Lazio Gourmand Magazine n° 8 - Primavera 2022

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Lazio Gourmand magazine

Storia, cultura, tradizioni e itinerari del gusto

minitour

VILLA PAMPHILI

IL GIARDINO DI NINFA

È DI NUOVO PRIMAVERA?

stop war!

7 APRILE:

#CARBONARADAY

N°8 PRIMAVERA 2022


TRA POCHI GIORNI ON LINE 2


EDITORIALE

È DI NUOVO PRIMAVERA? di Sabrina Tocchio

Primavera 2022. Quanto l’abbiamo aspettata? Almeno io si, tanto. Ricordo quella del 2020 trascorsa sul balcone della mia casa a prendere il sole su una sdraio da mare. Ero contenta però, contenta, con la mia integrità nel non uscire da casa, e contribuire come cittadina modello, al limitare dei contagi. Ricordo la primavera del 2021 quando, sempre con il mio senso civico, mi sono apprestata alla vaccinazione. Mi sentivo felice, fiera: avevo contribuito di nuovo. Primavera 2022, la rinascita… pensavamo tutti!

Sempre con attenzione e moderazione, potevamo finalmente godere degli effetti della vaccinazione di massa e complice la bella stagione, uscire. Andare in vacanza. E invece no. Dietro l’angolo c’era una catastrofe ancor ben peggiore di un virus mortale: la guerra. Morti, sempre morti sono, pandemia o guerra e angoscia, tanta. Stavolta però nessuno di noi può far nulla, non possiamo contribuire con il nostro senso civico e allora scatta l’impotenza. Parlare in questo numero di prodotti di stagione, di consigli su come poterli cucinare o gli effetti benefici sulla nostra salute, stavolta mi viene difficile. Apro internet e leggo Meteo Italia: come sarà la primavera 2022? Oppure: Tacco basso o Tacco alto: i nuovi trend per la primavera 2022. E mi chiedo: ci sarà una primavera quest’anno? Per questa primavera la redazione di Lazio gourmand, tutta, ha pensato di andare avanti comunque. Abbiamo pensato che potevamo umilmente dispensare attimi di serenità, dall’alto delle nostre esperienze enogastronomiche tradizionali laziali. E così eccoci di nuovo “the show must go on”, con il cuore in mano e la tristezza profonda per chi ha perso, e sta perdendo la vita in questa assurda guerra. Senza “lazzi e frizzi” vi portiamo alla scoperta dei prodotti di stagione. Non possono certo mancare carciofi, fave e piselli, con ricette nuove e un rimando alla passata primavera. Ricette sempre valide e tradizionali che rendono giustizia a questi vegetali troppo poco presenti nel panorama stagionale. Il quinto quarto, con tanta storia, aneddoti e poesie e la ricetta classica per eccellenza: la trippa alla romana. Alleghiamo anche la versione vegetariana: le uova in trippa. I nostri immancabili tour: vi portiamo a Villa Pamphili, un gioiello tutto romano, mentre la nostra amica Claudia di Girovaga inside, ci porta alla scoperta del Giardino di Ninfa, in provincia di Latina. Il 6 aprile si celebra il Carbonara day e qui ne leggerete delle belle, oltre a offrirvi ben tre versioni: la classica, l’originale e la 2.0! Da poco, invece, è stata celebrata la giornata dedicata alle Fettuccine Alfredo, le più conosciute al mondo, ma… venite a scoprire con noi le curiosità e le verità legate a questo piatto! La primavera è anche definita la stagione dell’amore e della Pasqua, noi abbiamo cercato nella tradizione laziale alcuni biscotti legati a questi due avvenimenti. Abbiamo trovato diverse ricette, e tra queste abbiamo scelto quelle più caratteristiche, facili e buonissime. Come al solito ci abbiamo messo il cuore per farvi conoscere al meglio, il nostro territorio e per regalarvi un poco di serenità, nella speranza di esserci riuscite.

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SOMMARIO

Magazine

3 LAZIO GOURMAND MAGAZINE n°8 | PRIMAVERA 2022

Bentornata primavera?, di Sabrina Tocchio

PRIMAVERA AL MERCATO 7

Bontà di primavera, di Sabrina Tocchio

PRODOTTI DEL TERRITORIO 8

Carciofi fave e piselli, di Elena Castiglione

RICETTE DI STAGIONE 10 11 12 REDAZIONE

Girovagainside

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Grafica Elena Castiglione

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Elena Castiglione Sabrina Tocchio Candida De Amicis Laura Becchis Hanno collaborato:

Foto Elena Castiglione, Sabrina Tocchio Candida De Amicis Laura Becchis Girovagainside Canva Pro

Ravioli ai carciofi, crema di pecorino e mandorle, di Candida De Amicis Filetto di maiale con carciofi e cipollotti, di Candida De Amicis Carciofi a spicchi col guanciale e vino bianco, di Elena Castiglione e Sabrina Tocchio Carciofi con piselli, di Elena Castiglione e Sabrina Tocchio Carciofi in fricassea alla romana, di Elena Castiglione e Sabrina Tocchio Palline di fave e pecorino, di Elena Castiglione Seppie in umido con i piselli, di Laura Becchis Misticanza, di Elena Castiglione La misticanza selvatica in salsa di alici e sommacco, di Elena Castiglione Sommacco, di Sabrina Tocchio

UNA RICETTA DELLA TRADIZIONE POPOLARE 20

La bazzoffia, di Elena Castiglione

IL QUINTO QUARTO 23 24

Il quinto quarto nella tradizione della cucina romana, di Elena Castiglione Trippa alla romana, di Sabrina Tocchio

Tutti gli articoli delle ricette e dei tour sono stati scritti dagli autori che sono anche proprietari delle immagini

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In copertina:

Carciofi romaneschi e erbe aromatiche (foto: Elena Castiglione)

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SOMMARIO

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Uova in trippa, di Elena Castiglione Coniglio alla romana, di Sabrina Tocchio e Elena Castiglione

LE ERBE IN CUCINA 36

Le erbe aromatiche, di Sabrina Tocchio

LG IN TOUR 27 37

Villa Pamphili. Passeggiare nella capitale in primavera, di Sabrina Tocchio Il giardino di Ninfa... un luogo da favola, di Girovagainside

LA RICETTA DEL RIUSO - I FOSTER 32

La frittata rognosa, di Elena Castiglione e Sabrina Tocchio

PRIMI TIPICI DEL LAZIO 40 Stracci antrodocani, di Sabrina Tocchio 41 Maccheroni con la ricotta, di Laura Becchis 42 National Fettuccine Alfredo Day, di Elena Castiglione 44 6 APRILE... #Carbonaraday, di Elena Castiglione 46 Il nostro #Carbonaraday, di Elena Castiglione e Sabrina Tocchio 47 La "prima" 47 La "vera" 49 Lo strapazzo, ovvero la carbonara da passeggio di Eggs 51 Giovedì gnocchi!, di Elena Castiglione e Sabrina Tocchio 51 Gnocchi di patate 52 Gnocchi di semolino

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BISCOTTI DOLCI E SALATI DEL LAZIO / di Candida De Amicis e Sabrina Tocchio 53 54 55 56 57 58

La pupazza frascatana Ciammella sorana Ciambelle degli sposi Cancello di Mentana Ciambelle casarecce al vino moscato di Terracina Giglietti di Palestrina

PERSONAGGI 60

Caravaggio. Alla ricerca della personalità misteriosa di Michelangelo Merisi negli anni romani, di Candida De Amicis

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PRIMAVERA AL MERCATO

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PRIMAVERA AL MERCATO

Bontà

di Primavera

Ortaggi

PROFUMI, COLORI E TANTI SAPORI PER MIGLIORARE IL NOSTRO UMORE!

L'unica nota positiva di questo pesante periodo è proprio la Primavera! Sono due anni che speriamo di scrivere testi diversi da questi cosi pesanti, ma gli eventi non ci sono favorevoli. La depressione dilaga e le persone diventano sempre più intolleranti e selettive. Il conflitto tra Russia e Ucraina non ci voleva proprio, dopo la pandemia che invece di regredire sembra più attiva che mai. Almeno sotto il punto di vista dell'alimentazione cerchiamo come sempre di sfruttare le potenzialità della stagione, assecondando il mood di rinascita. Cerchiamo di stare all'aria aperta, di fare sport, yoga, meditazione e regalarci ogni tanto un premio, magari un bel vestito colorato. Frutta e verdura ci aiuteranno a migliorare il nostro umore, quindi lasciamoci guidare dall'energia e dai colori di albicocche, ciliegie, nespole, meloni, pesche e susine e poi di asparagi, basilico, bietole, fagiolini, fave, finocchi, pomodori, piselli, rape e ravanelli, spinaci e zucchini. Noi, nel nostro piccolo, cerchiamo di consigliarvi qualche ricetta di stagione per esaltarne le potenzialità. Ricordatevi sempre che la frutta e la verdura di stagione costano meno e soprattutto se a Km 0. Infatti minori sono i costi di trasporto e di produzione perché servono meno cure ed interventi per far raggiungere la maturazione ai prodotti ortofrutticoli. Soprattutto in questo momento di forti aumenti, dovuti agli alti costi dei carburanti, diventa ancora più importante affidarci alla stagionalità per risparmiare. La sfida per i prossimi periodi sarà proprio risparmiare, mangiando sano e soprattutto non sprecare nulla, riciclare il più possibile per sfruttare al meglio la nostra spesa. In cucina non si butta via niente, non esistono scarti al massimo si limitano! Impariamo dal passato quando non esisteva il concetto di "avanzo", tutto veniva rimpegnato nella preparazione di un nuovo piatto, anzi molte ricette gustose sono nate proprio grazie al riutilizzo di avanzi in cucina. Uno stile di vita diverso potrebbe essere un buon modo per ridurre l'impatto ambientale tra i fornelli. Sabrina Tocchio

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aglio

basilico

bieta

carote

ceci

cetrioli

cipolla

fagioli

fave

fagiolini

fiori di zucca

insalata

lattuga

melanzane

menta

patate

peperoncini

peperoni

prezzemolo

sedano

zucchine

fagiolini corallo

ravanelli

piselli

rucola

pomodori

salvia

Frutta albicocche

angurie

ciliege

lamponi

meloni

more

pesche

ribes

uva spina

fichi

nespole

fragole

pere


PRODOTTI DDEL TERRITORIO

carciofi, fave E PISELLI di Elena Castiglione

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i fave, carciofi e piselli vi abbiamo già parlato abbondantemente nei numeri 1 e 4 del nostro magazine, dove, oltre a trovare ampie notizie, curiosità, aneddoti e ricette con questi splendidi ortaggi del nostro territorio, troverete tante ricette, soprattutto le più classiche e note della cucina romana e del Lazio. In questo numero ve ne vogliamo proporre altre. Siamo andate a cercare e spulciare nelle nostre biblioteche personali altre ricette, soprattutto quelle che fanno parte della tradizione contadina del nostro

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territorio e che abbiamo cucinato insieme per poterle proporre a voi affinché queste "perle" tramandate a voce dalle nostre nonne e mamme, possano continuare a farci godere di quei sapori che solo la semplicità, la genuinità e la tradizione sa darci. L'utilizzo dei prodotti raccolti nelle nostre campagne seguendo il ritmo della stagionalità ci fa cogliere la differenza del sapore con quelli coltivati fuori periodo nelle serre oppure surgelati. Parliamo di sapore, perché dal punto di vista nutrizionale non ci sta molta differenza. Ma il gusto... ne guadagna!


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RICETTE DI STAGIONE

ravioli ai carciofi CREMA DI PECORINO E MANDORLE di Candida De Amicis

INGREDIENTI PER 4 PERSONE • • • • • • • • • • •

100 g di farina 00 100 g di semola di grano duro 2 Carciofi 1 patata lessa 20 g di parmigiano grattugiato 40 g di pecorino grattugiato 20 g di mandorle a filetti olio extravergine d'oliva sale e pepe foglioline di menta per guarnire (facoltative) PREPARAZIONE

1. Impastate tutti gli ingredienti fino ad ottenere una pasta liscia ed uniforme; formate una palla e lasciatela riposare, coperta a campana, per almeno 30 minuti. 2. Nel frattempo preparate il ripieno: pulite i carciofi, tagliateli e versateli in padella con uno spicchio d'aglio e 2

cucchiai di olio, salate, unite un pochino di acqua e stufate finché risultano teneri; schiacciateli con una forchetta insieme alla patata lessata, unite il parmigiano, aggiustate di sale e completate con una macinata di pepe. 3. Stendete la pasta sulla spianatoia di legno con il mattarello fino ad ottenere una sfoglia sottile ed uniforme. Mettete il ripieno in tanti mucchietti equamente distanziati su metà sfoglia, coprite con il resto, premete per far uscire l'aria e fare aderire bene la sfoglia. Con una rotella dentata tagliate i ravioli.

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4. Tostate le mandorle a filetti per un paio di minuti. 5. In una ciotola versate 40 g di pecorino, bagnatelo con un po' di acqua di cottura e mescolate fino a ottenere una crema. Cuocete i ravioli al dente e ripassateli in una padella con una noce di burro. Togliete dal fuoco e unite la crema di pecorino, mescolate delicatamente fino a far sciogliere la crema. 6. Impiattate e cospargete con le mandorle tostate e, se piace, qualche fogliolina di menta


RICETTE DI STAGIONE

filetto di maiale con carciofi ... E cipollotti di Candida De Amicis INGREDIENTI PER 4 PERSONE • • • • • • • • •

500 g di filetto (o arista) di maiale 4 cipollotti 2 carciofi burro zucchero Timo aceto olio extravergine di oliva sale e pepe

PREPARAZIONE 1. Pulite i carciofi togliendo le foglie verdi e dure fino alle prime foglie giallo-rosate alla base; poi fatelo ruotare lentamente con la mano sinistra, mentre con la mano destra fate penetrare la lama di un piccolo coltello ben affilato nelle foglie del carciofo effettuando un taglio a spirale; eliminate così la parte dura e conservate la parte tenera. Immergetelo nell’acqua acidulata con succo di limone per non farlo ossidare. 2. Pulite e spuntate i cipollotti. 3. Tagliate a spicchi i carciofi e in

quattro i cipollotti e fate insaporire in una noce di burro e un cucchiaio di olio. 4. Salate, pepate, aggiungete il timo, un dito di aceto a cui avrete aggiunto un cucchiaino raso di zucchero e mezzo bicchiere di acqua. Lasciate stufare a fiamma media finché il liquido si sarà ridotto e le verdure saranno cotte e glassate. 5. Mentre le verdure cuociono, tagliate il filetto di maiale a fette spesse (se usate l’arista dividete le fette), salate, pepate e cuocetele a fiamma alta, mettendole in padella calda con due

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cucchiai d’olio; fatele rosolare bene e girate completando la cottura sull’altro lato, sempre a fiamma alta, serviranno in tutto 8/ 10 minuti. 6. Unite la carne con il fondo di cottura nelle verdure, mescolate e servite.


RICETTE DI STAGIONE

CARCIOFI A SPICCHI COL GUANCIALE ... E VINO BIANCO di Elena Castiglione e Sabrina Tocchio Una ricetta veloce e saporita, un altro modo per rendere onore a questo ortaggio a noi tanto caro.

INGREDIENTI PER 4 PERSONE • • • • • •

6 carciofi 100 gr di guanciale magro q.b. olio extravergine di oliva q.b. vino bianco secco sale e pepe limone PREPARAZIONE

1. Togliete le foglie più dure dei carciofi e continuate a tagliare intorno a rosetta lasciando la parte più tenera. Sfilettate i gambi. 2. Strofinateli con il limone, tagliateli a metà, eliminate l'eventuale peluria all'interno, tagliate a spicchi e immergete il tutto in acqua acidulata con limone. 3. Fate dorare i pezzi di guanciale nell'olio. 4. Scolate bene i carciofi. Uniteli al guanciale, mescolate e fate rosolare tutto per qualche minuto; bagnate col vino (mescolato con acqua, se si preferisce), condite con poco sale e pepe e portate a cottura a fuoco dolce.

