SCARLETT PECKHAM Ritratto di una duchessa scandalosa
Estratto dal catalogo ragionato di Cornelia Ludgate
Opera 4008: Il Battesimo delle Jezabel
Olio su tela
1797
Descrizione: in primo piano, quattro donne velate e con il seno scoperto si tengono sottobraccio. Alle loro spalle, centinaia di aristocratici fuggono da una dimora nobiliare con espressione terrificata.
Le donne sorridono.
Commento: il dipinto raffigura Cornelia Ludgate con tre rinomate protofemministe del XVIII secolo: l'autrice radicale Seraphina Arden, la nobildonna e intellettuale Lady Elinor Bell e la famigerata cortigiana Thaïs Magdalene.
Figure ricorrenti nel lavoro di Ludgate, queste donne formavano un gruppo affiatato che si autodefiniva La Società delle Sirene in virtù della missione rivoluzionaria di sfruttare la propria nomea per perorare la causa dei diritti e dell'istruzione delle donne.
Il quadro faceva parte della mostra di Ludgate intitolata Le Jezabel, in cui l'artista criticava il disprezzo della società per le cosiddette donne perdute raffigurandole avvolte da un'aura di santità.
La mostra fu da tutti bollata come sacrilega.
Ludgate la considerava il punto più alto della propria carriera.
Cornelia Ludgate aprì la lettera rompendone il sigillo di cera e la lesse solo quel tanto necessario a scorgere le parole con sommo dispiacere.
Un altro rifiuto. Il terzo della settimana e il decimo del mese.
Il suo stomaco ebbe uno sgradevole sussulto. Le notizie non erano buone.
«È un no» annunciò in tono sbrigativo, lasciando cadere la lettera sul pavimento insieme a tutti gli altri messaggi di scuse ipocrite scritti da persone che avrebbero dovuto essere sue alleate nel difendere i diritti delle donne. Chi la conosceva avrebbe dovuto sapere che Cornelia preferiva essere trattata con allegra, brutale franchezza. Un semplice, esplicito no sarebbe bastato.
Le sue tre migliori amiche, sistemate in posa in diversi punti del suo studio e abbigliate in costumi d'epoca, brontolarono all'unisono.
«Un altro?» chiese Thaïs con un sospiro teatrale. «Non sono mai stata respinta così tante volte in tutta la mia vita.»
Si guardò allo specchio e scrollò i lunghi riccioli rossi che le scendevano fino al fondoschiena formoso. «Almeno non da chi abbia avuto occasione di guardarmi bene.»
«Senz'altro» convenne Seraphina, sistemandosi meglio sul petto la figlia ancora in fasce, «presto riceveremo un sì.»
Cornelia non voleva stroncare le sue speranze, ma sapeva per certo che nemmeno in futuro sarebbero giunte buone notizie.
Rivolse alle amiche un sorriso mesto, non volendo mostrare apertamente la propria delusione. Non era mai il caso di autocommiserarsi, neppure davanti alle persone più care.
«In verità questo è un no definitivo» disse. «Ormai abbiamo esaurito i possibili sostenitori a cui rivolgerci.»
«Che codardi» mormorò Lady Elinor, zia di Cornelia.
Avevano immaginato che in molti sarebbero stati riluttanti a ospitare la nuova mostra di Cornelia. E dire che, ai tempi in cui i suoi quadri si erano fatti notare per una leggera nota di satira politica e un tocco di erotismo, i ricchi liberali se li erano contesi accanitamente. Ma dopo gli eventi dello scorso autunno, quando le quattro amiche avevano imperversato sui giornali nazionali con le loro rivendicazioni dei diritti femminili, il nome di Cornelia Ludgate non era più semplicemente sinonimo di scandalo.
Ormai era considerata un'artista sovversiva.
Pericolosa.
E, in quanto tale, degna solo di ricevere rifiuti.
«Suppongo che il fatto che nessuno voglia essere associato a noi sia una prova del nostro successo» rifletté Seraphina.
«Volevamo scatenare una guerra usando come armi la trasgressione e lo scandalo, e ci siamo riuscite. Adesso non ci resta che combattere.»
E stavano combattendo, eccome!
