione, più carnale. Peccato che misteriosamente il cuore di Federico diventi allora di pietra come le sue statue.

Accordo di piacere col vichingo

LUCY MORRIS

ISOLE BRITANNICHE, 913 - Quando Brynhild, in seguito al rapimento della sorella, si accorge di aver bisogno delle abilità di Erik per salvarla, stringe una tregua con il guerriero solitario e raggiunge con lui un accordo: se Erik la aiuterà a trovare Helga, lei lo consiglierà nella ricerca di una moglie, mostrandogli cosa fa fremere di piacere una donna.

Ritratto di una duchessa scandalosa

SCARLETT PECKHAM

INGHILTERRA, 1797 - Pittrice dalle idee radicali, Cornelia Ludgate liquida l'amore e il matrimonio come minacce alla sua libertà. Ma per ottenere la propria eredità deve rivelare di essere già sposata... e con un duca! Rivedersi dopo vent'anni, però, non è facile, con tutte le sensuali conseguenze che ciò comporta.

Gli amanti dell'isola

EVA LEIGH

SCOZIA, 1819 - Per sfuggire ai ricordi di ciò che ha perso, Dominic si reca nella tenuta di un amico su una remota isola scozzese, dove scopre che uno degli ospiti è proprio la donna che ha lasciato all'altare. I due amanti ritrovati si arrendono ben presto all'ardente attrazione mai sopita. Ma la posta in gioco ora è altissima...

Duello dei sensi col nemico

LUCY MORRIS

ISOLE BRITANNICHE, 913 - Catturata da Lord Rhys, principe gallese intenzionato a vendicarsi della sua famiglia, la guaritrice vichinga Helga deve mantenere la calma se vuole essere liberata. Più facile a dirsi che a farsi! Perché se il nemico che Rhys incarna la spaventa, l'uomo che si nasconde sotto le sembianze del guerriero la tenta, riempiendola di desiderio. Helga sente che c'è del buono in Rhys e si impone di raggiungere il suo cuore. Ma prima, deve convincere l'ostile gallese ad abbassare la guardia e a vederla per la donna innamorata che è.

L'amante del libertino

MARGUERITE KAYE

INGHILTERRA, 1824 - Quando soccorre una sconosciuta priva di sensi e la accoglie nella propria casa perché si riprenda, Rafe St Alban non immagina che la sua vita cambierà drasticamente. Lui, infatti, che dopo il fallimento del precedente matrimonio è diventato freddo e scostante con le rappresentanti del gentil sesso, rimane travolto dal fascino genuino e dalla innocente sensualità della giovane, al punto che decide persino di aiutarla a scoprire chi l'ha aggredita. Così, più la loro conoscenza si approfondisce, più Rafe capisce di...

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