Mitica Grecia

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I GRANDI CLASSICI

Fabiana Sarcuno

MITICA GRECIA


Fabiana Sarcuno Mitica Grecia Responsabile editoriale: Beatrice Loreti Art director: Marco Mercatali Responsabile di produzione: Francesco Capitano Redazione: Carla Quattrini Progetto grafico: Airone Comunicazione – Sergio Elisei Impaginazione: Airone Comunicazione Foto: Shutterstock, archivio Eli-La Spiga Edizioni Illustrazioni: Alessandra Fusi Copertina: Adami Design © 2016 Eli – La Spiga Edizioni Via Brecce – Loreto tel. 071 750 701 info@elilaspigaedizioni.it www.elilaspigaedizioni.it Stampato in Italia presso Tecnostampa – Pigini Group Printing Division, Loreto -Trevi 16.83.097.0 ISBN 978-88-468-3474-4 78-88-468-3129-3 Le fotocopie non autorizzate sono illegali. Tutti i diritti riservati. È vietata la riproduzione totale o parziale così come la sua trasmissione sotto qualsiasi forma o con qualunque mezzo senza previa autorizzazione scritta da parte dell’editore.


Nota introduttiva Immagina di ritrovarti nel bel mezzo di un temporale: intorno a te il vento soffia con violenza, la pioggia è battente e all’improvviso il cielo è squarciato da un fulmine. La scienza, a partire soprattutto dal Settecento, ha studiato i fenomeni naturali e ne ha fornito spiegazioni razionali. Quindi a scuola ti è stato spiegato che un fulmine è un fenomeno atmosferico legato alle scariche elettriche, che ha origine quando le particelle negative delle nuvole vengono attratte da quelle positive presenti nel suolo. Ma immagina ora di essere un antico Greco, che viveva nell’VIII secolo a.C., quando ancora nulla era stato scoperto e spiegato di ciò che accade nel mondo. Ai suoi occhi, ogni fenomeno naturale doveva sembrare un inspiegabile mistero, e non solo! A quel tempo, gli uomini non sapevano come fosse nato l’universo, che cosa desse origine alla pioggia, ai fulmini e a tutti gli altri fenomeni atmosferici. Pensa al sole, all’arcobaleno, all’immensità del mare: quale stupore dovevano generare agli occhi di un abitante della terra, che non aveva libri o computer dove trovare risposte a ogni sua curiosità. Gli uomini delle civiltà antiche (oltre ai Greci, per esempio, Sumeri, Babilonesi ed Egizi) elaborarono spiegazioni fantastiche per tutti i fenomeni “misteriosi” ai quali assistevano. Si tratta di storie meravigliose, i cui protagonisti sono divinità, eroi, mostri e animali, caratterizzate da elementi simbolici e religiosi. Tali narrazioni sono dette “miti” e inizialmente venivano tramandate oralmente da cantori. Tra queste civiltà, furono soprattutto i Greci a distinguersi per la creazione dei miti, spesso legati tra loro a formare dei veri e propri cicli. Ad esempio, per spiegare che cosa desse origine a un temporale con tuoni e fulmini, gli antichi Greci ricorsero alla figura di un dio, Zeus, signore di tutti gli dèi, una divinità celeste da cui dipendevano tutti gli eventi atmosferici: lanciando sulla terra tuoni, lampi e fulmini, egli manifestava rabbia e disapprovazione verso le azioni compiute dagli uomini. 3


Indice Nota introduttiva.................................................................. 3 Che cos’è il mito..................................................................... 6 Perché leggere i miti............................................................. 8 Sezione 1 - Le origini, il mondo e la natura................ 9 L’origine del mondo.............................................................. 10 I Regni di Urano e Crono .................................................... 12 Il Regno di Zeus e le cinque Età del mondo ................... 16 Persefone e la nascita delle stagioni ................................. 19 Eco e Narciso: una voce e un fiore..................................... 24 Percorsi di lettura ................................................................. 29 Sezione 2 - Incredibili trasformazioni.......................... 33 Aracne, la superba ricamatrice........................................... 34 Re Mida e le orecchie d’asino ............................................. 39 Giacinto .................................................................................. 46 Apollo e Daphne ................................................................... 50 Percorsi di lettura ................................................................. 55 Sezione 3 - Altro che supereroi!..................................... 58 Promèteo e Pandora............................................................. 60 Teseo e il Minotauro ............................................................ 67 4


Le dodici fatiche di Eracle .................................................. 74 Alla conquista del vello d’oro ............................................. 81 Il folle volo di Dedalo e Icaro.............................................. 87 Percorsi di lettura ................................................................. 92 Sezione 4 - Che tragedia!.................................................. 97 Le infelici profezie di Cassandra........................................ 99 Edipo re .................................................................................. 103 La follia di Medea.................................................................. 107 Percorsi di lettura ................................................................. 112 Sezione 5 - Mitico amore.................................................. 114 Alcesti e Admeto................................................................... 115 Orfeo ed Euridice ................................................................. 120 Eros e Psiche .......................................................................... 125 Percorsi di lettura ................................................................. 130 Dossier - Intervista all’illustratrice.................................... 133 Dèi greci e romani............................................... 134 Focus Sei un mito!.............................................................. 135 Cartoni animati, fumetti e manga....................... 136 Viaggio in Grecia..................................................... 138 La vita nella polis..................................................... 140 Il mito nell'arte........................................................ 142 5


Che cos’è il mito Il mito è un racconto che ha come protagonisti divinità ed eroi, mostri e animali, che agli albori di ogni civiltà nasceva dall’esigenza di fornire risposte alle grandi domande dell’uomo dinanzi ai misteri dell’esistenza: l’origine dell’universo, la nascita della vita e della terra, le cause dei fenomeni naturali e atmosferici. Tra i popoli antichi, furono i Greci quelli che elaborarono il maggior numero di racconti mitici, avvincenti e appassionanti, e furono i primi a metterli per iscritto in vere e proprie opere letterarie. La parola greca mythos significa “racconto, discorso”, ma i miti non erano storie qualsiasi, anzi, come abbiamo detto, erano narrazioni simboliche, addirittura sacre, e anche di carattere sociale e morale, poiché descrivevano modelli di comportamento e insegnavano a distinguere il bene dal male, ciò che è giusto da ciò che è sbagliato. Non è possibile identificare con esattezza gli autori di queste antiche storie, nate perlopiù intorno al IX secolo a.C., poiché esse venivano raccontate, di villaggio in villaggio, dagli aèdi, cioè i cantori greci che intrattenevano il pubblico con racconti e musica. A volte i cantori apportavano modifiche alle trame dei miti a seconda del loro gusto personale: perciò non bisogna stupirsi se alcuni miti sono stati tramandati in modo diverso o se di uno stesso mito si sono sviluppate più versioni. Le narrazioni furono successivamente messe per iscritto, anche se il passaggio dall’oralità alla scrittura fu lento e graduale: alcuni illustri autori dell’antichità hanno scritto celebri opere basate sulla tradizione mitologica che nei secoli precedenti era stata tramandata oralmente. Si tratta dunque 6


di testi che raccolgono e rielaborano i racconti mitici che per secoli erano cantati dai cantori. Tra gli autori greci, ricordiamo Esiodo, vissuto tra l’VIII e il VII secolo a.C., che scrisse La Teogonia e Le opere e i giorni. I miti greci, tramandati nelle opere di Esiodo, vennero letti e apprezzati dagli antichi Romani: essi, dopo il 146 a.C., li tradussero dal greco al latino e li fecero propri, rielaborandoli e arricchendoli. I nomi delle divinità greche e dei personaggi greci vennero tradotti e adattati alla cultura romana. Tra gli autori latini, ricordiamo Ovidio (43 a.C.-18 d.C.), che scrisse Le Metamorfosi, raccogliendo e riscrivendo i miti dei Greci in chiave latina. Il lavoro di questi letterati contribuì in modo significativo alla nascita della mitologia greca, ossia l’insieme, la raccolta di tutti i miti elaborati dai Greci. La conoscenza della mitologia faceva parte della vita quotidiana dei Greci, che la consideravano alla base della loro storia e della loro civiltà, servendosi dei miti anche per spiegare inimicizie tra popoli e alleanze politiche. Pochi credevano che queste narrazioni non corrispondessero a fatti realmente accaduti: basti pensare che gli antichi abitanti della Grecia provavano un autentico orgoglio pensando, per esempio, che il loro sovrano discendesse da una divinità o da un eroe. Il fascino e l’importanza della mitologia ellenica, tuttavia, non si esaurirono con la fine dell’età antica, poiché essa, nel corso dei secoli, fino a oggi, ha influenzato in modo considerevole l’arte e la letteratura del mondo occidentale, come scopriremo nelle prossime pagine.

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Perché leggere i miti Le trame dei miti spesso si intrecciano e si collegano tra loro, a volte sono inserite in veri e propri cicli. In questo libro, per comodità, è stato deciso di suddividerli in diverse sezioni, che comunque non devono essere considerate in modo troppo rigido: per esempio un mito può essere di tipo naturalistico e, allo stesso tempo, legato a una metamorfosi. I miti appassionano da sempre i lettori di ogni epoca ed esercitano una forte influenza anche nella società di oggi. Infatti: • ci permettono di ricavare importanti informazioni etnologiche sui popoli del passato, cioè conoscenze relative ai costumi, alle tradizioni, al modo di vivere e di pensare delle antiche civiltà scomparse; • influenzano la letteratura e l’arte di ogni epoca, comprese quelle attuali, ricchissime di riferimenti mitologici che difficilmente potrebbero essere compresi senza una conoscenza di queste opere; • esercitano un influsso importante sul modo di parlare e sul linguaggio di oggi: alla fine di questo libro scoprirai perché si dice “sei un narciso” e che cos’è “un dedalo di stradine”! Sei pronto per iniziare? Allora partiamo, alla scoperta dei più celebri miti tratti dalla tradizione greca, rielaborati traendo spunto, in molti casi, dalle Metamorfosi di Ovidio. I nomi dei personaggi che incontrerai sono in greco; per conoscere il corrispondente latino consulta il mini-dizionario di mitologia alla fine del testo.

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Sezione 1 Le origini, il mondo e la natura In principio… che cosa c’era? Le civiltà antiche hanno sentito la necessità di spiegare l’origine del mondo e della vita, elaborando storie che presentano spesso aspetti in comune tra loro. Infatti, tutte le teorie sulla creazione dell’universo, sebbene elaborate da popoli diversi, descrivono la fine del Caos (per i Greci: chaos), spazio immenso e vuoto, dominato dal disordine, che grazie all’intervento di un essere superiore viene trasformato in un universo ordinato (per i Greci: kosmos). Da qui scaturirono altri racconti, inerenti due ambiti ben precisi: la teogonia e la cosmogonia. • Con teogonia (composto di théos, che significa “dio” e gònos, “generazione”) si intende l’insieme dei miti che narrano la nascita e la genealogia degli dèi. • Con cosmogonia (derivante da kosmos e gònos) si intendono le diverse ipotesi su come si è formato l’universo e sul succedersi delle varie epoche nella storia dell’uomo. Strettamente legati a quest’ambito sono i miti di carattere eziologico (dal greco aitía, che vuol dire “causa”, e lògos, ovvero “discorso”), che illustrano le origini dei fenomeni naturali, come l’alternarsi delle stagioni, oppure la nascita di determinate piante: il fine è quello di attribuire alla natura un fondamento sacro, oltre a trasmettere alle generazioni successive il senso di appartenenza al proprio mondo. Tali racconti leggendari, dapprima tramandati oralmente dai cantori, furono poi messi per iscritto da importanti autori greci: tra questi Esiodo (VIII-VII secolo a.C.), il quale descrisse la nascita degli dèi, le loro lotte per la conquista della supremazia e l’avvicendarsi delle epoche umane in due opere: la Teogonia e Le opere e i giorni. 9


L’origine del mondo In principio, prima dell’origine di ogni cosa, non c’era niente. Provate a immaginarvi il nulla. Difficile, vero? Esso assomigliava a un abisso tenebroso o, se preferite, una voragine nella quale dominava l’oscurità e gli elementi erano ancora indistinti, mescolati tra loro: il suo nome era Caos. In quell’epoca così remota non vi era ancora un astro che illuminasse e donasse calore al mondo, né una luna che mutasse, giorno dopo giorno, il suo aspetto e la sua forma, crescendo oppure calando. Non esistevano pianure verdeggianti, cime innevate, deserti brulli e aridi, così come non vi era traccia del mare, dei fiumi e dei laghi: la natura doveva ancora nascere. Nessuno può dire come e perché sia accaduto, ma, a un certo punto, questo disordine smisurato e oscuro venne sopraffatto dal Cosmo, cioè l’Universo, dotato di ordine e armonia. Da esso si formarono Eros, l’energia vitale, ma anche il Fato1, potente e inesorabile, destinato a piegare alla sua volontà tutti, anche gli dèi. Insieme a loro nacquero Ade, cioè la Morte, nonché la Terra, e da essa Urano, meglio conosciuto come il Cielo. Mentre il Caos generava il Giorno e la Notte, la Terra, chiamata anche Gea, diede origine ai Monti e al Mare. Mancava però tutto il resto: il principio creatore, perciò, fece nascere Iri, l’arcobaleno, gli animali e numerosi venti: da Oriente soffiava l’Euro, da Occidente Zefiro, mentre da Nord e Sud spiravano rispettivamente Bòrea e Noto. Fato: destino, potere misterioso che non si può contrastare.

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L’origine del mondo

Fecero dunque la loro comparsa le stelle, fino ad allora rimaste nascoste nell’oscurità più profonda: esse iniziarono a brillare nel firmamento, rendendo la notte un po’ meno oscura e paurosa. Il cielo divenne il regno delle divinità, il mare quello dei pesci, mentre gli animali a quattro zampe scelsero la terra come loro dimora e gli uccelli, unici esseri in grado di librarsi in volo, furono da allora i padroni dell’aria. Ogni elemento, dunque, era pronto per la creazione dell’essere più bello e intelligente tra i viventi, a metà strada tra le bestie e gli dèi, plasmato con il fango eppure capace di contemplare lo splendore degli astri: l’uomo. Eroi intrepidi che non conoscono la sconfitta, giovani di rara bellezza, sovrani saggi oppure avidi e arroganti, amanti appassionati e disposti a sfidare la morte, ma anche menti geniali e non sempre comprese: tutto ciò è… umanità, sfociata in storie degne di essere raccontate e salvate dall’oblio2; tuttavia, prima di occuparcene, occorre fare un passo indietro, perché, subito dopo la creazione del mondo, tra le divinità ebbe luogo una lotta spietata e senza esclusione di colpi per il dominio dell’universo.

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oblio: dimenticanza perenne.

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I regni di Urano e Crono Come nacquero gli dèi? Tutto ebbe inizio da Gea e Urano, cioè, rispettivamente, la Terra e il Cielo. Quest’ultimo era prepotente e desideroso di dominare l’Universo: prese dunque il potere e si unì a Gea; da lei ebbe numerosi figli. Tra loro vi erano i Ciclopi, creature mostruose dotate di un solo occhio, in mezzo alla fronte, molto abili nella lavorazione dei metalli e nella fabbricazione dei fulmini. Nacquero poi i Titani3, come per esempio Prometeo, Atlante, Rea, Mnemosine, cioè la Memoria, futura madre delle Muse; ultimo, ma non per importanza, il Tempo, detto Crono, noto per la sua ferocia e per l’incontenibile avversione al padre. Questi, infatti, non si comportava in modo esemplare nei confronti della sua famiglia: oltre a opprimere la Terra, schiacciandola col suo peso, costringeva i figli a vivere nel Tartaro, un angolo oscuro dell’inferno. Essi, appena nati, non avevano neanche il tempo di vedere la luce, che immediatamente venivano gettati dal padre in questo luogo nascosto, tanto lontano dal suolo dove abitiamo quanto questo suolo è lontano dalla regione delle stelle. «Ci risiamo, la solita storia!» si ribellò un giorno Gea, sfogandosi con i figli. «Appena partorisco, lui mi strappa il neonato dalle braccia per imprigionarlo in quel postaccio, solo perché ho generato degli esseri mostruosi e brutali, che lui odia. Non si può andare avanti così: è arrivato il momento di ordire una congiura contro il Cielo!» Titani: si tratta delle divinità più antiche, considerate come le forze primordiali del cosmo.

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I regni di Urano e Crono

Tutti i figli di Urano e Gea si guardarono terrorizzati e sgomenti, poiché nessuno aveva l’ardire di mettersi contro il padre; soltanto Crono si fece avanti e, schiarendosi la voce, disse: «Madre, sarò io a vendicarmi di Urano. Lo disprezzo con tutto il cuore, per via del male che ha arrecato a te e ai miei fratelli. Non mi farò troppi scrupoli a ucciderlo». Gea, orgogliosa di avere un figlio così impavido, consegnò a Crono una falce ben affilata, rivelandogli il suo piano: «Aspetta che Urano, stasera, si corichi accanto a me per dormire. Poi, quando meno se lo aspetta e protetto dall’oscurità notturna, compirai la tua impresa, ponendo fine al suo regno». Crono impugnò la falce e si presentò all’ora propizia: sprezzante del pericolo e delle ire di Urano, si appostò di nascosto nella stanza nuziale, poi attese che il padre si sdraiasse e cingesse Gea con un abbraccio… in quella, uscì allo scoperto, sferrando un attacco rapido e micidiale. Balzò su Urano, facendolo a pezzi con l’arma. La vittima lanciò un urlo tremendo e finalmente si staccò dalla Terra, fermandosi in alto, sopra il mondo, nella posizione dalla quale non si è più mosso. Atlante fu infatti incaricato di reggere la volta celeste, per tenere il Cielo separato dalla Terra. Dal sangue della divinità massacrata scaturirono le Ninfe, creature idilliache, legate alle fonti e alle acque, nonché le tre Erinni, o Furie. Queste ultime, che si chiamavano Aletto, Tisifone e Megera, erano divinità malefiche, in grado di commettere vendette efferate. Neppure le membra mutilate del Cielo andarono perdute: esse originarono una spuma bianca, che finì in mare, dalla quale emerse la dea più avvenente di tutto il Creato: Afrodite, nata nell’isola di Cipro4, capace di far crescere 4

Cipro: isola del mar Mediterraneo, situata a sud della penisola anatolica e a breve distanza dalle coste del Vicino Oriente.

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spontaneamente fiori variopinti al suo passaggio, destinata a divenire la dea della bellezza e dell’amore. Appena ebbe preso il potere, il nuovo dominatore sposò la sorella Rea e generò numerosi figli: Demetra, protettrice delle messi e dei raccolti; Era, destinata a divenire la regina dell’Olimpo, e infine Poseidone, dio del mare e delle acque. Crono, tuttavia, non si sentiva affatto tranquillo: un oracolo gli aveva predetto che uno dei suoi figli l’avrebbe spodestato, proprio come lui aveva fatto con Urano. Perciò, a mano a mano che Rea partoriva, Crono inghiottiva i neonati uno dopo l’altro. Immaginatevi la collera di sua moglie: i piccoli non facevano in tempo a emettere il primo vagito che subito venivano divorati, come se nulla fosse, dal padre. Ecco perché un giorno Rea si ribellò: invece di servire al marito il bambino che stava per dare alla luce, gli consegnò una pietra della stessa forma. «Ecco a te, mio signore: l’ultimo dei tuoi nati» disse a Crono, il quale, essendo mezzo ubriaco, non si accorse dello scambio e ingoiò incautamente il sasso: per lui non faceva alcuna differenza! Ma, a quel punto, sorgeva un problema: dove nascondere il nascituro? Prima o poi Crono, vedendo il bambino, avrebbe scoperto l’inganno, adirandosi come non mai. Rea si arrovellò per un po’, dopodiché, su consiglio dei genitori Urano e Gea, decise di andare a partorire sull’isola di Creta5, all’insaputa di Crono. Lì diede vita a Zeus, il cui fato era già segnato: diventare il più potente tra gli dèi. Per essere ancora più sicura che Crono non lo trovasse, lasciò il neonato in una grotta del monte Ida, affidandolo Creta: si tratta della più grande isola della Grecia.

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I regni di Urano e Crono

alle cure dei sacerdoti. Questi si rivelarono molto premurosi nei confronti del neonato, che era piuttosto frignone e rumoroso: ogni volta che iniziava a piangere, coprivano i suoi potenti strilli con canti e balli, in modo tale che Crono non si insospettisse udendo strani vagiti. Oltre ai sacerdoti, nella grotta vi era una capra di nome Amaltea, che si trovava lì perché, essendo bruttissima, le era stato proibito di mostrarsi in giro. In compenso era una bestia molto dolce e affettuosa: allattò Zeus, prendendosi cura di lui come una vera mamma e riscaldandolo con il suo alito durante le fredde notti invernali. Grazie alle attenzioni della capra, Zeus crebbe in fretta, diventando forte e muscoloso ma, soprattutto, consapevole che era giunto il momento di compiere il suo destino. Afferrò la povera, fedele Amaltea e la ammazzò per farsi un giubbotto di pelliccia; quindi, pieno di riconoscenza per la sua balia, le dedicò una costellazione, quella del Capricorno. Ero pronto per partire, fiero e risoluto, alla volta del regno di Crono.

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Il regno di Zeus e le cinque età del mondo Grazie a uno stratagemma, Zeus riuscì a introdursi nel palazzo di Crono: fingendo di essere il nuovo coppiere1, ebbe accesso alla mensa del padre e così ne approfittò per versargli uno strano intruglio, che gli fece vomitare i figli precedentemente divorati. Anzi, a essere precisi, prima di mandar fuori, a una a una, le vittime della sua crudeltà, Crono risputò il sasso, che ancora oggi, per volere di Zeus, si trova nel terreno di Delfi2, sul monte Parnaso, a eterna memoria di questo episodio. Dopo tali avvenimenti, si scatenò una guerra atroce e cruenta, perché Crono non aveva alcuna intenzione di rinunciare alla sua supremazia; inoltre vi erano molte divinità e mostri che aspiravano al potere, come i Giganti: alcuni di loro si schierarono con Zeus, altri con suo padre. La loro contesa diede vita a una vera e propria Titanomachia3. Zeus poteva beneficiare della riconoscenza dei Ciclopi, da lui liberati, che lo appoggiarono pienamente, forgiandogli armi potentissime e donandogli tuoni e fulmini; inoltre riuscì a convincere i Centimani a passare dalla sua parte. Fu sufficiente invitarli una sera a cena e offrire loro nettare e ambrosia per conquistarne la fiducia. Quando si dispone di alleati dotati di cento braccia ciascuno, le cose si mettono decisamente bene: Zeus ebbe in coppiere: colui che ha il compito di versare da bere agli invitati durante i banchetti. 2 Delfi: città della Grecia, nota perché qui veniva venerato l’oracolo del dio Apollo. 3 Titanomachia: letteralmente “battaglia dei titani”, cioè dei giganti, dal greco titán (titano) e machía (battaglia). 1

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Il regno di Zeus e le cinque età del mondo

fatti ragione dei suoi avversari, diventando il signore della terra e del cielo, capace di riportare l’ordine nel cosmo. I Titani sconfitti vennero relegati nel Tartaro, mentre Crono fu costretto a riparare nel Lazio. Mentre Zeus prendeva possesso dell’Olimpo, dove regna l’eterna primavera e la pace domina incontrastata, che cosa facevano gli uomini sulla Terra? In un primo momento, risalente al regno di Crono, essi vivevano felicemente, senza bisogno di lavorare per cibarsi, dato che i campi davano spontaneamente i loro frutti; non conoscevano il dolore né la morte, che segnava soltanto il passaggio, dolce e nel sonno, a una nuova esistenza. Questa epoca di perfetta armonia fu chiamata Età dell’Oro, ma ebbe termine quando Zeus inaugurò il proprio regno. Iniziò quindi l’Età dell’Argento, nella quale gli uomini erano stolti e immaturi: oltre a non essere all’altezza delle persone che li avevano preceduti, essi non erano neppure in grado di onorare gli dèi con i dovuti sacrifici. I loro comportamenti alimentarono l’ira del dio, che pensò bene di rendere difficile la vita a quegli sprovveduti: tanto per cominciare la terra cessò di donare prodotti in modo spontaneo, quindi la primavera diventò più breve. Gli uomini dovettero darsi da fare, imparando a seminare i campi e a costruire capanne quando il clima diveniva più rigido. Ma fu tutto inutile perché alla fine Zeus li annientò, stanco della loro mediocrità4. Fu la volta di una nuova Età, quella del Bronzo. Vi erano uomini forti e fieri, dei veri combattenti, pronti a impugnare le armi ogni volta che si trattava di difendere le proprie ragioni. Peccato che, proprio a causa di questa indole bellicosa5, le persone finirono per uccidersi tutte a vicenda. 4 5

mediocrità: limitatezza, inferiorità. bellicosa: combattiva, aggressiva.