La campagna che avevano intrapreso l'anno precedente per raccogliere fondi a sostegno dei diritti femminili era stata a dir poco trionfale. Erano tutte e quattro figure famigerate, note per le loro posizioni politiche liberali e dubbie reputazioni. Avevano deciso di approfittare dell'interesse pruriginoso verso le loro vite dissolute per raccogliere il denaro necessario a fondare un istituto dedito all'emancipazione e all'istruzione femminile.
Finora, grazie ai proventi delle esplosive memorie di Seraphina avevano raccolto abbastanza da acquistare un bel lotto di terreno nella parte settentrionale di Londra, dove intendevano erigere l'Istituto per l'Eguaglianza delle Donne. Il problema era che quella somma era stata giusto sufficiente ad acquistare il lotto. Per avviare la costruzione dell'edificio che avevano progettato – un luogo che fungesse da rifugio per le ospiti e al tempo stesso da baluardo per la loro emancipazione e istruzione – necessitavano di altri fondi.
Invece erano di nuovo al verde.
Ciò significava che ora toccava a Cornelia riempire i loro forzieri. Il suo intento era organizzare una mostra in cui esibire i quadri più audaci che avesse mai realizzato: una serie intitolata Le Jezabel, che ritraeva sgualdrine e donne perdute nei panni di sante e Madonne.
Se le voci che circolavano sulla mostra potevano essere considerate un indizio affidabile, l'evento avrebbe prodotto i fondi sufficienti a coprire la prima fase di costruzione dell'istituto.
Ma per vendere dei quadri era prima necessario esporli. Senza uno spazio adatto non ci sarebbe stata nessuna mostra, niente proventi e nessun Istituto per l'Eguaglianza delle Donne. La causa dei diritti femminili avrebbe languito per altri cent'anni e i loro sforzi sarebbero stati vanificati.
Ma quello era un atteggiamento rassegnato e, se c'era un tratto che Cornelia Ludgate non credeva proprio di possedere, era la rassegnazione.
«Troveremo un modo. Dobbiamo solo riflettere» disse, imponendosi una calma che non possedeva.
«Ma certo che lo troveremo» le diede ragione Elinor. «Magari potremo affittare una sala.»
«Per quello ci servirebbe parecchio denaro» obiettò Thaïs. «E noi non abbiamo un quattrino.»
«Potremmo tenere la mostra nella mia casa in Cornovaglia» propose Sera. «Sarebbe grande abbastanza, se utilizzassimo anche le sale da bagno in soffitta.»
Elinor abbozzò una smorfia. «Con tutto il rispetto per le doti artistiche di Cornelia e per le vostre sale da bagno, nessuno desidera acquistare un dipinto al punto da sorbirsi una settimana di viaggio per raggiungere uno dei luoghi più sperduti del Paese.»
Cornelia scacciò l'impulso di accasciarsi a terra e prendersi la testa fra le mani. Avevano lottato così tanto per arrivare fino a lì, rischiato così tanto. Essere tradite proprio dalle persone che a parole dicevano di sostenerle ma che poi non ne avevano il coraggio era avvilente. La gente amava sposare questa
o quell'altra battaglia. Amava scrivere saggi a favore di nobili principi e inviare qualche banconota con la massima discrezione. Ma quando si trattava di esporsi in prima linea si tiravano tutti indietro.
Qualcuno bussò piano alla porta dello studio, facendole sussultare.
«Chi è?» sussurrò Thaïs.
«Abbiamo compagnia» borbottò Seraphina. «Esattamente ciò che non ci serve.»
«Cornelia?» chiamò in tono incerto una voce maschile al di là della porta.
Cornelia si raddrizzò di scatto.
«Sono Rafe» aggiunse il nuovo arrivato, come se lei non fosse stata in grado di riconoscere la sua voce.
Fece cenno alle amiche di coprirsi e si alzò. Si lisciò il grembiule da pittore chiazzato di vernice a olio e si pulì le mani come meglio poté.
Mentre si dirigeva alla porta sentì su di sé lo sguardo attento delle altre. Prima di aprirla, inspirò a fondo.
Sulla soglia c'era Rafe Goodwood e le stava sorridendo.Era ancora più bello di quanto fosse stato vent'anni prima, ossia l'ultima volta in cui Cornelia aveva avuto il piacere di guardarlo. E già allora era stato la persona più bella che lei avesse mai visto.
Non che all'epoca tu avessi visto molte persone, Cornelia.
