CD Booklet L'antologia

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RADIO CORNELIANI

L'ANTOLOGIA


PODESTÀ FORESTIERO E arriva con quegli occhi neri neri e quella faccia da borghese E arriva con la pelle butterata e il taglio di un palestinese E arriva con quegli occhi scuri scuri e l’arroganza di un carabiniere E arriva con la spada nel cappotto e nella tasca un giardiniere

Sergio Ferrari fisarmonica, cori

I

FRANCESCO SCHIRA

l termine podestà è legato soprattutto al Medioevo. Tuttavia il lemma resiste anche nel Settecento e nell’Ottocento, soprattutto nei centri soggetti al dominio austro-ungarico, per definire il ruolo di sindaco. I primi cittadini del XIX secolo vengono quasi tutti da fuori, abitando perlopiù a Milano, e giungendo in Brianza per amministrare i propri beni. Fra le famiglie più influenti dell’Ottocento agratese ci sono gli Schira (con gli Arbona e gli Stampa), che abitano in via Ferrario, presso l’attuale Villa Corneliani, di età tardo-barocca. Le due figure maggiormente significative sono Francesco Schira e Angelo Schira, padre e figlio. La canzone “podestà forestiero” immagina, dunque, l’arrivo del nuovo podestà in paese, visto come uno straniero a tutti gli effetti, forse un palestinese, uno spagnolo, o forse... un napoletano. I popolani sono in fermento e lo accolgono a braccia aperte, con gioia, ma anche con un po’ di diffidenza, cercando di riproporre quel poco che sanno del vernacolo vesuviano.

E arriva con la moglie moglie proveniente dall’Andalusia E arriva col pretesto d’allargare presto la sua fattoria E arriva con un mucchio di domande e di risposte da salvare E arriva con un cavaliere errante e mille cose da non fare Cumm’è ca facimm cumm’è ca sa fa Statevene accuort sta arrivando o’ podestà E arriva con la sigaretta accesa e un dente avvelenato E arriva con un francobollo in fronte ricordo di un soldato E arriva con la scimitarra principe dei polentoni E arriva con un cardinale figlio e padre del Manzoni E arriva un pomeriggio bigio e storto con l’erba da falciare E arriva con la diligenza che dai monti porta al mare E arriva con le guance rosse e l’incostanza di un bambino E arriva con cinquantatré valigie e il passo di un becchino E arriva con i pantaloni a righe e la camicia da borbone E arriva con un cappellaccio strambo e l’aria da cialtrone E arriva con il portafoglio gonfio di portafortuna E arriva quando è quasi l’ora di rispondere alla luna E arriva con il ghigno soddisfatto dell’inquisitore E arriva con un mandolino che consegnerà al fattore E arriva con la bocca asciutta per la sete e l’agonia E arriva per discorrere di caccia grossa e poesia


PIETRO

Nicola Magnani voce in "Pietro"

L

PIETRO

a più grande dote di Pietro era il canto; anche se non sapeva cantare ed era stonato come una campana. Ma aveva lo spirito giusto per affrontare il palcoscenico, con una mimica eccezionale e una passione fuori dal comune; peraltro il suo timbro era davvero intrigante, figlio delle innumerevoli sigarette fumate e bicchieri di vino ingollati. In pochi hanno avuto la fortuna di sentirlo interpretare brani cult come Malafemmina o O’ surdato ‘nnamurato. Sono non a caso evergreen di origine campana: Pietro, infatti, proveniva da Caserta e ad Agrate è giunto solo dopo la maturità, in seguito a una breve esperienza di emigrante in Germania. Da anziano era solito aggirarsi con fare furtivo per il paese, con la sua tipica andatura dinoccolata. Qualcuno lo teneva a debita distanza, considerandolo un tipo incline al furto. Ma Pietro non conosceva il rancore e aveva una parola dolce per chiunque gli si avvicinasse. «Andate appena potete a visitare la Reggia di Caserta. Di monumenti così belli non ce ne sono in tutto il mondo», era la sua raccomandazione preferita. E ogni volta che la proponeva gli brillavano gli occhi di felicità.