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RICETTE DI STAGIONE

CARCIOFI con piselli di Elena Castiglione e Sabrina Tocchio Approfittiamo del periodo in cui carciofi e piselli si trovano insieme sui banchi del mercato. In alternativa potremmo usare anche quelli surgelati , ma una passeggiata al mercato in primavera fa sempre tanta allegria! INGREDIENTI • • • • •

8 carciofi Il succo di un limone 1 cipolla 60 gr di prosciutto 350 gr di piselli freschi al netto degli scarti • 2 cucchiai d'olio d'oliva • crostini di pane • sale e pepe PREPARAZIONE 1. Mondate i carciofi, conservando solo la parte interna, più chiara e una parte dei gambi ben sfilati.

6. Aggiungete i piselli. Fate cuocere a calore medio per 15-20 minuti fino a quando anche i piselli sono teneri.

2. Tagliateli a metà, controllate e togliete l'eventuale peluria al centro, tagliateli a spicchi e poi metteteli in una grande ciotola piena d'acqua fredda acidulata con succo di limone.

7. Regolate di sale e pepe 8. Servite contornando il piatto con crostini di pane dorati tostati con un filo di olio in padella.

3. In una padella capiente, fate imbiondire la cipolla con l'olio di oliva. Aggiungete il prosciutto e fate rosolare pochi minuti. 4. Scolate i carciofi e metteteli in padella insieme al soffritto. 5. Fate cuocere per una decina di minuti, fino a quando cominciano a intenerirsi.

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RICETTE DI STAGIONE

CARCIOFI in fricassea alla romana di Elena Castiglione e Sabrina Tocchio In fricassea alla romana... Non vi parliamo di niente di nuovo! È l'arte del brodettato una volta tanto in uso nella cucina romana, cioè quello di legare gli alimenti, soprattutto carni, con uovo battuto insieme a limone e erbe varie. Questa volta ci abbiamo aggiunto un po' di panna . E ci sta ... per una volta, ci sta! Ma se proprio non la gradite potete sempre ometterla !

PREPARAZIONE

INGREDIENTI PER 4 PERSONE • • • • • • •

4 carciofi 2 uova 4 cucchiai di panna liquida limone 70 g burro Prezzemolo Sale e pepe

1. Eliminate le foglie più dure dei carciofi e poi con il taglio a spirale lasciate la parte più tenera. Sfilettate i gambi. Strofinateli con il limone per evitare che anneriscano. Dividete a metà i carciofi e eliminate eventuale barbetta e poi dopo averli divisi in spicchi, metteteli nell'acqua acidulata con limone. 2. Lessateli in acqua bollente leggermente salata; scolateli. 3. Battete le uova con la panna liquida, un filo di succo di limone e il prezzemolo tritato, sale e pepe. 4. Fate sciogliere il burro in un tegame, aggiungete gli spicchi di carciofi ben scolati, aggiustate di sale e pepe, se occorre, e fate insaporire per qualche minuto a fuoco moderato. 5. Unite le uova battute, date una buona mescolata, ritirate dal fuoco e servite subito.

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RICETTE DI STAGIONE

palline di fave e pecorino di Elena Castiglione Tempo di fave. Di pecorino romano nel Lazio… è sempre il tempo! Aria di primavera, di scampagnate anche se interrotte qua e là da qualche pioggia . Come rinunciare a gustare le classiche “fave e pecorino” in questo periodo? Non ci sarebbe 1° maggio che si rispetti senza di loro! Stavolta le vestiamo più eleganti, per un finger food, insieme a un aperitivo con gli amici. INGREDIENTI PER 10 PALLINE • • • • • • • •

PREPARAZIONE 1. Togliete le fave dal baccello e sbollentatele per un paio di minuti. 2. Spellatele e rimettetele nell’acqua bollente per altri 3 minuti. Scolatele. 3. Mettete nel boccale del mixer le fave, le nocciole, una parte del pecorino, le foglioline di menta, il sale e il pepe insieme a un filo di olio extravergine di oliva. 4. Grattugiate il pecorino rimanente nei fori larghi della grattugia. Aggiungetevi le mandorle tritate. 5. Con l’aiuto di due cucchiaini, formate delle palline con la polpa preparata al mixer e fatele rotolare nel composto di pecorino e mandorle

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150 gr di fave fresche (esclusi i baccelli) 70 gr di pecorino romano dop 1 cucchiaino di mandorle tritate 2 cucchiaini di nocciole tritate 1 cucchiaino di pangrattato 5 foglioline di menta romana sale e pepe q.b. olio extravergine di oliva


RICETTE DI STAGIONE

seppie in umido con i piselli la versione di ada boni di Laura Becchis Le seppie in umido con i piselli sono uno dei piatti di mare della cucina romana. La loro caratteristica è che il sugo deve rimanere molto denso ed affatto brodoso. Per questo spesso si utilizza il concentrato di pomodoro diluito in due dita d'acqua al posto dei classici pelati. Esiste una versione delle seppie in umido che non prevede l'aggiunta dei piselli , ma vi garantisco che la loro aggiunta , ora che trovate i piselli freschi , ci sta benissimo!

INGREDIENTI PER 4 PERSONE • 3 seppie di medie dimensioni (circa 600 g totali) • 2 o 3 alici • 1 spicchio d’aglio • 1 pezzetto di cipolla • 1/2 bicchiere di vino bianco • 1 cucchiaio di concentrato di pomodoro • 300 g (al netto) di piselli • sale • olio extravergine di oliva.

PREPARAZIONE 1. Riducete a listerelle le seppie dopo averle pulite. Sciacquatele con cura sotto acqua fresca corrente. 2. Scaldate in un tegame un filo di olio extravergine di oliva e fate imbiondire lo spicchio d'aglio e la cipolla affettata sottile. 3. Unite le alici avendo cura di allontanare il tegame dal fuoco in modo che non brucino. Diventano amare! Schiacciatele con una forchetta e rimettete sul fuoco bagnando con il mezzo bicchiere di vino bianco. Quando la parte alcolica è evaporata unite il concentrato di pomodoro diluito in due dita di acqua. Lasciate cuocere un paio di minuti, quindi unite anche le seppie e, mescolando, fatele insaporire in modo uniforme per due o tre minuti. Salate e pepate. 4. Unite un goccio di acqua, abbassate la fiamma e lasciate andare dolcemente. 5. Dopo 10' unite i piselli e portate a cottura.

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MISTICANZA

misticanza di Elena Castiglione Il nome deriva da mescolanza. È composta da varietà di erbe di campo. Rappresenta ancora oggi uno dei fondamenti della cucina tradizionale e popolare romana e laziale.

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na volta si raccoglieva battendo i campi con minuziosa pazienza e così si metteva insieme un piatto che non costava niente, come se arrivasse una manna dal cielo. Un tempo erano i frati della «questua» ad essere specializzati nella raccolta di queste erbe spontanee e le portavano nelle strade, in cambio appunto di una questua, come testimonia anche il Belli:

«Tu fatte legge er libbro che cià er frate che porta er venerdì la mistocanza». Un breve inno del poeta romanesco Augusto Jandolo (18731952) ce ne porta un'altra testimonianza:

Misticanza d'indiviola , / d'erba noce e de ricetta, / caccialepre e lattughella, / co' du' fronne de rughetta: / misticanza delicata, saporita , profumata ! / C'era ancora dentro er sole, / c'era l'aria frizzantina / de quell'orto de li frati / sopra Piazza Barberina. Anche poeti romaneschi di più giovane generazione ne hanno in qualche maniera cantato le lodi, come ha fatto anche Romeo Collalti (1906-1982):

La misticanza è un piatto che fa gola; / l'armonia de l'odori più perfetta: / er Crispignano, l'Ojosa, la Riccetta,/ l'Acetosa, er Crescione, l'Indiviola ; / la Cariota, un'inticchia de Rughetta / co' que la grinta sua che cià lei sola. / L'Erbanoce, du' fronne d'Ascarola , / er Piedigallo, un po' de Cicorietta./ E metti Caccialepre, Lattughella, / e Piededepapavero e Porcacchia. / E metti Bucalossi e Pimpinella.../ Fra tutte 'ste verdure er monno è un prato / e tutte scapriorli, tra la pacchia /de' ste ghiottonerie che Dio cià dato!

caccialepre

crespigno

finocchietto selvatico

cicoria spontanea

rughetta

tarassaco

porcacchia

pimpinella

Man mano che la stagione diventa più mite, la misticanza si arricchisce di tipologie dalle foglie più tenere e si presta efficaciemente ad essere consumata in insalata. Molto apprezzata anche quella composta da erbe più coriacee che è meglio consumare dopo essere state lessate e poi ripassate in padella con aglio, olio e peperoncino.

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MISTICANZA

LA MISTICANZA SELVATICA in salsa di alici e sommacco di Elena Castiglione

La piacevole sorpresa della trattoria «Piatto Romano» Via Giovanni Battista Bodoni, 62, Roma RM Una passeggiata con un'amica a Testaccio. L'occasione di rivederci dopo un po' di tempo, andare a rimpossessarsi di quelle immagini, quei profumi, quei ricordi che ci sono stati lontani per troppo tempo. Soprattutto per me che non abito più in città. Facciamo un salto al mercato di testaccio e poi una puntatina all'Emporio delle Spezie di Laura, l'unico posto dove le acquisto da anni e che mai mi hanno deluso. Ne approfitto per rimpinguare la mia dispensa di pepe, di sale, di spezie a me tanto care. E poi si fa l'ora di pranzo. Passiamo davanti la trattoria «Piatto Romano», entriamo, ci sediamo. Perché sì, avevamo proprio voglia di cucina romana. Leggiamo il menu e la voglia di prendere questo e quello all'inizio ci travolge, poi sapendo che avremmo voluto continuare la nostra passeggiata cerchiamo di non esagerare. Tra i tanti piatti tipici della cucina romana la mia attenzione si posa su

"Misticanza in salsa di alici e sommacco"! Già sommacco, una spezia che ancora non ho mai assaggiato. Avevo letto che era già utilizzato nell’antica Roma e nel medio evo. Oggi è tipica della cucina mediorientale, ma non ne conosco il sapore. Decido che è il momento di provare! Ci arriva così questo splendido antipasto. Una misticanza insaporita dalla salsa di alici, tempestata dai puntini rossi del sommacco e sormontata da finissime fettine di limone. All'assaggio... mi commuovo! Un'esplosione di sapore agrumato che si sposa in maniera divina con la salsa di alici, un equilibrio tra il salato e l'acidulo che conquista immediatamente! Devo assolutamente tornare all'Emporio delle Spezie, prima di tornare a casa. Il sommacco deve entrare assolutamente nella mia dispensa! Assaporo quella misticanza di erbe che si alternano nei loro sapori leggermente amarognoli, con quelli più dolci o aromatici. Devo tentare di rifarla.

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E così tra misticanza deliziosa, assaggio di carbonara, buona nella norma, una cacio e pepe speciale, sempre con lo zampino dell'Emporio delle Spezie... perché il pepe usato è il pepe selvatico del Madacascar (che tra l'altro è già nella mia borsa e mi inebria di profumo)... Non poteva mancare un assaggio di coda alla vaccinara, devo dire veramente buona, tenerissima e saporita e un carciofo alla giudia... (stavolta ci metto pure la faccia!). Scambiamo due chiacchiere con il simpatico staff della trattoria e anche con Augusto, il proprietario. Mi conferma che il sommacco è preso proprio da Laura, nell'Emporio delle spezie lì vicino e che le erbe le procurano... i suoi raccoglitori di fiducia. Beh, il sommacco lo posso procurare, per la misticanza dovrò tentare dai miei "spacciatori" di fiducia del mercato di Ladispoli, il mercato più vicino a dove vivo ormai da parecchi anni. E devo dire sono stata abbastanza fortunata!


MISTICANZA

SOMMACCO

Ho esagerato e ne ho comprata troppa... però.. però... Cruda o cotta è sempre buona! Quindi ho deciso... di prepararle entrambe.

di Sabrina Tocchio Sommacco o Sumac Rhus coriaria, fam. Anacadinaceae Pianta: arbusto cespuglioso che cresce fino a 3 m; ha fiori bianchi e belle foglie rosse in autunno. La polvere sono i semi bruno rossicci, essiccati.

La salsa è un mio tentativo. Non faccio altro che preparare un pesto con alici sotto sale, dissalate e deliscate, olio extravergine di oliva, aglio, un filo di aceto. Mescolo insieme alla salsa un po' di sommacco. Una inezia di sale e condisco la misticanza, mescolandola ben bene. Non ho aggiunto le fette di limone perché all'assaggio mi piaceva già così. Diciamo che mi ci sono avvicinata. Con la rimanente ho preparato un altro classico della cucina romana e laziale: la misticanza ripassata in padella. Ho sbollentato per circa 8 minuti la misticanza, l'ho scolata e l'ho ripassata in padella con aglio, olio e peperoncino. Potete voi replicare il piatto con il quantitativo di olio, aglio e peperoncino che più gradite. È una ricetta che si fa a occhio! A me personalmente piace ben oliata e piccantina e amo sentire il sapore dell'aglio che non tolgo e lascio nel piatto.

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uesta interessante spezia, quasi sconosciuta in Occidente, è usata invece ampiamente nella cucina araba e medio-orientale (soprattutto libanese) per il suo gusto aspro, che ha applicazioni simili all’aceto o al limone. È una pianta decorativa nota a molti giardinieri in Occidente, poiché alcune varietà crescono in America del nord e in altre regioni a clima temperato; la spezia usata in cucina, però, si ricava dalla specie mediterranea, che è importante non confondere con il sommacco nord americano (Rhus toxicodendron), un tipo di edera velenosa che provoca seri disturbi alla pelle se viene toccata. Nell’Italia meridionale e in Sicilia, dove cresce spontaneo o coltivato, il sommacco è usato nell’industria conciaria, e le sue proprietà medicinali sono riconosciute da secoli. Il famoso erborista Gerard, per esempio, notava che “i semi…mangiate in salse di accompagnamento alla carne” curavano i disturbi di stomaco, uso riconosciuto ancor oggi in Medio Oriente. I Romani ne apprezzavano le virtù culinarie e lo usavano ampiamente come acidificante. Il sommacco ha un gusto gradevole, con un bel definito sapore di frutta, aspro, ma meno forte dell’a-

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ceto o del limone. È presente in tutte le case medio-orientali, in semi interi o in polvere. Il succo estratto dai semi si usa in marinate e insalate e la polvere viene strofinata su tutti i tipi di carne alla griglia, pesce e kebab, e aggiunta a stufati a base di carne e pesce. Si combina anche con yoghurt, formaggi cremosi ed erbe formando una salsa rinfrescante. È una spezia molto gustosa che meriterebbe una maggiore diffusione, non solo perché dona autenticità ai piatti medio-orientali, ma anche perché il suo gradevole gusto potrebbe dare una sfumatura nuova ai piatti tradizionalmente agri. Coltivazione Il sommacco cresce bene nelle regioni rocciose e aride del Mediterraneo, i frutti migliori provengono da aree montagnose lontano dalle coste. Si propaga facilmente per mezzo dei semi.


Una ricetta della tradizione popolare contadina

la bazzoffia di Elena Castiglione

La bazzoffia è il nome con il quale nella provincia di Latina, in particolare Sezze e Priverno, è conosciuta una zuppa di fave, carciofi e altri ortaggi tipici della stagione primaverile, con pane raffermo e uova in camicia. Siamo alle ultime battute per quanto riguarda l’utilizzo dei carciofi, ma ancora in tempo per gustare fave fresche e piselli! Non potevamo tralasciare di consigliarvi un piatto dell’antica tradizione contadina di Sezze e Priverno, uno di quei piatti da tramandare e non dimenticare. Una ricetta che sa di valori tradizionali familiari, di utilizzo dei prodotti del territorio di quella campagna amica che ci offre prodotti di eccezione. Nella provincia di Latina possiamo distinguere due diverse aree culturali che hanno condizionato la cultura gastronomica del luogo: una post bonifica in pianura con l’insediamento massiccio delle popolazioni provenienti dal Nord, in particolare dal Veneto, che hanno introdotto le usanze gastronomiche della terra natia, e quella della popolazione dei monti Lepini, riconducibile a tutta la provincia, con l’utilizzo dei prodotti tipici del territorio, soprattutto piselli, fave, lattuga, carciofi , ecc . È naturalmente una zuppa di verdure che veniva consumata tipicamente tra aprile e maggio, periodo in cui i carciofi cominciano a finire , mentre le fave e i piselli iniziano la loro stagione. Oggi , con l’utilizzo di prodotti surgelati possiamo prepararla anche in altri periodi . Ma noi, per l’occasione, ce la gustiamo con i prodotti freschi … appena raccolti! Ma veniamo alla ricetta! Capita sempre in primavera che dopo qualche giorno che sembrava fosse arrivata l’estate, torna un’aria più fresca portata dalle abbondanti piogge. Approfittiamone, perché una zuppa così ci rimette al mondo! La preparazione è estremamente semplice. Quello che ne esalta il sapore è l’utilizzo dei prodotti freschi del luogo.