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Allora Zeus diede vita a una quarta Età, nella quale vissero gli Eroi, dotati di stirpe divina e di immenso coraggio, tanto da rendere immortale quest’epoca grazie a gesta nobili. Quando gli eroi si estinsero, l’umanità entrò nella quinta e ultima epoca, la peggiore di tutte: l’Età del Ferro. Gli uomini furono sopraffatti da disgrazie e sofferenze, ma anche da un decadimento dei valori, poiché la lealtà e la fedeltà furono dimenticate, così come la virtù dell’ospitalità; l’odio e il disprezzo cominciarono a serpeggiare all’interno delle famiglie, mettendo padri e figli gli uni contro gli altri. In questo periodo i malvagi avevano sempre la meglio sugli uomini giusti, che non potevano trovare riparo dal male. Forse un giorno, però, tutto ricomincerà dal principio e una nuova età dell’oro tornerà a splendere sul mondo, rischiarando le tenebre e donando agli uomini una ritrovata e perfetta felicità…

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Persefone e la nascita delle stagioni Demetra, nata da Crono e Rea, era la dominatrice delle messi e dell’agricoltura. Gli uomini la invocavano per il buon esito del raccolto e la dea non li aveva mai delusi, sempre contenta di rendere fertili i campi di grano e giovare al nutrimento delle persone. I problemi cominciarono quando Ade, il dio dei morti, mise gli occhi addosso a sua figlia, un’incantevole giovinetta di nome Persefone. «La figlia di Demetra è ormai diventata grande» pensò il custode dell’oltretomba «e io vorrei tanto avere al mio fianco una come lei… ma, povero me: quale donna sarebbe disposta a diventare mia moglie? Poiché mi è stato assegnato il regno degli inferi, non c’è nessuna dea, neppure una ninfa, disposta a seguirmi quaggiù. Capisco che la prospettiva di diventare la regina dell’aldilà non sia molto allettante, ma anch’io ho diritto a sposarmi. E ci riuscirò: con le buone o con le cattive, quella ragazza sarà mia». Così, una mattina, mentre Persefone era intenta a cogliere fiori in un fresco prato nel cuore della Trinacria1 insieme alle sue amiche, il dio decise di passare all’azione. La ragazza, ignara di tutto, riempiva i cesti e il grembo della veste di viole e gigli, facendo a gara con le compagne, quando all’improvviso la terra si squarciò e, dall’abisso, emerse Ade, più potente e tenebroso che mai. La sventurata fanciulla non poté fare altro che lasciar ca1

Trinacria: si tratta della Sicilia, anticamente chiamata in questo modo per via della sua forma triangolare.

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dere il narciso appena strappato, prima di essere rapita e condotta, su un carro d’oro, agli inferi. Poiché la ragazza quella sera non rincasò, Demetra la cercò ovunque, strappandosi i capelli per la disperazione e vestendosi a lutto, con un cattivo presentimento nel cuore. «Ma dove può essere andata? Persefone è la mia unica ragione di vita e non mi abbandonerebbe mai di sua spontanea volontà. Temo che le sia capitato qualcosa di orribile!» Il brutto presagio della dea era fondato, ma lei non volle arrendersi e seguitò la disperata ricerca della figlia anche dopo il calar del sole. Per illuminare le tenebre notturne diede fuoco a due lunghi pini dell’Etna, usandoli come torce: in questo modo vagò per mari e monti. All’alba li scagliò violentemente in mare, per poi proseguire il suo cammino, più afflitta che mai. Una volta giunta presso il prato dove il carro di Ade era sprofondato, trasalì, rivolgendo uno sguardo angosciato a terra: sull’erba vi era infatti la cintura di Persefone. Senza dubbio la ragazza era stata portata via a forza, ma chissà da chi! Ben presto la verità giunse alle orecchie di Demetra: sua figlia era stata rapita da Ade, il quale l’aveva sposata, rendendola regina dell’aldilà. «Non sono soltanto infelice e piena di sconforto» disse Demetra, piangendo a dirotto, «ma anche offesa verso Ade e tutti gli dèi che non hanno fatto nulla per impedire una simile nefandezza2! Hanno permesso che la mia bambina venisse portata via con la forza, dunque la mia vendetta sarà implacabile». Zeus, in effetti, non si era recato nell’oltretomba per comandare al re dei morti di restituire Persefone a sua madre, e questa ingiustizia bastava a riempire Demetra di collera. nefandezza: scelleratezza, azione vergognosa.

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Persefone e la nascita delle stagioni

La dea della mietitura, allora, prese la sua tremenda decisione: oltre a promettere che non avrebbe mai messo più piede nell’Olimpo, da quel giorno non permise ai semi di crescere sulla terra, ma li mantenne nascosti dentro il terreno. «Il grano tornerà a germogliare soltanto quando Persefone mi sarà restituita» sentenziò Demetra, mentre i contadini si affaticavano inutilmente sui campi, sgretolati e secchi, da cui nulla spuntava più: le sementi marcivano e orrende erbacce spuntavano dappertutto. «Se le cose vanno avanti così, le persone moriranno di fame e l’umanità cesserà di esistere» meditò Zeus, grattandosi il capo e osservando gli uccelli che divoravano i semi appena gettati: il dio non aveva nessuna intenzione di inimicarsi suo fratello Ade; tuttavia doveva intervenire in qualche modo a favore di Demetra; perciò si risolse a inviare Ermes presso il regno dei morti, affinché convincesse il sovrano degli inferi a rinunciare alla sua sposa. In un primo momento Ade sembrò acconsentire, pur controvoglia, alla richiesta di Zeus; dopodiché si rivolse a Persefone: «Mia amata, sei libera di tornare da tua madre se lo desideri, tuttavia sappi che non sarei per te un cattivo marito, anzi, cercherei in ogni modo di renderti felice. Ma prima di andare via, accetta questa melagrana dolce e appetitosa, poiché non hai toccato cibo da quando sei giunta qui». Così dicendo porse il frutto alla fanciulla, che lo assaggiò senza indugi: ella non sapeva che, secondo una condizione stabilita dalle Moire3, chi mangia un frutto degli inferi è destinato a non tornare più sulla Terra, ma il suo sposo lo sapeva, eccome! 3

Moire: chiamate anche Parche nella mitologia romana, sono tre divinità (Cloto, Lachesi e Atropo) con il compito di stabilire il destino degli uomini. Esse erano rappresentate come tre tessitrici: la prima filava il filo della vita, la seconda assegnava un destino a ciascun uomo, mentre la terza tagliava inesorabilmente il filo della vita al momento stabilito.

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Persefone e la nascita delle stagioni

Perciò, quando Demetra giunse nell’oltretomba a riprendersi Persefone, Ade non dovette far altro che aspettare, fregandosi le mani: in effetti madre e figlia non fecero neanche in tempo a riabbracciarsi, che quel ficcanaso di Ascalafo, giardiniere dell’aldilà, disse la sua: «La ragazza ha mangiato sette chicchi di melagrana, pertanto ha contratto un rapporto inscindibile con il regno dei morti ed è destinata a rimanere quaggiù». Demetra guardò in cagnesco prima Ascalafo, poi gettò la stessa occhiata torva a Zeus, il quale alzò le braccia al cielo: neppure lui poteva farci nulla! Il re degli dèi si trovava nuovamente nell’impaccio, preso tra due fuochi: da una parte Ade che avanzava le sue legittime pretese, dall’altra Demetra, piena di ira e risentimento. Zeus emise un respiro profondo e poi osservò attentamente la bella Persefone, ormai non più bambina, ma ancora tanto giovane e bisognosa delle attenzioni di sua mamma: «Ascoltate bene, e guai a contraddirmi: Persefone vivrà otto mesi all’anno con Demetra e i quattro restanti con Ade. Così è stabilito». La decisione non entusiasmò più di tanto Demetra, che da quel momento si rifiutò di far sbocciare anche il più piccolo fiore durante tutto il periodo che la figlia trascorreva nell’oltretomba; tuttavia, quando Persefone tornava, ella consentiva alla natura di ridestarsi: ecco spiegata l’esistenza dell’inverno e dell’avvicendarsi delle stagioni. Ma… che cosa accadde ad Ascalafo? L’impiccione fu punito severamente da Demetra: la dea delle messi lo trasformò in un gufo, volatile maledetto e annunciatore di disgrazie, in modo tale che nel futuro ci pensasse su due volte prima di intromettersi negli affari altrui!

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Eco e Narciso: una voce e un fiore Liriope è una ninfa giovane e avvenente, che ha dato alla luce un figlio: Narciso. Il bambino, nato dalla sua unione con il fiume Cefiso, è bello e ammirato da tutti, ma sua mamma è sempre in ansia per lui. «Vorrei che il mio piccolo avesse una vita felice, priva di sofferenza e dolore» dice tra sé e sé, «ma soprattutto mi domando se riuscirà a vivere a lungo per potersi godere una serena vecchiaia». Un giorno, pertanto, decide di sottoporre quest’interrogativo a un indovino di nome Tiresia, che aveva la fama di fornire dei responsi infallibili: ogni sua profezia, inevitabilmente, si avverava! Bisogna sapere che quest’uomo, prima di divenire il più noto vate1 di tutta la Grecia, si era scontrato con la dea Era, la quale lo aveva punito accecandolo. Allora Zeus, dispiaciuto per lui, gli aveva concesso un dono speciale, quello di poter predire il futuro. «Non contemplerai più con i tuoi occhi la realtà che ti circonda, ma avrai la dote di osservare fatti non ancora accaduti e di guardare dentro l’animo delle persone. Sarai cieco, ma in grado di vedere più delle altre persone» aveva rivelato il dio. Così, quando la ninfa si trova di fronte all’oracolo, ascolta con attenzione le sue parole sul destino di Narciso: «Il ragazzo potrà vivere a lungo, ma solo se non si ammirerà. Raggiungerà la vecchiaia, dopo aver trascorso una vita appagante, purché non conosca se stesso» sentenzia Tiresia. Liriope lo ringrazia per i suoi consigli e poi se ne va, a dire il vero un po’ confusa e senza aver capito bene il re vate: profeta, indovino.

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Eco e Narciso: una voce e un fiore

sponso dell’indovino, che le appare insensato e, soprattutto, poco rassicurante. Dunque che cosa deve fare affinché Narciso sia preservato da una morte precoce? La ninfa distrugge tutti gli specchi della sua casa per non permettere al figlio di imbattersi nell’immagine di se stesso; dopodiché, convinta di aver sottratto Narciso al suo destino, non ci pensa più. Gli anni successivi trascorrono lietamente: Narciso, crescendo, diventa un giovane affascinante, dal corpo slanciato e snello. Il suo viso è roseo e ridente, gli occhi simili a stelle. Come è facile immaginare, un ragazzo come lui non passa certamente inosservato e inizia a suscitare il desiderio di molte coetanee. Peccato che Narciso, così perfetto nell’aspetto fisico, possieda un grave difetto nel carattere: la superbia. Egli, infatti, è convinto di essere superiore alle altre persone, che guarda in modo sprezzante: non soltanto si rivolge con arroganza alle fanciulle innamorate di lui, ma sdegna anche la compagnia degli amici, poiché non li considera alla sua altezza. Col tempo diventa sempre più scontroso, per nulla interessato alle gioie dell’amore e dell’amicizia, ma con un’unica passione: quella di dedicarsi a solitarie battute di caccia nei boschi, in sella al suo cavallo. Un giorno, mentre era intento a spaventare i cervi per dirigerli verso una trappola, venne scorto da Eco, una dolce ninfa che viveva nel folto della foresta. Si trovava lì dopo aver subito una terribile punizione da Era: bisogna infatti sapere che Eco aveva l’abitudine, loquace com’era, di intrattenere la dea con interminabili conversazioni… intanto suo marito, l’infedele Zeus, amoreggiava con le ninfe delle montagne. «Eco, mi credi forse sciocca? Ho capito tutto: mentre tu mi parli senza tregua, mio marito mi tradisce. E tu, d’accordo con lui, hai astutamente cercato di favorirlo, facendoti beffe di me con i tuoi discorsi. Hai usato la tua lingua impudentemente e verrai punita per questo: da oggi non sarai più 25


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in grado di articolare alcun suono da sola, ma potrai parlare soltanto per ripetere ciò che dicono gli altri». Così aveva deciso Era, la regina delle dee, condannando Eco a un destino assai triste: quello di non poter più esprimere i propri pensieri, né manifestare i desideri che albergavano nel suo cuore. Mortificata per via della tremenda punizione e per il fatto di non poter più chiacchierare con le altre ninfe, Eco si era ritirata nei boschi più solitari e cupi, dove non passava anima viva. Però quel fatidico giorno s’imbatté in Narciso, come sempre magnifico, nell’aspetto e nel portamento. Appena lo vide, la ninfa se ne innamorò follemente, sebbene il ragazzo non si fosse nemmeno accorto della sua presenza. «Ahimé, come posso attirare la sua attenzione? Purtroppo non mi è consentito dichiarargli i miei sentimenti, tuttavia posso provare a fargli capire quanto mi stia a cuore rimanendogli sempre accanto!» pensò Eco, incapace di profferire parola. Così la fanciulla iniziò a seguirlo di nascosto durante le sue lunghe cavalcate nel bosco, attenta a non farsi vedere perché Narciso, restio com’era verso ogni genere di compagnia e desideroso di starsene per i fatti suoi, cambiava strada non appena si rendeva conto di quella strana presenza nei paraggi. Una volta, però, Eco ebbe l’ardire di avvicinarsi un po’ troppo al suo amato, rifugiandosi dietro a un cespuglio. Il fruscio delle foglie fece sobbalzare Narciso. «C’è qualcuno?» domandò il giovane, con aria diffidente. «Qualcuno» rispose Eco. «Perché non ti fai vedere? Vieni fuori!» comandò Narciso, sempre più spazientito. «Fuori!» fece la ninfa, che prontamente uscì dal cespuglio, dirigendosi a braccia aperte verso l’aggraziatissimo fanciullo. «Non ti azzardare» disse Narciso, scostandosi, «come ti permetti di abbracciarmi?» 26


Eco e Narciso: una voce e un fiore

«Di abbracciarmi» ripeté sommessamente Eco, con le lacrime agli occhi per la cocente delusione. La ninfa, disperata per il rifiuto, fuggì svelta verso i recessi più segreti della foresta, decisa a rimanere lì per sempre: poiché la sua dignità era stata irrimediabilmente offesa, non voleva più avere a che fare con gli esseri umani, preferendo consumare il proprio dispiacere lontano da tutti. Eco trascorse giorni di indicibile malinconia e notti insonni; a causa del dolore, il suo corpo si assottigliò a poco a poco fino a scomparire. Di lei restò soltanto la voce, udita da coloro che si recano in luoghi isolati e nascosti. Narciso non si curò del danno che aveva arrecato alla ninfa, anzi seguitò a spezzare il cuore ad altre ragazze e a umiliare le persone sensibili che desideravano la sua amicizia, attirandosi una maledizione da parte di Nemesi, dea della vendetta, la quale pensò di ripagare il giovane con la sua stessa moneta: anche lui doveva provare l’esperienza di amare qualcuno senza essere corrisposto. Ma di chi poteva innamorarsi un giovane uomo preso unicamente da se stesso? Un mattino Narciso, stanco dopo una lunga passeggiata, si sedette presso una sorgente, deciso a dissetarsi e a rinfrescarsi. Le acque erano così limpide da sembrare argentate, in grado di riflettere nitidamente ogni cosa. Quando Narciso si avvicinò alla sorgente, vide, per la prima volta, il suo volto incantevole. Osservò quegli occhi, brillanti come astri, le braccia solide e muscolose che tutti gli invidiavano, ma anche i capelli, morbidi e folti, degni di un dio. Narciso non capì di essere di fronte alla sua immagine riflessa, ma pensò si trattasse di un’altra persona. Incantato da tanta avvenenza, senza capire esattamente che cosa stesse succedendo, si innamorò perdutamente di quel riverbero, di quell’illusione ingannatrice che ricambiava i 27


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suoi sorrisi. Ecco, dunque, che cos’era l’amore! Eppure, per quanto si sporgesse verso l’acqua con lo scopo di avvicinarsi e toccare quel viso colmo di perfezione, non riusciva nel suo intento, e per questo si affliggeva terribilmente, come non aveva mai fatto nella sua vita prima d’allora. Egli provò ad afferrare l’oggetto dei suoi desideri, mettendo le mani dentro la sorgente, però le acque divennero torbide e l’immagine disparve, suscitando il pianto disperato di Narciso. Poi, eccola affacciarsi di nuovo, col viso rigato di lacrime. Povero Narciso! Desiderava un essere che non esisteva ed era innamorato di se stesso senza saperlo! I suoi tentativi di tuffare nell’acqua le braccia vigorose per circondare il collo dell’immagine che lo aveva avvinto erano del tutto inutili. Eppure lui non staccava gli occhi da quel riflesso, incurante della fame, della sete e dei giorni che passavano. «So che tu ricambi i miei sentimenti: ogni volta che ti porgo un bacio, tu mi offri la tua bocca, e se piango, piangi insieme a me. Dunque, perché non posso averti? Se non mi è permesso di toccarti, vorrei contemplarti fino ad annullarmi in te» disse il giovane, ormai irriconoscibile, dato che il suo bel viso era sciupato dalla sofferenza. Eco passò di lì, forse guidata da un presentimento, anche lei stremata e smagrita: non poté fare altro che provare una profonda compassione verso quel giovane tanto amato, un tempo così altero, che si accingeva a immergere il suo corpo nelle acque profonde. «Addio, amore, ti ho adorato invano!» esclamò Narciso, quindi si lasciò cadere nella sorgente e annegò. Il suo corpo non fu mai più ritrovato, ma si dice che il dio dell’amore, Eros, abbia avuto pietà del meraviglioso e superbo adolescente: sulle rive di quella sorgente è infatti sbocciato un bellissimo fiore, giallo al centro e circondato da una candida corolla, che ancora oggi viene chiamato Narciso. 28


PERCORSI DI LETTURA COMPRENSIONE 1 Collega con una freccia i nomi delle seguenti divinità al loro corrispondente. Nella colonna di sinistra troverai i nomi derivanti dal greco e dal latino, a destra, invece, le espressioni italiane di uso più comune. Eros Destino Fato Cielo Ade Amore Urano Terra Gea Tempo Crono Morte 2 Completa la descrizione dei figli di Urano e Gea, ricavando le informazioni dal testo. I Ciclopi erano mostruose creature che ................................................ Tra i Titani vi erano ............................................................................................. Mnemosine era destinata a diventare ................................................... Crono era noto per ............................................................................................ 3 Perché Gea è decisa a ordire una congiura contro Urano? Qual è la reazione dei suoi figli? ....................................................................................................................................... ....................................................................................................................................... 4 In che modo Rea riesce a salvare l’ultimo dei suoi figli? ....................................................................................................................................... ....................................................................................................................................... 5 Come mai i Ciclopi combattono dalla parte di Zeus? a) Perché sono bravi a forgiare armi e a fabbricare fulmini. b) Perché Zeus aveva offerto loro il nettare e l’ambrosia. c) Perché erano grati a Zeus, che li aveva liberati. d) Perché Zeus li aveva attirati a sé con l’inganno, fingendosi un coppiere.

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PERCORSI DI LETTURA 6 Descrivi brevemente le caratteristiche di ognuna delle Età degli uomini nello spazio sottostante. Età dell’Oro ............................................................................................................ ....................................................................................................................................... Età dell’Argento ................................................................................................... ....................................................................................................................................... Età del Bronzo ...................................................................................................... ....................................................................................................................................... Età degli Eroi ......................................................................................................... ....................................................................................................................................... Età del Ferro .......................................................................................................... .......................................................................................................................................

7 Indica se le seguenti affermazioni, riguardanti la ninfa Eco, sono vere o false. Vero

Falso

Eco abita nel profondo della foresta. Eco vive un’esistenza solitaria a causa della maledizione scagliata dall’indovino Tiresia. Eco è punita per aver offeso Zeus. Eco è sempre stata poco incline a parlare e chiacchierare con gli altri. Eco si consuma a causa del dolore provato dopo il rifiuto di Narciso. Eco assiste con un senso di rivalsa alla fine di Narciso. 8 Qual è la principale caratteristica di Tiresia? a) Quella di essere stato accecato per vendetta da Era. b) La capacità di garantire, a chi lo consultava, una vita felice, priva di sofferenza e dolore. c) Il dono di predire il futuro. d) Il fatto di essere guarito, grazie a Zeus, dalla sua condizione di cecità.

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PERCORSI DI LETTURA 9 In che modo Nemesi si vendica di Narciso? a) Attirandogli l’odio di tutte le ragazze alle quali aveva spezzato il cuore. b) Costringendolo a vivere nei recessi più profondi della foresta. c) Inducendolo a innamorarsi di Eco. d) Facendogli vivere l’esperienza dell’amore non corrisposto.

LESSICO 1 Conosci delle parole italiane derivanti dai nomi delle divinità citate nei miti che hai letto? Indicale a fianco. L’esercizio è avviato. Crono: cronologia, ............................................................................................. Gea: ............................................................................................................................ Fato: ........................................................................................................................... Titani: ........................................................................................................................ Mnemosine: .......................................................................................................... 2 Come definiresti il personaggio di Ascalafo, il giardiniere dell’Ade nel mito di Persefone? Descrivilo con cinque aggettivi, da riportare nello spazio sottostante. ....................................................................................................................................... ....................................................................................................................................... ....................................................................................................................................... 3 Sottolinea, nel testo, tutte le espressioni riferite alla personalità del giovane Narciso; dopodiché trascrivile nello spazio sottostante. ....................................................................................................................................... ....................................................................................................................................... .......................................................................................................................................

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PERCORSI DI LETTURA PRODUZIONE SCRITTA 1 Che cosa succede dopo l’Età del Ferro? Secondo gli antichi Greci si ricomincia daccapo, con una nuova Età dell’Oro, ancora più splendente della prima. Prova a immaginare come potrebbe essere quest’epoca mitica, descrivendone caratteristiche, uomini e valori, attraverso un breve testo. 2 Quali sono i significati più profondi del mito di Persefone? Che cosa si propone di illustrare questo racconto? Scrivi un breve testo sul tuo quaderno. 3 Che cosa vuol dire la parola “narcisista”? Attraverso quali comportamenti si manifesta questo modo di essere? Perché, secondo te, si tratta di un atteggiamento sempre più diffuso nella società odierna? Rispondi a queste domande attraverso un breve testo sul tuo quaderno. PRODUZIONE ORALE 1 Il mito di Persefone tratta il tema del delicato rapporto tra madre e figlia, in relazione alla crescita e all’allontanarsi di quest’ultima, dalla figura materna verso quella dello sposo. Come giudicheresti il comportamento dei personaggi principali di questo mito? Scegli una risposta e poi avvia un dibattito con i tuoi compagni di classe. a) Persefone è ingannata da Ade, crudele rapitore, mentre Demetra si dimostra una madre amorevole. b) Persefone in fondo è innamorata di Ade, che le vuole bene, mentre Demetra si mostra eccessivamente protettiva verso sua figlia. c) Persefone è una giovane donna combattuta tra l’affetto per Demetra e l’amore per Ade, un dio molto solo, che giustamente reclama una moglie.

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Sezione 2 Incredibili trasformazioni Prova a immaginare come ti sentiresti se, all’improvviso, venissi trasformato in un ragno, oppure se le tue orecchie diventassero identiche, in tutto e per tutto, a quelle di un asino… Benvenuto nella sezione dedicata alle metamorfosi! La parola, che deriva dal greco meta, ossia “oltre”, e morfé, cioè “forma”, indica una trasformazione; in questo genere di miti, infatti, i protagonisti sono oggetto di straordinari mutamenti, che stravolgono le loro caratteristiche iniziali. Sebbene la civiltà greca sia stata la principale fonte di miti legati a metamorfosi, essi sono presenti in tutte le culture, in virtù della loro valenza educativa: spesso la trasformazione costituisce una forma di castigo provocata da un comportamento scorretto del protagonista, che viene pertanto segnalato come irrispettoso dell’ordine sociale. In particolare, sono numerosi gli esempi di arroganza punita, come nel mito delle Pieridi, nove sorelle che, insuperbite dalla loro bravura nel canto, osarono sfidare Calliope, la musa della poesia; sconfitte, vennero mutate in gazze. All’interno di queste storie può accadere che un essere umano venga trasformato in un oggetto oppure in un elemento naturale, come abbiamo letto nel mito di Eco e Narciso; in altre narrazioni le persone divengono vegetali: attraverso le vicende di Daphne e Giacinto, per esempio, gli uomini di un tempo ottenevano delle spiegazioni fantasiose riguardo all’esistenza di determinate piante.