Pietro Pensa senza pensare Parla senza volere Ride e scherza con chi capisce Pietro Nella sua noncuranza Nell’estate che avanza e muore E fa sognare Pietro Padre senza famiglia Figlio di una bottiglia Ladro senza rubare niente Vola Per le vie di Caserta Con la faccia coperta Da una sola ruga Non morire no Pietro non morire proprio adesso Non morire che morire non si può Pietro Fuma senza sapere Che fumare fa male Che Malafemmina sa cantare Meglio Di Luciano Tajoli Di chiunque ci provi Perché è lui il migliore


RAPITO DAGLI UFO

Gianluca Gennari chitarra elettrica

C’

GIUSEPPE VILLA

era una volta ad Agrate un professore delle medie assai originale: si chiamava Giuseppe Villa. La sua passione per l’insegnamento andava di pari passo con una materia alquanto insolita, l’ufologia. Giuseppe trascorreva molte ore in biblioteca per documentarsi su tutto ciò che di misterioso si verificava nei cieli del mondo, e spesso raccontava ai suoi alunni il frutto delle sue scoperte. Secondo alcune testimonianze il professore diceva di essere addirittura stato catturato dagli UFO, un’esperienza, affermano le statistiche, condivisa da almeno tre milioni di persone, solo in USA (in Italia non esistono dati a proposito). Fino agli anni Ottanta le persone come Giuseppe venivano bollate con frasi del tipo “è solo un tipo un po’ particolare”. Ma ora si scopre che chi dice di avere relazioni con gli alieni potrebbe soffrire di un disturbo vero e proprio, recentemente introdotto nel Dsm4, il manuale che illustra i principali disordini mentali: il fenomeno degli IR4, incontri ravvicinati del IV tipo.

Dicono che arrivano da molto lontano Dicono che parlano francese e bantù Dicono che parlano il linguaggio dei segni Dicono che sognano Dicono che sembrano giganti del mare Dicono che mangiano di tutto e di più Dicono che vivono di tutto e di niente Dicono che pensano E dicono cose spettacolari Pianeti di diamanti e stelle con le ali E dicono cieli dell’altro mondo Strade di luci nello spazio Più profondo Dicono che il tempo non è vero che passa Dicono che possono volare qua e là Dicono che riescono a cambiare sembianza Dicono che piangono Io lo so bene quello che dico con tutte le volte che mi hanno rapito Io non mi sbaglio, qui non si scherza con certa gente c’è da perderci la testa Dicono di voler conquistare la Terra Dicono che lo faranno presto perché Dicono la loro medicina è la guerra Dicono che ammazzano


ELETTRICITÀ Ti amo per quello che dici e per quello che fai Ti amo per tutti i discorsi che sai intrattenere Ti amo se piove e la pioggia ci bagna fin qui Ma tanto è venerdì, va bene anche così

Maddalena La Rosa fotografia

È

ANNAMARIA VILLA

il 1772 quando l’imperatrice d’Austria Maria Teresa offre una dote alla signorina Anna Maria Villa, fra le più povere paesane di Agrate. In questo modo la ragazza ha l’opportunità di sposarsi come tutte le sue amiche e coetanee. Il futuro sposo, venendo a sapere di questa gentile opera di carità, è mosso da un impeto d’amore che lo porta a redigere una lettera destinata all’amata. In essa rivela tutto se stesso, come non gli è mai capitato di fare, benché lo scarso livello d’istruzione gli impedisca di usare lemmi particolarmente ricercati. Ma l’erudizione non fa rima con amore, e dunque quel che conta è l’onestà e il coraggio di proporsi nudamente, proprio ciò che fa il giovane innamorato, limitandosi ad assimilare il suo stato d’animo a un fenomeno che ancora non si comprende, ma pare così straordinario: l’elettricità. Sviluppa così una specie di filastrocca, che una sera calda e afosa, infila sotto la porta di Anna. Le indagini storiche non ci offrono molti spunti in più sulla vicenda, né ci dicono dove abitassero i due Renzo e Lucia, tuttavia siamo riusciti a impossessarci della lettera originale composta dal futuro sposo: il testo della canzone.

Ti amo ogni giorno che passa, ogni giorno di più Ti amo e i tuoi occhi rispondono come una lucciola Ti amo per quello che sembra, per quello che è Ma ancora insieme a te, per sempre accanto a te E amarti è come camminare sulle nuvole È un sogno che si riconferma ad ogni brivido E amarti non è mai abbastanza È un complimento, è un’assonanza con l’elettricità Ti amo per come convivi col ligio dovere Ti amo vederti passare qui tutte le sere Ti amo sorpresa dal gioco dell’intimità Che bell’effetto che fa, chissà cosa accadrà Ti amo perché sei la sola che mi ha impreziosito Ti amo perché a questo punto si chiama infinito Ti amo perché la domenica è un giorno speciale E sembra sempre Natale, eccolo un altro Natale Ti amo per come gestisci i tuoi giorni migliori Ti amo per come ti donano certi colori Ti amo e son serio se dico che ti sposerò Un giorno o l’altro non so, un giorno o l’altro però Ti amo col senno di chi non possiede che te Ti amo convinto che al mondo di più non ce n’è Ti amo e nemmeno un portento ci separerà È questa vita che va, la bella vita che va