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Per 4 persone occorrono....

200 g di piselli freschi sgranati 150 g di fave fresche sgranate 3 carciofi 1 piccolo piede di lattuga 1 cipolla 4 uova 4 fette di pane casereccio raffermo 2 cucchiai di pecorino grattugiato 4 cucchiai di olio extravergine di oliva sale

Preparate tutte le verdure e i legumi : tagliate a spicchi i carciofi, la lattuga a striscioline, sgranate piselli e fave . Rosolate la cipolla tritata finemente con l’olio extravergine di oliva e poi unite tutti i legumi e le verdure . Mescolate e ricoprite tutto con un un litro di acqua bollente, salate e lasciate cuocere a fuoco medio per circa un’ora . Una volta cotta , preparate le uova in camicia. Distribuite le fette di pane nelle scodelle. Ricoprite con la zuppa bollente e un uovo in camicia. Cospargere con il pecorino grattugiato.

CURIOSITÀ

A Sezze e Priverno, ogni famiglia ha la sua “autentica” bazzoffia. Gli ingredienti potevano cambiare a seconda della stagione. Anticamente al posto delle uova la bazzoffia veniva servita con il baccalà o con le lumache.

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BAZZOFFIA

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IL QUINTO QUARTO

IL QUINTO QUARTO nella tradizione della cucina romana di Elena Castiglione

Frattaglie, coda, zampetti, musetto... In pratica tutto ciò che rimaneva una volta che l'animale veniva macellato e suddiviso in quattro quarti, due posteriori e due anteriori. Era il tempo della povertà, dove la carne era a esclusivo beneficio delle classi più abbienti. Ma esisteva... un quinto quarto, considerato meno nobile, "lo scarto" destinato ai poveri, ovvero le frattaglie (le interiora), e il rimanente delle carcasse (testa, zampetti, muso, coda...). Dei 4 quarti una volta si diceva che il primo e più pregiato era per i nobili, il secondo per il clero, il terzo per la borghesia e il quarto per i soldati! Non facciamoci ingannare da questa definizione, perché il quinto quarto, dal punto di vista nutrizionale, non è affatto uno scarto, ma è costituito da parti ricche di nutrienti di cui alcune con caratteristiche davvero notevoli. Ma ancora oggi si continua a oscillare tra amore e odio verso questo cibo. Mentre alcuni appassionati hanno quasi un senso di commozione davanti un piatto di trippa o di fritto misto alla romana, con cervello, animelle e carciofi, per altri non c'è niente da fare... detestano le frattaglie e tutto il resto del quinto quarto! Le considerano vero e proprio scarto alimentare o addirittura ne traggono un senso di repulsione. Un retaggio che ci portiamo dietro da secoli! Indipendentemente dai gusti personali, però, vale la pena far conoscere questo cibo che in realtà è buono, sano, poco costoso e valido dal punto di vista nutrizionale e che ha letteralmente permesso la sopravvivenza di moltissime popolazioni durante carestie, epidemie e guerre! Oggi anche grandi chef lo stanno rivalutando e ce lo presentano in una veste tutt'altro che inappetente! Sono piatti dal gusto esclusivo e eccellente, ma per renderlo tale bisogna saperli preparare in maniera meritevole, poiché la materia prima con la quale sono preparati esige un trattamento particolare per assicurarne l'igiene e per attutirne odori, a volte sgradevoli.

Il quinto quarto nella tradizione della cucina romana Una cucina sana, nutriente e saporita la definiva Ada Boni nel suo libro La cucina romana del 1929. Una cucina povera – risultato dell'arte culinaria e la fantasia di chi possedeva pochi soldi da destinare all'alimentazione e quindi si accontentava degli scarti della macellazione – ma non per questo riduttiva. Il piacere del gusto, della essenzialità e semplicità delle ricette, con pochi accostamenti azzeccati nel gusto, ancor oggi ne fanno dei veri e propri capolavori: basti pensare alle foglioline di menta nella trippa, al sedano e altri aromi della coda alla vaccinara... La perfezione però non è nata da un giorno all'altro. È un'arte che si è sviluppata nel tempo, quasi certamente in maniera anonima e sconosciuta e che sicuramente non proveniva dalla cucina nobile o pontificia dell'epoca. Forse piuttosto stimolata dalla cucina romano-giudaica del ghetto – pur mantenendone la propria individualità – nell'inventare nuovi accostamenti di gusti. L'auge della cucina popolare romana si raggiunge tra il Settecento e l'Ottocento, quando inizia il declino del potere temporale della Chiesa e i vari pontefici che si susseguono scelgono un tenore di vita più parco. Lo stato di povertà crescerà in seguito alla Rivoluzione francese, con l'occupazione di Roma, l'invasione dei francesi e l'ol-

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traggio di Napoleone. Roma diventerà meta di viaggi culturali per l'arte e l'archeologia che offre e anche per i Giubilei. Si moltiplicano le locande e le trattorie, ed è proprio in questi locali che comincia la tradizione della cucina romana.

Tante le testimonianze dalle cronache dell'epoca. Monsieur Valery nella sua guida turistica l'Italie comfortable annotava: "Un'autentica osteria è Il Falcone,

dove si conservano le pure tradizioni della cucina romana... Vi si va all'u scita del Teatro Valle per gustare la trippa, ragout popolare, d'un gusto forte e concentrato, derivato dal ven tre di bue o vitello. E ancora il Belli, nel sonetto Er pranzo de le Minente1 Mo ssenti er pranzo mio. Ris’e ppiselli, allesso de vaccina e ggallinaccio, garofolato, trippa , stufataccio, e un spiedo de sarsicce e ffeghetelli. Poi fritto de carciofoli e ggranelli , certi ggnocchi da fàcce er peccataccio..., A Roma, nei primi anni dell' Ottocento, erano chiamati "minenti" quei popolani agiati, artigiani, carrettieri, operai, divenuti benestanti con i loro mestieri. Il benessere economico era volutamente ostentato, soprattutto dalle loro mogli, attraverso un modo di vestire vistoso e sfarzoso.

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TRIPPA ALLA ROMANA

trippa alla romana

Piedini, testa, coda e ... corata! Corata, cioè le frattaglie: polmone, fegato, cuore, milza, lombatello (tra cuore e polmone), da non confondere però con la «coratella», termine riservato alle interiora dell'abbacchio; granelli (testicoli), rognone (reni), pajata (intestino tenue del vitello, contenente ancora il chimo), animelle (timo), schienali (midollo spinale), torcioli (pancreas) e trippa! Ecco il quinto quarto! Pilastri della cucina romana: coda alla vaccinara, animelle di vitello con carciofi o piselli, torcioli arrosto, fegato in padella, trippa alla romana, coratella coi carciofi...

di Sabrina Tocchio La trippa è l’apparato digerente dei bovini, una frattaglia, compresa fra esofago e stomaco; dopo la macellazione viene sottoposta a pulizia e bollitura. È composta da rumine (la parte a forma di sacco più grande, detta anche trippa, croce, crocetta, pancia, trippa liscia o busecca), omaso (formato da lamelle, detto anche centopelli o foiolo) e reticolo (o cuffia, un piccolo sacco con aspetto spugnoso, detta anche nido d’ape, bonetto o beretta). I greci la cucinavano sulla brace, mentre i romani la utilizzavano per preparare salsicce. Il metodo di lavaggio e di lessatura ne condiziona ovviamente il sapore. Per pulirla vengono usati a volte prodotti che la rendono bianchissima , ma insapore; è preferibile acquistare quella grigia o scura e quindi non “candeggiata” o troppo cotta.

Come diceva il Belli la trippa va mangiata di sabato e in buona compagnia. “Giovedì gnocchi e sabato trippa”, uno dei proverbi romaneschi che ben indica questo gustosissimo piatto. È un piatto che, come molti altri a Roma, non ha molti fans a causa delle origini “truculente”, ma basta assaggiarlo una volta e si diventa subito amici. Nelle trattorie di Testaccio si trova ancora l’antica ricetta.

Curiosità Per le aumentate e sempre crescenti necessità della Capitale, il piccolo e insufficiente mattatoio del Flaminio, fu sostituito da un altro ben più grande al Testaccio. Fu inaugurato nel 1891 ed è rimasto in funzione fino al 1975. Era il più grande e moderno mattatoio di tutta Europa. Gli operai addetti alla spellatura del bestiame del mattatoio erano chiamati scortichini (prima ancora vaccinari), e sembra venissero pagati in parte in denaro, in parte con gli scarti: il quinto quarto. Gli scortichini per cucinarlo utilizzavano recarsi in alcune baracchette di legno adiacenti il mattatoio, in pratica le prime osterie romanesche, dove si sono inventati e evoluti i piatti più famosi del quinto quarto, come la coda alla vaccinara, la trippa alla romana i rigatoni con la pajata e tanti altri. Già prima del mattatoio intorno al monte Testaccio per la presenza di numerose vigne erano state aperte molte fraschette, dove non si cucinava, ma si serviva vino e alcuni prodotti che non avevano bisogno di cottura. Poi con il mattatoio si sono moltiplicate e alcune sono diventate osterie popolari frequentate soprattutto dai lavoratori e degli abitanti di Testaccio. La tradizione resiste ancora oggi e la clientela si è estesa ai tanti romani e turisti che amano la cucina locale.

Trippa di manzo alla romana: “Quando la trippa di manzo sarà ben pulita e lavata, fatela cuocere con acqua, sale, una cipolla con tre garofani, un mazzetto di petrosemolo con sellero, carota, due spicchi d’aglio, mezza foglia d’alloro; fatela bollire in una marmitta a picciolo fuoco sei o sette ore, che sia ben schiumata; quando sarà cotta, tagliatela in quadretti, mettetela in una cazzarola con un pezzo di butirro, sale e pepe schiacciato, passate sopra il fuoco, aggiungeteci un poco di spagnuola e culì. Abbiate un piatto con un picciolo bordo di pane o di pasta, fate un suolo di parmigiano grattato e un suolo di trippa, e così continuate fino a tanto che il piatto sia sufficientemente pieno, terminando col parmigiano grattato, nel quale avrete cura di mescolare un poco di menta trita; ponete alla bocca del forno o sulla cenere calda acciò prenda sapore, e servite ben calda”. Francesco Lonardi, Apicio moderno, 1790

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TRIPPA ALLA ROMANA INGREDIENTI PER 4 PERSONE

• 1 k di trippa • 2 fette di guanciale • 400 g di pomodori pelati • Una cipolla • Una costa di sedano • Una carota • Uno spicchio di aglio • Olio extravergine di oliva q.b. • Menta romana • Pecorino romano grattugiato • Sale e pepe o peperoncino PREPARAZIONE 1. Se possibile acquistate la trippa intera senza farvela affettare, sciacquatela e mettetela a bollire in abbondante acqua salata in ebollizione insieme a una carota affettata, una costa di sedano a pezzi, una cipolla e un mazzetto di prezzemolo. 2. Fate riprendere l’ebollizione quindi abbassate la fiamma al minimo e proseguite la cottura per circa tre quarti d’ora. 3. Lasciatela raffreddare e nel frattempo preparate un trito con il guanciale, la cipolla, la carota, il sedano, e lo spicchio d’aglio. 4. Scaldate l’olio in un tegame di terracotta e fate appassire dolcemente il battuto mescolando spesso. 5. Affettate la trippa a striscioline e versatela nel tegame quando il soffritto comincia a prendere colore. Fate insaporire per qualche minuto mescolando, quindi unite i pelati sminuzzati, salate e pepate e proseguite la cottura per circa un’ora. 6. Durante questo tempo mescolate spesso e unite un mestolo di brodo o acqua calda quando necessario tenendo presente che alla fine la trippa deve essere immersa in un sugo abbondante. A cottura ultimata, versate la trippa nel piatto da portata e completate il piatto con abbondante pecorino grattugiato e foglioline di menta sminuzzate. CURIOSITÀ: “Nun c’è trippa pe’ gatti”. Così cita un detto popolare romano. Ma qual è l’origine di questa frase? Alcuni detti popolari giunti fino a noi condensano in poche parole il senso della crisi, della mancanza di denaro. Roma nei secoli ha vissuto crisi di tutti i tipi; carestie, pestilenze, assedi, invasioni e tiranni hanno lasciato una forte impronta sia nel tessuto urbano sia nella tradizione popolare. “Nun c’è trippa pe’ gatti”, ad esempio, è l’eloquente espressione usata per dire che non ci sono più soldi oppure che non si fa alcun credito. Si potrebbero immaginare quei felini che aspettano invano davanti alla bottega del macellaio per rimediare un pezzetto di carne che non arriverà mai. Invece il detto ha un’origine ben definita: nel 1907, il sindaco di Roma, Nathan, in cerca di modi per risanare il bilancio cittadino in crisi nera, depennò dalla lista di pagamenti la trippa per i gatti che il comune acquistava per i mici del centro storico, tanto utili per eliminare i topi. Nathan ritenne quella spesa uno spreco e per risparmiare annunciò pubblicamente che a Roma non ci sarebbe più stata trippa per gatti.

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Lo sfratto, — Perché me cacci? — chiese un vecchio Gatto a una Guardia der Foro che je dava lo sfratto. — Li mici stanno bene a casa loro: — disse la Guardia — nun te crede mica che, co' tutte 'ste bestie, Roma antica guadagni de prestiggio e de decoro... Te la figuri un'epoca imperiale co' li gatti che aspetteno la trippa e l'avanzi incartati in un giornale? o che stanno, magara, a fa' l'amore tra le colonne indove Marco Agrippa annava a spasso co' l'Imperatore? — E va be'! — fece lui — Ma prima o poi, quanno verranno in mezzo a le rovine le sorche de le chiaviche vicine, richiamerete certamente a noi... Capisco: l'ambizzioni so' ambizzioni, perché la storia è storia e nun se scappa: ma li sorci, però, chi je l'acchiappa? Mica ce ponno mette li leoni! Trilussa


UOVA IN TRIPPA

uovA IN TRIPPA ALLA ROMANA di Elena Castiglione Le uova in trippa! Una bontà! Uno di quei piatti così semplici dei quali ce ne stiamo completamente dimenticando, ma che portano gioia in tavola. Semplici ingredienti sempre presenti in casa, velocità d’esecuzione e palato felice! E se Giaquinta aggiunge “alla romana” alla ricetta, Ada Boni le reputa di gran lunga più buone delle francesi Oeufs à la tripe, peraltro fatte con uova sode, sugo e besciamella!! Qui siamo in tripudio di sapore genuino! Il nome deriva dalle striscioline delle frittatine che venivano condite con sugo e… per ingannare ancora di più il palato, il piatto veniva insaporito con foglioline di menta e pecorino o parmigiano. La ricetta affonda le sue radici nella cucina povera romana.

INGREDIENTI

• 2 uova a persona • qualche cucchiaio di latte • parmigiano • prezzemolo • sugo (d’umido, finto, semplice… avanzato o fatto a momento, come meglio preferite) • foglioline di menta e pecorino o parmigiano

PREPARAZIONE

La preparazione di questa ricetta è estremamente semplice. Si tratta di preparare delle frittate non troppo alte di spessore, tagliarle a striscioline a imitazione della trippa e farle insaporire in un sugo da preparare al momento o riciclato da un avanzo: 1. Preparate delle frittatine sbattendo le uova con sale e pepe, qualche cucchiaio di latte, il parmigiano e il prezzemolo tritato. 2. Lasciatele raffreddare e tagliatele a striscioline larghe circa un centimetro 3. Preparate un sugo come meglio preferite, d’umido, finto o semplice, oppure riciclate un sugo avanzato. 4. Ripassate le striscioline di frittata nel sugo e per finire aggiungete un po’ di pecorino romano (o parmigiano) e foglioline di menta.