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Aracne, la superba ricamatrice In una città dell’Asia viveva una fanciulla di nome Aracne, figlia di un tintore di lane e una popolana, morta quando la figlia era ancora piccola. Benché le sue origini fossero umili, la ragazza godeva di una certa fama in tutta la regione perché eccelleva nell’arte del ricamo: le stoffe che tesseva, decorate con fantasia, erano pregevoli nell’ideazione e nella fattura. Le donne e le ninfe dei campi restavano a bocca aperta dinanzi ai suoi lavori: spesso si recavano presso la dimora di Aracne, non soltanto per elogiarne l’abilità, ma anche per vederla all’opera, poiché era uno spettacolo osservare la destrezza con cui la fanciulla faceva girare il fuso: dalle sue mani, come per incanto, uscivano fiori, piante, cieli e paesaggi dai colori variopinti. Aracne era contenta delle lodi e della stima che tutti le dimostravano, tuttavia col tempo iniziò a darsi delle arie, proclamandosi superiore a qualsiasi donna nell’arte del ricamo. «Di certo nessuna mortale è capace di competere con te: soltanto Pallade Atena può esserti stata maestra!» le dissero un giorno alcune ammiratrici. «Ma quale Atena!» replicò orgogliosamente Aracne «Tutto ciò che so fare, l’ho imparato da sola e, anzi, sarei pronta a sfidarla, questa dea, se avesse desiderio di gareggiare con me. La sconfiggerei senza troppi complimenti!» aggiunse, più superba che mai. Tra le persone che erano giunte a contemplare i suoi ricami, però, vi era una vecchia, che la interruppe bruscamente: «Cara Aracne, ascolta i consigli di una donna saggia e matura e sappi che non c’è nulla di male se ambisci a essere la 34


Aracne, la superba ricamatrice

migliore tessitrice tra i mortali. Ma lascia perdere gli dèi, perché osare sfidarli è un pensiero temerario e sfrontato. Se fossi in te ritirerei ciò che hai detto e implorerei il perdono della potente Pallade Atena». Così disse quella donna con i capelli bianchi e il volto coperto di rughe, che nessuno tra i presenti aveva mai visto e forse era giunta da lontano per vedere i capolavori di Aracne. «Insolente, rimbambita!» gridò quest’ultima, rivolgendosi con supponenza alla misteriosa vecchia dalla schiena curva, che se ne stava tranquillamente appoggiata al suo bastone. «Non ho nessuna intenzione di ascoltare le tue sciocchezze, dettate dall’invidia e dalla demenza senile! Io non cambio idea, anzi… vorrei proprio che Pallade Atena fosse qui e accettasse la sfida. Sempre che non abbia paura di fare brutta figura!» aggiunse, sfoderando un sorriso arrogante. Anche le altre donne risero, eppure la loro ilarità improvvisamente si trasformò in meraviglia e poco dopo in sgomento, quando le sembianze della vecchia mutarono in quelle di una dea giovane e dallo sguardo austero. Al posto della vecchia, in men che non si dica, si palesò ai loro occhi una bellissima divinità dotata di lancia: non c’erano dubbi, si trattava di Pallade Atena! Aracne si guardò intorno, imbarazzata e ammutolita, però non si prostrò alla dea, come fecero invece le sue amiche, che si erano inginocchiate, tutte timorose e supplichevoli. «Non temo affatto la sconfitta» disse Atena, «e non vedo l’ora di gareggiare con te». Sebbene cercasse di non darlo a vedere, Aracne era rimasta attonita1 all’apparizione della dea: le sue guance erano 1

attonita: sbalordita.

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diventate paonazze, per non parlare del cuore, che le batteva all’impazzata… si era cacciata in un pasticcio? La giovane ricamatrice, tuttavia, trovò la forza di reagire, facendo leva sulla sua fierezza: «Che la sfida abbia inizio, allora!» esclamò, senza abbassare lo sguardo. Le due contendenti si sistemarono davanti ai rispettivi telai, pronte per la battaglia a suon di ricami: Aracne si mostrava spavalda, però sudava freddo; la dea preparava in modo accurato l’ordito2, distanziando i fili con un pettine. Quando tutto fu pronto, la sfida cominciò. La fanciulla mortale e la divinità dal volto solenne tessevano con grande impegno, interrompendo di tanto in tanto il lavoro per scegliere i colori più adatti; entrambe avevano deciso di ricamare le stoffe con storie dell’antichità. In breve, le loro opere presero forma: nella tela di Pallade erano rappresentate delle scene di lotta, così mirabili da lasciare senza parole il pubblico. I bordi della tela erano contornati con rami di ulivo, pianta sacra alla dea, simbolo di pace e prosperità, e l’opera era impeccabile, priva del più piccolo difetto. Ma l’abilissima Aracne non era stata a guardare: sulla sua tela aveva raffigurato Europa, la figlia di un re fenicio, che era stata rapita da Zeus e portata a Creta, dove era divenuta la madre di Minosse. Dopo Europa, Aracne aveva tessuto le immagini di Asterie, figlia di un Titano, portata via dal re degli dèi trasformatosi in un cigno. E seguivano altre storie delle conquiste di Zeus, tramutato di volta in volta in pioggia d’oro, fuoco, serpente e pastore: tutto per sedurre e rapire giovani donne mortali. Quindi aveva raffigurato le vicende di Apollo e Dioniso, rendendo perfettamente, in ogni particolare, i più piccoli ordito: in tessitura, indica l’insieme dei fili che servono a formare l’intreccio del tessuto.

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Parte Prima

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dettagli e gli innumerevoli personaggi presenti. Per concludere, aveva rifinito i contorni della tela con fiori intrecciati e altre incantevoli decorazioni. Ogni suo disegno era di una bellezza disarmante, talmente perfetto che le figure sembravano reali. La stessa Atena, a malincuore, fu costretta ad ammettere che per nessun motivo il lavoro di Aracne appariva inferiore al suo. Intanto, però, meditava vendetta… La giovane tessitrice, dopo aver dimostrato il suo talento, si rallegrò del risultato, sfoggiando sul viso un’espressione beffarda e insolente, che non piacque affatto a Pallade. Povera sciocca, non aveva capito che il suo destino era segnato, perché chi osa sfidare le divinità non ha scampo! Accecata dall’ira, Atena afferrò la tela dell’avversaria e la distrusse; dopodiché si rivolse ad Aracne che, terrorizzata, se la diede a gambe, intenzionata a porre fine alla sua vita, prima che la dea potesse punirla in modo terribile. Stava infatti armeggiando con una sedia e una corda, per impiccarsi, quando Pallade la raggiunse, intimandole di fermarsi: «Non ti lascerò morire così facilmente, dal momento che sei stata una formidabile avversaria. Ma nemmeno ti permetterò di continuare a vivere: mi hai oltraggiata e umiliata, perciò sono in collera con te! Poiché sei così brava a tessere e ricamare, tesserai per tutta la vita il filo della tua vanità, e questo castigo sarà tramandato ai tuoi discendenti» sentenziò l’imperturbabile Atena. In quel preciso istante, Aracne sentì uno strano formicolio attraverso il corpo: i capelli le caddero dalla testa, mentre le sue fattezze si rimpicciolivano. Ai fianchi restarono attaccate delle zampette lunghe e sottili: quelle di un ragno, destinato per sempre a filare la sua tela, senza ricamo, ordito, né colori.

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Re Mida e le orecchie d’asino Al re Mida, che regna sulla Frigia1, non manca proprio nulla: un palazzo elegante, un giardino pieno di fiori profumati e sontuose fontane, una bella moglie e l’affetto di tutti i sudditi, che apprezzano il suo buon carattere, sempre allegro e pacifico. Eppure, si sa, l’indole umana è bizzarra e talvolta causa di azioni poco avvedute: le persone, invece di apprezzare ciò che hanno, si mostrano insoddisfatte e desiderano sempre di più, specie se si tratta di ricchezze e onori. Un giorno, il sovrano cammina poco distante dalla reggia, riflettendo avidamente su come rendere più sfarzosa la sua abitazione; tutto d’un tratto i suoi pensieri vengono interrotti da una strana apparizione: un vecchio, ubriaco fradicio, che con un bastone colpisce a casaccio il tronco di un albero, gridando parole prive di senso. Gli uomini del re lo catturano senza difficoltà, anche perché l’anziano si regge a stento in piedi, un po’ per l’età, un po’ per la sbornia, che lo rende debole e barcollante. «Aspettate! Non fategli del male» ordina Mida alle guardie, dopo aver osservato meglio lo strano individuo. «Mi sembra di averlo già visto da qualche parte, i lineamenti del suo viso sono familiari!» Il vecchio è ridotto malissimo e sfoggia un’espressione inebetita di fronte a quelle persone che lo circondano; eppure il sovrano riesce a riconoscere in lui un suo vecchio amico: «Tu sei Sileno, il maestro del dio Dioniso2. Ci siamo conosciuti tem Frigia: antica regione dell’Asia Minore. Come la Lidia, che verrà citata successivamente, corrisponde a una zona dell’attuale Turchia. 2 Dioniso: dio del vino, legato all’istinto e all’energia naturale a cui venivano dedicate molte feste. Nella cultura latina viene chiamato Bacco. 1

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po fa e da te ho imparato ad apprezzare i piaceri del vino. Ma dimmi, come mai non sei con la tua divinità? So che non ti allontani mai da lui. E dov’è l’asinello su cui sei solito viaggiare?» Troppe domande per il povero vecchio, che riesce soltanto ad articolare alcuni suoni senza significato, emanando un intenso odore di vino che lascia allibiti i presenti. Persino Mida capisce che non è il caso di insistere. «Non posso lasciarti andar via in queste condizioni, perciò ho deciso: sarai mio ospite finché non te la sentirai di rimetterti in viaggio. Intanto i miei uomini ritroveranno il tuo asino, che sarà sicuramente da queste parti». Poco dopo, infatti, alcuni contadini si presentano alla reggia con il somarello; intanto il sovrano si assicura che l’anziano maestro venga accolto nel migliore dei modi e organizza una festa in suo onore. Sileno ha giusto il tempo di riprendersi dallo stato di ebbrezza in cui è stato ritrovato, che viene trascinato in un banchetto della durata di dieci giorni e dieci notti, nel quale non si fa altro che mangiare e brindare alla salute di tutti con invitanti coppe di vino rosso. Mida e l’anziano fanno a gara a chi beve di più, cantando allegramente e ricordando i vecchi tempi; poi, dopo qualche giorno, appena sono un po’ sobri, Sileno confessa al suo amico di essere giunto in Frigia per sbaglio, poiché, essendo sempre intontito dall’alcool, non era in grado di condurre il suo asino, dunque si era smarrito e desiderava tornare in Lidia, da Dioniso. «Vecchio maestro, non preoccuparti. La mia ospitalità non si esaurisce con questa grande festa e la tua permanenza qui. Provvederò ad accompagnarti di persona per riconsegnarti nelle mani del dio. Partiremo domani stesso!» Così, il mattino successivo, Mida e Sileno preparano i bagagli, qualche scorta di vino e cibo da consumare lungo la strada, dopodiché montano in sella e si avviano per i boschi: 40


Re Mida e le orecchie d’asino

il re su un destriero e il maestro sull’asinello. Ogni tanto si fermano per dissetarsi e ronfare all’ombra di qualche quercia, per poi ripartire e ubriacarsi di nuovo. Dopo essersi persi più volte, finalmente riescono a raggiungere la dimora di Dioniso, situata sulla cima di una collina coperta da vigneti. «Grazie, re Mida, per aver riaccompagnato qui Sileno» dice Dioniso, affiancato da uno stuolo di Satiri e Menadi3. «Temevo di aver perduto per sempre questa venerabile guida e sono onorato dalla tua generosità. Chiedimi qualsiasi cosa desideri e te la concederò, per dimostrarti la mia riconoscenza» aggiunge, alzando al cielo, tanto per cambiare, una coppa di vino. Il sovrano non ci pensa su nemmeno due volte, essendo un po’ precipitoso, e risponde, con gli occhi che luccicano e un sorriso sciocco sulle labbra: «Vorrei che tutto ciò che toccherò con il mio corpo si trasformasse in oro puro». Dioniso sorride, non ribatte nulla e, sinceramente grato a Mida, esaudisce la sua richiesta; tuttavia in cuor suo si rammarica che il re non abbia domandato qualcosa di più intelligente, poiché sa bene che un dono di questo tipo non può provocare altro che disastri e guai. Mida ringrazia il dio e si rimette in viaggio, ma non vede l’ora di verificare l’efficacia del suo nuovo potere; così, sulla via del ritorno, inizia a toccare tutto quello che gli capita. Agguanta il ramo di un leccio4, e quello si tramuta all’istante in oro; quindi raccoglie una grossa pietra, che diviene una preziosa pepita, però è costretto a gettarla via, essendo troppo pesante da portare fino alla reggia. Non contento, trasforma in oro una bella mela e un intero campo di grano, soltanto Satiri e Menadi: i Satiri, o Fauni, sono delle divinità minori, rappresentati come esseri umani barbuti con corna, coda e zampe di capra. Le Menadi sono le sacerdotesse del dio Dioniso, chiamate Baccanti a Roma. 4 leccio: albero sempreverde, molto diffuso nel bacino del Mediterraneo. 3

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sfiorandone le spighe, incredulo di fronte a un prodigio simile, anzi… letteralmente inebriato da ciò che è capace di fare! Appena bussa alla porta di casa, questa diventa un fastoso ingresso aureo e Mida non sta più nella pelle, avido com’è di toccare tutti gli oggetti e gli arredamenti di casa sua. I problemi iniziano all’ora di cena, quando il sovrano vorrebbe lavarsi le mani: peccato che l’acqua si tramuti al minimo contatto con le sue mani. Mida guarda sconfortato la catinella contenente il metallo preziosissimo ma inutile, perché non può neppure rinfrescarsi. Per non parlare di ciò che accade a tavola: prima assumono sembianze auree la sedia e il tavolo, poi anche le vivande e il vino che i servi avevano preparato: ogni volta che il re si appresta ad afferrare un pezzo di pane o un frutto, rischia di azzannare oro massiccio. Avvilito, il sovrano inizia a odiare ciò che fino a poco prima aveva sognato, provando la sensazione di essere ricco e povero al tempo stesso: «Ho fame e non posso mangiare, ho sete e non posso bere, ho sonno e non posso dormire, dato che il letto d’oro è duro come un sasso. Avrei dovuto essere meno stolto quando ho avanzato a Dioniso la mia richiesta: dunque ora tornerò da lui e domanderò di essere liberato da questo dono, che è in realtà una terribile maledizione». Senza ulteriore esitazione, Mida si reca da Dioniso, implorando perdono e supplicando il dio di poter rimettere le cose a posto; quest’ultimo lo ascolta, provando compassione per l’uomo, perciò decide di accontentarlo: «Sei stato proprio uno stupido, ma almeno hai ammesso di aver sbagliato» commenta la divinità, «se vuoi essere libero da questo potere, devi fare ciò che ti dico: vai al fiume che scorre presso la città di Sardi, risali l’argine fino alla sorgente e poi metti la testa sotto il getto d’acqua gelato per lavare accuratamente il corpo dalla tua brama di avidità». 42


Re Mida e le orecchie d’asino

Mida non se lo fa ripetere due volte e arriva al punto indicato, dove compie ciò che gli è stato ordinato. A mano a mano che si lava, l’acqua della sorgente inizia ad assumere il colore dell’oro, perché il potere passa dal suo corpo al fiume. E difatti ancora oggi il Pattolo5 trasporta della sabbia d’oro. Ma al sovrano non interessa, anzi è disgustato dalla ricchezza, a tal punto da lasciare la reggia e andare a vivere nella foresta: «D’ora in poi, la mia vita cambierà completamente. Diventerò seguace del dio Pan6 e non mi comporterò più come uno stolto!» In realtà non passa molto tempo che il re si rimette nei pasticci: bisogna sapere che Pan aveva l’abitudine di suonare la zampogna per i fedeli e le ninfe che lo circondavano. Niente di male, senonché un giorno il dio si mette in testa di sfidare Apollo a una gara di musica, quando è risaputo che il figlio di Zeus è insuperabile nel canto e nella melodia. In breve la competizione viene organizzata e i due avversari si apprestano a esibirsi, alternandosi nell’esecuzione dei loro pezzi forti: il primo a suonare è il dio pastore. Pan soffia con vigore nella zampogna, guadagnandosi un discreto applauso e soprattutto gli elogi di Mida, il suo principale sostenitore, commosso dall’esibizione. Tuttavia, appena Apollo comincia a pizzicare le corde della sua lira, dimostra di essere nettamente superiore allo sfidante, poiché l’armonia della voce e il suono dello strumento mandano in estasi tutti i presenti, incapaci di profferire parola per la meraviglia e l’ammirazione. I consensi sono tutti per Apollo. Eppure Mida ha l’ardire di dire la sua: «Pan ha suonato meglio. Per me il trionfo spetta a lui». Tutti lo fissano con aria perplessa, qualcuno lo canzona e altri gli rivolgono parole ingiuriose, arrivando persino a cacciarlo con calci e 5 6

Pattolo: fiume che scorre presso Sardi, l’antica capitale della Lidia. Pan: dio pastore, legato alla campagna e alle foreste.

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spintoni, ma la punizione più beffarda è quella che gli viene inflitta da Apollo: «Somaro! Sei proprio un ciuco! Che le tue orecchie diventino uguali a quelle della bestia che sei!» sentenzia la divinità. Mida non ci mette molto ad accorgersi della trasformazione: appena è lontano da quella folla che vorrebbe linciarlo, si rende conto che Apollo ha punito la sua irriverenza facendogli spuntare un paio d’orecchie d’asino lunghe e pelose al posto di quelle umane. «E ora come farò? Vorrei sprofondare per l’umiliazione!» esclama, osservando il suo nuovo aspetto nel riflesso di una catinella d’acqua. «Che cosa dirò ai cortigiani e ai sudditi quando mi vedranno? Forse posso provare a nascondere questa vergogna!» Così il sovrano si procura un largo cappello rosso che gli copre le orecchie ed evita accuratamente di toglierselo: lo indossa nella reggia, quando è in compagnia, con gli amici e non se lo leva neppure quando va a dormire. Naturalmente i parenti e i conoscenti gli domandano perché porti sempre quel bizzarro copricapo, ma Mida è puntualmente pronto a inventare qualche scusa: una volta dice di avere freddo, un’altra di soffrire di mal di testa, per non parlare del raffreddore, e così via. Arriva però il momento di andare a tagliarsi i capelli; Mida, preoccupato, si rivolge minacciosamente al barbiere: «Ora mi toglierò il berretto e tu farai il tuo lavoro. Ma ciò che vedrai deve restare segreto, altrimenti farò tagliare la testa a te e ai tuoi figli». Detto questo, il sovrano si scopre il capo, suscitando lo sconcerto del barbiere che, a ogni modo, giura di non rivelare il segreto delle orecchie asinine. Eppure, dopo aver tagliato i capelli al sovrano, non riesce proprio a togliersi dalla testa quell’immagine mostruosa. Per molte notti sogna di andare in giro per la città gridando la notizia e di giorno è atterrito all’idea che qualcosa possa sfuggirgli di bocca. 44


Re Mida e le orecchie d’asino

Insomma, ha bisogno di confidarsi, di rivelare quella verità sconvolgente a qualcuno! Essendo però terrorizzato dalla minaccia del re, il barbiere escogita un piano: si inoltra in una campagna abbandonata, lontana da tutto e da tutti; quindi scava una buca nel terreno e finalmente mormora dentro, con un filo di voce, ciò che ha visto: «Re Mida ha le orecchie d’asino!» Immediatamente ricopre il fosso con un po’ di terra, si alza e se ne va, sentendosi liberato da un peso. Dopo qualche tempo, accade che nel punto preciso in cui il barbiere aveva sepolto il segreto, spuntino dei germogli, che ben presto divengono canne alte e sottili. Non appena vengono agitate dal vento, esse emettono un suono, che non è soltanto un fruscio, ma un vero e proprio sussurro: «Re Mida ha le orecchie d’asino!» Un giorno un pastore passa da quelle parti e ascolta, con stupore, quelle parole venute dalla terra; rivela quanto ha sentito alle persone dei paraggi, che accorrono incuriosite, prima a decine, poi a centinaia. Intanto il vento non cessa di soffiare e le canne seguitano a parlare. «Re Mida ha le orecchie d’asino!» mormora ogni uomo, perché la voce si è sparsa in tutta la regione, giungendo infine alla reggia, dove Mida, svergognato e affranto, cerca inutilmente di tapparsi le orecchie con le mani, pensando a quanto sia stato sciocco.

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Giacinto C’è un periodo dell’anno, quando la primavera, con la sua mite brezza, mette in fuga le nubi dell’inverno facendo nascere fiori delicati e dal profumo soave, in cui il dio Apollo viene preso da una struggente malinconia, e lo si può vedere intento a tentare le corde della sua lira in solitudine, a suonare musiche nostalgiche e lievi, ripensando alla triste fine del suo amico Giacinto. Egli era un affascinante giovinetto, figlio dei signori di Sparta Amicla e Diomeda. Il suo aspetto amabile e i modi raffinati avevano indotto alcuni dèi a contendersi il suo affetto: bisogna infatti sapere per gli antichi Greci l’amicizia era una faccenda molto seria; si trattava del sentimento più nobile e puro che si potesse provare, perciò, quando Giacinto mostrò di preferire la compagnia di Apollo a quella del dio del vento, Zefiro, quest’ultimo si adirò come non mai, ingelosito e punto nell’orgoglio. Ma ai due amici poco importava: essi trascorrevano insieme ogni istante che potevano, a tal punto che Apollo, per recarsi a Sparta da Giacinto, dimenticava i suoi doveri, per esempio abbandonava il santuario di Delfi, che avrebbe dovuto proteggere. Tutto, pur di accompagnare l’inseparabile compagno dove egli desiderasse. «Apollo, mi aiuti a portare le reti?» chiedeva talvolta il principe dei Lacedemoni1, e senza esitazione il dio della medicina lo alleggeriva dei suoi pesi. «Apollo, condurresti i miei cani al guinzaglio?» domandava in altre occasioni, e la divinità era ben lieta di accontentarlo. Lacedemoni: Spartani.

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Giacinto

Non si tirava indietro neppure quando doveva accompagnare il ragazzo per gli aspri passi della montagna; ogni volta che parlava con lui, quasi dimenticava chi fosse e si sentiva in pace con se stesso. Anche Giacinto, d’altro canto, traeva giovamento dalla compagnia di Apollo, dal quale apprese l’arte della musica e alcune discipline sportive, come il tiro con l’arco. Un giorno in cui il sole splendeva sopra Sparta, la città priva di mura, il dio e il fanciullo si recarono in un prato, per gareggiare nel lancio del disco. Dopo essersi cosparsi le braccia e il petto di olio d’oliva, come erano soliti fare gli atleti dell’epoca, Apollo mostrò al suo giovane amico come doveva fare per scagliare il disco il più lontano possibile, cimentandosi in un lancio. «Sei riuscito a far andare il disco oltre le nuvole e soltanto dopo parecchi minuti è caduto a terra!» commentò Giacinto, pieno di ammirazione, e desideroso di imitare il suo maestro. «È una questione di tecnica» spiegò Apollo, asciugandosi il sudore dalla fronte «per ottenere un buon risultato, devi innanzitutto disporti con le gambe leggermente divaricate, il busto appena inclinato in avanti e poi iniziare a ruotare sulla gamba sinistra, che fa da perno al tuo corpo» aggiunse, mimando i movimenti corretti. «Poi, arriva il gesto più difficile: al termine della rotazione, ti ritroverai sulla gamba destra e dovrai trasferire la tua forza dalle gambe al disco. Sarà in quel momento che cercherai di scagliarlo il più lontano possibile! Hai capito, Giacinto?» Spinto dalla smania di giocare, il ragazzo chiese ad Apollo di tentare un nuovo lancio e, appena questi ebbe gettato il disco, corse a raccoglierlo. Andarono avanti così per un po’, finché il dio Zefiro ne approfittò per mettere in atto la sua ineluttabile rappresaglia2: il vento deviò la traiettoria del 2

ineluttabile rappresaglia: inevitabile vendetta.

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disco, facendolo rimbalzare pesantemente da terra verso il viso di Giacinto, che stava per afferrarlo. Le tempie del principe si imporporarono di sangue e il volto divenne candido come un lenzuolo. Anche Apollo sbiancò, accorrendo verso l’amico, che si era accasciato sull’erba. Tentò di somministrargli delle erbe e di lavargli la ferita, sorreggendo quel corpo esausto, ma ogni tentativo di fermare l’emorragia o di ridare vigore al povero ragazzo era inutile, poiché si trattava di un colpo mortale: il fato era più potente persino delle conoscenze mediche di Apollo. Il giovane e splendido Giacinto emise l’ultimo respiro tra le braccia di Apollo, andandosene in modo precoce e crudele. Come quando in un giardino ben curato si spezzano gli steli delle viole, dei papaveri o dei gigli e i fiori immediatamente appassiscono piegando la corolla, incapaci di reggersi; allo stesso modo gli occhi del morente, cercando per l’ultima volta la luce, si chiusero, e la testa, ormai priva di forze, cadde reclinata su una spalla. Apollo, ancora chino sul corpo dell’amico, non poteva darsi pace: «Perché, perché una tragedia simile doveva abbattersi su di noi? Mio caro Giacinto, sei stato derubato della tua stessa giovinezza, e tutto questo è accaduto per causa mia. Perciò il mio dolore è ancora più bruciante! Sei morto per mano mia, una mano che ti ha assassinato invece di proteggerti e volerti bene. Ma, a ben pensarci, qual è stata la mia colpa? Forse l’aver voluto giocare, forse l’amicizia stessa? Quell’amicizia che a qualcuno non andava a genio!» disse, con la voce che gli tremava, pensando a Zefiro, e senza smettere di abbracciare Giacinto. «Vorrei poter morire io al posto tuo, ma non mi è concesso, a causa di un destino inesorabile» aggiunse, dopo essersi asciugato le lacrime dal viso. «Posso soltanto portarti nel mio cuore e sulle mie labbra: le corde della lira, pizzica48


Giacinto

te dalle mie dita, ti canteranno, recandoti fama eterna. Tu, morto nel fiore della tua giovinezza, sarai un nuovo fiore!» Appena ebbe formulato questa predizione, il sangue che aveva macchiato l’erba si tramutò in un fiore simile all’argenteo giglio nella forma, ma non nel colore: rosso vivo, più acceso della porpora. Una specie nuova, dunque, che non si era mai vista fino a quel momento. Apollo continuò a piangere, e le sue lacrime, versate sul meraviglioso fiore, formarono le sillabe “ai, ai”, quasi a suggellare il suo dolore infinito. Ancora oggi, queste lacrime divine colorano i petali del giacinto, così come, a eterna memoria del giovane prematuramente scomparso, vengono celebrate delle feste in suo onore. E Apollo? Quando Zefiro soffia, portando con sé il bel tempo, lo si può incontrare in un prato o in un campo, intento a guardare con nostalgia i fiori che gli ricordano la morte dell’amato giovinetto. Ecco il motivo di quello sguardo mesto e delle note dolenti che la sua lira diffonde.