QUADERNI GOTICI

Alessio Pacifico basso, contrabbasso

«M

ENZO BONTEMPI

aestro, ma gli artisti e i poeti sono tutti morti? Non ne esistono più?». È la domanda che viene posta da un bimbo agratese nel 1957 a Enzo Bontempi, uno dei maestri dell’epoca. L’insegnante sollecitato dall’inaspettato quesito, si convince a contattare alcuni fra i più importanti rappresentanti dell’intellighenzia artistica del tempo, per mostrare ai propri scolari che l’arte è eterna e ogni periodo è degnamente rappresentato da personaggi dotati di grande talento. Fra il 1957 e il 1963 raccoglie così innumerevoli opere – in pratica una “collezione” nel vero senso del termine, che ancora oggi possiamo rimirare coinvolgendo figure leggendarie come Mario Luzi, Salvatore Quasimodo, Lucio Fontana, Ernesto Treccani, Giorgio Caproni e molti altri. Quaderni gotici (dall’opera Quaderno Gotico del 1947 di Mario Luzi) è costruita su una fantomatica filastrocca composta da un gruppo di ragazzini agratesi degli anni Cinquanta, dedicata a un maestro coi fiocchi.

Prendi la biglia Che parapiglia Guarda che biglia Sulle tue ciglia Lunghe le ciglia Non è mia figlia Troppe le miglia Dalla tua biglia Sulla bottiglia Senza fanghiglia Bella la biglia Che meraviglia

consiglia Che si aggroviglia Alla caviglia Viva la biglia Sulle tue ciglia

Sibilla Aleramo Michele Cascella Loris Ferrari Lucio Fontana Corrado Govoni Mario Luzi Arnaldo Pomodoro Salvatore Quasimodo Gaetano Tanzi Ernesto Treccani

Dammi la biglia Sulle tue ciglia Che parapiglia Sembra vaniglia Macché vaniglia È solo una biglia Che si scompiglia Che ci

Fante di cuori Mazzo di fiori Mille colori Multicolori Giorni migliori Notti migliori Troppi rumori Quanti dolori Vecchi signori Son disonori Non minatori Non muratori


GMF GMF la domenica mattina Che belli gli occhi di una donna che cammina Suonano le campane perché domattina È l’ora di partire

Gianluca Grossi

voce, chitarra classica,

G

piano in "GMF"

GIAN MATTEO FERRARIO

MF sta per Gian Matteo Ferrario. Non si sa molto di lui, ma è del tutto prevedibile la sua origine agratese, per via di un cognome tipico delle nostre lande. Le ricostruzioni biografiche riferiscono della nascita di Gian Matteo nel 1398: il suo vero nome, però, è Matteo de Gradi (vecchio nome di Agrate), in virtù dell'utilizzo del latinus vulgaris, che “pretende” la citazione dell'origine geografica di qualunque figura appartenente a una famiglia di spicco. Diventa medico e presta il suo servizio presso l'Università di Pavia; cura la duchessa Bianca Maria Sforza, secondogenita del duca di Milano Galeazzo Maria Sforza e di Bona di Savoia e molti altri nobili del tempo. Si dedica totalmente alla professione, al punto da rinunciare a farsi una famiglia, prendere moglie e mettere al mondo dei figli; ma ha un nipote, Matteo, al quale è molto legato, che erediterà il suo sapere e la sua vocazione. Alla professione di medico affianca quella di provetto anatomista, disciplina condivisa da Leonardo Da Vinci, prevedibilmente al fianco di Bianca Maria Sforza nel suo viaggio verso il Tirolo, quale sposa di Massimiliano I d'Asburgo. Gian Matteo va avanti a studiare per decenni, spegnendosi nel 1496, ormai prossimo al compimento del centesimo anno di età.

E l’ora di partire è un po’ come morire Non l’avessi mai saputo è questo il mio mestiere Curare il fegato, curare le indisposizioni della gente Io sono un medico, un po’ dispotico ma non nevrotico Probabilmente vivo la mia professione con gran passione e versatilità Io sono un pratico, un diplomatico benché antipatico Probabilmente vivo nella convinzione della ragione senza arbitrarietà GMF brilla il fuoco di un camino Arrivederci mamma, parto col sorriso Parto con le pinze, e pure il bisturi e l’anestetico E un giorno col mio nome chiameranno la via Via Gian Matteo Ferrario suona già poesia Evviva Carlo IV e l’università di Pavia GMF non sono solo benestanti Bianca Maria Sforza è solo una fra i tanti Ci vuol coraggio, ci vuol tanta disciplina Per non cadere E la malaria non è l’unica sconfitta Ci sono dolori che la storia non comprende Ci sono piaceri che non possono durare Per l’eternità