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Villa Pamphili

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Passeggiare nella capitale in primavera

on i suoi 184 ettari è il più grande e uno dei più bei parchi della città di Roma. All’interno del Parco sono presenti importanti siti archeologici di età romana e medioevale, come l’Acquedotto Traiano-Paolo, situato al confine settentrionale lungo la Via Aurelia Antica, mentre presso il Casino del Bel Respiro e il Casale di Giovio, si trovano considerevoli strutture funerarie, sempre di età romana.

di Sabrina Tocchio

TENUTA DI CAMPAGNA DELLA FAMIGLIA DORIA PAMPHILJ, NOBILI ROMANI Risale al 1630 il primo documento che attesta la proprietà dei Pamphilj nella zona, un atto di compravendita in cui un tal Giacomo Rotolo cedette una vigna di quaranta “pezze” al principe Pamphiljo Pamphilj. Bisogna attendere sino al 1644, anno in cui il cardinale Giovanni Battista Pamphilji diventa papa con il nome di Innocenzo X, perché l’area inizi a configurarsi come residenza nobiliare di campagna. I lavori furono seguiti direttamente dal cardinale Camillo Pamphilji, nipote del papa e figlio di Donna Olimpia Pamphlji Maidalchini, influenzando almeno in parte l’opera di Alessandro Algardi, architetto incaricato dei lavori.

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LG IN TOUR Venne edificato il Casino del Bel Respiro con gli annessi giardini, concepito come Museo per ospitare la sterminata collezione di statue antiche e moderne della famiglia Pamphilji. Inoltre, per esigenze abitative, fu ristrutturata la Villa Vecchia già esistente nel 1630 e realizzate alcune delle principali fontane del Parco.

Nel 1965 è stata aperta alla cittadinanza la parte occidentale del Parco e il 22 maggio del 1971 anche quella orientale. Solo il Casino del Bel Respiro con gli annessi edifici e il Giardino Segreto, acquisito nel 1967 dal demanio dello Stato, oggi sede di Rappresentanza della Presidenza del Consiglio, rimane fuori dalla proprietà e gestione del Comune di Roma.

Tra il Settecento e l’Ottocento ci furono altri ampliamenti con i terreni limitrofi e purtroppo divenne anche teatro di furiosi combattimenti tra garibaldini e esercito francese.

La Villa ha 4 entrate principali (Via Aurelia Antica, Via San Pancrazio, Via Leone XIII e Largo Casale Vigna Vecchia) ed è visitabile dalle 07.00 fino al tramonto.

Dal 1939, il Comune di Roma ha iniziato ad espropriare il territorio della Villa.

UN PICCOLO TOUR DELLA VILLA... 1. CASINO DEL BEL RESPIRO Il Casino del Bel Respiro fu ideato dallo scultore Alessandro Algardi, per esprimere la magnificenza della famiglia. L'interno del palazzo ha numerose stanze e saloni abbelliti da stucchi dipinti. Intorno al Casino del Bel Respiro c’è un giardino bellissimo, il Giardino Segreto. Qui le siepi sono tagliate a formare dei disegni compreso lo stemma della famiglia, il giglio. Ci piace segnalarvi una curiosità sul Casino del Bel Respiro: il tunnel lungo un chilometro e mezzo che collega il Casino con il Vaticano, realizzato come via di fuga per i Papi. Preferiamo invece che venga dimenticato come luogo dove, nel 2009, Gheddafi montò la sua tenda!

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VILLA PAMPHILI 2. VALLE DEI DAINI La Valle dei Daini un'area di 6 ettari, era la riserva di caccia della famiglia Pamphilij, e un tempo abitata da daini in libertà, sembra circa 200. Purtroppo, malgrado il nome che evoca meraviglie, la valle dopo dubbi interventi, costati moltissimi soldi, è stata completamente abbandonata. L’ingresso è da Via di S. Pancrazio.

3. LAGO DEL BELVEDERE Il laghetto è il simbolo di Villa Pamphilij, meta preferita dei bambini che qui possono osservare le tartarughe acquatiche, i cigni e altre specie di uccelli acquatici che popolano la zona, abituati ormai alla presenza umana. Il lago è di origine naturale, si trova proprio all’interno della Villa ed è circondato da alberi di ogni genere, sentieri percorribili e tre punti belvedere.

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LG IN TOUR 4. FONTANA DEL GIGLIO

Il suo nome deriva dalla forma della stessa, ovvero un giglio, che ricorda lo stemma della famiglia Pamphilij. La fontana è bellissima e ancora integra, malgrado i frequenti attacchi di visitatori maleducati. E’ stata realizzata nel XVII secolo e la sua posizione strategica valorizza il Canale del Lago sottostante.

Appena sotto la fontana ci sono delle scalette che conducono ad una serie di archi molto suggestivi, dove poterci accedere con l’acqua che scende dal soffitto degli archi stessi, qui si possono fare delle belle foto.

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VILLA PAMPHILI 5. FONTANA DEL TEVERE O DEL GIGANTE Sul piazzale antistante la Villa Vecchia, dal lato delle mura che danno su Via Aurelia Antica n. 183, troviamo anche la Fontana del Tevere, costituita da un bacino di forma mistilinea e composto in pietra. Al centro della fontana si può ammirare la divinità fluviale (il Gigante), in peperino semisdraiata.

6. CAPPELLA DORIA PAMPHILI La Cappella è quella di famiglia, voluta fortemente da Alfonso Doria Pamphili per accogliere le spoglie del padre e del fratello. Realizzata dall’architetto Odoardo Collamarini dal 1896 al 1902, la Cappella Doria Pamphili in stile neogotico si trova dalla parte dell’ingresso monumentale della Villa in Via di San Pancrazio 10. Nella parte posteriore della Cappella c'è un piccolissimo laghetto, ideale per scattare qualche foto ricordo. La cappella è visitabile solo una volta alla settimana, il sabato, per la messa vespertina, alle ore 16.00 in inverno e alle ore 17.00 nella stagione estiva. È stata ristrutturata nel 2006 e successivamente recintata per evitare atti vandalici.

Dove si trova: Roma, Quartiere Monteverde - Gianicolense Ingressi: via di S.Pancrazio, via Aurelia Antica, via Leone XII, largo M. Luther King, via Vitellia, via della Nocetta Orari apertura: Ottobre-Febbraio: 7:00-18:00 Marzo-Settembre: 7:00-20:00 Aprile-Agosto: 7:00-21:00

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La ricetta del riuso LIFE FOSTER: Training, Any communicaa on or publicaaon

educaaon and communicaa on to reduce This project is co-funded by the LIFE Programmefood waste in the food service industry. of the European Union. related to the project, reflects only the author’s view made of the informaaon and the European commission is not responsible it contains.

for any use that may

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LA FRITTATA ROGNOSA di Sabrina Tocchio e Elena Castiglione

Nei secoli passati, era largamente apprezzata sia dalla società aristocratica che dal popolo. In seguito si diffuse invece nella cucina popolare romana. Le massaie preparavan una frittata di uova con avanzi di prosciutto, salsicce e pancetta, carni arrrosto varie e formaggio parmigiano.

Ma l'appellativo “rognosa” da dove deriva?

Semplicemente dal fatto che una volta cotta, sulla supperficie appaiono i vari pezzetti di carne! Oggi è caduta un po' in disuso, e si prepara solo con il prosciutto. Noi ve la proponiamo con i nostri avanzi di gambuccio e salsiccia. La frittata rognosa in un sonetto del Belli: La mojettin de bbon core

... Si Dio me fa sta grazzia, senti, sposa, do ffoco a ccasa: vojjo fa uno strillo, vojjo maggnà 'na frittata roggnosa e bbravi maccaroni cor sughillo...

Per 4 persone...

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6 uova avanzi di prosciutto avanzi di salsiccia parmigiano grattugiato olio extra vergine d'oliva sale e pepe

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Rosolate nell'olio il prosciutto tagliato a pezzetti e la salsiccia sbriciolata. Sbattete le uova con il sale, il pepe, il parmigiano e un pizzico di sale. Versate il composto nella padella dove avete rosolato gli avanzi e fate cuocere prima da un lato e poi dall'altro.


coniglio

in padella alla romana di Sabrina Tocchio e Elena Castiglione Il coniglio in padella alla romana fa parte della cucina tradizionale romana. Se ne trova riferimento nei ricettari di Adolfo Giaquinta, ma solo in maniera abbastanza frettolosa: «...Come il pollo in padella alla romana», che Lazio Gourmand già vi ha fatto conoscere, cucinato e gustato così, o come base del pollo coi peperoni. Ada Boni nella sua Cucina romana, non menziona neanche un piatto a base di coniglio... Alla riuscita del sapore di questa ricetta concorre in maniera prevalente l'inclusione del trito di aglio e maggiorana che si sposa in maniera sublime al prosciutto.

l’Italia è il secondo produttore e consumatore mondiale di carne di coniglio. Il settore gode di una sostanziale autosufficienza produttiva e la coniglicoltura italiana si caratterizza, rispetto a quella europea, anche per l’efficienza produttiva espressa sia in termini di produttività del lavoro che di incidenza del costo dell’alimentazione sul costo totale di produzione. I cunicoltori italiani rispettano disciplinari di qualità molto scrupolosi a garanzia della salute dei consumatori.

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CONIGLIO ALLA ROMANA

la ricetta passo passo INGREDIENTI PER 4 PERSONE • 1 kg di spezzatino di coniglio • 50 g di prosciutto grasso e magro tagliato a piccoli cubetti • 1 cucchiaio di strutto (o olio extravergine di oliva) • 1 spicchio di aglio tritato • foglie di maggiorana • mezzo bicchiere di vino bianco secco • 3 o 4 pomodori pelati • sale e pepe q.b.

PREPARAZIONE 1. Mettete un cucchiaio di olio o di strutto in una capiente padella insieme ai cubetti di prosciutto. 2. Appena comincia a rosolare aggiungete il coniglio a pezzi. Salate, pepate e fatelo imbiondire. A questo punto aggiungete un trito di aglio e maggiorana e circa mezzo bicchiere di vino bianco secco. 3. Continuate a mescolare e, quando il vino è consumato e il coniglio rosolato

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bene, aggiungete i pelati strizzati con le mani. Se non li avete potete sostituire con qualche cucchiaio di salsa di pomodoro 4. Continuate la cottura a fuoco lento fino a cottura completa. Se si dovesse asciugare troppo aggiungete un pochino di acqua o di brodo. 5. Servite guarnendo con qualche fetta di pane passato in padella con un filo di olio.


CONIGLIO ALLA ROMANA

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Le erbe in cucina Erba ip c ollina

Rosmarino

Timo

Basilico

Origano

LE ERBE AROMATICHE

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i tempi delle civiltà più antiche e di quelle che si svilupparono prima di Cristo, le erbe aromatiche e le spezie ebbero sicuramente un ruolo di grandi protagoniste nella gastronomia. Non dimentichiamo che, essendo il sale allora merce assai rara e quindi preziosa, le erbe aromatiche venivano utilizzate per insaporire cibi e bevande, esaltarne il gusto e anche per facilitare la conservazione di alcuni alimenti. Si dicono “aromatiche” quando si fa riferimento a determinate specie di piante, coltivate per il particolare aroma in grado di produrre un’intensa stimolazione olfattiva quando sono fresche. Venivano utilizzate: • in campo religioso nei sacrifici: la vittima veniva bruciata su roghi profumati da queste fragranze che permeavano ogni oggetto sacro; • nella cosmesi: per la creazione di oli per la pelle profumati al rosmarino o alla salvia o nella realizzazione di prodotti alla menta per purificare l’alito; • nella farmacologia: per alleviare disturbi o guarire ferite. Le erbe aromatiche fanno parte della flora mediterranea ed ebbero grande diffusione presso tutti i popoli che abitarono lungo la stessa area.

di Sabrina Tocchio molto amato e usato da Greci e Egizi, la maggiorana per i Greci rappresentava la felicità, il timo era usato per aromatizzare formaggio e vino, la salvia veniva citata da Plinio e Teofrasto per le sue proprietà terapeutiche; il prezzemolo era apprezzato dai Romani come condimento, così come il coriandolo e l’anice coltivate in Egitto e nelle isole Egee.

Le prime notizie certe sul loro consumo risalgono al periodo degli antichi Egizi che usavano preparare bevande piacevolmente aromatizzate alle erbe per il faraone e anche per la preparazione di unguenti profumati per ricoprire il corpo. Anche i Greci facevano largo uso di erbe aromatiche per la cottura della selvaggina, come si desume dai Poemi Omerici. In particolare l’origano era

A partire dal prossimo numero, la nostra rivista dedicherà una sezione alle "erbe del litorale laziale"

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In epoca imperiale a Roma la gastronomia era caratterizzata dal gusto agrodolce e da una spiccata predilezione per i cibi piccanti, ottenuti appunto dall’impiego di erbe, bacche, radici, aceto e miele e, a partire dal I secolo d.c. dal pepe, proveniente dall’Oriente.


LG in To ur

di Girovagainside

Il giardino di Nin fa

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...un luogo da favola!

rrivati ormai quasi alla Primavera, il sole tiepido e le giornate più lunghe, fanno inevitabilmente tornare la voglia di stare all’aria aperta. Tra le mete da non perdere in questa stagione, ma anche d’estate, c’è sicuramente il Giardino di Ninfa, in provincia di Latina. Abbiamo visitato questo incantevole posto più di una volta perché ne siamo rimasti talmente affascinati, da sentire la necessità tornarci e ammirarlo sempre con più attenzione. L’ingresso, a pagamento, è consentito solo in alcuni giorni e per questo è necessario prenotare anticipatamente. Arriviamo e lasciamo la macchina nell’ampio parcheggio esterno prima di catapultarci letteralmente in un sogno.

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LG IN TOUR

INFORMAZIONI UTILI: Per prenotare la vostra visita on line potete navigare direttamente nel sito ufficiale www.giardinodininfa.ue dove troverete informazioni dettagliate sui giorni di apertura, costi del biglietto d’ingresso, e orari disponibili.

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NEI DINTORNI: •Sermoneta •Norma e l’Antica Norba •Bassiano Romano •Museo storico di Piana delle Orme •Fabbrica e museo del cioccolato “Antica Norba”


GIARDINI DI NINFA Varcato il cancello, la realtà non esiste più e sembra di stare in uno di quei sogni da cui non vuoi svegliarti; non a caso è stato nominato dal New York Times “Giardino più romantico e bello del mondo”! È un Monumento naturale, circondato dai monti Lepini e impreziosito dal placido e luccicante fiume Ninfa, che quest’anno (2020) celebra i 100 anni della sua nascita. Nel 1920 infatti, Gelasio Caetani, erede della famiglia dei duchi di Sermoneta, bonificò l’area circostante, creando intorno ai ruderi della città scomparsa di Ninfa, un

giardino in stile inglese, colmo di rose, di piante mediterranee e nuovi fiori per il territorio pontino, come camelie e ciliegi giapponesi, portati di ritorno dai viaggi all’estero fatti con sua madre. Passeggiando tra i prati verdi brillanti, circondati da profumi floreali ed esotici, ascoltando lo fluire lento del fiume, sembra che lo scorrere del tempo non abbia più importanza, provando una sensazione di pace e tranquillità. Così come noi adulti, anche i bambini sono rimasti affascinati e colpiti oltre che dalla bellezza indiscutibile del luo-

go, anche dalle storie raccontate a riguardo, come la leggenda della principessa Ninfa. Terminata la visita, di un paio d’ore circa, è tempo di uscire e tornare al mondo reale. Ma, il nostro sogno non finisce qui, i dintorni sono ricchi di borghi da ammirare, come Sermoneta, Norma, Bassiano e il vicino lungomare fino al Circeo. Così, con l’entusiasmo da fanciulli, andiamo alla scoperta del territorio, certi che presto torneremo di nuovo per vedere nuovi tesori del Lazio e ammirare di nuovo l’ineguagliabile Giardino di Ninfa.