«Mi dispiace, vi ho colto alla sprovvista» mormorò lui. La sua voce aveva ancora lo stesso timbro caldo e profondo di un buon whisky. «Non credevo foste tipo da farvi cogliere alla sprovvista» aggiunse.
In effetti, non le capitava quasi mai. Ma trovarselo di fronte proprio ora, così vicino...
Cornelia cercò le parole giuste per salutarlo, ma non ne trovò nemmeno una.
Per fortuna sua zia fu pronta a intervenire. «Mr. Goodwood» gli disse, sorridendo. «O, dovrei dire... Vostra Grazia. Prego, accomodatevi.»
Lui avanzò nella stanza, sfiorando con le spalle quelle di Cornelia nel passarle davanti. Quel semplice contatto la fece rabbrividire. Si ritrasse più discretamente che poté, spostandosi al di là dello studio, vicino alle finestre, mentre Rafe si inchinava davanti alle signore.
«Vi prego, chiamatemi Rafe» disse. «Ogni volta che sento Vostra Grazia ripenso a tutti quei funerali.»
Elinor scosse il capo con espressione affranta. «Terribile. Sette, esatto?»
Rafe annuì con aria grave. «Spero di non essere l'ottavo.»
Quando Cornelia lo aveva conosciuto, Rafe non era destinato a diventare duca. L'erede era stato il cugino di Cornelia, Ludo, finché questi non era morto mentre ispezionava una piantagione alle Barbados (individuo repellente, quel Ludo). Gli era succeduto un cugino di terzo grado, Peregrine, prontamente deceduto di sifilide (un vero peccato: Peregrine le era stato simpatico). Poi c'era stato un curato del Devon, morto di infarto.
Da lì in poi Cornelia aveva perso il conto degli eredi finiti al Creatore. Era troppo deprimente.
Lei e Rafe si sarebbero sbellicati dalle risate se avessero saputo che sarebbe stato lui a ereditare il titolo, all'epoca ormai lontana in cui erano stati, per un breve periodo, in confidenza. E ora eccolo lì.
Un dannato duca.
Recuperato finalmente il contegno, Cornelia si girò verso di lui. «Congratulazioni per essere arrivato in cima alla linea di successione» commentò, sapendo di dover pur dire qualcosa che assomigliasse a un saluto. «E siate prudente.»
Lui le gettò un sorrisetto sarcastico. «Grazie. Vi prometto che farò del mio meglio.»
Cornelia si morse il labbro per impedirsi di ricambiare il sorriso. Erano passati secoli dall'ultima volta in cui avevano scherzato insieme. E da allora lui era diventato esattamente il tipo di persona che Cornelia non trovava affatto divertente.
Non amava familiarizzare con i tories.
Peccato che Rafe fosse diventato uno di loro: un tempo le era stato simpatico.
Thaïs si fece avanti, lasciando scivolare appena il drappo che le copriva la spalla per svelare un braccio ben tornito e tempestato di lentiggini.
«E voi chi siete?» chiese a Rafe. Dal suo tono si capiva che, chiunque lui fosse, stesse riscuotendo il suo apprezzamento.
Cornelia si era dimenticata di effettuare le presentazioni, troppo presa a sforzarsi di non fissare spudoratamente Rafe.
Riprenditi!
Era una raffinata donna di mondo, non una ragazzina che restava imbambolata nel rivedere una vecchia conoscenza.
Si riscosse e si impresse in volto il sorriso soave appreso nei salotti nobiliari da ragazza – un sorriso che, grazie al cielo, era talmente radicato nelle sue abitudini da poter essere facilmente sfoderato anche in un momento come quello, in cui avrebbe di gran lunga preferito ritrarre Rafe, piuttosto che presentarlo.
«Signore, perdonate la mia scortesia» disse. «Seraphina Arden, Thaïs Magdalene, permettetemi di presentarvi il Duca di Rosemere. Erede del mio defunto zio.»
Thaïs sprofondò subito in una riverenza, più per il desiderio di sfoggiare la sua leggendaria scollatura che in segno di rispetto.
Sera, che aborriva le riverenze, si limitò a salutarlo con il cortese cenno del capo che avrebbe riservato anche a un mendicante, dopodiché continuò imperturbata a cullare la sua piccola.