MI CHIAMO MINO

Enzo Reitano programmazione tastiere, percussioni , cori

D

MINO REITANO

ei vari personaggi presi in considerazione in questa raccolta, sicuramente Mino Reitano è quello più famoso. Ci vorrebbe un intero libro per descrivere la sua storia, pertanto l’introduzione a un brano musicale a lui dedicato non può che essere frammentaria. Tuttavia non è in questa sede che si desidera rispolverare la vicenda artistica di uno degli esponenti più noti di Agrate, ma anche dell’Italia. Nell’antologia, infatti, si vuole dare risalto al Mino meno conosciuto, quello più umile e spensierato che decide di lasciare la sua Calabria, San Pietro di Fiumara, per cercare fortuna a Milano; il Mino che ama giocare a pallone, scrivere canzoni per la sua amata, celebrare le sue origini popolari, la semplicità dei suoi genitori, la mamma contadina e il padre ferroviere... Alla fine approda proprio ad Agrate, dove, si sposa e insieme ai fratelli (Franco, Mimmo, Antonio e Gegé) sceglie di dar vita al suo famoso “villaggio” nei pressi di Cascina Morosina. Mino Reitano lo ricordano tutti per le sue canzoni di successo e per le fotografie che lo ritraggono al fianco dei più grandi della storia della musica di sempre, da Adriano Celentano a Claudio Villa, da Massimo Ranieri, a Frank Sinatra. Qui invece vorremmo cantare un agratese come tutti gli altri, con i suoi sogni spicci, i suoi hobby e la sua incrollabile fede.

Mi chiamo Mino e sono un figlio vero della Calabria Sono arrivato fin qui a Milano dove la nebbia impera Il mio paese non è un paese è una contrada amara Mille abitanti, mille speranze San Pietro di Fiumara E intanto scrivo canzoni e intanto parlo di lei E intanto vivo emozioni che non posso nascondere Mi chiamo Mino, suono il violino la tromba e il pianoforte Al Do di petto posso arrivare con gran disinvoltura Mio padre Rocco, un ferroviere la mamma contadina Una chitarra, cento illusioni cascina Morosina Mi chiamo Mino e gioco a calcio come un professionista La palla al centro, lo sfondamento finezze alla Rivera Se la sconfitta della Reggina suonasse anche normale Non potrei dire la stessa cosa dell’Internazionale E intanto scrivo canzoni intanto parlo di noi E intanto provo emozioni che non posso descrivere


I LOVE YOU JESUS

Sergio Sala piano, tastiere, tromba, cor

i

D

PADRE CLEMENTE VISMARA

ifficile avere ancora qualcosa da dire su Padre Clemente Vismara: di lui è stato detto e scritto tutto. Ma non sarebbe stato possibile realizzare un disco sui personaggi agratesi senza coinvolgere il simbolo cristiano per antonomasia della storia locale, venerato come beato dalla chiesa cattolica (nato in via Ferrario nel 1897, e morto a Mong Ping, in Birmania, nel 1988). Era, dunque, necessario cercare di rappresentarlo in modo anticonvenzionale, cercando di alleggerirlo di tutti i cliché che la storiografia gli ha affibbiato. Così si è finiti per parlare di una persona normalissima, che ha perfino combattuto durante la Prima guerra mondiale, e che come tutti avrà avuto mille dubbi e mille incertezze, a partire proprio dall’ambito religioso. Un giorno, devastato dalla stanchezza e dalle difficoltà, finisce quindi per chiedersi se valga davvero la pena pregare, considerato che le cose vanno male anche quando si invoca a più riprese il Signore. Alla fine, però, si autoconvince che sia giusto farlo sempre e comunque, nella gioia e nel dolore, celebrando incondizionatamente ogni essere vivente. Comprese figure notoriamente marginalizzate dal culto cristiano come Ismaele, figlio di Abramo e della schiava Agar, considerato il progenitore “nobile” degli arabi.