La triste storia di Ninfa Molti anni or sono, sulle sponde di un lago, in cui si specchiavano i laziali Monti Lepini, viveva Ninfa, una principessa bella, sensibile e molto dolce. Il suo castello era un maniero forte, ma piuttosto isolato per via delle paludose terre circostanti, infestate da zanzare portatrici di malaria, che impedivano un diretto accesso al mare poco distante. Il re, che desiderava con tutto sé stesso poter bonificare quelle paludi, pensò di chiedere aiuto, a due re confinanti, Martino e Moro, promettendo a chi sarebbe riuscito nell’impresa, sua figlia in sposa. Ninfa, era felice, perché confidava nel fatto che, re Martino, del quale era perdutamente innamorata, con il suo ingegno, la sua pazienza e la sua bontà d’animo riuscisse a portare a termine il compito prima del malvagio Moro, crudele e infimo stregone. Come da sua intuizione, re Martino, impiegò tutte le sue forze costruendo canali e dighe mentre Moro si limitava a guardare. Il tempo stringeva e giunti al termine dei giorni concessi dal sovrano, Ninfa osservò il suo amato sconfitto dalla palude mentre, al malvagio sfidante, era apparso un altezzoso ghigno sul viso. Fu allora che quest’ultimo con un sortilegio, magicamente prosciugò tutte le terre. La principessa era disperata, non avrebbe mai sopportato di essere la sposa di quell’essere spregevole e meschino. Così, affranta e sopraffatta dall’angoscia, salì sulla torre del castello e si gettò nel profondo del lago. Il suo corpo non fu mai ritrovato, ma tuttora si narra che la sua anima viva ancora tra quelle acque e che ogni giorno, torni in superficie per accarezzare le piante e i fiori del giardino che amava tanto, rendendolo sempre più rigoglioso e splendido.

Orari di apertura dei Giardini di Ninfa MARZO: 19, 20, 26, 27 APRILE: 2, 3, 9, 10, 16, 17, 18, 23, 24, 25, 30 MAGGIO: 1, 7, 8, 14, 15, 21, 22, 28, 29 GIUGNO: 2, 4, 5, 11, 12, 18, 19, 25, 26 LUGLIO: 2, 3, 9, 10, 16, 17, 23, 24, 30, 31 AGOSTO: 6, 7, 13, 14, 15, 20, 21, 27, 28 SETTEMBRE: 3, 4, 10, 11, 17, 18, 24, 25 OTTOBRE: 1, 2, 8, 9, 15, 16, 22, 23, 29, 30 NOVEMBRE: 1

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PRIMI TIPICI DEL LAZIO

STRACCI ANTRODOCANI di Sabrina Tocchio

Considerati una versione contadina dei cannelloni, gli stracci sono chiamati così per la loro morbidezza. Sono tipici di Antrodoco, in provincia di Rieti e dei paesi limitrofi . INGREDIENTI PER 4 PERSONE • • • • • • • • • •

300 g di carne di manzo macinata 300 g di pomodori pelati 150 g di mozzarella 4 cucchiai di farina 00 2 uova prezzemolo tritato strutto formaggio pecorino grattugiato olio extravergine di oliva sale

1. SBATTETE le uova con un pizzico di sale, aggiungete la farina setacciata e 3 cucchiai d'acqua. Mescolate fino ad ottenere un impasto senza grumi. 2. PREPARATE con l'impasto delle frittatine sottili in una padella unta con lo strutto. Fatelele cuocere bene su entrambi i lati. 3. ROSOLATE la carne macinata con un po' d'olio e, a parte, preparate la salsa di pomodoro con un po’ di olio e la passata. 4. METTETE al centro di ogni frittatina la carne macinata, la mozzarella, il pecorino, un cucchiaio di salsa di pomodoro e il prezzemolo tritato. 5. AVVOLGETE le frittatIne dandogli la forma di cannelloni, disponetele nella teglia unta, conditele con altro sugo e una spolverata di pecorino. 6. IN UNA TEGLIA formate due strati di frittatine ripiene e infornate a 180°C per mezz’ora. N.B. Esistono molte varianti soprattutto nella preparazione della salsa: alcuni usano abbondante pepe nero, strutto al posto dell’olio e utilizzo di odori durante la sua preparazione, come il sedano, la cipolla ecc.

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PRIMI TIPICI DEL LAZIO I maccheroni con la ricotta sono un semplicissimo, sano, nutriente primo piatto della cucina romana . Adatto non solo ai bambini, ma piacevole, avvolgente il palato e cremoso anche per gli adulti. Pochissimi ingredienti, ma quelli giusti e soprattutto freschissimi e di qualità. Tradizionalmente si usa la ricotta di pecora, prodotto storico del Lazio tutelato dal 2005 con la denominazione "Ricotta Romana Dop". La ricotta di pecora ha un sapore leggermente più acido della ricotta di mucca e /o di bufala; se non l'amate in modo particolare sostituitela con la ricotta che preferite perché il piatto, nella sua rapidità di preparazione, merita davvero! Non omettete la cannella...ci sta benissimo ed aggiunge quel quid in più al piatto.

MACCHERONI

CON LA RICOTTA di Laura Becchis

INGREDIENTI PER 2 PERSONE • 200 g di maccheroni o mezze maniche • 100 g di ricotta di pecora • 1 tuorlo d'uovo freschissimo • 1 pizzico di cannella in polvere

1. METTETE sul fuoco l’acqua necessaria alla cottura della pasta; salatela una volta raggiunta l’ebollizione e buttate la pasta. 2. MENTRE la pasta cuoce unite in una ciotola la ricotta con il tuorlo d’uovo (se decidete per questa versione); mescolate bene affinché la ricotta diventi cremosa. 3. VERSATE un goccio di acqua di cottura della pasta per stemperare il tutto. 4. UNITE un pizzicore di cannella in polvere. Scolate la pasta al giusto punto di cottura e conditela con la ricotta preparata. Servite caldissima!

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PRIMI TIPICI DEL LAZIO

NATIONAL FETTUCCINE ALFREDO DAY di Elena Castiglione Le mitiche fettuccine Alfredo! Ebbene sì, le fettuccine note in tutto il mondo (ma non in Italia…) sono talmente famose da annoverarsi addirittura una giornata a loro dedicata! Infatti ogni anno – il 7 febbraio – si celebra negli Stati Uniti il “National Fettuccine Alfredo day”! Ma andiamo con ordine... LO STRANO CASO DELLE FETTUCCINE BURRO E PARMIGIANO

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rovate a chiedere – soprattutto fuori Roma, e tra i più giovani – «Hai mai mangiato le fettuccine Alfredo?». La maggior parte ti risponderà di non averne mai sentito parlare. In realtà questa pasta, la conoscono eccome! Altro non è che una pasta al burro e parmigiano e quindi, chi di noi non l’ha mangiata nella sua vita? In realtà tra i romani è ben più nota – scherzosamente – come “pasta alla cornuta”… Insomma un piatto che si prepara velocemente, all’ultimo momento. Giusto il tempo a disposizione per portare a tavola un piatto buono, ma veloce, veloce… Perché una cosa è indubbia… Pasta burro e parmigiano è buona, so-

prattutto se gli ingredienti base sono un ottimo burro e un parmigiano altrettanto buono e ben stagionato. Perciò rendiamo in qualche maniera onore a questo piatto di tagliatelle diventato famoso nel mondo. I due ristoranti romani che se ne “spartiscono” l’autenticità offrono delle tagliatelle degne di stima, attraverso l’utilizzo di pasta fresca all’uovo, ottimo e doppio burro, parmigiano reggiano stagionato 24 mesi grattugiato finemente e mantecato il tutto alla perfezione. E a proposito della mantecatura non bisogna dimenticare anche l’utilizzo del Maestro mantecatore all’interno dei ristoranti! Insomma, in qualche maniera bisogna giustificare tanta “risonanza”. E loro lo fanno egregiamente, senza dubbio! Ma il dubbio che sorge a me è un altro: negli Stati Uniti forse non tutti sanno che non stanno affat-

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to mangiando le fettuccine Alfredo! O forse lo sanno, ma i loro gusti, per svariati motivi, sono molto lontani dai nostri. Soprattutto oggi, che le fettuccine Alfredo sono per lo più scomparse anche nei ristoranti americani e quelle che loro mangiano se le procurano sugli scaffali dei supermercati utilizzando una salsa pronta “la salsa Alfredo” o una confezione di fettuccine Alfredo liofilizzata”. Andando a analizzare il contenuto della salsa, non resta assolutamente niente del rinomato condimento: aggiunta di panna, aglio, mostarda (a tal proposito mi torna in mente la scenetta di un Americano a Roma: “Questa è roba da americani: yogurt, marmellata, mostarda… ”…per fini-


PRIMI TIPICI DEL LAZIO

re con “maccarone, m’hai provocato e io te distruggo!), parmigiano spesso sostituto da formaggio generico e se presente, lo è in quantità irrisoria. Il burro ce l’hanno di loro e quindi probabilmente lo aggiungono.

Ma come è diventata famosa la pasta Alfredo?

Ci sono due storie di due Ristoranti Alfredo a Roma: Alfredo alla Scrofa e il vero Alfredo a Piazza Augusto Imperatore. In realtà non sono due storie proprio diverse, perché si intrecciano in qualche maniera tra loro.

Alfredo Di Lelio, l'inventore delle Fettuccine Alfredo

Alfredo Di Lelio è nato a Trastevere in Roma nel 1883. Sua madre Angelina aveva una trattoria in Piazza Rosa, che dal 1914 non esiste più per dare spazio alla futura Galleria Colonna (oggi Galleria Sordi) dove Alfredo cominciò fin da giovanotto a lavorare. Nel 1908 nacque il suo primogenito Armando e nello stesso anno le fettuccine a burro e parmigiano entrarono a far parte del menu di questa trattoria. In pratica il parto aveva debilitato molto Ines, la moglie di Alfredo, e per cercare di farla ristabilire presto, Alfredo preparò con le sue mani delle fettuccine di uova e semola condite con doppio burro e tanto parmigiano. Le offrì alla sua signora, esortandola a mangiarle, ma qualora lei si fosse rifiutata se le sarebbe mangiate ben volentieri lui, perché erano veramente buone! La donna le apprezzò talmente tanto che consigliò al marito di metterle nel menu della trattoria. Ecco l’invenzione in realtà non era tanto la pasta al burro e parmigiano in se stessa – perché era da generazioni che si mangiava tra le mura domestiche; un piatto, se vogliamo specificare, stavolta preparato come ricostituente e come tale più ricco di burro e parmigiano e sicuramente ricco di amore – ma il fatto di inserirlo per la prima volta sulla carta di una trattoria! Nel 1914 a causa dei lavori per la creazione della Galleria Colonna, la trattoria fu costretta a trasferirsi. Nacque così la Trattoria Alfredo alla Scrofa che Alfredo gestì fino al 1943. Che successe intanto in quegli anni? Nel 1920 una nota coppia di attori del cinema muto Douglas Fairbanks e Mary Pickford erano in viaggio di nozze a Roma. Due nomi che forse oggi a noi non dicono niente… ma lui fu noto anche come “Il re di Hollywood”, e fondatore del Premio Oscar. Mentre lei, conosciuta come Fidanzatina d’America, Piccola Mary e La ragazza con i riccioli fu cofondatrice dello studio cinematografico United Artists e uno dei trentasei fondatori insieme al marito dell’Academy of Motion Picture Arts and Sciences. Insomma entrambi personaggi di spicco nell’evoluzione del cinema. I due attori mangiarono al Ristorante Alfredo alla Scrofa e furono talmente conquistati dalle fettuccine al burro e parmigiano al punto tale che quando tornarono nel 1927 a Roma donarono ad Alfredo un cucchiaio e una forchetta d’oro con inciso sopra To Alfredo the King of the noodles. Nel frattempo è stata sufficiente la parola e la notorietà della coppia Fairbanks negli Stati Uniti a rendere famoso questo semplice piatto italiano, tanto da spingere tanti personaggi famosi del mondo del cinema e non a voler anche loro assaggiare questo piatto se di passaggio a Roma! E la notorietà continuò anno dopo anno varcando i confini e a diffondersi negli States.

I due ristoranti Alfredo

Dopo il 1943 Alfredo cedette l’attività a altri ristoratori, estranei alla sua famiglia. Forse in quegli anni bui pensava di non riaprire neanche più l’attività. Invece nel 1950 insieme al figlio Armando, la riprese in tutta la sua tradizione, con l’apertura del Ristorante Il vero Alfredo (noto all’estero anche come “Alfredo di Roma”) in Piazza Augusto Imperatore.

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In pratica il Ristorante da Alfredo alla Scrofa è fisicamente il locale dove entrarono i due grandi attori e da cui partì tutta la notorietà delle fettuccine Alfredo e oggi continua – anche se non con i discendenti – l’attività, compresa la preparazione delle fettuccine Alfredo, mentre Il vero Alfredo si trova in un’altra location, ma viene gestito direttamente dai discendenti di Alfredo di Lelio, la nipote e la pronipote! E naturalmente anche qui si gustano deliziose fettuccine Alfredo. Lo strano caso della notorietà oltre oceano delle fettuccine Alfredo è così svelata. Nessuno si è inventato niente. Secondo me è una notorietà “del caso”, un evento fortuito. Nel senso che l’intuito di mettere sulla carta del ristorante una ricetta semplicissima, ma tanto buona (che forse era sembrato banale proporla fino a quel momento), e l’accesso all’interno del ristorante di una coppia tanto famosa… ha fatto il resto! Non so forse se Mr Fairbanks e signora avessero assaggiato un piatto di rigatoni alla vaccinara oggi festeggeremmo il “National Vaccinara Alfredo day!”.

FETTUCCINE ALFREDO Per 2 persone • 200 g Fettuccine all’uovo, se avete la possibilità fatte in casa • 50 g di burro di quello buono • 120 g Parmigiano Reggiano stagionato 24 mesi e grattugiato finemente • acqua di cottura q.b. Portate a ebollizione acqua salata e calate le fettuccine. Pochissimi minuti di cottura. Nel frattempo scaldate un saltapasta e poi spegnete la fiamma. Tagliate a fette il burro e ponetene metà nel saltapasta caldo in modo da scioglierlo un po’. Prendete con un forchettone le fettuccine e passatele, non troppo scolate della loro acqua, nella padella saltapasta, copritele con il rimanente burro e il parmigiano grattugiato finemente e fate saltare, all’occorrenza aggiungete appena appena un po’ di acqua di cottura continuando a spadellare fino a che si forma una bella cremina. Questa è la versione casalinga, non dotata di maestro mantecatore. Ma vi assicuro che le fettuccine non si rompono e la cremosità è assicurata! A voi la scelta se farle più o meno … lente, aggiungendo ancora altra acqua di cottura. A me piacciono un po’ più corpose! Buon appetito!


PRIMI TIPICI DEL LAZIO

6 APRILE... #CARBONARADAY di Elena Castiglione

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erché il 6 aprile? Nel 2016 un video diventato virale in pochissime ore impazzava in rete: il massacro della carbonara! Uscendo fuori da qualsiasi preconcetto più o meno andato avanti negli anni – pancetta o guanciale? Panna o no? Uovo intero o tuorlo? Pecorino o parmigiano? Spaghetti o rigatoni? Cipolla o aglio, si o no?, e più o meno accettato nel corso degli anni – nel video veniva mostrato un grande tegame dove venivano posti, uno accanto all’altro in bella mostra, cipolla, pancetta e pasta… con la scelta ricaduta sulle farfalle (!!!), tutto a crudo, e tutto ricoperto da acqua! Ben 15 minuti di cottura fino ad assorbire tutta l’acqua. Condimento? Panna, parmigiano e un uovo messo sopra. La carbonara è servita! Per carità… Nei paesi d’oltralpe si può fare quel che si vuole, ognuno a casa sua fa quel che vuole. Basta non chiamarla carbonara! E soprattutto non chiamarla "pasta". Perché la pasta ... è un'altra cosa. Da qui l’insurrezione con un flash mob il 6 aprile di quell’anno: la risposta fu proposta da Aidepi (Industrie del Dolce e della Pasta Italiane) e Ipo (International Pasta Organisation) per portare avanti e far conoscere nel mondo la tradizione della pasta in Italia. All'hashtag #carbonaraday si aggiunge #carbonaraHomeMade per sottolineare che non si andrà al ristorante per goderne, ma lo si farà tra le mura domestiche.