«Onorato, signore» disse Rafe. «Mi pare di riconoscervi dai ritratti di Cornelia.»
Lui aveva visto i suoi ritratti? Quella sì che era una sorpresa.
«Oh, li avete forse sentiti censurare dai giornali reazionari?»
«Esatto» ammise lui in tono divertito. «Ho letto fino all'ul-
tima parola. Non sono un filisteo, sapete?»
«Temo di non conoscervi abbastanza da poterlo sapere.»
Mentre lo osservava meditare sul possibile significato di quelle parole, si sforzò di restare ben dritta e di ostentare un'espressione serafica, ma fu difficile. A quanto pareva la sua rinomata compostezza non era immune all'effetto che Rafe aveva su di lei. Era come se le sue ossa fossero diventate di segatura e non riuscissero più a sorreggerla.
Chiaramente le altre avevano colto la tensione che aleggiava fra lei e Rafe, perché continuavano a spostare lo sguardo dall'una all'altro.
«Sarebbe possibile scambiare qualche parola in privato?» chiese Rafe, sorridendole come se non vi fosse stato motivo per rifiutare.
Come se lui non avesse tradito gli ideali che un tempo avevano condiviso.
Come se non avesse collaborato con lo zio di Cornelia e i suoi spregevoli amici tories, allevando per anni i loro cavalli.
Dai suoi conoscenti danarosi Cornelia aveva appreso che Rafe era diventato una figura alquanto rispettata nei circoli aristocratici – un uomo ricercato per il suo tocco magistrale nel trattare i più pregiati purosangue. Il Rafe che lei aveva conosciuto – l'umile addestratore di cavalli che viveva in un cottage nella tenuta dello zio di Cornelia ed era membro della Società Egualitaria – era scomparso. Nessuno aveva più saputo nulla di lui per almeno un decennio.
«A vederlo, Sua Grazia vorrebbe fare ben altro che scambiare qualche parola con Cornelia» bisbigliò Thaïs a Sera a voce troppo alta per risultare discreta.
Cornelia drizzò le spalle e si girò di scatto. «Signore, perché non salite nei miei appartamenti a bere un tè? È da tempo che io e Rafe dovremmo parlare.»
«Da vent'anni, a essere precisi» mormorò lui, senza staccare lo sguardo da Cornelia.
«Ma certo» si affrettò a dire Elinor. «Con permesso.» Fece cenno a Seraphina e Thaïs di seguirla. Le due distolsero gli
occhi con ovvia riluttanza e si avviarono alla porta.
Cornelia la richiuse fermamente alle loro spalle, di fatto intrappolandosi con Rafe nella stanza che subito le parve diventare più fosca, malgrado la luce del sole entrasse copiosa dalle finestre. Il fantasma della loro passata relazione aleggiava nell'aria come una cappa.
«È un piacere rivedervi, Cornelia» esordì lui.
Ed era un piacere rivedere lui, se non altro per la vista. Quell'uomo era uno spettacolo superbo che non chiedeva altro che di essere immortalato in un quadro. I suoi capelli bruni ormai erano striati d'argento, facendo risaltare ancora di più l'azzurro dei suoi occhi. Il suo viso aveva più personalità di un tempo: le linee nette della mascella e degli zigomi erano quelle di un uomo al culmine della maturità. La sua pelle chiara era dorata dal sole – lo era sempre stata – per via delle lunghe ore trascorse in sella. Con la sua corporatura possente e le sue cosce muscolose esaltate dagli aderenti pantaloni di camoscio, sembrava il dio dell'equitazione.
Se si fosse trattato di qualsiasi altro uomo, Cornelia si sarebbe goduta la vista.
Ma con Rafe non poteva concederselo.
Sapeva bene dove ciò l'avrebbe condotta.
«Non mi aspettavo di rivedervi. Soprattutto adesso» gli disse con piglio sbrigativo.
I duchi – anche quelli che lo erano diventati da poco e inaspettatamente – non erano inclini a frequentare i radicali. Particolarmente quando il duca in questione aveva passato gli ultimi due decenni a ingraziarsi proprio quei conservatori reazionari che consideravano Cornelia e le sue amiche una minaccia per le fondamenta stessa della società.
Se anche Rafe aveva colto la freddezza con cui lei gli stava parlando non lo diede a vedere, anzi, sorrise prima di estrarre un fascio di documenti da una cartella di pelle che fino a quel punto Cornelia non aveva notato.