Era una sera un po’ particolare Con una luna tutta da ammirare Un piccoletto pronto per mangiare Mi chiede com’è che si fa a pregare Io gli rispondo che si può pregare Guardando il cielo o rimirando il mare Io gli rispondo che si può anche andare In cima a una montagna e lì danzare I love you Jesus Foi na cruz, foi na cruz Chung toi hat bai alleluia Per le strade di Kengtung Era un bel giorno di primavera Con un’irripetibile atmosfera Dopo la pioggia era arrivato il sole E col sole s’era presentato un tale A domandar come si fa a pregare Io gli rispondo che si può pregare Semplicemente stando qui a cantare O se non qui su un fiume a navigare Era un momento di gran sconforto Andato male era tutto il raccolto C’era ben poco da tergiversare Ma allora com’è che si fa a pregare Io mi rispondo che si può pregare Anche se tutto va davvero male Anche se tutto va comunque bene Lode a Dio, agli angeli e a Ismaele


RADIO CORNELIANI

L'ANTOLOGIA Prodotto da Sergio Sala © (2012) con il patrocinio del Comune di Agrate Brianza Testi e musiche di Gianluca Grossi © (2012) Esecuzioni e arrangiamenti a cura di Radio Corneliani Mix di enzo reitano Mastering di Lorenzo Cazzaniga Marchio: RCMC MUSIC Catalogo numero: 01/2012 Foto copertina: Max Spinolo www.maxspinolo.it Progetto grafico: Elisabetta Musci www.elideadesign.it Hanno partecipato: Flavia Brambilla: flauto in "Podestà forestiero" MIko Cantù: banjo in "Suor Stella", programmazioni e banjo in "Flora" Enea Fornoni: sax in "Buggiolo" e "San Bartolomeo" Alice Grasso: coro in "Un cabarettista fuori moda" Adriana Patanè: cori Rocco Reitano: programmazioni in “Un cabarettista fuori moda” Davide Togni: batteria programmata in “Elettricità” Corinna Cereda, Giulio Sangalli, Ivan Villa: fotografie Alunni Della 3°B della scuola elementare di Agrate Brianza: appello in "Quaderni gotici"



PRIMULA

Cira Flaminio voce in "primula", cori

P

PRIMULA

rimula è la prima persona vissuta ad Agrate di cui si abbiano notizie certe. È stato possibile risalire a lei per via della demolizione di un muro della chiesa parrocchiale avvenuta verso la metà dell’Ottocento e riportante in luce un’epigrafe cristiana con incise le seguenti parole: Hic requiescit in Pace Primula quae Vixet in secuolo annus PL.M: XLV deposita sub V idus decem bres Boetius vivo cariss.coss. Indicano la sepoltura di una donna di nome Primula sul finire del V secolo. Alcuni storici l’hanno ricondotta alla moglie del console Severino Boezio, filosofo romano, nato a Roma nel 475 e morto a Pavia nel 525. In realtà non ci sono prove a suffragio di questa ipotesi, tuttavia è presumibile supporre che si trattasse di una persona di alto rango, degna di una cerimonia funebre di tutto riguardo. La canzone celebra Primula immaginandola chiacchierare con una ragazza dei nostri giorni: tante cose sono cambiate dai suoi tempi, ma le emozioni, la gioia di vivere, la curiosità (e le preoccupazioni per il futuro) sono rimaste le stesse.

Recita la società Con una falsa immagine Gli uomini ridono di più Se non si formalizzano Prenditi quello che vuoi Non te lo far ripetere Sai perché quello che c’è È un mondo indistruttibile Ma sei tu quella lì Con quella faccia Da impero romano E che ci fai ancora qui Non te l’han detto che ormai Non c’è più neanche Un tempio pagano Primula quanti anni fa C’erano ancora gli alberi Internet non fa per te Non te la devi prendere Capita un po’ tutti i dì Che piova sangue e ruggine Vittime senza un’età Potresti non distinguerle Gli occhi tuoi contano di più Se non nascondono lacrime Parli a me console o re Di questa terra magica Comiche fatalità Da tramandar nei secoli Mali che non tornano più Semmai si riconfermano


BUGGIOLO

Giuseppe Marconi chitarra acustica

P

DON NEMESIO FARINA

er la sua casa giravano le galline. E se la temperatura s’abbassava drasticamente poteva solo contare sul fuoco di un camino. Viveva in un edificio della fine dell’Ottocento, di fianco alla chiesa parrocchiale. Gli aneddoti legati al suo confessionale e alla sua innata imprenditorialità si sprecano. Don Nemesio Farina può, dunque, essere considerato una delle figure più influenti e importanti del Novecento agratese. Arriva in paese negli anni Quaranta, e vi rimane fino al giorno della sua scomparsa. Recentemente la sua storia è tornata in auge per via di un’ipotesi secondo la quale, quando era parroco a Buggiolo, in Val di Rezzo, sperduta valle a ovest del lago di Como, sarebbe stato allertato per trarre in salvo Benito Mussolini. La storia riporta che Mussolini raggiunse la strada per la Svizzera, per poi virare di nuovo verso il lago e raggiungere Dongo, teatro della sua cattura. In realtà, la situazione sarebbe stata ben più contorta. E avrebbe visto coinvolti esponenti di spicco dell’intellighenzia dell’epoca, fra cui il cardinale Ildefonso Schuster, Sandro Pertini e Umberto Lazzaro. Cosa ci sia di vero in tutto ciò, non è dato saperlo, in ogni caso, Buggiolo, si riferisce proprio a questa mezza leggenda.