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Apollo e Daphne Un giorno, Apollo, figlio di Zeus, gironzolava nei boschi del Parnaso tutto allegro e fiero di sé. Aveva appena compiuto un’impresa degna di nota, uccidendo una grossa serpe chiamata Pitone, che terrorizzava gli abitanti della zona. «Era un vero e proprio mostro, ma contro di me non ha avuto scampo» disse a se stesso il dio, con aria compiaciuta. «Sono o non sono la divinità della giovinezza, della bellezza, della musica e della medicina? E, già che ci siamo, mi reputo il miglior arciere che esista, dato che ho trapassato la bestia da una parte all’altra con una precisione sopraffina!» Mentre camminava trionfalmente a caccia di altre prede, magari un cervo o un cinghiale, s’imbatté in Eros, intento a esercitarsi con arco e frecce. Apollo scrutò con i suoi occhi lucenti il giovane dio dell’amore e pensò bene di schernirlo: «Che cosa vorresti fare con quell’arnese, bambino?» domandò sprezzante «Lascia le armi a coloro che sanno usarle. Al massimo puoi far fiorire qualche storiella d’amore colpendo bersagli facili, che se ne stanno fermi ad aspettare te. Ma se c’è un arciere infallibile, quello sono io!» «Glorioso Apollo, io non sbaglio mai la mira. I miei dardi invisibili arrivano sempre a segno. E nessuno sa quando giungono perché, dopo aver colpito, si sciolgono come fa il ghiaccio sul fuoco. Tu potrai anche trafiggere tutti, ma io posso trafiggere te». Per tutta risposta il figlio di Zeus si fece una risata, dopodiché se ne andò alla svelta, mentre Eros restò lì a rimuginare: la sferzante ironia di Apollo lo aveva ferito. Qualche giorno dopo il riccioluto dio dell’amore, ancora offeso per le parole che gli erano state rivolte, vide da lontano Apollo, intento a 50


Apollo e Daphne

cacciare nella foresta, poco distante da un corso d’acqua nel quale due bellissime ragazze si rinfrescavano: quale occasione migliore per dare una bella lezione a quello sbruffone? Eros andò a nascondersi tra i rami di un faggio, dopodiché attese il momento propizio. Nella faretra aveva solo due frecce: una d’oro lucente, in grado di suscitare l’amore, l’altra, con la punta in piombo, provocava la reazione opposta, scacciando qualsiasi sentimento di affetto e passione dal cuore di colui che ne veniva colpito. Proprio con questo dardo Eros trafisse una delle fanciulle: si trattava di Daphne, l’incantevole figlia del dio fluviale Peneo, che si trovava lì con sua sorella Melene. «Che ti succede, Daphne? All’improvviso il tuo sguardo si è fatto gelido e il tuo corpo sembra essersi irrigidito. Eppure, stavamo parlando di cose belle, come l’amore e il matrimonio» commentò quest’ultima. «Cara sorella, pensavo solo a quanto mi disgusterebbe l’idea di andare in sposa a qualcuno. Mi cadano i capelli e i denti, se ciò mai accadrà! Io detesto gli uomini con tutto il cuore: neanche un dio potrebbe farmi cambiare quest’idea!» rispose Daphne, sdegnata. Intanto Eros completava la sua opera: non fallì il colpo neppure quando si trattò di centrare con la freccia d’oro Apollo, che si innamorò all’istante della prima donna capitata a tiro, cioè Daphne. Il figlio di Zeus iniziò un corteggiamento tanto sfacciato quanto inutile, perché la fanciulla odiava anche la sola idea dell’amore. Si era messa in testa di ritirarsi nei boschi, in solitudine, emulando la vergine Artemide1, e si infastidiva ogni volta che scorgeva Apollo, o qualsiasi altro pretendente, alle calcagna. 1

Artemide: chiamata anche Diana dai Romani, è la dea delle selve e della caccia, irascibile e vendicativa. Amante della solitudine, aveva fatto voto di non sposarsi e di vivere nei boschi in libertà.

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«Non ne voglio proprio sapere di nozze, baci e altre sdolcinatezze! E maledico la mia bellezza, che non mi permette di starmene un attimo in pace, dato che c’è sempre qualcuno pronto a offrirmi la sua mano!» ripeteva spesso la ninfa, andando in giro con i capelli scompigliati e i primi stracci che trovava. Eppure, anche così, era magnifica. Apollo aveva perso letteralmente la testa per lei e ogni giorno le tendeva un’imboscata, facendosi trovare nei posti dove ella passava, e inseguendola per ore. «Daphne, io non t’inseguo per farti del male, come il lupo insegue l’agnello. Ti inseguo per amore! Se mi prometti di fuggire più lentamente, io prometto di inseguirti più lentamente ancora. Non vorrei mai vederti inciampare e cadere, essere graffiata dai rovi o persino inghiottita da un burrone, perciò fermati!» gridò un giorno, mentre le correva dietro. Ma la fanciulla non si fermava, incurante che il più bello tra gli dèi si stesse struggendo di desiderio per lei. A Daphne importava solo mettersi in salvo, perciò scappava senza tregua, senza neppure fermarsi per mangiare: si accontentava di raccogliere al volo qualche bacca, pur di non essere raggiunta. Apollo non si perse d’animo: prima le dedicò alcune canzoni d’amore, suonate con la sua inseparabile lira, quindi seguitò a supplicare la ragazza di porre fine alla sua fuga disperata, perché era un dio a desiderarla: «Tesoro mio, sappi che io non sono un pastore o un umile montanaro, bensì il figlio di Zeus: Apollo in persona! Sono il dio del canto e della poesia, della bellezza e della medicina, nonché il miglior arciere che ci sia; posso svelare il passato, il presente e il futuro!» È bizzarro pensare a come queste parole fossero in grado di suscitare solamente il pianto della povera Daphne, ormai stremata dalla fatica: il miglior arciere del mondo non aveva potuto evitare quell’unico dardo scagliato da Eros e inoltre, benché fosse la divinità della medicina, non aveva alcun po52


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tere di guarire il suo cuore. Essere la divinità della bellezza e dell’arte non serviva a nulla! Daphne, al culmine della stanchezza, giunse in riva a un fiume, dove si fermò. Era provata dalla lunga corsa e incapace di proseguire: di lì a poco Apollo l’avrebbe raggiunta. Pallida per la paura e con voce affannosa, si rivolse a Peneo: «Padre, dio del fiume, fa’ che questa mia bellezza, causa di sventure, svanisca e si trasformi. Se davvero mi vuoi bene, sprofondami in acqua o in terra: rendimi in grado di sfuggire al desiderio di costui…». La fanciulla non aveva neanche terminato di formulare questa preghiera, che sentì il suo corpo appesantirsi, a partire dalle braccia. La pelle si indurì, diventando corteccia; i lunghi capelli si tramutarono in fronde, le braccia in rami. I piedi, che fino a un attimo prima si erano mossi in una corsa inverosimile, affondarono nel terreno, prolungandosi in radici: era un albero nuovo, leggiadro, sconosciuto fino a quel momento. Quando sopraggiunse Apollo, fece in tempo a osservare, attonito e impotente, la trasformazione. Si avvicinò all’albero, appoggiò una mano sul tronco e accarezzò i rami, come se fossero le fattezze della sua donna: egli l’amava anche così. «Dato che non potrai essere la mia sposa» disse, con la voce rotta dal pianto «sarai il mio albero sacro. Ornerai la mia testa, la lira e la faretra. Le tue foglie circonderanno la fronte di vincitori e poeti. E nemmeno l’inverno avrà la meglio su di te: sarai sempre verde e non perderai mai le foglie. Ti do il nome di alloro».

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PERCORSI DI LETTURA COMPRENSIONE

1 Che cosa ricama Aracne sulla sua tela? E Pallade Atena? ....................................................................................................................................... .......................................................................................................................................

2 Completa la descrizione di Sileno, nella parte iniziale del mito su re Mida, ricavando le informazioni dal testo. È un vecchio, ubriaco fradicio, che con un bastone ........................ ....................................................................................................................................... Grida parole ........................................................................................................... L’espressione del suo viso .............................................................................. Emana ....................................................................................................................... È giunto in Frigia perché ................................................................................ 3 Indica se le seguenti affermazioni, riguardanti re Mida e il suo potere di mutare ogni cosa in oro, sono vere o false. Vero

Falso

Il dio Dioniso è soddisfatto della richiesta avanzata dal re Mida. Mida esprime il suo desiderio in modo avventato e superficiale. Mida sperimenta il suo potere già sulla via del ritorno a casa. Mida non riesce a suscitare la pietà di Dioniso. Mida si reca presso il fiume dei Sardi per purificarsi dalla sua avidità. Il fiume Pattolo riceve il potere legato all’oro da Mida. 4 Perché l’amore di Apollo non è corrisposto da Daphne? a) Perché Daphne ha promesso al padre Peneo di non innamorarsi. b) Perché il corteggiamento del dio è insistente, tanto da suscitare il fastidio della ragazza. c) Perché la freccia con cui l’ha colpita Eros rende la ninfa insensibile all’amore. d) Perché Daphne non vuole essere amata da un dio, ma da un mortale.

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PERCORSI DI LETTURA

5 Come reagisce Apollo di fronte alla metamorfosi di Daphne? Che cosa stabilisce? ....................................................................................................................................... .......................................................................................................................................

6 Quale dovere trascurava Apollo, pur di trascorrere del tempo insieme all’amico Giacinto? ....................................................................................................................................... ....................................................................................................................................... 7 Per quale motivo, quando arriva la primavera, Apollo suona tristemente la sua lira? a) Perché ripensa all’amico tragicamente scomparso. b) Perché Zefiro soffia e la brezza lo rende malinconico. c) Perché in questa stagione Giacinto ha spezzato la sua amicizia con lui. d) Perché in questo periodo sbocciano i giacinti, fiori che recano dolore. LESSICO 1 In italiano esiste la parola “aracnofobia”. Che cosa significa? Cerca la definizione e l’etimologia di questo termine, dopodiché trascrivile nello spazio sottostante. ....................................................................................................................................... ....................................................................................................................................... 2 Aracne è senza dubbio una ragazza orgogliosa. Per usare un sinonimo, potrebbe essere definita anche: a) umile c) modesta b) inflessibile d) fiera 3 L’alloro è una pianta di grande valore simbolico, usata in passato per incoronare poeti e vincitori nello sport.

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PERCORSI DI LETTURA

Dal punto di vista lessicale, il termine latino laurus ha lasciato delle tracce nella lingua italiana odierna. Sei in grado di trovare due parole derivate da questo vocabolo? Ti diamo qualche suggerimento. Un nome proprio femminile (forse qualche tua compagna si chiama così!) ..................................................................................................... Un titolo di studi (pensa a cosa succede dopo le superiori!) .......................................................................................................................................

PRODUZIONE SCRITTA 1 Nel mito di Aracne, Pallade Atena si presenta sotto mentite spoglie, quelle di una debole vecchietta: a volte le apparenze ingannano. A te non è mai capitato di giudicare qualcuno in modo affrettato, commettendo degli errori? Rifletti sulla tua esperienza personale, scrivendo un breve testo sul quaderno. 2 E se fossi stato tu, al posto di Mida, che cosa avresti chiesto a Dioniso? Quale potere avresti domandato? Rispondi motivando la tua scelta e immaginando che cosa potresti fare, in un breve testo sul quaderno. PRODUZIONE ORALE 1 Qual è il sentimento, emerso dalla lettura di questi miti, che ti ha colpito maggiormente? Scegli una risposta e poi motivala, avviando un dibattito con i tuoi compagni di classe. a) La superbia di Aracne b) L’avidità di Mida c) L’amore non corrisposto di Apollo d) La gelosia di Zefiro

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Sezione 3 Altro che supereroi! Che cos’hanno in comune personaggi come Teseo, Eracle e Giasone? Hanno compiuto delle imprese epiche, a volte dando vita a delle vere e proprie epopee; insomma, sono degli eroi. Ma… quante parole nuove! Vediamo qual è il loro significato. L’epica (dal greco èpos) vuol dire letteralmente “parola che celebra le azioni compiute dagli eroi”, mentre l’espressione “epopea”, che originariamente indicava una produzione poetica, nell’uso odierno designa le opere che raccontano di uomini e fatti leggendari. Chi sono gli eroi? Si tratta di esseri straordinari, capaci di imprese prodigiose, a volte veri e propri semidèi. L’esaltazione di queste figure attraverso narrazioni mitiche nasce con l’uomo stesso, perché si lega alla necessità, da parte della tribù, di avere una guida che incarni i valori della comunità: forza, lealtà e sentimento di protezione verso i più deboli. Quali caratteristiche possiede l’eroe della classicità? Innanzitutto è bello e buono (in greco, kalòs kai agathòs), perché nel mondo greco la bellezza costituisce il volto dell’animo, rispecchiando così valori morali e virtù guerresche. Gli obiettivi dell’eroe sono l’onore e la fama: egli, infatti, viveva per realizzare azioni gloriose in battaglia, in modo tale da ottenere il ricordo da parte dei posteri. In quest’ottica, una morte precoce poteva essere la premessa per una celebrità duratura; inoltre se un eroe non poteva tornare a casa vittorioso, era meglio che cadesse nel difendere la sua patria. I miti degli eroi, inoltre, sono strettamente connessi al culto dei morti, in quanto sia in Grecia sia a Roma ogni fa58


Sezione 3

miglia invocava i propri defunti per aiuti e consigli, rivolgendosi soprattutto a coloro che avevano reso gloriose le città e la discendenza per mezzo di nobili gesta: ecco perché accanto ai miti legati agli dèi si formano cicli di racconti incentrati su particolari personaggi, che generalmente vivono al tempo delle origini, quando le comunità umane non sono ancora organizzate da norme civili. In alcuni casi, infatti, sono gli stessi eroi a fare da capostipiti, insegnando ai popoli le arti della coltivazione e della scrittura, o addirittura stabilendo le prime leggi. Il lieto fine, che consiste nel superamento delle prove o nella riuscita di una difficile e rischiosa impresa, è spesso presente, benché non sia assicurato: infatti, quando il protagonista si mette contro gli dèi, oltrepassando i limiti umani, si macchia di una colpa chiamata tracotanza (hybris in greco), che viene puntualmente punita. Chissà che leggendo queste pagine tu riesca a immedesimarti nei protagonisti di queste indimenticabili gesta!

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Promèteo e Pandora Questa è una storia che risale a un’epoca remota e dimenticata, alla notte dei tempi, quando il mondo iniziò a essere abitato dalle prime creature, subito dopo il trionfo di Zeus nella lotta per la supremazia. Il re degli dèi, osservando la terra completamente devastata dalle atroci battaglie che si erano susseguite, prese da parte Promèteo, un Titano che lo aveva sostenuto durante le ostilità, e gli affidò l’incarico di ripopolare il pianeta. Promèteo, il cui nome significa “previdente”, si mise subito all’opera, desideroso di fare del suo meglio: plasmando della morbida argilla con l’acqua del fiume, diede vita ad animali di ogni genere, ma il vero capolavoro doveva ancora arrivare. «Voglio creare un essere dotato di un’intelligenza superiore, a immagine degli dèi!» disse a se stesso, mentre completava la sua ultima opera: l’uomo, che avrebbe avuto il viso rivolto verso l’alto, per contemplare il cielo e le stelle, nonché una postura eretta, a differenza delle altre creature. Promèteo sorrise soddisfatto: grazie a lui, gli uomini avevano la parola e la ragione; tuttavia essi erano destinati a una vita triste e piena di afflizioni, all’interno di grotte umide e malsane. Passò il tempo e il Titano iniziò a provare compassione per quegli esseri così belli, a cui lui aveva dato forma. Li aveva a cuore più di ogni altro animale, perciò decise di aiutarli a migliorare le loro esistenze. Tanto per iniziare insegnò agli esseri umani a procurarsi il cibo attraverso la caccia e la pesca; dopodiché li istruì sulle norme che regolano la vita in comunità, dato che i primi viventi non facevano altro che uccidersi a vicenda. E così sulla Terra si intravide un barlume di civiltà. Non è che la 60


Promèteo e Pandora

cosa andasse troppo a genio a Zeus. «Tutta questa sapienza non provocherà nulla di buono. Si sa come vanno queste cose: prima le persone pretendono di avere una cultura, poi iniziano a pensare con la propria testa e magari a un certo punto arrivano a mettere in discussione la mia autorità!» diceva spesso; a ogni modo, dato che il mondo era ancora agli albori, fu costretto a concedere dei doni a tutte le creature che lo abitavano. I regali però non furono distribuiti da Promèteo, ma da quello sciocco di suo fratello Epimèteo, il cui nome significa “colui che riflette dopo”: il Titano svolse il lavoro con noncuranza, distribuendo i doni a casaccio. Così, mentre alcuni animali ottennero la velocità nel movimento, altri il volo, per non parlare delle bestie che ricevettero unghie e zanne per difendersi con ferocia, quando arrivò il turno dell’uomo, non era rimasto più nulla. «E adesso chi lo dice a mio fratello?» si domandò Epimèteo grattandosi il capo, quando finalmente ebbe compreso il danno che aveva causato. Poi si avviò controvoglia da Promèteo e gli confessò tutto. Il Titano che aveva creato l’uomo avvampò per la rabbia e pronunciò parole di biasimo1 allo stolto Epimèteo; quindi, dopo aver ritrovato la calma, pensò di rivolgersi a Zeus per mettere a posto la situazione. «Mi rendo conto del pasticcio che ha combinato mio fratello» disse quando fu ricevuto dal re dell’Olimpo, «ma c’è un dono che non è stato ancora concesso a nessuno e che agli uomini potrebbe fare molto comodo: il fuoco». «Il fuoco? Ma così quei sempliciotti finiranno per scottarsi!» esclamò Zeus, sbellicandosi dalle risate. 1

biasimo: rimprovero.

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Promèteo invece rimase serissimo: «Il fuoco è energia vitale, Zeus. Se mi dai una scintilla, io mostrerò agli uomini come ripararsi dal freddo, cucinare e fabbricare utensili. Non sei ancora convinto? Allora in cambio essi sacrificheranno a te una parte della loro cacciagione». A quella proposta, gli occhi del dio si illuminarono: un sacrificio di animali riusciva sempre a tirarlo su di morale. La proposta fu accettata, a una condizione: gli uomini avrebbero dovuto dividere con Zeus la prima bestia uccisa. Il fuoco fu accolto con gioia dagli esseri umani e Promèteo adorato come un eroe, anche perché oltre a insegnare alla gente a usare questo elemento, egli si prodigò per far apprendere a tutti l’arte della lettura, della scrittura, della medicina e del commercio. Giunse quindi il momento di onorare la promessa che era stata stretta con Zeus, poiché un grosso bue era stato abbattuto e la sua carcassa attendeva di essere fatta a pezzi. Promèteo, che (come tutti i Titani) era un gran furbacchione, decise di giocare uno scherzo a quel re degli dèi che trattava sempre i suoi amici uomini con fare arrogante. Divise il bue in due metà: la prima era apparentemente più grande e succulenta, ma era stata riempita soltanto con le ossa (non molto buone da mangiare!), mentre la seconda, più piccola, conteneva la carne più saporita. «Zeus, quale parte preferisci?» chiese alla divinità, trattenendo a stento un sorriso. «Ma che razza di domande mi poni, Promèteo! È ovvio che a me spetta la parte più grande, mentre agli uomini deve essere sempre riservata quella più piccola. Tienilo bene a mente!» «Se le cose stanno così… buon appetito!» esclamò Promèteo; in quella Zeus assaggiò la carne e si rese conto di 62


Promèteo e Pandora

essere stato imbrogliato. In un istante, l’espressione sul suo volto si fece torva e le guance divennero paonazze: la sua ira incontenibile stava per scatenarsi! «Uomini! Esseri piccoli e presuntuosi che non siete altro! Avete voluto la carne? E adesso ve la mangiate cruda! Mi riprendo il fuoco» urlò, privando gli esseri umani di quel bene così prezioso. Tutti rimasero senza parole e ripresero la loro vita di sempre. Ma era appena iniziato un inverno rigido, di quelli che fanno battere i denti, e Promèteo era molto preoccupato per le sorti dell’umanità. Una mattina si fece coraggio e decise di compiere la più ardita delle imprese, quella di restituire il fuoco al genere umano: uscì di casa prima dell’alba, giusto in tempo per imbattersi in Apollo che, come ogni mattina, conduceva il sole sul suo carro alato, diretto verso il cielo. Uno dei suoi compiti, infatti, era proprio quello di far sorgere il sole, permettergli di splendere per molte ore e poi di tramontare alla fine della giornata. Ebbene, Promèteo riuscì ad acquattarsi dentro il carro e a rubare una scintilla direttamente dall’astro; quindi la nascose in un gambo di finocchio, stando attento a non farla spegnere. La sera stessa si recò tra gli uomini, portando il fuoco in tutti i villaggi che trovava sul suo cammino. «Non potevo sopportare che un tale dono, di inestimabile valore, vi venisse sottratto ingiustamente. Sono certo che voi uomini progredirete grazie a esso, ma vi raccomando di usarlo con prudenza, affinché Zeus non se ne accorga» puntualizzò Promèteo. Le persone, tuttavia, erano al colmo della gioia e faticarono a contenere l’entusiasmo, tanto che fecero festa sulle rive del mare e in cima alle colline, accendendo falò un po’ dappertutto. 63


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A Zeus bastò affacciarsi dalla terrazza sull’Olimpo per scoprire che cosa era successo; oltre a una collera incontenibile, provò uno smisurato desiderio di vendetta. «Altro che togliere il fuoco al genere umano! Quel che farò sarà agghiacciante. Innanzitutto sistemerò Promèteo, responsabile di questo scempio, e poi mi occuperò di quei buoni a nulla che ha creato». Il re degli dèi fu di parola: fece incatenare il povero Titano a una rupe sperduta tra i monti del Caucaso2, stabilendo che ogni giorno un’aquila planasse su di lui apposta per divorargli il fegato, infliggendogli così un dolore straziante. Come se non bastasse, di notte le ferite si rimarginavano, affinché la pena di Promèteo si ripetesse incessantemente. Il malcapitato fu costretto a patire questa tortura per un periodo interminabile: mesi, anni, forse addirittura secoli; finché un giorno, il fortissimo Eracle passò di lì. Rattristato da quello spettacolo raccapricciante, in men che non si dica abbatté l’aquila e liberò Promèteo dalle catene: aveva sofferto abbastanza. Anche il genere umano fu punito severamente da Zeus, il quale temeva che un giorno gli uomini sarebbero diventati sempre più potenti, in grado di dominare la natura e insidiare il suo potere. Escogitò dunque un modo per tenerli a bada. «Voglio dare a quegli insolenti un male, di cui però dovranno essere contenti; un mostro, bello a vedersi, ma che li tormenterà fino alla morte. Insomma, una donna!» meditò un giorno la divinità più potente di tutte. Ordinò quindi a suo figlio Efesto, abilissimo fabbro, di forgiare una creatura attraente e desiderabile, che venne poi ammaestrata da Afrodite nell’arte della seduzione non Caucaso: regione al confine tra l’Europa e l’Asia, caratterizzata dall’omonima catena montuosa.

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ché educata dal dio Ermes, messaggero avvezzo al furto e all’inganno, a divenire una creatura spudorata e sleale. La fanciulla fu chiamata Pandora, nome che significa “ricca di doni”; difatti, quando Zeus la mandò sulla Terra, recava con sé un misterioso regalo: una grande anfora d’oro. Quando il re degli dèi propose a Epimèteo di prendere in sposa la ragazza, questi ne fu felicissimo; tuttavia il lungimirante fratello lo mise in guardia: «Stai accorto e non accettare doni da Zeus. Non vede l’ora di giocare un brutto tiro agli uomini perché, in cuor suo, li invidia. Accertati che quella donna non apra mai lo strano vaso che porta sempre con sé». Epimèteo e Pandora si sposarono; tutto filò liscio per un po’, fino a quando un giorno, vinta dalla curiosità, la donna si avvicinò all’anfora con uno sguardo malizioso: «Dopotutto, che cosa potrà mai succedere se lo apro solo per un attimo? Una sbirciatina e lo richiudo subito!» Pandora aprì il coperchio del vaso, che all’interno era nero come la pece. Dopo un istante, da esso sbucò uno sciame di esseri orribili, simili a spiriti malvagi, che si sparsero dappertutto e uscirono fuori dalla stanza: erano i mali del mondo, che gli uomini ancora non avevano conosciuto. In breve, l’umanità cominciò a essere afflitta dalle malattie, dalla fame, dalla vecchiaia, dalla follia e da ogni tipo di vizio. La sofferenza si introdusse in un batter d’occhio nel mondo. E tutto per colpa di una donna! Ma lo spirito di un’altra donna, dalle fattezze nobili e leggiadre, era rimasto all’interno del vaso, a consolare il mondo con il suo dolcissimo profumo. «Chi sei?» le domandò Promèteo, appena rinvenne l’anfora scoperchiata. «Sono la Speranza. Anche se il male esiste, io ci sono e non abbandono mai gli uomini, neanche quando stanno per morire. Sono l’ultima ad andarsene».