«Sono venuto a recarvi quelle che, spero, saranno buone notizie» annunciò. Le porse le carte. «Pagina trentanove.»
Il documento era intitolato Ultime volontà e testamento di Charles Ludgate, Duca di Rosemere. Lo zio di Cornelia. E a pagina trentanove spiccava in grassetto proprio il nome di lei.
15.9.2 A mia nipote, Cornelia Ludgate, lascio:
1. La somma di cinquemila sterline, a condizione che la suddetta nipote sia maritata e viva secondo i precetti del sacro matrimonio, come dovrà verificare il mio esecutore testamentario al momento di predisporre il lascito.
Cornelia dovette sorreggersi al davanzale della finestra per non cadere, tanto era il suo stupore.
Per vent'anni non aveva nemmeno rivolto la parola a suo zio, dopo averne lasciato precipitosamente la casa quando lui aveva cercato di costringerla a sposarsi. Fuggendo aveva rinunciato alla dote, a tutto ciò che possedeva e al suo buon nome.
Già allora suo zio era stato deciso a controllarla. E continuava a volerlo fare anche dalla tomba.
Lieta di sapere che siete ancora un verme, zio. Godetevi l'inferno.
Cornelia guardò Rafe scuotendo il capo. «È il suo modo di punirmi per averlo sfidato. Blandirmi con una carota che potrebbe trasformarsi in bastone. Evidentemente sapeva che avevo bisogno di denaro e non ha resistito alla tentazione di tormentarmi un'ultima volta.»
Rafe le sorrise. «Purtroppo per lui, però, siete già sposata.»
Già sposata.
Cornelia allentò i pugni serrati, costringendosi a ostentare indifferenza. «Purtroppo per me, né io né l'uomo che ho sposato saremmo mai disposti ad ammetterlo pubblicamente.»
Lui la guardò con espressione quasi tenera. «Perché non dovreste?»
Perché diamine la fissava in quel modo sdolcinato?
«Credete che sarei così egoista da privarvi della vostra eredità?» le chiese.
Cornelia si concesse una pausa di silenzio – una lunga pausa – per valutare ciò che quelle parole sembravano voler insinuare. «Cosa state proponendo?» gli domandò poi, alzando la voce più di quanto avrebbe voluto.
Rafe ricambiò con un sorriso disinvolto, come se quella conversazione non fosse per nulla strana. «Di annunciare pubblicamente che siete la Duchessa di Rosemere.»
La guardò negli occhi e lei resse quello sguardo, completamente allibita.
Affondò l'unghia del pollice nell'indice per costringersi a rispondere con freddezza, ma Rafe non gliene lasciò il tempo.
La prese la mano e le rivolse quel suo sorriso scanzonato e seducente di un tempo.
«Che ne dite di un ultimo matrimonio di interesse, mia cara? In ricordo dei bei vecchi tempi?»
Cornelia Ludgate fissava Rafe a bocca spalancata, con la postura eretta della gran signora che era. Aveva sempre avuto il portamento di una duchessa.
E adesso, grazie a lui, lo sarebbe diventata davvero.
Era la cosa giusta da fare.
Le strinse più forte la mano e le sorrise, incitandola con lo sguardo a dargli retta, a fidarsi, anche se era evidente che l'istinto le stesse suggerendo di rifiutare.
L'espressione confusa di poco prima le sparì dal viso rapida come vi era arrivata. Liberò la mano da quella di Rafe e la agitò in un gesto stizzito.
«Non potete parlare sul serio, Rafe.»
Rafe. Sentirsi chiamare per nome gli provocò un fremito di piacere. Da mesi, da quando era diventato erede del ducato, nessuno lo chiamava più per nome, ma signoria, o Mr. Goodwin. E adesso era diventato Vostra Grazia.
Non gli piaceva affatto. Avrebbe preferito farsi dare del bastardo che assumere il titolo più illustre di un'aristocrazia che avrebbe voluto abolire, non certo scalare.