La carbonara, senza alcun dubbio uno dei piatti più famosi al mondo insieme alle lasagne e alle tagliatelle. È anche il più imitato. Tradizionalisti, rinnovatori e innovatori hanno portato avanti per anni diverse diatribe. Ma sentir parlare di tradizioni è un po’ fuorviante, perché non è un piatto di antica memoria. Tutt’altro! È un piatto giovane di cui si è sentito parlare solo dal dopoguerra in poi, le cui ricette scritte per la prima volta negli anni Cinquanta si discostavano molto da quello che oggi noi intendiamo per carbonara tradizionale, quella con 5 ingredienti canonici dai quali non si può prescindere: uovo, pecorino, guanciale, pepe nero e, naturalmente... pasta!

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LA NASCITA DELLA CARBONARA TRA STORIA E LEGGENDA

La pasta alla carbonara non è un piatto della tradizione gastronomica italiana che si perde nella notte dei tempi! Tutt’altro. Non si sente parlare di carbonara se non dopo la Seconda Guerra Mondiale, non ha una paternità precisa, né un luogo altrettanto preciso. Quello che è certo è che negli anni, durante la sua evoluzione, è diventato uno dei piatti cult della cucina romana, e


PRIMI TIPICI DEL LAZIO

non è apparso nella Cucina romana di Ada Boni, scritto negli anni Trenta. Nel cercare di trovare un’origine più o meno veritiera della pasta alla carbonara, spesso la storia si intreccia con leggenda… 1. I boscaioli che migravano stagionalmente negli Appennini tra il Lazio e l’Abruzzo per fare il carbone con la legna. È l’ipotesi “nazionalista” e “regionalista”. Durante i loro spostamenti portavano con loro uova, pecorino e guanciale per preparare la pasta. Una derivazione della pasta “cacio e ova”. Ma perché allora non si trova nessuna traccia di “pasta alla carbonara” fino al dopoguerra? 2. Lo zampino della Razione K. La leggenda forse più amata e accreditata, seppur con tante sfumature e diatribe sul luogo: Rimini? Roma? Napoli?. Fatto sta che la razione K con il suo bacon, uova liofilizzate e panna liquida, sembrerebbero stare all’origine di un piatto di spaghetti preparato da un cuoco bolognese, Renato Gualandi al fianco degli Alleati durante la Liberazione di Roma. Per tentare di tenere su il morale dei ragazzi delle truppe alleate e farli sentire un po’ di più vicino alle loro tradizioni, si

utilizzò bacon, uova e inizialmente burro fuso, per preparare un piatto di pasta golosa e apprezzato da tutti. In seguito, visto che la tradizione laziale faceva largo uso di pecorino, fu aggiunto anche questo ingrediente che ancora oggi rientra nella preparazione della “vera carbonara”.

Simpatico e “romantico” il cortometraggio di Barilla CareBonara, con Claudio Santamaria nella parte del cuoco. La prima ricetta scritta non appare in Italia, bensì negli Stati Uniti, nel 1952: la giornalista Patricia Brontè nella sua guida ai ristoranti di Chicago menziona Armando’s per la sua pasta alla Carbonara. Nel 1954 la troviamo nella storica rivista gastronomica La cucina italiana, ma l’utilizzo di pancetta, aglio e

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gruviera è veramente lontana dai canoni odierni! La prima volta che la pancetta verrà sostituita dal guanciale è negli anni Sessanta ne La Grande Cucina di Carnacina e Veronelli. Ma attenzione, solo il guanciale al posto della pancetta, perché la panna resterà nella ricetta fino alla fine degli anni Ottanta, condivisa anche dal mito della cucina gastronomica italiana Gualtiero Marchesi! Fino alla fine degli anni Settanta, l’uovo è leggermente cotto, mentre dagli anni Ottanta in poi verrà utilizzato crudo e per lo più solo tuorlo. Negli anni Novanta, dopo il lungo proliferare della panna nella cucina italiana, questa viene bandita definitivamente dalla pasta alla carbonara. La concezione attuale? Solo uova, per lo più tuorlo, pepe, pecorino e guanciale! Spaghetti, rigatoni e mezze maniche, i formati di pasta più apprezzati. Per sorridere un po' vi consigliamo la visione di questo video: "Ogni volta che cucini male uno chef muore. Carbonara a tutti i costi... canonica!


PRIMI TIPICI DEL LAZIO

il nostro #carbonaraday DA CARBONARA 0 A CARBONARA 2.0 LA "PRIMA", LA "VERA" E LO "STRAPAZZO" DI EGGS! di Elena Castiglione e Sabrina Tocchio

Bacon, guanciale, pecorino, pepe e uova. Tutto è pronto per una full immersion nella storia della carbonara. Abbiamo sorvolato il periodo "panna" e uovo cotto e ci siamo concentrate su tre piatti iniziando a immaginare la prima carbonara preparata da Gualandi, passando per quella che oggi rappresenta la "vera carbonara" con i 5 ingredienti canonici: pasta, guanciale, pecorino, pepe e tuorlo d'uovo. E poi per l'innovazione abbiamo voluto provare a rifare la ricetta di Barbara Agosti, chef di Eggs a Trastevere: lo strapazzo o... carbonara da passeggio, su stecco a mo' di gelato magnum!

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PRIMI TIPICI DEL LAZIO

la "vera"

la "prima"

INGREDIENTI PER 4 PERSONE • • • • •

INGREDIENTI PER 4 PERSONE

400 g Spaghetti 250 g Bacon 100 g Pecorino romano dop 4 Uova Pepe nero

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PREPARAZIONE

400 g Mezze maniche 250 g Guanciale di Amatrice 200 g Pecorino romano dop 4 Tuorli d’uovo + 1 albume o 5 tuorli Pepe nero in grani macinato al momento

PREPARAZIONE • Mettete a bollire l’acqua per la pasta con poco sale • Tagliate il guanciale a dadini • In una padella tostate il guanciale senza aggiunta di olio o altri grassi. • In una ciotola capiente preparate una salsa con i tuorli e l'albume, il pecorino e il pepe macinato fresco. • Amalgamate molto bene con una frusta e sempre mescolando aggiungete il guanciale croccante e il suo grasso. • Appena la pasta sarà cotta al dente e scolata versatela nella ciotola e mantecate • Aggiungete altro pecorino e pepe al momento di servire.

• Tentiamo di immaginare come fosse fatta inizialmente... Solo uova sbattute. bacon e pasta. Noi abbiamo voluto aggiungere pepe e pecorino. Chissà forse un po' di formaggio, ma non sappiamo quale , forse solo burro con il bacon, era stato utilizzato anche inizialmente. • In una padella unta con un po' di olio tostate il bacon. • In una ciotola sbattete le uova con un po' di sale. • Lessate la pasta e appena cotta trasferitela nella padella con il bacon, aggiungete le uova sbattute, spegnete il fuoco e solo con il calore amalgamate il tutto. • Aggiungete pecorino e pepe al momento di servire.

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PRIMI TIPICI DEL LAZIO

lo strapazzo

ovvero la carbonara da passeggio di Eggs* Noi ci abbiamo provato, e forse siamo anche state fortunate perché lo strapazzo ci è piaciuto proprio tanto. Cremoso e saporito all'interno, croccante fuori , proprio come pensavamo dovesse essere . Tanta materia prima di ottima qualità a partire dalle uova freschissime, il pecorino romano dop e un guanciale di Amatrice strepitoso!

Secondo la chef Barbara Agosti, patron del ristorante Eggs, lo sbaglio più grande che si può fare è lasciare troppo lenta la crema e quando si mette la pasta negli stampi e poi si va a confezionare , lo stecco non si solidifica al punto giusto. * Ristorante Eggs, Via Natale del Grande 52/53, Roma INGREDIENTI X CIRCA 12 STECCHI • • • • • • •

250 g Spaghetti spezzati 3 fette Guanciale di Amatrice 100 g Pecorino romano dop 3 Uova freschissime pepe nero pangrattato e uova per la panatura Olio di semi di arachidi per friggere

PREPARAZIONE 1. Lessate gli spaghetti spezzati per metà del tempo indicato sulla confezione. Raffredateli con acqua fredda e fateli scolare bene. 2. Mettete a sudare in una padella il guanciale tagliato a listarelle abbastanza sottili e rendetelo croccante nel grasso che si scioglie. 3. Preparate una crema con le uova, il pecorino e il pepe. Aggiungetevi il guanciale croccante e mescolate bene. 4. Versate gli spaghetti e amalgamate bene alla crema.

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5. Riempite gli stampini del gelato. Noi abbiamo usato quelli della silikomart 38 x 73 h 18 mm. Completate con l'immissione degli stecchi, ricoprite con pellicola trasparente e ponete in congelatore. 6. Ripassate gli stecchi congelati nell'uovo e poi nel pangrattato e friggete a una temperatura non troppo alta, max 180°C. 7. Scolateli su una gratella e gustate, come abbiamo fatto noi!


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GIOVEDì GNOCCHI! di Elena Castiglione e Sabrina Tocchio In questo numero stiamo seguendo un po' i giorni della settimana, siamo passati da "sabato trippa" a "giovedì gnocchi". Sì... vabbè! Si fa presto a dire gnocchi! Quali gnocchi, quelli di patate o quelli... alla romana? Niente dubbi. Tra poco non ne avrete più!

Gnocchi di patate e gnocchi.... alla romana

SFATIAMO ...UN SILLOGISMO! Per un romano, da che mondo è Questa patente di garanzia "alla mondo, gli gnocchi vengono fuori romana" è andata in giro per il mondo, dalle patate lesse, schiacciate e ma non... a Roma. Garantito che impastate con la farina. E anche se entrate in una trattoria romana, per me, romana "de Roma", gli se ordinate gnocchi... questi sono gnocchi alla romana sono questi. esclusivamente di patate. Ma allora da dove esce fuori Senza alcuna rivalità... per quell'accostare la ricetta gnocchi distinguerli chiamiamoli semplicemente alla romana con quelli fatti gnocchi di patate e gnocchi di (orrore... per un romano doc!) con semolino. il semolino? Noi ve li proponiamo entrambi.

Gnocchi di patate per 6 persone

• 2 kg di patate di qualità farinosa • 300-400 g di farina • sugo di carne o sugo di pomodoro • parmigiano • sale

1. Lessate, sbucciate e schiacciate le patate con il passapatate. 2. Lasciate raffreddare un po’ e su una tavola infarinata impastatele con un po’ di farina. Aggiungete man mano altra farina fino a che le patate riescono ad assorbirne. Si deve ottenere un impasto compatto e nello stesso tempo morbido. 3. Prendendo piccole quantità di impasto alla volta, formare dei cilindretti poco

più grandi di un dito e tagliateli in pezzi di circa 2 cm di lunghezza e allineateli su una tovaglia infarinata. Per far sì che assorbano più condimento possibile, fate su ognuno di essi un incavo con un dito oppur rigateli con i rebbi di una forchetta, o se volete con un rigagnocchi. 4. Mettete sul fuoco una pentola capiente con acqua leggermente salata. Appena bolle buttate giù gli gnocchi, un po' alla volta. Appena tornano a galla, tirateli su con un ramaiolo, sgocciolateli bene e disponeteli a strati in una zuppiera. 5. Condite strato per strato (come consiglia Ada Boni), con il sugo che si sarà scelto, di carne o di solo pomodoro. 6. Aggiungete infine il parmigiano, o pecorino, se lo preferite. 7. Serviteli caldi, e se gradito, aggiungete altro sugo e altro formaggio.

Per quanto riguarda la scelta del sugo, da noi generalmente in inverno si preferi scono condire con ragù di carne , o sugo di spuntature e salsicce , o di castrato. Mentre quando la stagione comincia a diventare più mite sono molto graditi con sugo di basilico e parmigiano.

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GIOVEDÌ GNOCCHI Perché “alla romana” quelli di semolino? Tante le tesi, tra l'altro sono anche abbastanza macchinose. e le ipotesi potrebbero anche essere fuorvianti. Sappiamo per certo che Ada Boni li include nella sua "Cucina romana", Giaquinto li inserisce nel suo manuale "Cucina di famiglia", anche se bisogna tener conto che, non trattava esclusivamente piatti romani. Mentre Carnacina e Buonassisi in "Roma in cucina", li ignorano completamente. Adesso, "amor di patria" a parte, assaggiamoli! Buoni son buoni. Ma gli gnocchi di patate...

😉😇😋😋😋

Gnocchi di semolino per 4 persone • 250 g di semolino • un litro di latte • 120 g di parmigiano • 50 g di burro • 2 o 3 tuorli d’uovo • 50 g di burro fuso • Sale

1. Portate a ebollizione il latte in una casseruola. 2. Fate scendere a pioggia e gradatamente il semolino 3. Mescolate di continuo per evitare la formazione di grumi e staccando man mano il composto latte-semolino dal fondo e dalle pareti del recipiente. 4. Togliete la casseruola dal fuoco e conditela con il parmigiano, il burro, i tuorli d’uovo, un pizzico di sale. 5. Mescolate amalgamando bene il tutto e rovesciate il composto su un piatto largo o – se l'avete– su una tavola di marmo, in entrambi i casi leggermente bagnati. 6. Con la parte piatta della lama di un grosso coltello, ripetutamente bagnata, stendete il semolino fino a livellarlo ad uno spessore uniforme di circa un cm. 7. Lasciate raffeddare per una o due ore e, una volta ben rappreso il composto tagliatelo o a cerchi, o a quadrotti o a rombi di 3 o 4 cm. 8. Imburrate una pirofila da forno e disponeteli a strati facendoli appena arretrare man mano che si dispongono. Se ne possono fare fino a tre quattro strati, a ognuno dei quali va spolverizzato un po’ di parmigiano. Nell’ultimo strato oltre al parmigiano versate lentamente anche il burro fuso cercando di farlo penetrare anche negli strati sottostanti. 9. Infornate per circa 15 minuti fino a quando sulla superficie si formi una crosticina dorata. Servite caldissimi.

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BISCOTTI

BISCOTTI DOLCI E SALATI DEL LAZIO di Candida De Amicis e Sabrina Tocchio

La pupazza Frascatana La ricetta è semplice: l’impasto prevede farina, miele, olio e scorza di agrumi, però pur essendo semplice richiede una certa manualità nel riprodurre la bambolina con tre seni. Le figure sono diverse, possono avere dei decori con perline argentate di zucchero, o piccoli pezzi di canditi per decorare l’abito della bambola, chicchi di orzo o di caffè per gli occhi, insomma spazio alla fantasia. Ognuno dei sette artigiani che producono ancora questo biscotto conserva una propria matrice per dar forma alla pupazza e applica la ricetta di base, con piccole varianti personali. Come da tradizione vuole, il modo migliore per assaporare “l’abbondanza” di questo biscotto è insieme a un bicchiere di vino Frascati. Proprio come per le Ciambelline al vino.

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a Pupazza Frascatana è un dolce storico di Frascati, città alle porte di Roma, che raffigura una ragazza con tre seni. La simbologia è antica e ovviamente rappresenta la fertilità e l’abbondanza. Già ai tempi della Roma imperiale si usava regalare ai bambini, durante la festa della Sigillaria, un biscotto di marzapane a forma di bambola con tre seni. Secondo una delle tante versioni locali, la bambolina di biscotto, rappresenta una balia capace di calmare i piccoli irrequieti con una piccola dose di buon vino, succhiato da un ciuccio di stoffa inzuppato nel vino Frascati, come se fosse un seno posticcio.