Buggiolo non è un paese è terra di confine Se passa Mussolini somministro anfetamine Lunga vita al cardinale figlio bavarese Se arriveranno di notte lascerò le luci accese E mi fermerò a pensare per Dio E mi fermerò a pisciare anch’io E mi guarderò alle spalle oddio E se non sarò qui per sera addio Buggiolo, la Svizzera, cagnara di cortile Se arriveranno all’alba starò pronto col fucile Strade di montagna reggimento bersaglieri Comandi comandante son qui pronto già da ieri Mai, mai, mai più Parlerò con te, pregherò per chi Non ha voce, non ha pace Non ha un'anima Mai, mai, mai più... Cirrocumuli nell’aria, muli per la via Avanzi di Gestapo fantomatici messia Nino non sa leggere non compra mai un giornale Le parodie del bene, le parodie del male


SUOR STELLA

Anna Lissoni fotografia

S

STELLA NAVA

ono molte le leggende che circolano su suor Stella. Una delle più divertenti riguarda un ragazzino che aveva preso una nota sul diario perché aveva detto di aver visto i Visitors; un’altra invece parla dell’ammonizione subita da uno scolaro perché il fratello era solito far visita al Ragno Verde. Suor Stella era una suora vecchia maniera, con il pallino dell’educazione e la convinzione che per crescere bene e in grazia di Dio fosse necessario rispettare regole ben precise, austere e moralmente impeccabili, spesso, però, in antitesi con la sana voglia giovanile di comprendere il mondo per quello che è veramente. Ma sono retaggi ottocenteschi di cui paradossalmente sentiamo un po’ la mancanza, perché diventando “moderni” abbiamo forse perso quel barlume di magia che circondava il senso di comunità di un tempo, a suffragio di una “non si sa bene quale” emancipazione socio-culturale. Sicché siamo ben lieti di rendere omaggio a suor Stella Nava, autentico simbolo della religiosità locale, e non meno paladina di un modus vivendi genuino e spontaneo, ormai appannaggio dei libri di storia.

Suor Stella, suor Stella san Pietro e il buon Gesù Suor Stella, suor Stella non so dimmelo tu Suor Stella, suor Stella quattordici anni fa Suor Stella ieri oggi e poi domani si vedrà Suor Stella, suor Stella c’è un topo in sacrestia Suor Stella, suor Stella non te ne andare via Suor Stella, suor Stella l’inferno non ci sto Non mi ci fare andare no ti prego no, no, no Suor Stella, suor Stella che bell’effetto fa La neve che cade la neve che cadrà Suor Stella, suor Stella pregare non so più Insegnamelo ancora a fare come sai far tu Suor Stella, suor Stella la nebbia in via Mazzini Suor Stella, suor Stella ho un rospo nei calzini Suor Stella, suor Stella niente volgarità Il padreterno vede tutto e vi castigherà


PIPPO

Marco Bosisio trombone

E

PIPPO

ra la fine degli anni Settanta e andavano di gran moda dischi oggi entrati nella leggenda come Wish You Were Here dei Pink Floyd e Year Of The Cat di Al Stewart: la colonna sonora per i ragazzi del tempo. All’epoca non c’era molto ad Agrate per divertirsi: l’oratorio, il cinema Duse, una polverosa e sconquassata pista da motocross per andare a Concorezzo... I giovani che abitavano in fondo a via Domenico Savio, però, non avevano troppe aspettative, in pochi studiavano; e così fu facile per alcuni di essi cadere vittima di una delle trappole più micidiali: l’eroina. Mai come in quel periodo i giovani del paese risentirono così pesantemente del fenomeno della tossicodipendenza: li si vedeva per strada con gli occhi assenti e l’andatura traballante. Pippo era uno di loro, un ragazzo fin troppo intelligente, ma forse anche eccessivamente sensibile alle vicissitudini familiari e ai dettami di una società sempre più veloce e indifferente alle esigenze di chi per natura non sarebbe mai diventato un “primo della classe”.