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Teseo e il Minotauro Il mio nome è Teseo. E la mia vita è stata costellata da avventure e prodezze impareggiabili. Non ci credete? Ascoltatemi bene, allora. Ero solo un ragazzino quando affrontai e vinsi Procùste, un farabutto che si divertiva a derubare e tormentare le persone, stirandole su un lettino con cinghie e altri strumenti di tortura, oppure amputando con una scure i loro arti. Poiché sono sempre stato assetato di giustizia, lo ripagai con la stessa moneta, giusto per fargli capire che cosa dovevano aver provato le sue vittime. Dopo un lungo peregrinare lontano dalla famiglia, che non avevo mai conosciuto, ritrovai mio padre Egeo, signore di Atene: quando ci riabbracciammo, fummo entrambi pervasi da una profonda gioia. Finalmente eravamo insieme, dopo che il destino ci aveva separati a lungo. «Teseo… il figlio maschio che ho sempre desiderato e non sapevo di avere avuto… sei un giovane sano e forte, dalle gambe muscolose e dal cuore intrepido. I tuoi occhi scintillano come i miei, quando avevo la tua età!» mi disse, ma il suo sguardo aveva un’espressione mesta1. «Egeo, il tuo erede è qui, di fronte a te» replicai «allora perché hai quell’aria pensierosa, come se qualcosa ti disturbasse? A dire il vero tutta Atene sembra avvolta da un’atmosfera funebre. Come mai?» «Figlio mio, la città è in lutto perché domani sette ragazzi e sette fanciulle dovranno partire alla volta di Creta per essere divorati dal Minotauro, un mostro feroce e famelico» rispose, tutto d’un fiato e con le lacrime agli occhi. 1

mesta: triste, malinconica.

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Le cose, come ho appreso subito dopo, stavano così: in passato mio papà aveva combattuto una sanguinosa guerra contro Minosse, il re di Creta, uscendone sconfitto. Nel frattempo Pasìfae, la moglie del sovrano cretese, aveva dato alla luce un figlio dall’aspetto mostruoso: aveva membra umane gigantesche sormontate da un’enorme e terrificante testa di toro. Una creatura del genere, che rifiutava il latte materno e voleva cibarsi solo di carne umana, non si era mai vista! Perciò Minosse, pieno di vergogna e paura per quel figlio sgradito, aveva ordinato a un brillante architetto chiamato Dedalo di costruire un luogo inaccessibile dove potesse rinchiudere l’essere deforme: egli ideò il Labirinto, una dimora immensa e inestricabile; un autentico intrico di stanze, corridoi e cunicoli. Nel fondo dell’edificio era stata posta la tana del Minotauro2 (così venne chiamata l’orrida creatura), perennemente imbrattata di sangue e riecheggiante dei suoi sinistri muggiti. Chi entrava lì dentro, non era più in grado di uscirne. Poiché la bestia immonda doveva essere saziata, Minosse pensò di approfittare della guerra che aveva vinto contro Egeo, imponendo agli ateniesi un atroce tributo: li costrinse a inviare a Creta ogni nove anni, come pegno, quattordici giovinetti da dare in pasto al Minotauro. I ragazzi venivano estratti a sorte, perciò potete immaginare l’angoscia in cui vivevano le famiglie di Atene, che temevano di perdere i propri figli in modo così crudele! «Padre, ho ascoltato anche troppo a lungo e credo che sia ora di passare all’azione» dissi a Egeo, interrompendo il suo racconto. «Domani mi imbarcherò con i ragazzi destinati a questo ingiusto sacrificio. La mia missione sarà quella di uccidere il Minotauro». Minotauro: letteralmente significa “toro di Minosse”.

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Papà mi sorrise commosso: naturalmente era atterrito all’idea di perdermi ma, allo stesso tempo, i suoi occhi brillavano d’orgoglio. Il giorno seguente, al momento di unirmi alla spedizione, lo rassicurai, certo che l’impresa sarebbe andata a buon fine: «Come vedi, caro padre, ci apprestiamo a partire con una nave dalle vele nere, dato lo scopo funebre del viaggio. Ma ti prometto che se tutto andrà per il meglio e riuscirò a sopravvivere alla furia del Minotauro, alzerò le vele bianche. Sarà il segno della mia vittoria, e tu potrai vederle da casa, mentre solcherò il mare durante il ritorno. Solo se dovessi morire, resterà issata la funesta vela nera». Così cominciò quella traversata piena di afflizione che da Atene conduceva me e altri giovani verso l’isola di Creta. Tutti piangevano ed erano dilaniati dal dolore, tranne me. Io pregai gli dèi, ottenendo la loro protezione: Poseidone, il dio del mare, mi inviò un delfino parlante, suo messaggero. Lo splendido animale, saltellando sulle onde vicino alla nave, mi suggerì di staccare un pezzo della balaustra da usare come clava contro il Minotauro. «Bada bene a nasconderla sotto le vesti prima di entrare nel Labirinto» si raccomandò, prima di tuffarsi e scomparire nel mare. Pochi giorni dopo giungemmo a Creta, più precisamente a Cnosso, dove ci attendevano Minosse e i suoi famigliari. Tra loro vi era Arianna, figlia dello spietato sovrano, che osservava me e gli altri ragazzi in modo compassionevole: correva voce che la fanciulla non avesse mai visto di buon occhio il tributo voluto dal padre. A un certo punto, mentre eravamo al suo cospetto, compresi che anche Afrodite, la dea dell’amore, era dalla mia parte, poiché la bella Arianna non staccava i suoi occhi dai miei riccioli bruni agitati dal vento, che dovevano sembrarle 69


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irresistibili. Dunque la divinità aveva ispirato in lei un sentimento d’amore per me e neppure io restai indifferente al suo sguardo gentile e generoso… Nel frattempo Minosse passò in rassegna i miei compagni di sventura, scrutandoli a uno a uno, come se dovesse prendere una decisione; quindi venne da me e mi indicò davanti a tutti: «Iniziamo da lui! Questo vigliacco, che se ne sta piegato in due per fingere un malore, sarà il primo a essere mandato dentro al Labirinto per placare la fame del mostro» disse spavaldo. Proprio quello che le mie orecchie volevano sentire! D’altronde, se me ne stavo incurvato, era per nascondere l’arma con la quale avrei mandato il Minotauro all’altro mondo, ma questo non potevo dirlo a nessuno. In quella intervenne Arianna, parlando con voce soave: «Ottima scelta, padre! Sarò io stessa a trascinare il codardo all’ingresso». L’incantevole fanciulla mi afferrò e mi condusse verso l’entrata, sussurrandomi parole che dovevano restare segrete: «Straniero, io sono innamorata di te e desidero aiutarti. Anche se avrai la meglio su mio fratello, rischierai di morire di stenti, perché non sarai più in grado di ritrovare l’uscita del Labirinto. Solo Dedalo conosce il segreto della sua opera! Perciò fa’ come ti dico: prendi questo gomitolo rosso; appena sei dentro, lega un capo allo stipite della porta e vai sempre verso il centro. Credo nel tuo trionfo e ti aspetterò sulla collina fuori città, tra il mirto e il melograno». Che donna magnifica! Appena fui entrato, mi raddrizzai, sollevando la clava che tenevo sotto la veste; dopodiché legai un capo del gomitolo a una sporgenza del portale e cominciai a svolgerlo, procedendo all’interno del Labirinto. Era un posto piuttosto bizzarro: mi smarrii molte volte, trovandomi di fronte a vicoli ciechi, tuttavia non mi persi d’animo perché il filo rosso era sempre con me. 70


Teseo e il minotauro

Cammina cammina, a un certo punto sentii una zaffata puzzolente e subito dopo m’imbattei nel Minotauro, che se ne stava accucciato in un angolo. Il suo aspetto era terrificante: aveva un corpo imponente, gli occhi iniettati di sangue che sembravano affamati di carne umana e la bocca minacciosamente spalancata. Per un attimo restai paralizzato dal terrore, dandogli il tempo di fiutarmi e prepararsi a caricare. Strinsi con forza la clava, mentre la belva si lanciava avanti a tutta velocità. Mi mossi solo all’ultimo momento, come avevo studiato di fare, colpendo il Minotauro alla spalla destra: questi emise un lancinante grido di dolore! Quindi più volte si ripeté la stessa scena: il mostro provava a scagliarsi con furia contro di me, io lo attendevo per poi schivarlo agilmente, assestandogli colpi sempre più energici, in un crescendo che lo avvicinava alla fine. Il culmine della lotta si ebbe quando riuscii a bastonarlo sulle corna, tramortendolo; poi la mia clava si abbatté sulla sua testa disumana e il Minotauro cessò di respirare. Osservando la carcassa di quell’essere, immobile e in una pozza di sangue, provai una strana pietà perché in fondo si trattava di una creatura sfortunata e incattivita, ridotta in una squallida prigionia dalla sua stessa famiglia. A ogni modo, avevo compiuto il mio dovere. Riavvolgendo il filo rosso, non fu difficile trovare la via dell’uscita. Quando varcai il portale, tutti i presenti mi guardarono stupefatti e colmi di ammirazione. Persino Minosse, comprendendo che il mio valore era stato appoggiato dagli dèi, si prostrò ai miei piedi, giurando che avrebbe lasciato liberi tutti i ragazzi di Atene. Questi esultarono e si abbracciarono festanti; grati com’erano nei miei confronti, volevano addirittura condurmi in trionfo tra le vie della città, però io ora avevo un altro appuntamento al quale non potevo sottrarmi: salii sulla collina e là, tra il mirto e il melograno, trovai Arianna, che mi accolse tra le sue braccia. 71


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«Sapevo che ce l’avresti fatta» sussurrò, stringendomi forte. «Se sono uscito vivo da quel posto ingarbugliato, lo devo a te. Arianna, siamo destinati a stare insieme e ad amarci, dunque vorrei farti mia sposa. Vieni con me ad Atene!» La fanciulla accettò la proposta e si imbarcò insieme a me, all’insaputa dei genitori. Un giorno però, poco prima di approdare all’isola di Nasso per una breve tappa, mi addormentai e feci uno strano sogno: mi trovavo in una vigna lussureggiante, piena di grappoli d’uva che aspettavano solo d’esser colti; però appena ne prendevo uno, gli acini mi cadevano dalle mani. In quella faceva capolino il dio Dioniso, apostrofandomi con tono di rimprovero: «Sai perché ti accade questo? Perché vuoi una cosa che non ti appartiene. Arianna è destinata a me. Ogni cosa ti sfuggirà dalle mani se non rinunci a lei». Mi svegliai di soprassalto, tormentato da una sete insopportabile e rabbrividendo a causa dell’incubo, che sembrava così reale: il dio aveva parlato chiaro e non era il caso di mettersi contro di lui. E poi, forse non amavo così profondamente Arianna, ma provavo per lei soltanto un’immensa riconoscenza… dunque, che cosa dovevo fare? Mentre ero combattuto da sentimenti contrastanti, il nocchiero annunciò che eravamo giunti a Nasso, l’isola del buon vino. Approfittando del fatto che i miei compagni erano andati a fare rifornimento della bevanda cara a Dioniso, io feci una passeggiata con Arianna, fino a raggiungere un colle isolato. «Mia cara, aspettami qui. Vado a sacrificare un capretto in onore del dio. Torno subito!» La mia magnifica donna si sedette e attese… chissà per quanto tempo! Perché, mi vergogno a dirlo, io non tornai più! Chissà che cosa avrà pensato quando, dalla collina, ha visto la nave prendere frettolosamente il largo. Forse avrà detto, tra sé e sé: «Guarda un po’ quegli scapestrati dei com72


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pagni di Teseo. Sono talmente pieni di vino che vanno via dimenticando a terra il loro signore!» Poi però avrà aguzzato la vista, notando che sull’imbarcazione c’ero anch’io, a poppa e con la testa china per non incrociare il suo sguardo. Ma le ingiurie che mi ha rivolto da lontano le ho sentite, eccome! Si rammaricava di aver rinnegato suo padre per seguirmi, accusandomi di averla lasciata vigliaccamente, senza una spiegazione, anzi… di averla piantata in Nasso. A ogni modo sono venuto a sapere che Dioniso, poco tempo dopo, è passato da quelle parti e l’ha sposata, dopo averla conquistata con la sua proverbiale allegria: «Non piangere, Arianna, perché dobbiamo goderci la giovinezza, che è un bene destinato a fuggire via in fretta. Pensiamo a vivere con gioia il presente, dal momento che non vi è certezza del domani!» le ha detto, asciugandole le lacrime dal viso. Quanto a me, sono stato punito dalla dea dell’amore a causa del mio abbandono spregevole: poco prima dell’arrivo ad Atene, Afrodite ha scagliato dieci aironi contro la vela bianca che avevo elevato. Pazienza, mi son detto, provvedendo a sostituirla con quella nera. «Teseo, gli dèi non ti permettono di annunciare la tua vittoria da lontano. Che cosa penserà il tuo povero padre?» ha domandato il timoniere. «Sarà per lui un inganno di breve durata e, quando mi vedrà, proverà una contentezza maggiore» ho risposto. Tuttavia le cose non andarono come avevo previsto: Egeo, in attesa sulla scogliera, vide la nave che attraversava placidamente il mare. Se avesse guardato meglio, avrebbe visto che io ero lì, pronto a riabbracciarlo, invece… si soffermò soltanto sulla vela nera. La vide, emise un grido di dolore straziante e infine si gettò dalla scogliera, annegando in quel mare che ancora oggi porta il suo nome. 73


Le dodici fatiche di Eracle Che dire di Eracle? Quel formidabile ragazzone, dal corpo aitante e muscoloso, non era soltanto un eroe, ma addirittura un semidio, essendo figlio di una mortale, Alcmena, e del divino Zeus! Solo che Era, la moglie del re degli dèi, non aveva mai perdonato al marito l’ennesima scappatella, perciò se la prese con il frutto di quell’amore clandestino: Eracle, appunto! Cercò di complicargli la vita in tutti i modi, ancora prima della sua nascita, quando fece in modo di mettergli contro il cugino, un certo Euristeo, che nacque poco prima di lui e, in virtù di questo fatto, ottenne il diritto a diventare capo della casata. «Così Eracle e tutti i membri della sua famiglia dovranno sottomettersi a lui» ghignò la gelosissima moglie di Zeus, che però non era ancora soddisfatta: quando Alcmena ebbe partorito il piccolo, mandò nella culla del neonato due serpenti dalle lingue biforcute, convinta che si sarebbe sbarazzata subito di lui. Il piccolo Eracle, però, iniziò a dar prova della sua forza sovrumana stritolandoli come se nulla fosse e facendosi poi una bella risata: questa fu la sua prima impresa degna di nota. Passò il tempo e il ragazzo crebbe sempre più vigoroso, sviluppando un carattere buono ma irascibile, che lo portava a spazientirsi spesso: una volta a scuola si arrabbiò con il suo maestro di musica a tal punto da spaccargli la lira in testa. «Altro che musica, studio e poesia... questo giovanotto è nato per combattere» sospirò un giorno Alcmena, sperando che il figlio non si cacciasse nei guai, anche perché la malvagia Era non vedeva l’ora di mettere a segno la sua vendetta. 74


Le dodici fatiche di Eracle

E l’occasione le giunse un giorno, alcuni anni dopo, quando Eracle se ne stava a pranzo con sua moglie e i bambini. Non fu molto difficile suscitare nell’impulsivo semidio un attacco di pazzia con i fiocchi, che lo indusse a sterminare la famiglia senza alcun motivo. Quando Eracle rinsavì1 dopo quel momento di follia, si pentì per il dolore che aveva causato e decise di chiedere consiglio alla Pizia, la sacerdotessa di Apollo che abitava a Delfi ed era celebre per i suoi responsi2. «Per espiare la colpa commessa, devi andare a Tirinto e metterti al servizio di tuo cugino Euristeo per dodici anni. Lui, che ha usurpato il tuo dominio nella casata, ti metterà costantemente a dura prova, ma tu non ti ribellerai alle sue richieste» sentenziò l’oracolo. Eracle storse il naso, ma alla fine si recò da Euristeo. Il cugino, curvo e ossuto, era spaventato come un coniglio di fronte alla baldanza e ai bicipiti scattanti di Eracle; neanche riusciva ad avvicinarsi a lui per ascoltare le sue parole, temendo che un pugno o uno scatto di rabbia improvviso potesse farlo volare dall’altra parte della Grecia. Il semidio, dal canto suo, colloquiava in modo pacato e gentile, dichiarandosi pronto ad accontentare ogni richiesta e a partire per qualsiasi missione. A quelle parole, Euristeo tirò un sospiro di sollievo, pensando che sarebbe riuscito a liberarsi di quell’ingombrante presenza affidando a Eracle delle imprese impossibili dalle quali non sarebbe tornato vivo. «Per prima cosa, ti chiedo di andare a uccidere il leone che terrorizza le genti della valle Nemea» disse, fregandosi le mani, poiché sapeva che quella bestia aveva una pelle che la rendeva inattacabile. 1 2

rinsavì: riacquistò la ragione. responsi: risposte che vengono date dagli oracoli, cioè persone dotate di capacità profetiche.

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Eracle si armò di arco, frecce, una robusta clava e andò in cerca dell’animale, seguendo la scia di sangue e morti ammazzati. Quando fu a tu per tu con il leone, rimase dapprima un po’ avvilito, perché gli strali che scagliava non lo scalfivano minimamente, ma rimbalzavano sulla sua pelliccia durissima. Al semidio, dunque, non restò che andare allo scoperto e stritolare la belva con le sue mani. Non fu un gioco da ragazzi, tuttavia alla fine riuscì a sopraffarla e, per non farsi mancare nulla, scuoiò la prodigiosa pelle dell’animale con i suoi stessi artigli: da allora quella fu la sua veste. L’eroe non fece in tempo a mostrarsi agli occhi esterrefatti di suo cugino che questi, rodendosi per l’invidia, gli affibbiò un’altra prova, ancora più complicata della prima: sconfiggere l’idra di Lernia. Rispettoso della sua promessa, Eracle non protestò e partì alla volta della palude puzzolente, a sud della città di Argo, in cui viveva il mostro smisurato che sfoggiava un corpo di cane e nove teste di serpente. «Non ce la farai mai se prima non ti tappi il naso, caro Eracle. L’alito dell’idra uccide chiunque. Inoltre è inutile affannarsi a recidere tutte quelle teste perché hanno il potere di ricrescere, perciò il trucco è bruciarle alla radice» gli suggerì Atena, accorsa in suo aiuto, che porse all’eroe un fazzoletto e una fiaccola. Eracle usò il primo per coprirsi la bocca, salvandosi dal fetore mortale, e la seconda per incendiare le teste che mano a mano tagliava: in questo modo, la pelle ustionata del mostro non era più in grado di generarne di nuove. Quando ebbe piegato l’idra, era esausto, ma fu ricompensato: bagnò le sue frecce con il sangue del mostro e da allora diventarono letali. Euristeo si morse le labbra vedendo che nemmeno quel mostro spaventoso era riuscito a far soccombere suo cugino; perciò pensò bene di imporgli altri compiti sensazionali: prima lo inviò a domare la cerva di Cerinea, poi a uccidere il 76


Le dodici fatiche di Eracle

cinghiale di Erimanto, quindi a sbarazzarsi degli uccelli del lago Stinfalo, che avevano becco, zampe e piume di bronzo. Ogni volta sperava di non veder tornare Eracle, e ogni volta rimaneva deluso, perché questi si ripresentava al suo cospetto con un sorriso sfrontato e giusto qualche graffio. La stessa cosa accadde quando fu incaricato di portare al cugino il toro di Creta e, in seguito, le cavalle di Diomede: le due gesta furono portate a termine con una facilità inimmaginabile; a quel punto subentrò la figlia di Euristeo, una ragazza viziata e capricciosa di nome Admeta. Ella desiderava a tutti i costi una cintura, ma non una qualsiasi! Quella di Ippolita, tutta d’oro e tempestata di pietre preziose. Peccato che Ippolita fosse la regina delle Amazzoni, un popolo di donne guerriere, sempre inferocite e bellicose. «Quale migliore occasione per il tuo prossimo lavoro? Andrai nella terra delle Amazzoni e porterai alla mia bambina questa cintura» proclamò Euristeo, sicuro del fatto suo. Appena Eracle sbarcò sull’isola dominata dalla regina Ippolita, fu accolto da un’ondata di frecce, scagliate dalle abitanti: le Amazzoni fiutavano la puzza di uomo a chilometri di distanza. Dopo essere riuscito, non senza difficoltà, a schivare i colpi, Eracle si trovò circondato da una dozzina di energumene, tutte dotate di lancia e facce poco rassicuranti. Quella che stava in disparte, vestita con una cintura scintillante, doveva essere Ippolita e, a differenza delle altre, mostrava una bellezza prorompente. Eracle sulle prime fu un po’ intimorito, ma poi tornò in sé, strappando di mano la lancia a una delle guerriere e gettandola lontanissimo. Tutte le donne lo osservarono stupite perché fino a quel momento non avevano mai visto un uomo in grado di superarle in fatto di forza fisica. Ma più di tutte lo guardava con ammirazione Ippolita che, una volta ascoltata la richiesta dell’eroe, acconsentì a consegnargli la cintura. 77


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«Hai dimostrato un grande coraggio a venire fin qui e a fronteggiare a testa alta i miei uomini... ehm, le mie donne» disse, strizzandogli l’occhio. Eracle tornò vittorioso a Tirinto e, tanto per cambiare, il cugino si strappò i capelli dalla stizza. Tuttavia non mancò di trovare l’ennesimo incarico da affibbiargli. «E così devo pulire le stalle di Augia? Tutto qui?» domandò incredulo il semidio. Bisogna sapere che Augia era il più ricco re della Grecia e possedeva stalle grandi mille volte Tirinto, che non faceva pulire da... almeno trent’anni. Esse erano stracolme di letame, spazzatura e schifezze, ma soprattutto intrise di un odore ributtante. Vincendo la nausea per il fetore, Eracle iniziò il lavoro ma, dopo un intero pomeriggio, si rese conto di aver pulito solo una piccolissima parte di quella sporcizia immane: non ce l’avrebbe mai fatta. «Ci metterò tutta la vita e potrebbe non bastare. Quel vigliacco di Euristeo mi ha giocato un brutto scherzo! O Alfeo, dio del fiume, che proteggi la pulizia e rendi ogni cosa splendente, aiutami tu» invocò Eracle, ormai vicino alla rassegnazione. Alfeo non si fece attendere: il dio fluviale, cioè il fiume stesso, giunse impetuoso. Le sue acque si versarono in abbondanza nelle stalle e lavarono tutto, ma proprio tutto. Ogni cosa tornò a essere lucente e profumata. Il codardo Euristeo, tuttavia, aveva già in serbo un’altra fatica per l’eroe. «Uccidi i dieci buoi di Gerione» comandò, implacabile e, come al solito, Eracle eseguì l’ordine senza replicare, riuscendo, anche stavolta, nel suo intento. Tra l’altro, durante il viaggio di ritorno, dovette passare tra la Spagna e l’Africa, che a quel tempo erano unite. Senza indugio spaccò la terra a metà e piantò alle estremità due colonne, che dovevano celebrare la sua potenza sconfina78


Le dodici fatiche di Eracle

ta. Ecco dunque creato lo Stretto di Gibilterra! Al ritorno a Tirinto, naturalmente, lo attendeva Euristeo, con le braccia conserte e una nuova missione da compiere. «Eracle, devi portarmi i pomi dorati delle Esperidi, che sono le ninfe del tramonto e abitano all’estremo Occidente. Sono stati regalati da Gea a Era come dono di nozze e vengono sorvegliati dalle Esperidi nel loro giardino» gli spiegò, mentre Eracle cercava di tenere a freno la sua collera verso quell’uomo tanto meschino. Il semidio vagò a lungo per trovare il luogo designato, ma prima si fermò a parlare con Atlante che, oltre a essere il dio incaricato di reggere la volta del cielo, era anche il padre delle ninfe. «Le Esperidi possono consegnare i pomi soltanto a me» disse la gigantesca divinità, «perciò se vuoi possiamo fare un patto: io andrò a prenderli, ma tu in cambio dovrai reggere il cielo al mio posto fino al mio ritorno. Ce la puoi fare, col fisico possente che ti ritrovi!» In men che non si dica Eracle si sostituì ad Atlante nel duro lavoro, mentre quest’ultimo andò a impossessarsi dei pomi. Quando il dio fece ritorno, quasi non aveva più voglia di reggere la volta del cielo, poiché l’eroe se la cavava egregiamente! «Tu fai il tuo dovere e io faccio il mio!» brontolò giustamente il semidio dopo che, con un inganno, ebbe rimesso il fardello sulle spalle di Atlante. Ora non restava che tornare dal cugino, sempre più sgomento nel vedere Eracle tornare trionfante dall’undicesima fatica. «Sono passati quasi dodici anni da quando sei qui e ora ti tocca un’ultima prova, la più rischiosa. Ma se avrai successo, sarò costretto ad arrendermi e potrai ritenerti libero dal mio servizio» disse Euristeo. «Che cosa devo fare stavolta?» domandò Eracle. 79


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Il sovrano gli ordinò di recarsi nell’aldilà e rapire Cerbero, il cane dalle tre teste che impediva agli spettri di risalire tra i viventi. Eracle si asciugò il sudore dalla fronte e partì: anche un eroe impavido come lui tremava all’idea di mettere piede nel regno dei morti. Dopo essersi inoltrato a lungo nell’oscurità e aver udito le voci raccapriccianti di fantasmi provenienti da un passato lontano, giunse al cospetto dei sovrani di quel mondo: Ade e Persefone. Il primo non voleva sentir ragioni: Cerbero non avrebbe lasciato gli inferi, neanche per un istante; tuttavia Persefone prese in simpatia il semidio e avanzò una proposta: «Perché, mio caro marito, non mettiamo questo eroe alla prova? Se fosse in grado di battere Cerbero in un corpo a corpo, potrebbe ottenere il diritto di portarlo fuori da qui per un giorno!» Ade ci pensò su: gli costava molto separarsi dal suo cane. «Per un giorno solo si può fare» sentenziò, «ma solo se riesce a sconfiggerlo... vediamo se è invincibile come dicono!» Eracle emise un respiro profondo, si preparò alla lotta con quella bestia immonda che lo squadrava in cagnesco con sei occhi iniettati di sangue e, mostrando un bagliore intrepido negli occhi, gli si gettò addosso. Dovette fare appello a ogni suo muscolo, a tutta la sua possanza, scoprendosi ancora più forte di quanto immaginasse. Dopo un combattimento aspro e violento, mandò a tappeto il mostro e ottenne di condurlo fuori dal regno dei morti. Finalmente era libero. Anni dopo, in seguito ad altre imprese eccezionali, compiute soprattutto per combattere soprusi commessi da persone prepotenti, chiuse gli occhi. E allora Zeus, dopo aver avvolto il suo corpo in una nuvola, lo rapì e lo portò tra le stelle con un cocchio tirato da quattro cavalli, donandogli l’immortalità come ricompensa per aver affrontato con determinazione tutte le prove che la vita gli aveva posto dinanzi.