Ancor più lo irritava il pensiero di non essere un duca qualunque, ma proprio il Duca di Rosemere. Il patrimonio del suo predecessore nasceva dallo sfruttamento dei fittavoli che egli aveva pagato una miseria pur vivendo nel lusso. Si era ulteriormente arricchito investendo in alcune società di spedizioni che dalle Barbados portavano in Inghilterra rum e zucchero,
senza curarsi minimamente del fatto che la sua stessa nipote, Cornelia, avesse nelle vene per parte di madre il sangue degli schiavi che lavoravano in quelle piantagioni.
Rafe odiava Rosemere e tutto ciò che quell'uomo aveva rappresentato.
Ora, per uno scherzo del destino, era costretto a portarne il nome, ma non ne avrebbe mai assunto il carattere.
E la prima cosa che desiderava fare era rimediare al modo inqualificabile in cui il vecchio aveva trattato Cornelia. L'amica di gioventù di Rafe. La moglie di Rafe.
Sapeva che il solo pensiero di essere legata a qualcuno le sarebbe risultato odioso. Ma rivederla – vedere quegli occhi scuri splendenti e fieri come erano sempre stati, il suo contegno nel celare lo stupore quando se l'era trovato davanti – aveva ridestato il sentimento che si era impossessato di lui sin dal loro primo incontro: il desiderio di proteggerla. Di rendere il mondo un posto sicuro dove lei potesse risplendere in tutto il proprio fulgore.
«Vi sto proponendo di vendicarvi per ciò che vi fece vostro zio» le disse. «E di vendicare tutti coloro che hanno sofferto per colpa di quel bastardo senza cuore.»
Lei lo fissò con espressione disgustata.
Non era certo la reazione che Rafe aveva sperato di ricevere.
«Quel bastardo senza cuore» gli fece eco lei con un sorriso tirato, «vi ha addolcito la vita per talmente tanti anni che mi sorprende non vi siano caduti tutti i denti. Ma d'altronde non siete mai stato famoso per la vostra lealtà, vero?»
Aveva ogni motivo di diffidare di lui. Rafe aveva lavorato per Rosemere per anni, prima addestrando i suoi cavalli e poi dirigendo le sue scuderie e l'allevamento a esse annesso. Aveva fatto degli stalloni di Rosemere gli esemplari da monta più ambiti del Paese. E per quello il defunto duca lo aveva pagato profumatamente.
Sapeva bene che le apparenze non giocavano a suo favore, soprattutto agli occhi di Cornelia.
Ma aveva avuto i suoi buoni motivi per avvicinarsi al duca e ai suoi amici tories. E quei motivi non avevano nulla che fare con il denaro, né con i cavalli.
Malgrado ciò, la diffidenza di Cornelia lo rattristava. «So che mi credete un alleato di vostro zio. E in effetti, perlomeno in superficie, lo ero. Ma spero che mi conosciate abbastanza da sapere che potrei anche aver avuto... buone intenzioni» le disse.
«Non vi conosco affatto.» Lei si mise a braccia conserte, ergendosi in tutta la sua pur piccola statura. «E vi è davvero poco che potreste dire per impedirmi di credervi un uomo privo d'onore.»
Rafe avrebbe tanto voluto poterle raccontare tutto, ma sarebbe stato troppo pericoloso farlo lì, a Londra, dove lei avrebbe potuto farsi sfuggire qualcosa in presenza di persone poco affidabili, mandando così all'aria i piani di Rafe. Meglio farlo a Gardencourt. Lì avrebbe avuto modo di conquistarsi la sua fiducia.
«Cornelia, vi giuro che non ho mai avuto cattive intenzioni. Abbandonare la causa fu difficile, ma dovetti farlo per la mia carriera. È una situazione complicata e non posso riassumere vent'anni di vita in un solo pomeriggio.»
Lei si strinse nelle spalle. «In tal caso fareste meglio ad andarvene.»
Quel disprezzo era davvero difficile da sopportare. Rafe sentiva la mancanza del modo in cui lei lo aveva guardato un tempo – come un giocattolo preferito di cui non si sarebbe mai stancata.
«Me ne vado, se è ciò che volete» rispose. «Ma prima permettetemi almeno di spiegarvi i motivi della mia proposta. Non dovete per forza avermi in simpatia per ricavarne dei benefici.»
Cornelia agitò la mano in un gesto incurante. «Sono più curiosa di sapere quali benefici sperate di ricavarne voi. Nessun uomo si esporrebbe a un simile scandalo senza volere qualcosa in cambio.»
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