Pippo cosa fa tutto il giorno Com'è che si costruisce un avvenire Lì tutto il santo giorno ad impazzire Compreso il sabato e la domenica, Pippo Pippo cosa inventa e com'è che fa Fa a convivere con la malinconia Se suona il pianoforte Nessuno che l'ascolta E arrivederci primavera Pippo; Pippo come no la donna sì ce l'ha, si chiama così, si chiama cosà, ma lui la chiama vento E solo qualche volta nostalgia, bella mia, Pippo Pippo e il suo profumo La sua carneficina La vita che cammina La vita che si ostina E il tempo come un amante Come una nevicata di novembre Pippo Pippo un saltimbanco Qualunque cosa sia La mamma andata via Partita per l'America Con una borsa piena di gioielli, belli, belli Pippo spera

e quante cose sa che c'è la notte intera che non lo tradirà E Pippo cosa sogna che sogni mai farà È già passato un anno È già passata un'eternità Pippo dove va con chi sta Quante cose che lui vorrebbe imparare, una parabola esistenziale E le onde del mare Pippo non si stupisce Che cosa dice Non si capisce È anche un po’ dislessico Pazienza il lessico E le galline pronte da sgozzare; il temporale Che non fa male Che non fa niente È semmai la gente Che si fa condizionare Dalla paura e dall'ipocrisia Ma non è Pippo il più cretino Il più imbecille Il più bambino Il più sfrontato di questa scuola Elementare da cancellare


SAN BARTOLOMEO

San Bartolomeo scorticato è vivo

Mauro Bernabovi violino, ukulele, cori

B

MARCO D'AGRATE

asta andare in fondo al Duomo di Milano e, in corrispondenza del transetto, osservare l’imponente scultura rappresentante un uomo scorticato vivo: è San Bartolomeo, uno dei dodici apostoli di Gesù, secondo la tradizione cristiana scuoiato vivo dal re dei Medi, in Armenia. È stato realizzato nel 1562 e l’autore è l’agratese Marco d’Agrate, vissuto fra il 1504 e il 1574. Proveniva da una famiglia lombarda di scultori. E il San Bartolomeo è solo una fra le sue tante opere; portano, infatti, il suo nome anche un monumento funerario per Sforzino Visconti, presente nella basilica di Santa Maria della Steccata a Parma e la tomba di Giovanni del Conte, ospitata nella basilica di San Lorenzo a Milano. Marco d’Agrate lavorò inoltre alla facciata della Certosa di Pavia e ai sarcofagi del gruppo funerario della Cappella Trivulzio nella Basilica di San Nazaro in Brolo, a Milano. Di lui si dice che fosse molto dotato artisticamente, ma che fosse anche molto vanitoso. Di fatto alla base della sua opera più celebre ha inciso le seguenti parole: “Non mi ha scolpito Prassitele, ma Marco d’Agrate”. (Prassitele, per la cronaca, era uno dei più grandi scultori greci).

Al Duomo, al Duomo al Duomo di Milano Che bello, che vita toccarlo con la mano San Bartolomeo scorticato è vivo Al centro, al centro al centro della piazza C’è un uomo che ride e un’oca che starnazza San Bartolomeo scorticato è vivo La peste che si sveste in un ratto silenzioso L’untore che destino avrà Bubbone della pelle contagio misterioso Nessuno sopravviverà Paura della morte paura di un sorriso Paura che non passerà Visconti non è vero Visconti non ha peso Nemmeno in questa società Nel mille, nel mille nel Millecinquecento Gli Sforza, la forza di un trepido momento


FLORA

Valentina Porta cori

E

FLORA VILLA

ra un negozio dove si vendeva di tutto: biancheria intima, caramelle, bretelle, fazzoletti e in tempo di guerra anche frutta e verdura; un esercizio dei primi del secolo che, in pratica, possedeva la licenza per commercializzare ogni cosa. Sorgeva in piazza Sant’Eusebio, proprio davanti alla chiesa parrocchiale. La proprietaria era una donna di una certa età, ben conosciuta in paese: Flora. Era un tipo molto strano. Si vestiva in modo altrettanto originale con abiti e acconciature più vicine alla moda dell’Ottocento che non a quella del Novecento. All’apparenza poteva sembrare burbera e distaccata; in realtà era una donna gentile e servizievole, semplicemente un po’ diffidente con gli estranei. Una volta un giornalista si presentò alla sua porta per un’intervista e poter chiederle di raccontare la storia di una delle botteghe più antiche del paese. Ma lei non ne volle sapere e fece di tutto per cacciarlo. «Ma perché signora non posso intervistarla?», le chiese il giornalista. «Perché poi le donne parlano». Non ci fu altro da aggiungere.