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Alla conquista del vello d’oro Giasone, figlio del nobile Esone, doveva essere il re della Tessaglia, ma suo zio Pelia si era impadronito del potere, e regnava indisturbato ormai da anni. Da bambino era stato inviato dal padre a studiare presso il centauro1 Chirone, celebre per la sua saggezza e per essere stato il maestro di molti eroi, come Teseo, Achille ed Eracle; così aveva imparato a leggere, fare di conto e, soprattutto, aveva appreso l’arte della guerra. Durante gli anni di scuola non aveva mai cessato di pensare all’ingiustizia subita dalla sua famiglia e, appena ebbe concluso gli studi, il suo obiettivo principale fu quello di scacciare l’usurpatore: il trono doveva essere suo. Si presentò a muso duro da Pelia il quale, vedendo che il nipote era diventato un adulto deciso a rivendicare i suoi diritti, indietreggiò dalla paura... giusto il tempo di escogitare un piano per sbarazzarsi di lui. «Ascoltami bene, Giasone» gli disse, «ti restituirò il regno, ma a un patto: dovrai prima andare nella lontana Colchide2 a prendere il vello d’oro, talismano contro ogni disgrazia. Già molti uomini temerari si sono cimentati in quest’impresa, ma tutti invano. Confido nel tuo valore, dunque». «Pelia, ho già sentito parlare di questo vello portentoso, ma non conosco bene la sua storia. Potresti raccontarmela?» domandò il ragazzo. Lo zio gli narrò che la vicenda era cominciata quando il re di Beozia si era risposato, dopo la morte della sua prima moglie, dalla quale aveva avuto due bambini: Frisso ed Elle. Essi erano odiati dalla matrigna, la quale, con un inganno, centauro: creatura mitologica, metà uomo e metà cavallo. Colchide: antico stato situato nella regione del Caucaso e corrispondente all’attuale Georgia.

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aveva convinto il sovrano a sacrificarli agli dèi. Proprio nel momento in cui il padre stava per sferrare il colpo mortale ai bambini, tuttavia, sopraggiunse lo spirito della madre Nefèle, che inviò dal cielo un ariete dal manto d’oro per rapire e portare in salvo i ragazzi. I figli del re di Beozia furono dunque condotti lontano, in groppa all’ariete. Durante il volo, però, Elle precipitò nel mare che divide l’Europa dall’Asia: ancora oggi, in suo onore, viene chiamato Ellesponto. Il giovane Frisso si salvò e, giunto nella Colchide, sacrificò l’ariete a Zeus. Il suo vello fu appeso a un albero sacro e dal quel giorno restò lì, custodito da un drago; perciò era impossibile entrarne in possesso! Giasone, tuttavia, era più risoluto che mai: radunò cinquanta giovani baldanzosi e fece allestire una nave, detta Argo, dal nome del suo costruttore. Dopodiché rivolse una preghiera ad Atena e prese il largo, accompagnato dai suoi uomini forti e audaci. «Chi siamo noi?» domandò ad alta voce l’artefice della spedizione, rivolto alla ciurma. «Gli Argonauti!» risposero tutti in coro. «E che cosa vogliamo?» «Il vello d’oro!» Tra i marinai della nave Argo, vi erano Castore e Polluce, che remavano vigorosamente; Teseo, sempre desideroso di nuove avventure, e Orfeo, musicista sublime, in grado di infondere entusiasmo a tutti tentando le corde della sua lira. Il viaggio fu irto di pericoli mortali, nonché di combattimenti con popoli ostili e orridi mostri. Un giorno gli Argonauti sbarcarono presso l’isola in cui viveva l’indovino cieco Fineo che, per un’antica colpa, non poteva mangiare: ogni volta che preparava il pranzo, veniva aggredito dalle Arpie, uccelli sporchi e ripugnanti con il volto di donna. «All’ora di pranzo arrivano, ghignando sinistramente e strappandomi il cibo di bocca! E io intanto muoio di 82


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fame» si lamentò il vecchio con gli Argonauti. Giasone e i suoi guerrieri si guardarono: forse potevano fare qualcosa per aiutarlo! Senza pensarci su due volte, allestirono un banchetto insieme a Fineo e, quando i luridi mostri si presentarono, furono scacciati impietosamente dai cinquanta uomini: finalmente l’indovino poteva godersi il suo pasto! Dopo essersi saziato, Fineo volle esprimere la sua gratitudine verso Giasone donandogli alcuni preziosi consigli per giungere sano e salvo nella Colchide: «Per arrivarci dovrete passare attraverso lo stretto delle Simplegadi. Sono due rupi erranti che, non essendo ancorate al fondo del mare, cozzano costantemente l’una contro l’altra. Quando vi troverete a ridosso degli scogli, mandate una colomba in cielo: se riuscirà a passare tra le rocce, è segno che ce la farete anche voi. In caso contrario, tornate indietro perché siete destinati a rimanere schiacciati». Giasone si accomiatò dal vecchio e ripartì; quando lui e i suoi uomini giunsero presso lo stretto che si immette nel mar Nero, osservarono impauriti il raggelante spettacolo dei due scogli che si scontravano, producendo un rumore assordante: nessuna nave era mai riuscita a superare quel passaggio, nessun uomo ne era mai uscito vivo. Il pilota Tifi liberò la colomba che, dopo essere sparita per qualche istante alla vista dei marinai, sgusciò attraverso le rupi e uscì dall’altra parte. «Ora tocca a noi! Rematori, vogate con tutta l’energia che avete in corpo» ordinò Giasone, mentre l’imbarcazione si inoltrava nel passaggio. In breve la nave si trovò tra le due pareti minacciose, che erano pronte a stritolarla come una noce tra le ganasce di una pinza. Per giunta le onde erano altissime e la sospingevano all’indietro, allontanandola dall’uscita. Ma a quel punto non era più possibile tornare indietro. Orfeo incitava i 83


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compagni suonando la lira con una soavità infinita, mentre gli altri remavano senza risparmiarsi. Qualcuno piangeva, presagendo una fine atroce. In quella la dea Atena decise di intervenire a favore di Argo: scese dall’Olimpo e la sospinse verso l’uscita, in modo che la nave andasse al di là dello stretto... giusto in tempo, perché, appena fu passata, le due rupi si scontrarono violentemente. Gli Argonauti si abbracciarono commossi: erano salvi! Da quel giorno le rocce rimasero saldate l’una all’altra, formando lo stretto del Bosforo3. Nel frattempo Giasone e suoi uomini giunsero nella Colchide, alla reggia di Eeta, il quale manifestò subito la sua contrarietà alla richiesta del giovane eroe: «Non ho nessuna intenzione di cederti il vello. Potrebbe essere tuo solo se tu riuscissi ad aggiogare i tori dagli zoccoli di bronzo e seminare quattrocento iugeri4 di terreno con dei denti di drago, tuttavia si tratta di una prova fatale e dubito che accetterai». «Invece accetto molto volentieri la sfida, che onorerò domattina» disse Giasone, senza smettere un attimo di fissare l’avvenente figlia del sovrano, Medea. La ragazza, abile maga e incantatrice, si era già follemente innamorata del bel giovane che le stava davanti e, anzi, aveva intenzione di aiutarlo, perché con le sue sole forze avrebbe senz’altro perso la vita nella difficile prova. Così, durante la notte, di nascosto da tutti, Medea si recò presso l’imbarcazione degli Argonauti e consegnò a Giasone un unguento che aveva il potere di rendere invulnerabile chiunque lo avesse cosparso sulla stretto del Bosforo: unisce il Mar Nero al Mar di Marmara e segna il confine meridionale tra l’Europa e l’Asia. 4 iugeri: unità di misura usata nell’antichità, che indicava il terreno coltivabile in una giornata da una coppia di buoi attaccati allo stesso giogo. 3

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sua pelle. Il mattino dopo unse le armi con la crema portentosa, dopodiché se la spalmò addosso e immediatamente sentì che energia e possanza erano raddoppiate. Grazie alla magia di Medea, i tori non ebbero scampo: Giasone li prese per le corna, costringendoli al giogo. Cominciò quindi ad arare il campo, seminando i denti di drago con molta prudenza perché sapeva che da questi sarebbero sorti dei giganti battaglieri e cattivi: la donna gli aveva suggerito di fare attenzione! In breve tempo, infatti, la pianura fu ricoperta di giganti armati fino ai denti, pronti ad aggredire Giasone, il quale non ebbe alcun timore: afferrò una grossa pietra e la lanciò al centro del campo, come gli aveva consigliato la maga. Questo gesto creò scompiglio tra le mostruose creature, che iniziarono ad azzuffarsi tra loro contendendosi il sasso e, dopo una lotta sanguinosa, si fecero a pezzi vicendevolmente. Il re Eeta, tuttavia, non volle saperne di accettare la sconfitta e consegnare il vello agli Argonauti; intuiva, inoltre, che dietro il trionfo di Giasone doveva esserci lo zampino di una come sua figlia, esperta in pozioni e incantesimi. E Medea? Durante la notte successiva fu colta da un presentimento e si recò di nuovo al porto, presso la nave del suo amato. «Giasone, mio padre non ti darà mai il vello d’oro. Ma io so come conquistarlo e ti aiuterò, se acconsenti a portarmi via da qui e a sposarmi» sussurrò nelle orecchie del giovane. «Perché no? Sei una donna fascinosa e i tuoi occhi intriganti mi avvincono profondamente. Prenderemo il vello d’oro, ci sposeremo e regnerai al mio fianco!» La nave partì alla volta del fiume, dove si stendeva il bosco sacro. Medea e Giasone, nascosti dalle tenebre, scesero da Argo e si addentrarono nella foresta, fino a raggiungere l’albero del vello d’oro. Il drago che fungeva da guardiano sbuffava ed emetteva grida spettrali, ma la maga gli si parò 85


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davanti e lo addormentò per mezzo di un incantesimo. Ecco fatto: Giasone non dovette fare altro che staccare il manto aureo dalla quercia e ripartire per la Tessaglia insieme alla sua innamorata. Pelia non fu felice di rivedere il suo acerrimo nemico e per qualche tempo fece finta di nulla, evitando di mantenere la promessa che aveva fatto: forse Giasone prima o poi avrebbe rinunciato al capriccio di riprendersi il trono, chissà! Ma l’usurpatore non aveva fatto i conti con Medea che, oltre a essere affascinante, era anche piuttosto vendicativa. Con una scusa attirò a casa sua le figlie di Pelia, mostrando loro una magia che, a quanto pare, aveva il potere di far ringiovanire: uccise un vecchio caprone, lo tagliò a pezzi e lo cucinò. Poi, recitando delle strane formule e mescolando degli intrugli, come per incanto, fece uscire dal pentolone un capretto vispo e saltellante. «Avete visto? Se volete far tornare giovane il vostro caro padre, dovete soltanto colpirlo con la spada e far scorrere dalle sue vene il sangue vecchio e guasto. Al resto penserò io» spiegò, con un sorriso persuasivo. All’inizio le due ragazze erano un po’ dubbiose, ma poi furono convinte dalla sicurezza ammaliante di Medea: certe di compiere un’opera buona, pugnalarono ripetutamente Pelia, tanto incredulo e sconvolto da ciò che gli stava accadendo da non riuscire a ribellarsi. Il sovrano morì così, tragicamente, ucciso dalle sue stesse figlie. Quando le ragazze si resero conto di essere state raggirate dalla subdola maga, radunarono un esercito per vendicarsi di lei, ma era troppo tardi: Medea e Giasone erano scappati a Corinto.

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Il folle volo di Dedalo e Icaro L’audace missione portata a termine da Teseo aveva suscitato la collera del re Minosse, il quale si crucciava, e non a torto: il Minotauro era stato brutalmente ucciso, sua figlia era scappata con un nemico e ora, per giunta, se la spassava con il dio del vino. Il sovrano passeggiava nervosamente avanti e indietro nella sua reggia, in attesa di parlare con Dedalo, che aveva mandato a chiamare: sarebbe stato lui a pagare le conseguenze di quell’incresciosa1 situazione! Bisogna sapere che il brillante ideatore del Labirinto, oltre a essere un architetto, era un ingegnoso inventore e scultore proveniente dall’Attica, dove era molto apprezzato per le sue statue, talmente realistiche da sembrare vive. Purtroppo però era dovuto fuggire da Atene, essendo stato accusato di aver tolto la vita al nipote, Talo; così si trovava in esilio a Creta, alla corte di Minosse, per il quale aveva progettato quell’edificio in grado di disorientare chiunque vi mettesse piede. «Eccolo, il geniale artefice del Labirinto!» esclamò beffardo il sovrano, quando Dedalo gli fu dinanzi. «Ti ho mandato a chiamare perché sono convinto che tu sia il responsabile degli orribili accadimenti che si sono verificati in questi giorni qui, a Cnosso». Sulle prime l’architetto fece finta di non aver capito, ma il suo interlocutore lo incalzò: «Mi riferisco all’assassinio del Minotauro e all’umiliazione che Teseo ha inflitto a me e al mio popolo! Ho capito benissimo che lo stratagemma del 1

incresciosa: spiacevole, fastidiosa.

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filo rosso non è farina del sacco di mia figlia Arianna e che sotto c’è il tuo zampino!» «Cerca di capirmi, Minosse» confessò Dedalo, con un filo di voce. «Io sono nato ad Atene e non ho mai gradito il tremendo sacrificio a cui erano sottoposti i miei giovani concittadini. Così quando Arianna, perdutamente innamorata di Teseo, si è rivolta a me per un consiglio, mi è parso naturale suggerirle di aiutare il suo diletto attraverso il filo». Ma il re non accennava a calmarsi, anzi era talmente inviperito da sembrare più alto di parecchi centimetri. «Ebbene» disse, additando minacciosamente l’inventore «ti rinchiuderò all’interno della tua stessa creazione insieme a tuo figlio Icaro, così ti passerà la voglia di rivelare informazioni che dovrebbero essere tenute segrete». Le guardie trascinarono padre e figlio nel Labirinto. Dedalo non impiegò molto tempo a capire che lì dentro, senza acqua né cibo, sarebbe morto insieme al ragazzino in modo lento e inesorabile. «Papà! Sei stato talmente bravo a costruire questa dimora che ora non siamo più in grado di uscirne!» esclamò divertito Icaro. Per lui era tutto un gioco. Ma Dedalo, sempre fiducioso nelle sue capacità inventive, sapeva bene che doveva farsi venire in mente una soluzione: era questione di vita o di morte! Tuttavia era impossibile tentare una fuga, scavalcando le mura, altissime e insormontabili; neppure il mare era praticabile, a causa della presenza delle guardie, che sorvegliavano tutt’intorno la costruzione. «Che Minosse mi sbarri pure le vie di terra e l’acqua. Sarà anche padrone di tutto, ma non dell’aria. Praticherò l’unica via possibile, quella del cielo» affermò con risolutezza Dedalo dopo una lunga riflessione, pronto a realizzare il sogno degli uomini di ogni tempo e luogo: volare. 88


Il folle volo di Dedalo e Icaro

Ordinò al figlio di raccogliere le piume degli uccelli, che cadevano copiosamente2 all’interno del Labirinto; poi, dopo averle disposte l’una accanto all’altra, le incollò insieme usando la cera delle candele. In breve presero forma due paia di grandi ali, che imitavano in tutto e per tutto quelle dei volatili. Per mezzo di uno spago, Dedalo ne fissò un paio al suo corpo: agitando le braccia riusciva a mantenersi sospeso nell’aria, dunque la sua invenzione funzionava! Nel frattempo Icaro un po’ lo aiutava, un po’ giocherellava con le piume raccolte; tuttavia, quando vide il padre librarsi in volo, rimase letteralmente a bocca aperta, desideroso di imitarlo. Dedalo sapeva che la sua idea era molto rischiosa ma, pensò, nella vita ogni tanto si è costretti a osare, e in quel frangente non poteva fare altrimenti. Stava mettendo a repentaglio la propria vita e, ancora peggio, quella dell’amato figlioletto, tuttavia era l’azione giusta da compiere per evitare di subire una morte logorante nel Labirinto. «Icaro, ti raccomando di volare sempre a mezza altezza. Se andassi troppo in alto, infatti, il calore del sole ti brucerebbe le piume, facendo sciogliere la cera. Se volassi più in basso del necessario, l’umidità del mare ti appesantirebbe le ali e non avresti scampo» mormorò Dedalo al fanciullo, mentre legava le ali alle sue piccole spalle. Con le lacrime agli occhi lo baciò, gli accarezzò i capelli per l’ultima volta; quindi batté le ali e spiccò il volo. Come l’uccello che per la prima volta guida i piccoli fuori dal nido, il padre precedette il figlio sorvolando rapidamente la città di Cnosso, preoccupato che il ragazzo gli stesse sempre dietro. 2

copiosamente: in abbondanza.

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«Papà, perché continui a voltarti verso di me?» domandò il fanciullo nel bel mezzo del volo, quando lui e il padre si erano ormai lasciati alle spalle da un pezzo l’isola di Creta. «Figliolo, non voglio perderti di vista: cerca di non rimanere indietro e imita i miei movimenti per bilanciarti al meglio mentre sei in aria; bada a non farti trascinare dal vento, che in queste zone soffia sempre impetuoso e stai molto attento quando devi girare a destra o a sinistra!» rispose il geniale inventore, che non era mai stato così in apprensione nel corso della sua vita. All’inizio Icaro volava con timore e seguendo per filo e per segno le indicazioni del padre; poi, una volta che i due furono giunti all’altezza dell’isola di Samo3, il ragazzo ci prese gusto e si allontanò incautamente da Dedalo, avvinto dalla profondità del cielo, dal suo azzurro sconfinato e dal sapore del vento sulla pelle. Cominciò a prendere quota e a salire verso il firmamento, malgrado il padre si affannasse a richiamarlo. Tutto inutile. A quell’altezza il calore del sole era così potente da far sciogliere la cera che teneva insieme le piume. In pochi istanti, gocce bollenti colarono dalle ali di Icaro e le sue braccia non furono più in grado di fare presa sull’aria. Il giovinetto si agitò in modo scomposto, prima di precipitare tragicamente nel mare, mentre Dedalo assisteva impotente alla scena che nessun padre vorrebbe avere davanti agli occhi. Maledicendo se stesso e la sua intelligenza, che lo aveva condotto a quel punto, l’inventore planò dolcemente sul mare; recuperò il corpo, ormai esanime, del ragazzo, e lo seppellì nell’isola, che da quel momento fu ribattezzata Icaria.

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Samo: isola greca dell’Egeo orientale, patria di filosofi celebri come Epicuro e, forse, Pitagora.


Sezione 3

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PERCORSI DI LETTURA COMPRENSIONE 1 Come contribuiscono gli dèi alla creazione di Pandora? Collega ciascun nome all’azione compiuta. Efesto educa Pandora al vizio e all’astuzia Afrodite forgia una creatura di straordinaria bellezza Ermes insegna a Pandora come piacere agli uomini 2 Completa la descrizione del Minotauro, ricavando le informazioni dal testo. Se ne stava ............................................................................................................. Il suo aspetto ........................................................................................................ Aveva un corpo ................................................................................................... Gli occhi ................................................................................................................... La bocca .................................................................................................................. 3 Il mito di Teseo e del Minotauro è anche di carattere eziologico perché spiega l’origine di un elemento naturale. Hai capito di quale si tratta? ....................................................................................................................................... 4 Indica se le seguenti affermazioni, tratte dal mito di Dedalo e Icaro, sono vere o false. Vero

Falso

Dedalo è un personaggio umile, privo di caratteristiche straordinarie. Nella narrazione vengono citati luoghi geografici precisi. Nel racconto si parla del desiderio di volare, presente in tutti gli uomini. Nella narrazione non vi sono riferimenti agli stati d’animo dei protagonisti.

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5 Perché Eracle odia profondamente suo cugino Euristeo? ....................................................................................................................................... .......................................................................................................................................


PERCORSI DI LETTURA 6 Quale compenso ottiene Eracle in seguito al superamento delle dodici fatiche? ....................................................................................................................................... ....................................................................................................................................... 7 Che cos’ha in comune Giasone con Teseo ed Eracle? a) Sono tutti perdutamente innamorati di una donna. b) Hanno compiuto imprese eroiche senza alcun aiuto esterno. c) Hanno avuto lo stesso maestro. d) Possono vantare origini ateniesi. 8 Quale significato hanno i nomi dei protagonisti del mito di Promèteo e Pandora? Scrivi la risposta nello spazio sottostante. Promèteo ................................................................................................................ Epimèteo ................................................................................................................ Pandora ...................................................................................................................

9 Chi libera Promèteo dal suo supplizio? a) Eracle b) Epimèteo c) Zeus d) La Speranza

10 Quali sentimenti prova Egeo quando suo figlio Teseo gli comunica la sua intenzione di partire per Creta? ....................................................................................................................................... ....................................................................................................................................... 11 Che cosa accade a Frisso ed Elle, figli del re di Beozia, dei quali si parla nel mito del vello d’oro? ....................................................................................................................................... .......................................................................................................................................

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PERCORSI DI LETTURA LESSICO E STILE 1 Alla luce della lettura del mito di Promèteo e Pandora, saresti in grado di spiegare che cosa significa l’espressione “aprire il vaso di Pandora” nel linguaggio attuale? ....................................................................................................................................... ....................................................................................................................................... 2 Dopo aver letto il mito di Teseo e del Minotauro, hai capito che cosa si intende con l’espressione “il filo rosso” o “il filo di Arianna”? Prova a spiegarne il significato attraverso degli esempi. ....................................................................................................................................... ....................................................................................................................................... 3 Hai mai sentito l’espressione “piantare qualcuno in Nasso”? O in asso? Qual è la variante corretta? Effettua una breve ricerca e poi trascrivi i risultati nello spazio sottostante. ....................................................................................................................................... ....................................................................................................................................... 4 Nel mito di Dedalo e Icaro è presente una similitudine. Dopo averla individuata, trascrivila nello spazio sottostante. ....................................................................................................................................... ....................................................................................................................................... 5 Nello spazio sottostante definisci l’aggettivo “erculeo”, poi scrivi una frase che contenga questa parola. ....................................................................................................................................... ....................................................................................................................................... 6 Che cosa vuol dire l’espressione “prendere il toro per le corna”, presente nel mito del vello d’oro? ....................................................................................................................................... .......................................................................................................................................