Ingredienti per una pupazza grande: • 75 g di miele di acacia • 36 ml di olio di oliva • aroma d’arancio • 130 g di farina 00 • perline di zucchero e semi per decorare Versate il miele e l'olio in una pentola e fatelo ammorbidire a fuoco bassissimo. Ritirate la pentola dal fuoco e aggiungete l’aroma di arancio e la farina. La quantità che abbiamo messo nelle dosi è indicativa ed è quella utilizzata da noi per ottenere un composto sodo. Lavorate l'impasto con le mani fino a quando non tende più a spaccarsi. Infarinate una spianatoia e stendete l'impasto fino a raggiungere uno spessore di circa mezzo centimetro. Ritagliate le pupazze e disegnate le varie parti: gonna, braccia, gambe, capelli... Con una parte dell'impasto rimasto formate tre palline, dando una forma un po' appuntita in superficie e adagiatele all’altezza del seno. Rifinite con alcuni semi a formare gli occhi e le sopracciglia. Aggiungete perline di zucchero per formare 1 collana e gli orecchini. Vi consigliamo di fare il lavoro direttamente su carta da forno 4. Cuocete a 160° su carta forno per 15 minuti fino a raggiungere una colorazione dorata. Sfornate, lasciar riposare le pupazze a temperatura ambiente quindi servirle fredde. Appena tolta dal forno la pupazza è ancora un po'morbida, ma si indurisce mentre raffredda. Poi piano piano si ammorbidiscono nuovamente. Si conservano per non più di 6 o 7 giorni, possibilmente in un contenitore ermetico o in una busta di carta del pane. Candida... minuziosamente al lavoro!

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Ciammella sorana “La uera storia della ciammella” So mill’ann che lo ga canceje entru lu furnu a racconciate le teje retruarono una vecchia ricetta scritta n’cianfrega e mai letta … Comm’è bona comm’è bella calla calla e crocchiarella. (Nicola Tersigni, poeta)

Ingredienti: • 1 Kg farina 00 • 500 g acqua • 60 g semi di anice • 40 g di olio extravergine di oliva • 10 g sale fino • 1 bustina lievito di birra secco 1. Impastate tutti gli ingredienti fino ad ottenere un impasto liscio ed omogeneo, ma non troppo duro. 2. Lasciate lievitare fino al raddoppio, al termine della quale prendete la pasta lie-

vitata (circa 400 g) e lavoratela per alcuni minuti, tagliatela in strisce lunghe circa 30 cm e alte 3 cm. 3. Prendete la striscia di pasta all'estremità e attorcigliatela su stessa ed infine unite gli estremi formando una ciambella. Immergere le ciambelle in acqua bollente finché non tornano a galla, con una schiumarola toglietele dall'acqua e disponetele su di una tovaglia ad asciugare. 4. Infornate in forno preriscaldato a 180° e cuocete per circa 30 minuti, al termine della cottura le ciambelle devono avere un bel colore dorato.

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Così il poeta raccontava la Ciammella sorana, una ciambella con mille anni di storia È orgoglio della Ciambelleria Alonzi la lavorazione artigianale con metodi classici, per questo è stata insignita, nel 2011, del riconoscimento DECO dal comune di Sora perché rispondente ai requisiti richiesti dal disciplinare di produzione della ciammella sorana. È presente ormai da anni nelle guide Slow Food come azienda produttrice di pane tradizionale e negli elenchi della Camera di Commercio di Roma tra gli itinerari per turisti. La ciambella sorana, detta ciammèlla è un prodotto a base di La capostipite farina di grano tenedella Ciambelleria Alonzi ro tipico della città di Sora. Nasce da un’antica ricetta tramandata a voce che racconta la semplicità degli ingredienti usati, la lunga lavorazione e la necessità di avere sì un prodotto economico ma che si conservasse sufficientemente a lungo. Altamente digeribile per via della bollitura, prima della cottura in forno, si presenta come una ciambella lucida e dorata, croccante all’esterno e morbida internamente. ottima come semplice snack oppure accompagnata a salumi, formaggi, acciughe sotto sale o peperoni. La ciambella sorana si prepara con farina di grano tenero, lievito di birra, sale, acqua, semi di anice e uova (non sempre). L’impasto viene fatto lievitare per poco tempo. Quindi si formano le ciambelle intrecciando la pasta, si scottano in acqua bollente e si infornano per farle diventare croccanti. Informazioni tratte da Ciambelleria Alonzi


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Ciambelle degli sposi

Semplici gli ingredienti: zucchero, uova, farina, liquore, scorza di limone, olio extravergine di oliva e lievito per dolci. Abbiamo provato la ricetta di Meri in cucina, che ringraziamo con simpatia! Ingredienti per 12 ciambelle (60 g di impasto ognuna) • 400 g farina 00 • 180 g zucchero semolato • 2 uova • 1 bicchiere di olio di semi • 80 g latte • 1/2 bustina di lievito per dolci • la buccia di un limone bio grattugiato • 3 cucchiai di Mistrà (liquore all'anice) • 1 pizzico di sale • qb granella di zucchero • latte per spennellare le ciambelle Versate nella ciotola della planetaria farina, zucchero e lievito. Aggiungete le

uova e iniziate ad impastare. Unite l'olio e la buccia grattugiata del limone. Aggiungete mezzo bicchiere di latte e un pizzico di sale. Continuate ad impastare fino a far amalgamare tutti gli ingredienti. Sarà un impasto un po' appiccicoso. Fatelo riposare in frigorifero coperto da una pellicola per circa un'ora. Trasferitelo sul piano di lavoro ben infarinato e dividetelo in 12 pezzi. Infarinatevi le mani e cominciate a lavorare il primo allungandolo e chiudendolo a ciambella, continuando fino ad esaurire l'impasto. Trasferite le ciambelle su una leccarda ricoperta di carta forno, spennellatele con il latte e cospargetele di granella di zucchero. Cuocete in forno già caldo a 180° C per circa 10/15 minuti. Estraetele dal forno e mettetele a riposare su una gratella. Conservatele in una scatola per biscotti.

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Buonissime, fragranti , profumate le Ciambelle degli Sposi fanno parte, come molti altri biscotti, della tradizione regionale che si perde nella not te dei tempi, di generazione in generazione. Le Ciambelle degli Sposi , caratteristiche di Rocca di Papa , hanno ottenuto il riconoscimento di PAT dalla Regione Lazio. Rocca di Papa si trova nella zona dei Castelli Romani , afferente al territorio di Roma , da cui dista una ventina di chilometri . Un posto incantevole carico di storia, monumenti, siti archeologici e delle Ciambelle degli Sposi. Le ciambelle hanno la classica forma ad anello, a simboleggiare un legame come il matrimonio. Sono ricoperte di granella di zucchero e face vano parte dell’elenco della preparazione della cerimonia, da parte della sposa per farne dono a parenti e amici . A questo proposito è curiosa la sequenza nume rica a cui la tradizione fa riferimento : 6 ciambelle per amici e vicini non invitati al matrimonio; 8 ciambelle per invitati e cugini ; 12 ciambelle per gli zii e i nonni ; 24 ciambelle per la comare del battesimo. Se per caso la comare è anche zia allora il nu mero di ciambelle aumenta arrivando a 36. A consegnare i sacchetti di ciambelle sono i bambini della famiglia che , per il servizio di consegna svolto, ricevono anche una mancetta. Le mamme degli sposi sono coinvolte nella scel ta del forno e anche nell’aiutare la “ciambellaia” alla preparazione delle ciambelle, ma attenzione la sposa è bandita , in quanto avvicinarsi all’im pasto potrebbe non essere di buon augurio. Un'altra curiosità : per 1000 ciambelle occorrono circa 400 uova! Pensate che il forno va prenotato mesi prima e i giorni più indicati per la preparazione escludono il venerdi , il sabato e la domenica. Ci si dà appuntamento alle 7 di mattina e si lavora ininterrottamente dalle 12 alle 14 ore a seconda della quantità occorrente .


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Cancello di Mentana Il Cancello di Mentana, una specialità di Mentana località a pochi chilometri da Roma: un pane all’anice senza zucchero con una lavorazione elaborata che ricorda i motivi che adornano i cancelli locali . È dalla metà del 18° secolo che questo pane viene preparato secondo un disciplinare degli antichi Statuti della Confraternita di Sant’Antonio Abate di Mentana per la festa del santo. La tradizione vuole che in onore del santo i Confratelli portassero “due ciambelle e un bottiglione di vino, al vecchio e al nuovo festarolo”. Il Cancello o la “Ciammella a cancellu” si può trovare tutto l’anno, ma soprattutto a Pasqua, Natale e nelle feste pagane come matrimoni, comunioni ecc. La Ciammella è un dolce povero, più che un dolce lo definirei un pane, perché è senza zucchero addolcito soltanto dalla presenza dell’anice nell’impasto. Ha una forma a rosetta dal colore dorato con uno spiccato sentore di anice. Vista la lunga ed elaborata preparazione, solo tre produttori vendono la ciambella tra cui l’Antico Forno di Mentana e ancora in qualche famiglia è diffusa l’usanza di pre pararle in casa. Per preparare la Ciammella occorre tempo e manualità, ma il sapore e il risultato me ritano un tentativo. Si consiglia di accompa gnarle con un buon bicchiere di vino e anche con dei salumi.

Ingredienti: • 1kg di farina • 250 ml di olio di oliva • 1 uovo • 125 g di acqua • 125 g di vino bianco • mezzo cucchiaino di bicarbonato • 17 g di semi di anice • 22 g di sale • mezzo bicchierino da liquore di liquore all'anice. 1. Impastate con cura tutti gli ingredienti e lasciate riposare l'impasto ottenuto per circa un'ora. Ricavate, dunque, dei cilindri del diametro di circa 2 centimetri e di una lunghezza sufficiente ad ottenere, una volta unite le estremità, delle ciambelle del diametro di 12-15 centimetri. 2. Sistemate due strisce di impasto a croce sopra le ciambelle ed aggiungete, infine, attorno ai bracci, altre quattro strisce di impasto modellate a forma di mezza luna con la curva rivolta verso il centro della croce. 3. Fissate, applicando una leggera pressione sull'impasto, i punti di giuntura, poi lessate le ciambelle in acqua bollente leggermente salata. 4. Quando saranno risalite in superficie, scolatele e sistematele sulla spianatoia, sulla quale dovranno riposare per un giorno interno. Cuocetele, quindi, in forno per circa un'ora a 200°.e cuocete per circa 30 minuti, al termine della cottura le ciambelle devono avere un bel colore dorato.

“Cor vino, l’ojo, ir sale, la farina e l’anice all’impasto… poi infornata, te l’aritrovi calda e rosolata, la CIAMMELLA; quest’opera sopraffina che riporta a le sere accanto ar foco co’ Lei fra i denti e ir goccio…e dico poco! Mo, a risentisse in bocca quer sapore sempre novo nel ricordà l’antico, è come ritrovasse co’ un amico che t’apre casa a viverne il calore”. (Goffedo Vittori)

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Ciambelle casarecce al vino moscato di Terracina Molto simili alle ciambelline al vino, le Ciambelle casarecce al vino moscato di Terracina, differiscono solo per l’uso del vino moscato tipico locale.

Ingredienti: •500 g di farina di tipo 00 •120 g di olio di semi di girasole •165 g di vino Moscato di Terracina •110 g di zucchero semolato + quello per il decoro •Semi di anice a piacere (circa mezzo bicchiere)

1. Sulla spianatoia o in una terrina, versate la farina a fontana. Al centro inserite il resto degli ingredienti (l’olio per ultimo) fino ad ottenere un impasto omogeneo, sodo ma non troppo. Formate una sfera e lasciatela riposare almeno un’ora avvolta nella pellicola per alimenti. Regolate la consistenza dell’impasto giocando sul vino e/o sulla farina poiché l’assorbimento cambia da farina a farina. 2. Preparate la leccarda ricoprendola con carta da forno. 3. Tagliate la pasta in parti piuttosto uguali e formate con ogni parte, dei tubolari che poi unirete per dare la forma di una ciam-

bella. Intagliate le estremità con un piccolo coltello affilato o con delle forbici, se volete dare una forma più rustica, tipica della presentazione che danno a Terracina, ma potete anche non incidere se le preferite esteticamente intere. 4. Lasciatele raffreddare per la consistenza croccante, ma vi consigliamo di gustarle il giorno dopo con un bicchiere di Moscato di Terracina. 5. Si conservano, come tutti i biscotti secchi, per diversi giorni chiusi in una scatola di latta. A Terracina si usa prepararle per le feste religiose e pagane.

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Giglietti di Palestrina Questo bellissimo fiore, ricco di storia, è il famoso Giglietto di Palestrina. Come la maggior parte dei biscotti del nostro territorio, è composto da ingredienti semplici come uova, farina, zucchero e scorza di limone. Quello che però caratterizza il Giglietto sono le dosi che formano un impasto molto morbido, praticamente non lavorabile. La maestria degli unici due forni rimasti a produrre questa bontà, sta proprio nella tecnica nel maneggiare questo impasto fino a creare tre piccoli fusti che, uniti insieme e arricciati, danno la forma caratteri stica al Giglietto. Abbiamo conosciuto le due produttrici proprio in un evento organizzato da Eataly, dove venivano illustrate sia la storia che il procedimento di lavorazione di rettamente da Laura Fiasco e Antonella Salomone, proprietarie degli unici due forni dove il Giglietto viene prodotto e confezionato: il Panificio Eredi Fiasco a Castel San Pietro Romano e il Panificio Alimentari Salomone a Palestrina.

La Storia: Dopo la morte di Urbano VIII avvenuta nel 1644, si scatenò la tempesta contro i Barberini, accusati di aver male amministrato il denaro della Camera Apostolica. I Principi ottennero la protezione della Francia, lasciarono Roma e si recarono a Parigi portando con loro uno stuolo di segretari, paggi, cappellani, cuochi e pasticceri. Questi ultimi familiarizzarono ben presto con i colleghi francesi, e fu naturale che si scambiassero delle ricette. Una fra tutte accese la fantasia dei cuochi di Barberini: quel dolce a forma di giglio di sola farina, zucchero e uova. Tornati a casa, usando gli stessi ingredienti, i pasticceri del principe vollero provare a comporre le api dei Barberini; l’esperimento non sortì lo stesso effetto… e seguitarono a fare il giglio, anche e soprattutto per ricordare il soggiorno in terra straniera. Ci fu un periodo lungo un secolo in cui si persero le tracce del Giglietto, ma grazie alle Monache Clarisse del Monastero Santa Maria degli Angeli di Palestrina, custodi della ricetta, che tramandarono dosi e tecnica ad una famiglia di pasticceri di Palestrina, tornò la produzione, legata soprattutto alle feste e in particolare ai matrimoni.

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Ingredienti: • 3 Uova biologiche di galline allevate a terra • 250 g di zucchero bianco • 250 g di farina tipo 1 macinata a pietra • scorza di limone grattugiata 1. Mettete le uova e lo zucchero nella ciotola dello sbattitore e avviate le fruste fino a formare una massa molto densa e spumosa. 2. Aggiungete la farina poca alla volta con un setaccino, incorporandola con una spatola a mano per non far smontare le uova. Per ultimo aggiungete la scorza grattugiata del limone.

3. Ora viene la parte più difficile: noterete che l’impasto è molto morbido, quasi come quello di un pan di spagna, quindi infarinate molto, molto bene il vostro piano di lavoro, poi con pazienza e le mani infarinate prendete una piccola quantità di impasto e cercate di modellarla sul piano come una striscia; ripetete per altre due volte. 4. Con tre strisce vicine pizzicate la parte inferiore per unirle e allargate sole le due laterali. Con una spatola infarinata sollevatelo e adagiatelo sulla placca del forno con sopra la carta forno. Completate cosi tutto l’impasto e infornate per una decina di minuti a 170°C.

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Il Giglietto oggi ha conquistato mete ambite: si può trovare in vendita, debitamente confezionato, presso la famosa catena di Eataly e la sua ricetta è stata scelta dalla Fondazione Slow Food e dichiarata Presidio al Salone del Gusto nel 2014. Questo è stato possibile grazie anche all’intenso lavoro di Gabriella Cinelli, “archeologa del gusto”, e a tutte le condotte Slow Food, che lo hanno adottato da diversi anni per eventi, manifestazioni, degustazioni e dimostrazioni enogastronomiche.