Eccolo il sole, eccolo entrare Dalla finestra fin quaggiù Qui dove niente è più come prima Più come ieri negli occhi suoi blu È amore è amore, quel bersagliere Che mi ha voluta un po’ con sé Chissà se è vivo, chissà se è vero E se come allora da me tornerà E me ne sto qui ad aspettare Un’altra storia da raccontare Mi piace sempre pettegolare sulla gente che vien qua Mi piace sempre perché percome Tutti conoscono il mio vero nome C’è ancora tempo per la pensione E certo non mi basterà Vai via vai via malinconia Ti prego vattene da qui Che son già sola e non mi consola Nemmeno un giorno di sole così Eccome eccome se è questo il nome Lo stesso che mi ha dato lui Mi chiamo Flora e come allora Vendo bretelle, mutande, bijou


UN CABARETTISTA FUORI MODA

Andrea Grossi batteria

I

CELESTINO MISSAGLIA

l suo vero mestiere era il sarto, ma lavorava anche per la chiesa parrocchiale, in qualità di sacrestano. Oggi è una parola un po’ obsoleta, ma ha sempre rappresentato un ruolo di spicco nelle società del passato; nei Decretali di Gregorio IX, un testo di diritto canonico, si parlava di questa figura in virtù di un incarico onorevole, destinato a persone stimate e autorevoli. Ma è sempre stato un impiego anche molto pesante e impegnativo. Basta pensare che bisognava alzarsi tutte la mattine alle 5.30 per aprire le porte della chiesa e “benedire” ogni dì il via alle celebrazioni religiose. Celestino è stato il più famoso sacrestano di Agrate, quello che ancora oggi la memoria collettiva ha ben presente, più di quanti oggi prestano il loro servizio in chiesa. È dovuto al fatto che Celestino ha lavorato per la parrocchia per quasi trent’anni, dai primi anni Cinquanta agli anni Ottanta, lasciando un segno indelebile della sua presenza.

Di pensieri e parole Come un buontempone Alla ricerca del ghigno perduto O di un se stesso caduto Il primo del mese Per le belle guance di una Rosalia Venuta dal Sud Compagna di merende E tante altre elucubrazioni Nella testa parecchi misteri Compresi i suoi capelli neri Più o meno tranquilli Eppure quello Il più assurdo Il più anormale Di voler andare al mare Non per vedere il mare Ma per sentire Come recitano le campane della riviera Ché possono suonare così forte Da stordire anche un sordo Di quella volta che la notte sembrava agonizzare Per inseguire una chimera La sua chimera La preziosa chimera del sacrestano Sacre chi? Eppure il sacrestano è un mestiere nobile Un mestiere che si confà A chi sa leggere il destino delle persone Non un azzeccagarbugli, no di certo Ma un uomo immensamente tale Con la convinzione di riuscire un giorno Ad assaporare la polvere delle stelle


Come se negli astri ci fosse realmente polvere Ma non una polvere qualsiasi Bensì la polvere del creato Quella che c’era anche prima di ogni prima E che domani ci sarà ancora Per ovvietà e costume Sicché i traguardi dell’economia Non lo interessavano da farlo incanutire Lui era una specie di artigiano Un cabarettista fuori moda Affascinato dalle allegorie Ma non di certo dagli algoritmi Spalleggiando chiunque se necessario Pur a costo di finire Con le chiappe abbrustolite Fra commensali privi di ogni carisma Assiepati intorno a un cenacolo disadorno Il topino che regnava con lui A sua insaputa Recitava preghiere apocrife Creando per la casa Un’atmosfera perennemente natalizia Ottocentesca, giammai vituperevole E quando lo andavano a trovare Lo trovavano perdutamente assopito Un ago e un filo per rammendare Cristalli di esistenza Il ghiaccio delle strade Falsificava il suo avvenire Circoscrivendo parafrasi di sogni

Metafore e altre quisquilie Non gli mancava, però, la fantasia Benché avesse qualche problema con la fotosintesi Commettendo suo malgrado l’errore Di non adoperarsi al genio della Divina Commedia Credendola un gioco per ragazzini Se solo avesse saputo di Dante Del suo vaticinare Se lo sarebbe potuto fare amico E poi chissà che favole sarebbero sorte dai loro incontri Ma non a tutti purtroppo È consentito di tracciare rette perfette Non a tutti è dedicata la penitenza Così, dunque, sono andate le cose Il resto chiacchiera nel vento Al sommo maestrale Che ancora oggi, come ieri Punta al mare I love you baby, I love my countryside I love you mama, I love the christmas's time I love my fingers, I love my pencil case I love the needle, I love in every place And I love to sing a little song for you I love the Bible, I love the altar boy I love the candles, I love to jump for joy I love the paraments, I love the future I love catholic church, I love the culture And I love to sing a little song for you



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