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PERCORSI DI LETTURA PRODUZIONE SCRITTA 1 Qual è la funzione della donna nel mito di Promèteo e Pandora? Essa assume un valore positivo o negativo? Perché? Sei in grado di attuare un confronto con ciò che viene affermato a proposito di Eva e del frutto proibito nella Bibbia? Scrivi un breve testo sul tuo quaderno. 2 Il personaggio del Minotauro è legato al tema della diversità, che a volte fa paura ed è difficile da accettare. Qual è la tua opinione in merito? Hai letto delle altre storie oppure visto dei film che trattano argomenti simili? 3 Nel mito di Eracle emergono una forte tenacia e perseveranza, necessarie per superare le varie prove. A te è mai capitato di affrontare delle fatiche, apparentemente insormontabili, per raggiungere un obiettivo che ti eri prefissato? Racconta, in un breve testo sul quaderno, la tua esperienza, soffermandoti sullo stato d’animo che hai vissuto quando i tuoi sforzi sono stati premiati. PRODUZIONE ORALE 1 Rifletti. Nel mito di Promèteo e Pandora, Zeus afferma: «Tutta questa sapienza non provocherà nulla di buono. Si sa come vanno queste cose: prima le persone pretendono di avere una cultura, poi iniziano a pensare con la propria testa e magari a un certo punto arrivano a mettere in discussione la mia autorità!» Pensi che queste parole possano avere una valenza nel mondo di oggi? Scegli una risposta e poi motivala, avviando un dibattito con i tuoi compagni di classe. a) No, perché esse sono riferite a un passato lontanissimo e oggi la società è del tutto cambiata. b) Forse, perché in passato la storia ha insegnato che i detentori del potere non volevano che le idee si diffondessero al di fuori del loro controllo, ma oggi esiste la libertà di pensiero.

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PERCORSI DI LETTURA

c) Sì, è un messaggio universale, valido in ogni tempo e luogo. Anche ai nostri tempi esistono dei meccanismi per indurci a pensare come il “gregge” e non sempre ce ne rendiamo conto. d) Assolutamente sì, questo è il motivo per cui occorre studiare: per essere cittadini consapevoli e liberi.

2 Qual è, secondo te, il tema principale legato al mito di Dedalo e Icaro? Scegli una risposta e poi motivala, avviando un dibattito con i tuoi compagni di classe. a) L’amore tenero e sincero che unisce un padre a suo figlio. b) Il volo come desiderio di libertà e spinta a elevare la propria condizione. c) La necessità, per l’uomo, di fare i conti con i propri limiti. d) L’imprudenza dei giovani, che non ascoltano i consigli dei loro genitori. 3 Che cosa rappresenta, secondo te, la figura di Giasone nel mito degli Argonauti? Scegli una risposta e poi motivala, avviando un dibattito con i tuoi compagni di classe. a) È un uomo che vive il delicato passaggio dalla giovinezza all’età adulta, diventando consapevole dei suoi doveri. b) È un eroe che compie un viaggio alla ricerca di se stesso e della sua identità. c) È una persona virtuosa e meritevole, come dimostra il fatto che le sue azioni coraggiose vengono sostenute da aiutanti esterni. d) È un personaggio collerico e tracotante.

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Sezione 4 Che tragedia! Nell’antica Grecia alcuni miti sono stati raccontati e diffusi attraverso il genere teatrale della tragedia, caratterizzata da un’evoluzione dei fatti narrati in senso negativo, che conduce a un finale tutt’altro che lieto. La parola “tragedia”, dal greco trago(i)día, significa letteralmente “canto di capri”. Per quale motivo? Vi sono varie ipotesi in merito, ma secondo la più accreditata il capro è da intendersi come l’animale (sia esso un capretto o un agnello) destinato a un sacrificio, con lo scopo di ottenere la benevolenza e la protezione di una divinità. Le tragedie, infatti, venivano messe in scena proprio nei periodi in cui vi erano delle celebrazioni sacre, quando si offrivano agli dèi, in particolare a Dioniso, degli animali come vittime sacrificali. Ora cerchiamo di capire meglio in che cosa consiste la tragedia e perché è così importante. Prova a calarti nei panni di un abitante di un’antica pólis: la tua città è nel bel mezzo di una festa pubblica o una cerimonia religiosa, e tu ti rechi ad assistere a uno spettacolo. Insieme a te ci sono tutti i tuoi concittadini, pronti a trascorrere a teatro anche un’intera giornata, consapevoli dell’importanza di carattere sociale legata a questa situazione. Guardati intorno. Ti renderai conto che il teatro è costituito da tre zone: - la cavea, dove il pubblico assiste allo spettacolo; - l’orchestra, riservata al coro (nelle tragedie vi sono parti cantate e recitate); - la scena vera e propria, nella quale gli attori recitano.

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Durante la rappresentazione, non stupirti se vedi qualcosa di bizzarro. Talvolta, quando la risoluzione di una vicenda richiede l’intervento di un dio, ci si avvale di una particolare “tecnologia”: con l’ausilio di una rudimentale gru in legno, il personaggio che interpreta la divinità viene calato dall’alto. È così che nacque l’espressione deus ex machina, letteralmente “divinità che scende dalla macchina”, usata ancora oggi. I più noti autori di questo genere letterario furono Eschilo (525 a.C.-456 a.C.), Sofocle (496 a.C.-406 a.C.) ed Euripide (485 a.C.-407 a.C.). Il primo, Eschilo, scrisse e portò in scena opere celebri come I Persiani, un dramma di carattere storico, e L’Orestea, nella quale descrisse la vicenda di Cassandra. Si tratta di tragedie che offrono interessanti spunti per riflettere sulle sciagure riguardanti l’uomo e la società nella quale vive, veri e propri drammi “corali”. Sofocle, invece, preferì mettere in luce la sofferenza del singolo individuo soffermandosi sul problema del male, che non trova mai spiegazione, e sull’inevitabilità del fato, al quale nessuno può sfuggire: tali temi sono evidenti nella sua opera più famosa, l’Edipo re. Con Euripide la tragedia si arricchì di elementi innovativi e moderni, talvolta insoliti: basti pensare all’Alcesti, che presenta un lieto fine. Essa, infatti, non può essere considerata una vera e propria tragedia, ma una bellissima storia d’amore; per questo motivo è stata inserita nell’ultima sezione.

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Le infelici profezie di Cassandra La più bella tra le figlie di Priamo ed Ecuba, sovrani della città di Troia, si chiamava Cassandra. Questa fanciulla, che era sacerdotessa nel tempio di Apollo, aveva lineamenti talmente graziosi che lo stesso dio si innamorò di lei. «O leggiadra principessa» la apostrofò un giorno «perché non acconsenti a sposarmi? Io ti amo con tutto me stesso, e per dimostrarti la sincerità del mio sentimento, ti concederò un dono: la preveggenza. Sarai in grado di conoscere gli eventi futuri in anticipo rispetto agli altri uomini e le tue qualità profetiche diverranno celebri in ogni angolo del mondo!» Gli occhi di Cassandra si illuminarono, poiché Apollo aveva colto nel segno: provare a indovinare il futuro era la sua grande passione! Già si immaginava, intenta a elargire consigli e predizioni alle persone che si sarebbero rivolte a lei, desiderose di sapere qualcosa su fatti non ancora accaduti. Non aveva dubbi, era nata per essere una profetessa! «Carissimo Apollo, grazie a questa preziosa capacità, che metterò al servizio della mia città, io potrò giovare al prossimo. Ti sono riconoscente, perciò accetto la tua proposta di matrimonio» rispose la ragazza senza esitazione. I giorni passarono e Cassandra si dilettava a stupire tutti con le sue previsioni, che puntualmente si avveravano, ma di nozze non voleva saperne: ogni volta che il dio le ricordava della promessa fatta, lei adduceva qualche scusa, per rimandare il gran giorno. «Cassandra, che ne dici se ci sposiamo domani?» «No, tesoro. Domani ho fissato degli appuntamenti con delle persone alle quali devo leggere il futuro e anche la prossima settimana sono piena di impegni!» 99


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«Mia dolce principessa, e se facessimo all’inizio del mese prossimo?» «Apollo, non se ne parla: sarò a un convegno sulla chiaroveggenza!» Il dio, però, non era uno sciocco, e ben presto cominciò a capire che la sua fidanzata non avrebbe mai onorato la promessa: d’altronde il suo stesso nome voleva dire “colei che incastra gli uomini”! E Apollo si sentiva proprio così: incastrato, intrappolato… raggirato, e per di più da una mortale! Non poteva sopportare un’onta1 simile e quindi decise di vendicarsi: toglierle il dono della profezia sarebbe stato troppo facile e scontato, doveva pensare a una punizione più crudele. Dopo averci rimuginato un po’, finalmente ebbe un’idea geniale e spietata; si avviò a passi svelti da Cassandra e, sogghignando, le scagliò una terribile maledizione: «Perfida ingannatrice, tu mi hai tenuto sulla corda per molto tempo, giurando che saresti diventata mia moglie mentre, in cuor tuo, non hai mai avuto alcuna intenzione di unirti a me! Dunque sarai punita in questo modo: manterrai la tua capacità di prevedere il futuro, indovinando fatti gravi e luttuosi, ma nessuno crederà alle tue parole!» Nonostante l’anatema2, Cassandra non rinunciò a profetizzare: si aggirava per le strade di Troia, vaticinando accadimenti sgradevoli e nefasti, perché quella era la volontà del dio Apollo. «Stai lontana da me, uccello del malaugurio!» le gridavano i passanti, che non volevano sentire le sue tristi previsioni, perché ella rivelava verità scomode, brutte e tristi, ma pur sempre verità! A ogni modo Cassandra non cessava di annunciare disgrazie imminenti e tragedie future, sebbene si sentisse frustrata 1 2

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onta: disonore, vergogna. anatema: maledizione.


Le infelici profezie di Cassandra

dal fatto che nessuno la ascoltasse. Un giorno ebbe una delle sue infelici visioni, la peggiore di tutte: a quanto pare la sua città sarebbe stata brutalmente conquistata dagli Achei! Era infatti in corso, ormai da dieci anni, la guerra di Troia, che fino a quel momento aveva opposto una strenua resistenza agli avversari. «Miei concittadini, è giunto il momento che abbiamo tanto temuto. Se non stiamo attenti, gli Achei espugneranno Troia! Dobbiamo stare in guardia!» proclamò un giorno a gran voce, nella piazza principale, ottenendo, per tutta risposta, una fragorosa risata da parte dei presenti. Neanche gli anziani e i saggi si sognavano di prendere in considerazione le sue affermazioni, anzi, ogni volta che la scorgevano da lontano, cambiavano strada. Quindi, venne il giorno in cui gli Achei introdussero nella città uno splendido cavallo di legno, che i Troiani osservavano con stupore e curiosità. «Gli Achei si sono finalmente arresi. Le loro navi hanno lasciato il porto e, prima di tornare nella loro terra, hanno deciso di lasciarci questo regalo!» si rallegrò qualcuno. «Ma non capite che si tratta di un perfido inganno? Non accettiamo questo dono: il cavallo di legno sarà causa di sciagure infinite per il nostro popolo!» proclamò Cassandra, come al solito inascoltata e derisa. Soltanto un uomo, Laocoonte, ebbe il coraggio di crederle e, per questo motivo, fu severamente punito da Atena, alleata degli Achei, la quale lo fece uccidere da due serpenti marini insieme ai suoi figli. Incuranti di ciò, gli abitanti di Troia si diedero ai festeggiamenti per la fine della guerra, trascorrendo la serata in allegria, ballando e bevendo vino in abbondanza. Quando si addormentarono, tutti ubriachi fradici, gli Achei, che si erano nascosti dentro al cavallo, uscirono allo scoperto e compirono una strage, sterminando tutti gli uomini e imprigionando le donne, per condurle come schiave nella loro terra. 101


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«Io ve l’avevo detto!» esclamò Cassandra, correndo a nascondersi nel tempio di Atena per sfuggire ai nemici; il suo tentativo di salvarsi, tuttavia, fu inutile, poiché venne catturata ugualmente: il generale Agamennone la portò con sé a Micene, ignaro che la sua nuova, affascinante schiava fosse capace di predire il futuro. «Agamennone, la tua fine è vicina. Tua moglie Clitennestra in realtà ti odia e vuole ucciderti!» rivelò Cassandra, suscitando lo sdegno del suo signore, il quale le rispose a male parole, incapace di accettare quella verità. La previsione della fanciulla, però, non tardò a divenire realtà e, nella congiura organizzata da Clitennestra, anche Cassandra, insieme al sovrano, perse la vita, non prima di aver pronunciato un’ultima, drammatica profezia sul destino dei Greci: «Questa civiltà, così splendente, ben presto perirà. Un giorno non rimarrà nulla della cultura, del pensiero, dell’arte e della democrazia che vi hanno reso grandi nella storia dell’umanità. Soltanto macerie…» Ma nessuno riuscì a udirla.

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Edipo re Non so se abbiate voglia di ascoltare la mia tremenda storia, segnata da un destino beffardo e malvagio, che ho provato incessantemente a fuggire, ma invano. Insuperbito dalla mia intelligenza, ho passato la vita a svelare enigmi, senza sapere che l’unico, spaventoso mistero davanti al quale mi sarei dovuto fermare ero… io stesso. Eccomi, sono Edipo e maledico più che mai la mia smania di conoscere la verità a tutti i costi, che mi ha portato a divenire il più sventurato tra gli esseri umani: certe cose è meglio non saperle se si vuole vivere tranquilli! Ma andiamo con ordine: tempo fa, quando ero ancora un ragazzo, stavo scappando da Corinto, la città nella quale sono nato e cresciuto, perché un indovino mi aveva detto una cosa terribile: «Ucciderai tuo padre e sposerai tua madre, questo è il tuo fato!» A quelle parole, naturalmente, mi si gelò il sangue nelle vene; perciò, intenzionato a non compiere quel gesto oltraggioso nei confronti del mio amatissimo padre Polibo, re della città, mi allontanai senza indugio da Corinto, diretto a Tebe. Il viaggio fu pieno di ostacoli, tanto che, a un certo punto, mi trovai ad affrontare un uomo, forse un bandito, che mi impediva il passaggio a un crocicchio. Fu solo per difendermi dalla sua aggressione che gli tolsi la vita, ma… non l’avessi mai fatto! A ogni modo arrivai a Tebe giusto in tempo per fare sfoggio della mia impareggiabile arguzia: la città era infatti tormentata dalla Sfinge. Quell’enorme mostro con il corpo di leone e la testa umana si era fermato all’ingresso di Tebe, dove si dilettava a sottoporre i suoi indovinelli agli incauti passanti, che venivano divorati se non erano in grado di rispondere. E nessuno, fino a quel momento, era riuscito a sciogliere gli enigmi che poneva, perciò era in corso un’autentica strage! Bisognava 103


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rispondere correttamente per provocare la morte del mostro, liberando la città dal suo flagello; chiunque ci fosse riuscito, sarebbe diventato sovrano; quindi decisi di farmi avanti. La Sfinge mi scrutò impassibile, ma io non abbassai lo sguardo. «Se vuoi passare vivo da qui, rispondi a questa domanda: chi è colui che, pur avendo una sola voce, si trasforma in quadrupede, bipede e tripede?» chiese. Il mostro non sapeva che i quesiti erano il mio pezzo forte: iniziai a meditare, immaginando che la risposta non dovesse essere troppo lontana… in effetti, non sono forse gli esseri umani che, all’inizio della loro vita, gattonano, per poi camminare su due gambe da adulti e procedere con l’ausilio di un bastone durante la vecchiaia? Quattro gambe da piccoli, due da grandi e tre al tramonto dell’esistenza: questa era senza dubbio la soluzione! «Si tratta dell’uomo!» risposi, con un sorriso trionfante dipinto sulle labbra. L’incantesimo era finalmente rotto: la Sfinge, avvilita, si gettò da una rupe e morì; gli abitanti della città mi circondarono festanti, offrendomi il trono, e per molto tempo regnai in pace, acclamato dai miei sudditi, perché ero un re in gamba e li avevo liberati da quell’incubo. Tutto è bene ciò che finisce bene, dunque? Niente affatto: il peggio doveva ancora arrivare. Alcuni anni dopo la mia vittoria sulla Sfinge, un’odiosa pestilenza si abbatté su Tebe, provocando centinaia di vittime: le persone si ammalavano e in pochi giorni morivano, tra febbri e sofferenze atroci. Un’epidemia così feroce doveva certamente avere cause soprannaturali: forse su Tebe gravava una maledizione? Mi decisi a indagare e consultai l’oracolo di Delfi. La sua sentenza confermò i miei sospetti: «Gli dèi affliggono la città perché è contaminata da un delitto avvenuto in passato: Laio, il precedente re di Tebe, è stato ucciso, e il suo assas104


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sino non solo è rimasto impunito, ma vive ancora in città. Finché questi non sarà esiliato oppure condannato a morte, la pestilenza non abbandonerà i tuoi sudditi». Soddisfatto della risposta, tornai a casa, dove mi attendeva Giocasta, la donna che avevo sposato e che era stata moglie del defunto sovrano. «Mio amato Edipo, non dare ascolto a questi sciocchi vaticini» mi consigliò, dopo che le ebbi raccontato tutto «anche al mio primo marito era stato profetizzato qualcosa di orribile: sarebbe stato ucciso da suo figlio, sangue del suo sangue! Invece ad ammazzarlo sono stati dei briganti, incontrati durante un viaggio». Il racconto di Giocasta mi suscitò uno strano turbamento, al quale però non diedi troppo peso: oh, se solo le avessi dato retta non mi sarei spinto oltre con le indagini! Invece il mio unico scopo era quello di far luce sulla verità, una verità che si sarebbe rivelata drammatica e sconvolgente! Convocai il testimone dell’omicidio, il quale riferì che il delitto si era svolto tra Delfi e Tebe, in un punto dove si uniscono tre strade, a causa di un banale litigio… e iniziai a sudare freddo. Anche Giocasta cominciò ad avere degli strani presagi e mi pregò di non andare avanti con le ricerche dell’assassino, perché a volte far affiorare certi fatti del passato poteva rivelarsi doloroso e inutile; ma io desideravo, più di ogni altra cosa, conoscere. Mi rivolsi a Tiresia, un indovino cieco la cui saggezza era elogiata da tutti, ma questi si ritrasse spaventato di fronte alle mie domande, come se avesse timore di svelarmi qualcosa… come se avesse davanti a sé una creatura immonda. «Dimmi ciò che sai, Tiresia» lo pregai. «Quando ero soltanto un ragazzo, mi fu detto che avrei compiuto delle azioni vergognose: uccidere mio padre e sposare mia madre! Perciò me ne sono andato da Corinto, per evitare di nuocere a Polibo. Dunque, non posso che essere innocente!» 105


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«Caro Edipo, purtroppo Polibo non è il tuo vero papà. Lui ti ha adottato, prendendoti da un pastore quando eri appena nato». «Dunque sono figlio di un pastore? Perché non parli, indovino da strapazzo? Hai il dovere di rispondere al tuo re!» «Se proprio vuoi sapere,» raccontò controvoglia Tiresia «quel pastore aveva avuto dal tuo vero padre l’incarico di ucciderti, poiché su di te gravava un fato agghiacciante, però si impietosì e ti consegnò al re di Corinto». Giocasta impallidì, forse perché si ricordava di quando suo marito Laio fece sparire il neonato che avevano avuto appena sposati. «Basta così!» esclamò «Non voglio sapere nient’altro». E se l’uomo che uccisi con tanta ferocia a quel crocicchio fosse stato proprio Laio? E se Laio fosse stato… mio padre? A quel punto le lacrime sgorgarono copiose dai miei occhi, mentre Tiresia seguitava a parlare. «Edipo, il tuo destino è già compiuto, sei un uomo maledetto dagli dèi e la città è contaminata per vie delle azioni turpi1 che hai commesso». Uccidere il padre e sposare la madre… Giocasta era mia madre? Mi guardai intorno, attonito e sconcertato, in cerca del suo sguardo rassicurante, ma lei non mi era più accanto: la disgraziata era corsa in camera sua e si era impiccata non appena aveva capito come stavano le cose! Quanto a me, che cosa mi restava da fare? Staccai dal suo corpo senza vita la spilla con la quale ornava i suoi capelli e la usai per accecarmi impietosamente: ero un uomo spregevole e i miei occhi non erano degni di vedere. Con il volto insanguinato e la consapevolezza che non si può sfuggire al fato, ingiusto, ignobile e incomprensibile, mi allontanai, cieco, in esilio, per sempre. turpi: oscene, sporche.

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La follia di Medea Sulla spiaggia di Corinto una donna bruna, con i capelli scompigliati dal vento, si aggira furibonda, pronunciando parole colme di rabbia e amarezza. «Per seguire l’uomo che amavo, ho lasciato tutto, a cominciare dalla mia terra. Ho rotto ogni legame con la mia famiglia di origine, pur di rimanergli accanto. E lui? Dopo dieci anni mi ha abbandonata per una giovane donna, la principessa di Corinto!» dice, rivolta al mare, l’unico al quale possa offrire i suoi pensieri. «Oltretutto non ho nessuno a cui confidare le mie sofferenze. Sono senza patria, né amici! Una donna, per giunta straniera e con la passione per la magia, è malvista da tutti. A stento gli abitanti di questa città mi rivolgono la parola… e ora che Giasone mi ha ripudiato, sarò ancora più sola!» Medea è affranta, ma ricaccia indietro le lacrime: non vuole dare alcuna soddisfazione agli abitanti di Corinto che, passando, la segnano a dito e si fanno beffe di lei. Dopo l’impresa del vello d’oro, quante promesse d’amore eterno aveva pronunciato Giasone! Erano anche nati due magnifici bambini dalla loro unione, che sembrava solida e armoniosa. Ma, a un certo punto, l’eroe degli Argonauti doveva essersi dimenticato di ciò che la sua compagna aveva fatto per lui, e si era lasciato lusingare dalla proposta di Creonte, re di Corinto. Questi gli aveva offerto in moglie sua figlia, la principessa Glauce, affinché potesse succedergli al trono. Un’idea senza dubbio allettante, che lo avrebbe reso sovrano di un’importante città e avrebbe garantito un futuro ai suoi figli; tuttavia Giasone doveva fare i conti con Medea, la quale non accettava di essere messa da parte per una questione 107


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di calcolo politico. Eccola ora lì, triste ma non abbattuta, inquieta e indecisa sul da farsi perché, se da un lato non accetta che il suo sposo la passi liscia e vorrebbe nuocergli, dall’altro… lo ama ancora! In quella sopraggiunge il maestro di scuola dei suoi bambini, con una pessima notizia: «Sfortunata Medea, sono venuto a dirti che, da domani, tu e i tuoi piccoli sarete cacciati da questo luogo. Andrete in esilio, il più lontano possibile, perché la tua presenza qui non è gradita a Creonte». Medea stringe forte i pugni, avvampando per la collera: «Questo è troppo! Va’ e riferisci a Creonte che farò come desidera: non vedrà più la mia faccia, che gli risulta tanto odiosa! Ma ho bisogno di un ultimo giorno per prepararmi all’esilio». Appena l’uomo se ne va, Medea ricomincia a pensare, più tormentata che mai: la sua mente viene annebbiata da mille pensieri, uno più cupo dell’altro. «Ora che vengo allontanata a forza da questa città inospitale, non mi restano dubbi: devo vendicarmi su Giasone, infliggendogli un dolore più grande di quello che lui mi ha provocato. Ma lui è un uomo freddo e indifferente, non c’è nulla che possa scalfirlo… o forse sì?» medita la maga, con lo sguardo sempre più offuscato dalla follia. «Medea, che cosa ci fai qui? Ti hanno informata dell’esilio?» le domanda qualcuno, arrivato dal palazzo reale: è proprio Giasone, l’uomo che le ha rovinato la vita! La donna vorrebbe urlargli addosso parole piene di sdegno e rancore, ma cerca di controllarsi. «Ebbene sì, ho saputo e non posso fare altro che accettare, cercando di comprendere le ragioni che ti hanno indotto a risposarti» risponde forzatamente. «Finalmente inizi a ragionare!» esclama Giasone, sollevato. «Ho cercato di agire con saggezza, per ottenere il 108


La follia di Medea

trono e poterlo trasmettere alla mia discendenza. L’ho fatto per i nostri figli, sai? Sono loro ciò che mi sta più a cuore di tutto!» «Che uomo previdente! All’inizio non avevo badato a tutti i vantaggi legati al tuo prossimo matrimonio con Glauce. Forse perché, come mi hai sempre detto, noi donne siamo delle sciocche sentimentali!» «Proprio così! Ora però hai compreso che l’amore a volte è fatto anche di calcolo… perciò, chissà, potremmo rimanere amici. Che ne pensi?» Amici? Medea vorrebbe dirgliene di tutti i colori ma, con uno sforzo inimmaginabile, cerca di mostrarsi calma: «Perché no? Anzi, prima di lasciare questo posto, vorrei fare un dono alla tua nuova sposa: sto preparando una veste sontuosa e un diadema che le staranno d’incanto! Non chiedo nulla in cambio per me, soltanto una cosa: che i nostri bambini restino qui a Corinto e non debbano vagare per il mondo insieme a me!» «Mi sembra una richiesta più che ragionevole. Lo riferirò io stesso a Creonte, e lui non potrà fare altro che accettare. D’altronde farei qualsiasi cosa per i miei piccoli! A presto, Medea!» dice Giasone, incamminandosi verso la sua dimora. Anche la donna torna nella sua stanza, fuori di sé dalla rabbia e afflitta da un pensiero ossessivo: disfarsi di ciò che il suo sposo ama più di ogni altra cosa, per punirlo nel modo più straziante… «Ma così farei del male prima di tutto a me stessa! Dunque non posso farlo!» sospira, con le lacrime agli occhi, mentre versa una pozione magica sull’abito e sulla corona destinati a Glauce: i doni prenderanno fuoco non appena l’ignara principessa li avrà indossati; dunque, il piano disperato di Medea si sta già compiendo… Naturalmente la sposina non vede l’ora di sfoggiare quei meravigliosi indumenti e, 109


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La follia di Medea

nel momento stesso in cui li riceve, scarta il pacco con curiosità, per poi correre in camera sua, davanti allo specchio. Quel che segue è uno spettacolo terrificante: le fiamme si sprigionano dalla veste e dal diadema, uccidendo non soltanto la povera Glauce, ma anche Creonte, accorso in suo aiuto e morto abbracciato al cadavere della figlia, tra sofferenze indicibili. Eppure, Medea non è ancora soddisfatta. «Mermero, Fere!» grida, chiamando per nome i suoi figli. Li osserva un istante con tenerezza e malinconia, poi l’amore si dilegua dai suoi occhi, e non resta che la pazzia. La maga conduce i suoi figli in casa e poi… Nessuno sa bene che cosa sia accaduto, nessuno è in grado di raccontare come lei abbia tolto ai due bambini la vita, quella vita che pochi anni prima aveva dato loro. Giasone, già affranto per la perdita improvvisa di Glauce, si precipita sentendo le grida di Mermero e Fere, ma è troppo tardi: i suoi figli hanno ormai cessato di respirare e Medea, donna dalle mille passioni contrastanti, strega spietata e malvagia, si sta alzando in volo su un carro trainato da draghi, diretta ad Atene.