PERSONAGGI

Un'ombra si aggira circospetta tra i vicoli bui, gli stessi vicoli di quella Roma tentacolare e violenta in cui, fino al giorno prima, camminava arrogante e spavaldo, con la spada lungo il fianco e il pugnale nascosto sotto il mantello, segno di un'indole pronta a reagire se provocata, o ad aggredire. È un uomo in fuga e lo sarà fino alla fine dei suoi giorni, prché con un colpo di spada ha ferito a morte Ranuccio Tomassoni.

Caravaggio

-1a puntata

Alla ricerca della personalità misteriosa di Michelangelo Merisi negli anni romani

È

il 28 maggio dell’anno 1606, l’uomo è Michelangelo Merisi, Caravaggio, un uomo nel fiore degli anni baciato dalla fama e dal successo, circondato da signori che gareggiano nell' acquistare le sue opere senza badare a spese, prodighi di denaro e consigli.

di Candida De Amicis

Personalità misteriosa e ancora oggi non compiutamente disvelata, ci giunge attraverso gli scritti, non sempre benevoli, dei suoi contemporanei. «D’ingegno torbido e contenzioso» lo definisce il Bellori, «stravagantissimo» il Mancini, «un poco discolo» lo descrive con un certo rancore il Baglione che nel 1603 querelò sia Ca-

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ravaggio che i suoi seguaci Orazio Gentileschi e Onorio Longhi, colpevoli di aver scritto rime offensive nei suoi confronti; ne seguì un processo per diffamazione. Non riporterò la biografia di Caravaggio e tantomeno farò l’analisi dei suoi capolavori; un articolo su un artista che ha rivoluzionato l’arte, può


CARAVAGGIO Ritratto di Caravaggio di Ottavio Leoni, 1621 ca. Firenze, Biblioteca Marucelliana

solo accennare alla sua breve ma travolgente vita e alla grandezza delle sue opere. Racconterò degli anni trascorsi a Roma attraverso alcune sue tele e i documenti di quel periodo che parlano di lui: atti giudiziari, commissioni, contratti di affitto, notizie di cronaca che ci rivelano la vita dell’uomo e il suo carattere. Animato da una profonda religiosità, coerente nelle sue scelte non estranee alla cultura teologica e iconologica. Un artista che interpreta il messaggio di verità e di evangelica povertà: a suo modo un messaggio socialmente progressivo di alcuni riformatori tra i più avanzati della Chiesa, come Carlo e Federico Borromeo. Tanto amato e celebrato in vita, viene rapidamente dimenticato e la sua riscoperta avviene soltanto nel ventesimo secolo ad opera di Roberto Longhi. Documenti attestano con certezza la presenza a Roma di Caravaggio nel 1585, ma forse vi era già nel 1582, dopo un periodo di formazione al nord; nasce a Milano il 29 settembre 1571. Ma com’era l’uomo? Pietropaolo Pellegrini, garzone di un barbiere di nome Luca, nella deposizione rilasciata nell’interrogatorio in occasione di una querela sporta dal musico Angelo Zanconi, aggredito da ignoti in una notte di luglio del 1597, così lo descrive: «Michelangelo pittore è di età di 28 anni incirca, di giusta statura più presto grande che altrimente grassotto, non molto biancho in faccia ne anco bruno, et ha un poca di barba negra ma poca, et veste di negro di mezza rascia negra non troppo bene in ordine et alle volte va bene in ordine et alle volte no et porta in testa un cappello di feltro negro. (…) Questo pittore (…) tengo sia milanese (…) mettete lombardo per che lui parla alla lombarda». A Roma ha un difficile inizio Caravaggio. Racconta il Bellori che

«…dimorrò senza recapito e senza provvedimento… estremamente bisognoso et ignudo»; lavora per poter mangiare, dipingendo qualunque soggetto e con grande rapidità; gli ambienti che frequenta sono di ambigua fama: preferisce le osterie, le bettole, i bassifondi. Entra in contatto con il Cavalier d’Arpino, pittore allora in gran voga, dove «dipinge fiori e frutta», ma vi rimane solo 8 mesi. Dipinge i primi capolavori: Bacchino malato, Giovane con canestra di frutta.

«… fece alcuni quadretti da lui nello specchio ritratti. Et il primo fu un Bacco con alcuni grappoli d’uve diverse…» scrive Giovanni Baglione… ne riparliamo dopo. Ma la vita di Caravaggio cambia grazie ad un incontro. Viene notato dal cardinale Francesco del Monte, fine diplomatico, abile politico, generoso mecenate amante delle arti, delle scienze e della musica, che – scrive Bellori – «ridusse in buono stato Michele e lo sollevò dandogli luogo onorato in casa fra i gentiluomini». Nell’estate del 1597 il pittore è ospite del Cardinale, «che io ho la parte dal cardinale per me et per il servitore et allogio in casa et so scritto al rolo», come dice lo stesso Caravaggio l’anno

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successivo, il 4 maggio 1598, quando viene arrestato alle 2-3 del mattino nei pressi di Piazza Navona, perchè portava una spada senza permesso. Il naturalismo presente nella Buona ventura (1593-94) e nel Giovane con canestra di frutta (1593-95) mostra che il modo di dipingere di Caravaggio è su base empirica, accentuato dall’uso dello specchio come “camera ottica”. Il cardinal del Monte lo incoraggia, lo ospita nella residenza di Palazzo Madama e gli commissiona alcune opere, tra le quali “La canestra di frutta”, aprendogli le porte dei collezionisti. Di questi anni sono I Bari, Riposo durante la fuga in Egitto (Roma, Galleria Doria Pamphilj), Bacco e la Maddalena penitente. Il 19 novembre 1600 viene denunciato per aver picchiato un uomo con un bastone e strappato il suo mantello con una spada alle 3 del mattino in Via della Scrofa; il 2 ottobre 1601 viene accusato da un uomo, insieme ai suoi amici, di averlo insultato e aggredito con una spada nei pressi di Piazza Campo Marzio. Nello stesso anno riceve la prima grande commissione: la decorazione della Cappella Contarelli, in San Luigi dei Francesi. Realizza così le due tele laterali della cappella, Il Martirio (1599-1600) e La Vocazione di San Matteo (1599-1600), e la pala d’altare, San Matteo e l’angelo (1602). Sono scene vive davanti allo spettatore, personaggi reali, al limite del prosaico, tanto da destare scandalo. Ma è nella luce la vera rivoluzione: teatrale, drammatica, simbolica. Sono gli anni del successo anche «Qui avvenne cosa, che pose in grandissimo disturbo, e quasi fece disperare Caravaggio in riguardo della riputazione; poiché avendo egli terminato il quadro di mezzo di San Matteo e postolo sù l'altare, fu tolto via dai Preti, con dire che quella figura non aveva decoro,


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né aspetto di santo, stando à sedere con le gambe incavalcate, e co' piedi rozzamente esposti al popolo. Si disperava il Caravaggio per tale affronto nella prima opera da esso pubblicata in chiesa, quando il Marchese Vincenzo Giustiniani si mosse a favorirlo, e liberollo da questa pena; poiché interpostosi con quei Sacerdoti, si prese per sé il quadro, e glie ne fece fare un altro diverso, che è quello che si vede ora sul'altare». Dunque la pala di San Matteo e l'Angelo, è rifiutata ma viene subito acquistata dal Marchese Giustiniani, ricco banchiere genovese nell'orbita della corte pontificia che fu protettore di Caravaggio per molti anni; abita in Palazzo Giustiniani, di fronte al palazzo del Cardinal Del Monte. Anche Monsignor Cerasi commissiona all’artista due tele per la cappella di famiglia in Santa Maria del Popolo: La Crocifissione di San Pietro (1600-1601) e La Conversione di San Paolo (1600-1601). A questo periodo appartengono i celebri dipinti per la famiglia Mattei: il San Giovanni Battista (1602-1603) alla Pinacoteca Capitolina e la Cena in Emmaus (1601) alla National Gallery di Londra. Caravaggio usa gli specchi, ha una sua tecnica; costruisce la scena, la illumina con un fascio di luce forse proveniente dal tetto, pone davanti uno specchio e dipinge la scena riflessa, così da vedere il risultato finale e i vari piani; dipinge nella totale oscurità dopo aver preparato la tela con un fondo scuro. La tecnica esecutiva utilizzata da Caravaggio è molto particolare e costituisce tutt'ora oggetto di approfonditi studi; l'artista usava modelli dal vero, rappresentati a grandezza naturale, messi in posa di solito in un ambiente buio e illuminati da una forte sorgente di luce. Ma non sappiamo ancora quali siano state le sue effettive procedure esecutive che peraltro sembrano

modificarsi sensibilmente nel corso del suo intervento pittorico. Tranne rare eccezioni riscontrate sui dipinti giovanili, Caravaggio non eseguiva disegni preparatori sulla tela, ma solo rapide incisioni tracciate sulla preparazione più o meno asciutta dell'opera come elementi di riferimento per la composizione che si apprestava a dipingere. Si trattava di tratti di riferimento eseguiti con uno stilo o con la parte finale appuntita del pennello, visibili solo un’osservazione a luce radente, che servivano a Caravaggio durante l'esecuzione del dipinto, senza escludere la possibilità che il maestro ne tracciasse altri anche in fase di stesura del colore. I suoi quadri si fanno più complessi, sceglie modelli popolari bevitori, bari, prostitute, persone che incontra per strada o nelle bettole che frequenta e li mette in posa, crea la scena anche per i soggetti di carattere devozionale. Dipinge in modo rapido: sul fondo scuro mette la pasta chiara, non disegna, non fa la figura intera ma completa solo la parte illuminata, la luce è rivelatrice drammatica, simbolica. Alcune sue tele sono bollate come sacrileghe, blasfeme, irreverenti. L’artista ha necessità di spazio per dipingere grandi pale d’altare come la Morte della Vergine commissionatagli dai Carmelitani Scalzi per la chiesa di Santa Maria della Scala a Trastevere in Roma e, per la cappella Cavalletti in Sant’Agostino, la Madonna dei Pellegrini di cui il Baglioni scrive: «Nella prima cappella della chiesa di Loreto o di Sant'Agostino alla manca fece una Madonna di Loreto ritratta dal naturale con due pellegrini, uno co' piedi fangosi di deretano, e l'altra con una cuffia sdrucita, e sudicia di deretani e per queste leggeriezze in riguardo delle parti, che una gran pittura haver dee, da popolani ne fu fatto estremo schiamazzo»; e Gian Pietro Bellori: «…

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In Santo Agostino si offeriscono le sozzure de' piedi del Pellegrino». La Madonna dei Pellegrini fa discutere, è rappresentata come una donna carnale. La modella è Lena, la sua amante, una prostituta e viene riconosciuta... e Gesù è suo figlio, di due anni, troppo grande, i pellegrini hanno i piedi sporchi in primo piano. Caravaggio dipinge la realtà così come si vede, anche brutta, sporca, in alcuni momenti oscena.

Caravaggio ha ora sicurezza economica e l’angosciosa situazione dei primi tempi Romani ormai è lontana. Può affittare una "casa nova", nella zona di Campo Marzio, a un canone annuale di 45 scudi, gliela affitta Prudenzia Bruni nel 1604; nel contratto è scritto che l’artista può scoperchiare mezza sala a patto di ripristinare tutto. La casa è in vicolo di San Biagio, al civico 19 dell’odierno vicolo del Divino Amore, tra piazza di S. Agostino e S. Luigi dei Francesi, palazzo Madama e palazzo Giustiniani, la Rotonda e piazza Navona, nella parte meridionale di Campo Marzio, fatto di botteghe,


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osterie, ma anche di grandi residenze nobiliari, in cui la contiguità dell’abitare favorì la creazione di una rete di rapporti, spesso profondamente intrecciati, di fondamentale importanza per la sua affermazione pubblica. Ma Caravaggio non abbandona il proprio modo di vivere, « [...] Ora egli è un misto di grano e di pula; infatti, non si consacra di continuo allo studio, ma quando ha lavorato un paio di settimane, se ne va a spasso per un mese o due con lo spadone al fianco e un servo di dietro, e gira da un gioco di palla all’altro, molto incline a duellare e far baruffe, cosicché è raro che lo si possa frequentare». Karel van Mander, 1604. Il 24 aprile 1604 un’altra denuncia per aggressione in una locanda di via Maddalena. Pietro Antonio de Fosaccia, cameriere, il 26 aprile 1604 dichiara ai carabinieri: «Verso le 17 [ora di pranzo] l'imputato, insieme ad altre due persone, stava mangiando nel ristorante del Moro alla Maddalena, dove lavoro come cameriere. Ho portato loro otto carciofi cotti, quattro cotti nel burro e quattro fritti nell'olio. L'imputato mi chiese quali erano cotti nel burro e quali fritti nell'olio, e io gli dissi di annusarli, il che gli avrebbe facilmente consentito di distinguere. Si arrabbiò e, senza dire altro, afferrò un piatto di coccio e mi colpì sulla guancia all'altezza dei miei baffi, ferendomi leggermente... e poi si alzò e afferrò la spada dell'amico che giaceva sul tavolo, con l'intenzione di forse per colpirmi, ma mi sono alzato e sono venuto qui in questura per sporgere denuncia formale...» In quello stesso anno La morte della Vergine è rifiutata dai committenti, i Carmelitani Scalzi, perché irrispettosa della figura della Vergine. L'artista ha usato come modella una donna morta per annegamento e con il ventre gonfio e ha rappresentato Maddalena e

gli apostoli piangenti e disperati invece che felici per l'assunzione in cielo della Madonna.

Ma Caravaggio è permeato da una grande religiosità, colloca il dramma della morte di Maria in una dimensione quotidiana e umanissima. La giovane Maddalena e gli apostoli sono colti nell'espressione più profonda del proprio dolore e non hanno nulla di diverso da coloro, uomini o donne, che sono provati dalla morte di una persona cara. II 28 maggio 1605, viene nuovamente arrestato perché trovato in possesso di spada e pugnale senza permesso come risulta dalla relazione del capitano Pino sull'arresto. Nel luglio 1605, Caravaggio lascia la casa di vicolo di San Biagio perché costretto a fuggire per aver ferito a piazza Navona il notaio vaticano Mariano Pasqualoni, che lo accusa di averlo colpito alle spalle con un'arma «per causa di una donna chiamata Lena, che è donna di Michelangelo», e l’artista avendo ferite all'occhio e alla gola, interrogato su come e da chi fosse stato colpito, risponde: «Io me so' ferito da me con la mia spada che so' cascato per queste strade et non so dove se sia suto, né c'è stato nesuno».

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Intanto la padrona di casa Prudenzia Bruni, che si ritrovò senza pigione da sei mesi e senza soffitto... nel frattempo sfratta Caravaggio, e si rivolge al tribunale ottenendo il sequestro dei beni lasciati dal pittore nella casa abbandonata, dopo la fuga a Genova, come risarcimento per gli affitti mancanti. Caravaggio rientra a Roma il 26 agosto del 1605 per concludere la pace con Pasqualoni e trovandosi sfrattato, si vendica della Bruni lanciando sassi contro le sue finestre e eseguendo serenate a dispetto. E la stessa Prudenzia che lo racconta al giudice: «...Questa notte circa le cinque hore è venuto detto Micchalangelo et ha tirato molti sassi alla mia gelosia della fenestra che me l’ha spezzata tutta da una banda; dopoi è repassato assieme con certi altri sonando una chitarra et si sono fermati nel cantone del vicolo...» L’uomo è rissoso e spavaldo ed è un protetto dal Cardinal Del Monte ma… il 28 maggio 1606 è coinvolto in una partita di pallacorda a Campo Marzio, dai fratelli Tomassoni, ne segue una rissa in cui Caravaggio ferisce a morte Ranuccio Tommasoni da Terni: il suo destino è segnato. Fugge aiutato dal principe Filippo I Colonna, figlio della Marchesa Costanza Colonna, nobildonna da sempre sua protettrice, il 29 maggio è già nei suoi feudi laziali di Marino, Palestrina, Zagarolo e Paliano. Ora è un uomo in fuga, comincia il suo peregrinare per sfuggire alla condanna e alla ricerca del perdono e della grazia dalla pena capitale. Non riuscirà più a tornare a Roma, morirà solo, proprio quando arriva la revoca della sua condanna. Ma fu omicidio o l’artista fu provocato? (1-segue)


Prossimamente...

Il Ricettario di Pasqua

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