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PERCORSI DI LETTURA COMPRENSIONE 1 Cassandra non può comunicare con il prossimo: per questo motivo ricorda un altro personaggio, incontrato in un mito precedente. Quale? a) Persefone b) Aracne c) Daphne d) Eco 2 Collega con una freccia i nomi dei seguenti personaggi al ruolo svolto nel corso della vicenda dell’Edipo re. Edipo Per paura di una profezia, si sbarazza del figlio appena nato Giocasta Desideroso di conoscere la verità, non si ferma di fronte a nulla Tiresia Appena intuisce la verità, preferirebbe non andare a fondo Laio Rispettoso delle profezie, sa che a esse non è possibile sfuggire

3 Di fronte alla vita, Medea e Giasone mettono in atto diversi atteggiamenti: se la prima agisce in base alla passione, le decisioni di Giasone sono dettate dalla razionalità. Individua e sottolinea nel testo, con colori diversi, le parole dalle quali emergono tali caratteristiche.

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PERCORSI DI LETTURA LESSICO 1 Alcune espressioni, legate alla tragedia greca, sono presenti nel linguaggio odierno, anche se talvolta hanno assunto un significato diverso da quello originario. Con l’aiuto di un dizionario, riporta nello spazio sottostante le definizioni di questi termini. Deus ex machina ................................................................................................ Cassandra ............................................................................................................... Edipico ...................................................................................................................... PRODUZIONE SCRITTA 1 Scrivi un testo sul tuo quaderno, facendo riferimento, laddove possibile, anche alla tua esperienza personale. Il mito di Edipo ci insegna che lo svelamento ad ogni costo della verità non sempre porta a situazioni favorevoli. Tu che cosa ne pensi? Ritieni, come Edipo, che nonostante tutto si debba sempre cercare di sapere? 2 Scrivi un breve testo sul tuo quaderno. Il mito di Medea induce a riflettere sulla condizione della donna, che nell’antichità era considerata inferiore all’uomo e, in alcuni casi, addirittura malvista. Oggi le cose sono cambiate, ma alcuni problemi rendono la storia di Medea ancora attuale. Perché? Quali sono i problemi che le donne di oggi devono ancora affrontare? Sopravvivono dei pregiudizi legati alla figura femminile?

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Sezione 5 Mitico amore Conosci il mito delle due metà, illustrato dal filosofo Platone nel Simposio? Secondo il suo racconto, un tempo gli uomini erano degli esseri perfetti, ma Zeus, invidioso della loro condizione, li spaccò in due e da allora ognuno, sentendosi incompleto, è in cerca della propria parte mancante, cioè l’anima gemella. Ma l’amore non è solo questo: nella lingua greca vi sono tre espressioni per descriverlo. La prima, philos, indica l’amicizia ideale e l’affetto fraterno; è basato sulla fiducia e sulla libertà. Vi è quindi l’agape, cioè la carità, quell’amore incondizionato nel quale si mette il bene altrui davanti al proprio. L’eros è invece una relazione sentimentale che riguarda due persone, legata al desiderio, al romanticismo e alla passione: si tratta di un sentimento che nasce dalla contemplazione della bellezza, per poi elevarsi e aspirare all’immortalità. Eros è anche il nome della divinità dell’amore. Egli, secondo Platone, fu concepito durante un banchetto dedicato ad Afrodite1. I suoi genitori erano Penia (la Povertà) e Poros (l’Espediente). Dalla madre, il dio ereditò la tendenza a condurre una vita vagabonda e misera, l’abitudine a dormire all’aperto, davanti alle porte chiuse e per le strade. Ma Eros somigliava anche al padre, per la sua intraprendenza, il coraggio e l’abilità nell’escogitare astuzie di ogni genere. L’Amore, dunque, scalzo e senza fissa dimora, era tutt’altro che delicato e bello, ma ricercava la bellezza; non possedeva saggezza né bontà, ma le desiderava tenacemente; non era proprio un dio, bensì qualcosa di intermedio tra l’uomo e la divinità. 1

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Nel brano Eros e Psiche si riporta la versione del mito di Apuleio, secondo cui Eros è figlio di Afrodite.


Alcesti e Admeto Tutto ebbe inizio il giorno in cui Zeus inflisse ad Apollo una solenne punizione: «Poiché hai ucciso i Ciclopi, sconterai una pena per questo delitto, recandoti in Tessaglia e servendo come schiavo Admeto, re di Fere. Soltanto così potrai espiare la colpa di cui ti sei macchiato». Il dio del sole chinò il capo e partì alla volta della reggia di Admeto, sovrano celebre per la sua ospitalità. Egli infatti accolse Apollo in modo benevolo e rispettoso, affidandogli un incarico molto importante: «Da oggi, per nove anni, sarai il mio pastore e ti occuperai dei cavalli. Ma non temere: verrai trattato con tutti gli onori che ti spettano. Io sono molto devoto agli dèi». La divinità, colpita dalla gentilezza dimostrata dal re, si impegnò per svolgere al meglio il lavoro che gli era stato assegnato; eppure c’era qualcosa che non tornava: Admeto era sempre triste e crucciato, come se qualcosa lo turbasse. «Come mai hai quell’aria pensierosa? Sei un sovrano saggio e stimato; inoltre vivi nella prosperità, circondato dall’affetto dei tuoi sudditi. Dunque, che cosa ti manca?» gli domandò un giorno Apollo, con il quale era ormai entrato in confidenza. «La saggezza, il successo e la ricchezza non sono nulla senza l’amore» rispose Admeto. «Vedi, caro Apollo, io amo una donna favolosa, la più bella che esista: il suo nome è Alcesti. Ma lei ha così tanti pretendenti che suo padre, Pelia, ha stabilito di darla in sposa soltanto a colui che riuscirà a compiere un’impresa straordinaria: legare al giogo di una biga un cinghiale e un leone. E io, si sa, non sono tagliato per questo genere di cose! Perciò, sai come andrà a finire? Se la prenderà un altro!» 115


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«Ma Admeto, che cosa dici? Sai bene che io non sono un semplice schiavo, bensì il dio del sole: posso fare qualsiasi cosa, se lo desidero: dunque ti aiuterò a ottenere la mano di quella donna. Vieni con me!» Così dicendo Apollo trascinò Admeto fuori dalla reggia; insieme si avviarono alla ricerca di un cinghiale e di un leone: fu un gioco da ragazzi, per il sovrano di Fere, guidare la biga fino alla dimora di Pelia… dopo che la divinità ebbe imbrigliato gli animali! Fu così che Admeto, attraversando trionfante la città con il leone e il cinghiale al giogo, fece breccia nel cuore dell’affascinante Alcesti, la quale acconsentì alle nozze. Si sposarono e vissero felicemente per diversi anni, sinceramente innamorati l’uno dell’altra. Venne quindi il giorno in cui Apollo, ormai amico fidato di entrambi, terminò il suo servizio presso la reggia di Fere: «Carissimo Admeto, oggi ho finito di scontare la pena per l’assassinio che ho commesso tanto tempo fa, in un impeto di rabbia. Ma la mia non è stata affatto una pena, a dire il vero! Ti ho servito umilmente e tu, insieme ad Alcesti, mi hai trattato con ogni riguardo. Grazie alla tua magnifica accoglienza, mi sono sempre sentito a casa, perciò vorrei concederti un dono, come simbolo di eterna gratitudine: quando le Moire saranno sul punto di tagliare il filo della tua vita, cioè quando arriverà la tua ora, verrai avvisato e ti sarà concesso di sfuggire alla morte, a condizione che qualcuno accetti di morire al posto tuo». Admeto si commosse e abbracciò riconoscente il suo amico, accomiatandosi da lui. Non passò molto tempo, che il privilegio offerto da Apollo si rivelò prezioso: il sovrano venne infatti a sapere che le cesoie delle Moire stavano per recidere il filo della sua vita! Dunque bisognava al più presto trovare un uomo che voles116


Alcesti e Admeto

se esalare l’ultimo respiro al suo posto, soltanto così il re di Fere avrebbe continuato a vivere. Eppure l’impresa si rivelò più difficile del previsto: sembrava che nessuno, in tutta la città, avesse voglia di veder troncata la propria esistenza per salvare Admeto. Il sovrano domandò ai suoi servitori e ai sudditi, i quali avevano sempre detto di essere disposti a tutto pur di non perdere un sovrano così giusto e nobile. Però, quando sentivano la richiesta di Admeto, indietreggiavano con aria inorridita. Dopo aver interpellato inutilmente anche i suoi più cari amici, il sovrano, un po’ deluso, si recò dagli anziani genitori. «Mamma, papà!» li apostrofò «Sono qui per chiedervi un favore enorme. Voi siete gli unici in grado di aiutarmi». «Parla liberamente» rispose il vecchio padre, «ti abbiamo sempre concesso qualsiasi cosa tu abbia domandato, e continueremo a farlo. Ti vogliamo bene e daremmo la vita per te, figliolo!» «Ottimo! È proprio questo il punto: dovreste morire al posto mio, perché è giunta la mia ora, le Moire non possono più attendere e stanno per tagliare il mio filo ma se, entro oggi, uno di voi mi sostituisce in quest’incombenza, io potrò andare avanti con la mia vita e, quanto a voi, avete già una certa età. Insomma, avete capito?» «Ehm… direi che è tutto chiaro» rispose la madre, cercando di dissimulare l’imbarazzo. «Ovviamente saremmo affranti per la tua morte, ma… vedi, credo che né io né tuo padre abbiamo intenzione di prendere il tuo posto». «In effetti abbiamo molti impegni in questo periodo… Morire proprio ora sarebbe un problema… Vedrai che qualcuno disponibile al posto nostro lo trovi!» aggiunse l’anziano, strizzandogli l’occhio. In quella accorse Alcesti, che aveva saputo della disgrazia capitata al marito. 117


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«Mio amato» disse, con sguardo intrepido e dolce al tempo stesso «perché non mi hai detto nulla? Avresti evitato di andare a implorare invano persone che non ti amano veramente. Sarò felice di morire per te!» Admeto, con gli occhi gonfi di lacrime, non poté fare altro che accettare. Baciò per l’ultima volta la moglie, che gli stava dimostrando un amore sconfinato, più forte di quello dei suoi genitori. Dopo aver cercato di consolare suo marito, dicendogli che il tempo avrebbe alleviato le sue sofferenze, Alcesti chiuse gli occhi ed entrò nel regno di Ade. La reggia fu avvolta per molti giorni da un silenzio angoscioso finché, un mattino, si presentò al cospetto di Admeto un ragazzo aitante e muscoloso: era Eracle, intento a compiere una delle sue fatiche! L’eroe chiese e ottenne ospitalità, sperando di poter trascorrere qualche giorno in allegria prima di rimettersi in viaggio; tuttavia fu molto deluso per l’atmosfera lugubre che si respirava a Fere: la gente aveva un’aria afflitta e nessuno gli rivolgeva la parola, a partire da Admeto che, oltre a essere sconfortato per la perdita, iniziò anche a capire di essersi comportato come un codardo! Si vergognava a tal punto che non riuscì neanche a confidarsi con Eracle, il quale continuava a vagare per la reggia cercando di capire da che cosa nascesse tutta quella tristezza. Un giorno, però, venne a scoprire la verità parlando con il padre di Admeto. «Perché non mi hai detto che era morta tua moglie?» lo rimbrottò Eracle, volteggiando la clava. «Invece di startene lì tutto immusonito, potevi spiegarmi chiaramente come stavano le cose! Non mi importa se sei un vigliacco e tua moglie ha dimostrato di avere coraggio da vendere, io voglio solo aiutarti!» Pronunciate queste parole, se ne andò via sbattendo la porta e non rivide Admeto fino alla settimana successiva, 118


Alcesti e Admeto

quando l’eroe, con un sorriso gagliardo e una donna velata tra le sue braccia, si ripresentò alla reggia. «Admeto, dovresti vedere che bella è questa ragazza! L’ho vinta a un torneo e ho pensato bene di portartela, dato che sei rimasto vedovo. Che ne dici, le scopro il volto?» «Eracle, ti ringrazio per il pensiero, ma io non toccherò nessun’altra donna dopo Alcesti. Nessuna potrà amarmi come mi ha amato lei. Il suo sentimento è stato più forte della morte». Eracle sorrise e appoggiò la sua mano robusta sulla spalla del re. «Sarai anche un tipo pauroso, ma almeno sei fedele. Guarda che ti ho soltanto messo alla prova. Perché non levi tu stesso il velo a questa ragazza? Non crederai ai tuoi occhi». Con riluttanza, Admeto si avvicinò alla donna e pian piano la scoprì: quando vide che si trattava di Alcesti provò una gioia indescrivibile, più grande persino del giorno in cui si era innamorato di lei! La sua sposa era in piedi, di fronte a lui, ed era viva! «Ma come è possibile?» domandò il re, senza staccarsi da Alcesti e sommergendola di baci. «È molto semplice» spiegò Eracle, guardandosi i bicipiti, «Per sdebitarmi della tua ospitalità, ho pensato di fare un salto agli inferi e chiedere, a modo mio, che Alcesti tornasse in vita…» «A modo tuo? Ma quali argomenti hai usato affinché Ade accettasse di concederti nientemeno che la resurrezione di una donna defunta?» Eracle rispose con una sonora risata continuando ad agitare nel vuoto la sua inseparabile clava. «Chissà come se la passa il dio dei morti, con tutti quei bernoccoli in testa» disse, osservando i due sposi che si scambiavano tenerezze. 119


Orfeo ed Euridice Orfeo, figlio di Calliope, la musa della poesia, era un giovane sensibile e sognatore. Apollo gli aveva fatto dono di una lira, insegnandogli a suonarla con maestria; così lui si era appassionato alla musica e al canto, e aveva iniziato a comporre melodie di straordinaria bellezza. Ogni volta che pizzicava le corde della lira, vagabondando per le campagne, i contadini si fermavano ad ascoltarlo affascinati; persino gli uomini rozzi e ignoranti apprezzavano quei canti, talvolta lieti, talora malinconici, per non parlare delle bestie selvatiche che, ascoltandolo, diventavano docili e mansuete. Fu grazie alla dolcezza delle sue parole in musica che Orfeo conquistò Euridice, la ninfa della quale si era innamorato. La fanciulla, di animo gentile, ricambiava i suoi sentimenti, perciò fu contenta di convolare a nozze con lui. Pochi giorni dopo il matrimonio, tuttavia, la sposa fu morsa da un serpente velenoso e spirò tra le braccia delle sorelle. Quando Orfeo accorse era troppo tardi, poiché Euridice era stata già rapita da Ade nel mondo sotterraneo. Il cantore pianse per giorni e notti, invocando la sua amata e allontanando le persone che cercavano di consolarlo; poi iniziò a vagare in solitudine per tutta la Grecia, suonando delle melodie piene di tristezza e sconforto, finché giunse nel punto più meridionale della penisola, dove si trovava l’ingresso al regno dei morti, avvolto in un’atmosfera lugubre e opprimente. In questo posto, schivato da tutti, ebbe l’audacia di inoltrarsi, in cerca dell’amore perduto. Orfeo, senza paura, iniziò a scendere, passo dopo passo, in quel luogo tenebroso, ma subito s’imbatté in Cerbero, il cane infernale, che lo accolse ringhiando a più non posso. Al cantore fu sufficiente sguainare 120


Orfeo ed Euridice

la lira, come se fosse una spada, e iniziare a suonare in modo armonioso per placarlo e farlo accucciare come un cagnolino. Fu quindi la volta di Caronte, il traghettatore che conduce le anime dei defunti sulla riva più interna del regno. «Qui i vivi non entrano! Vattene, o saranno guai per te!» intimò, digrignando i denti. Subito dopo, però, quando Orfeo lo deliziò con un canto soave, l’espressione del suo viso cambiò: sembrava che si fosse commosso! Caronte condusse sulla sua barca il giovane innamorato, accompagnandolo sull’altra sponda e asciugandosi le lacrime che, per la prima volta in vita sua, aveva versato. Orfeo seguitò a camminare e suonare, circondato da mostri e demoni orripilanti che però non gli incutevano alcun terrore: tutti, infatti, erano rapiti e avvinti dalla grazia che infondeva nel canto, perciò lo lasciavano passare, permettendogli di avvicinarsi sempre di più al centro dell’oltretomba e dimenticando, per un attimo, di tormentare i dannati. Tra costoro vi era Tantalo, punito per aver rubato gli alimenti sacri agli dèi: il nettare e l’ambrosia. Lo sventurato era costretto a vedersi passare davanti frutti saporiti e acqua fresca, che però non gli era consentito toccare, dunque soffriva di una fame e di una sete insopportabili. Il suono della cetra di Orfeo gli regalò qualche istante di pace, e un sorriso incerto si formò sulle sue labbra aride. La stessa cosa accadde con il povero Sisifo, condannato per un’antica offesa a Zeus: gli toccava, per l’eternità, spingere in cima a un pendio un pesante masso, che puntualmente rotolava giù non appena raggiungeva la sommità. E quindi doveva ripetere l’operazione daccapo, con infinito affanno. «Orfeo, la tua voce è così aggraziata che il macigno mi sembra diventato più leggero» disse Sisifo, «per favore, rimani con me e con gli altri dannati ancora per un po’!» «Anime infelici, non posso stare con voi: devo raggiun121


Mitica Grecia

gere il punto più basso e cupo degli inferi, dove dimorano i sovrani di questo regno. Riporterò in vita la mia Euridice!» Finalmente, dopo un cammino angoscioso e tetro, Orfeo giunse al cospetto di Ade e Persefone, che lo osservarono meravigliati. «O sublime cantore, la tua fama è nota anche nell’aldilà. Ma perché sei arrivato fin qui, incurante delle leggi della natura, che impediscono ai vivi di varcare la soglia di questo mondo?» domandò il re. «Ade, è stato l’amore a spingermi a compiere questo viaggio. Euridice mi è stata tolta in fretta e all’improvviso, lo sai. La vita degli uomini è sempre troppo breve rispetto al tempo infinito che dovremo trascorrere nell’aldilà, perciò io chiedo di poterla ricondurre a casa. In cambio non ho nulla da offrirti… non sono dotato della forza sovrumana di Eracle, ma solo della lira e della mia voce». Dopo aver pronunciato queste frasi, Orfeo cominciò a tentare le corde della sua lira in maniera sublime. Cantò dell’amore, che è più forte della morte; suonò melodie struggenti e malinconiche che rievocavano la giovinezza di Persefone, la lucentezza della primavera e della natura che si ridesta dopo il buio invernale. I suoi versi suscitarono una profonda nostalgia nella regina degli inferi, che non riuscì a dissimulare la sua emozione, versando calde e copiose lacrime. Anche Ade provò un’insolita tenerezza, che lo indusse a concedere una possibilità a quel giovane intrepido. «E sia,» decretò il re dei morti «puoi condurre tua moglie fuori da qui. Ma fa’ attenzione: per nessuna ragione ti dovrai voltare indietro a guardarla, mentre percorrete a ritroso la strada verso la luce del giorno, altrimenti la grazia che ti ho offerto perderà il suo valore». Orfeo, seguito a pochi passi di distanza da Euridice, s’incamminò verso l’uscita degli inferi. Il viaggio gli sembrava an122


Sezione 5

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Mitica Grecia

cora più lungo di quello che aveva percorso all’andata; inoltre il cuore gli batteva all’impazzata, un po’ per la contentezza, un po’ per il timore che la sua amata non fosse più alle sue spalle. Ogni tanto tendeva l’orecchio e, quando riusciva a udire i passi e il respiro leggero dell’amata, si tranquillizzava. Euridice, come se si fosse appena risvegliata da un sonno profondo, seguiva taciturna Orfeo, il quale si rallegrava, poiché ogni tratto di strada percorso avvicinava lui e la donna alla salvezza. Eppure, allo stesso tempo, si struggeva, desideroso di guardarla! Intanto, il desiderio di girarsi indietro si faceva sempre più forte. Già si scorgeva l’uscita dell’oltretomba, già una luce tenue e incerta rischiarava il suo volto quando, per un istante maledetto, Orfeo si dimenticò della promessa fatta al dio e si voltò, forse per accertarsi che la donna fosse insieme a lui, forse per contemplare la sua bellezza e donarle un sorriso. Ma era troppo presto: Euridice, bellissima e pallida, riuscì soltanto a ricambiare lo sguardo dell’amato, prima di farsi trascinare nell’abisso da una forza inesorabile. Inutilmente tentò di aggrapparsi a Orfeo, perché il suo abbraccio andò a vuoto. Svanì nel nulla, pronunciando il nome dello sposo con una voce flebile e lontanissima. «Sono uno stolto, è tutta colpa mia: l’ho perduta di nuovo, e stavolta definitivamente!» gridò il cantore, impazzito per il dolore. Orfeo, tornato nel mondo dei vivi, s’infuriò con se stesso e con gli dèi; giurò che non avrebbe mai amato nessun’altra fanciulla. Alcune donne, seguaci del dio Dioniso, sentendo le sue parole, colme di sofferenza e risentimento verso il genere femminile, si offesero; pertanto lo uccisero brutalmente, facendolo a pezzi. Però Orfeo era felice di morire perché finalmente, una volta giunto negli inferi, poté riabbracciare Euridice, dedicarle le melodie più soavi e, soprattutto, contemplare il suo sguardo dolcissimo, stavolta, per sempre. 124


Eros e Psiche In un’epoca remota, viveva un’incantevole fanciulla di nome Psiche, tanto avvenente da essere scambiata per Afrodite, la dea dell’amore e della bellezza. «Sei stupenda!» le dicevano i suoi concittadini, che rimanevano a bocca aperta dinanzi a lei e la veneravano come se fosse una divinità. Questo fatto, però, giunse alle orecchie di Afrodite, la quale iniziò a detestare Psiche con tutto il cuore, vedendo in lei una pericolosa rivale. «Mi offende sapere che esiste una mortale bella quanto me, è un oltraggio!» esclamò un giorno, inviperita. «Eros, figlio mio, vieni qui!» ordinò, rivolgendosi al dio dell’amore. «Che cosa posso fare per te, mamma?» domandò il giovinetto dalle fattezze delicate. «Devi rendermi giustizia, facendo innamorare Psiche dell’uomo più brutto, ignobile e taccagno1 che ci sia al mondo!» Eros, docile ai comandi di sua madre, affilò le frecce e intraprese un lungo volo, finché fu sulle tracce della deliziosa ragazza. Aveva sentito parlare della sua bellezza, ma non immaginava fino a che punto! Era troppo distratto a contemplare le sue gambe snelle e leggiadre; perciò prese male la mira e si colpì per sbaglio a un piede: fu così che il dio dell’amore si innamorò perdutamente di Psiche. La fanciulla, in quel periodo, era cupa e triste: tutte le sue amiche, e soprattutto quelle pettegole delle sue sorelle, avevano trovato marito, mentre lei era rimasta senza pretendenti. Potrà sembrare strano, ma Psiche era così bella da mettere in soggezione gli uomini. 1

taccagno: avaro, tirchio.

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Mitica Grecia

«Sono indegno anche solo di accostarmi a te!» le aveva detto qualche giorno prima un ragazzo, col volto in fiamme per l’imbarazzo. Anche i genitori di Psiche erano preoccupati perché, a quell’epoca, avere una figlia nubile era una disgrazia; non sapendo come agire, chiesero consiglio a un oracolo. «Il mio responso è molto semplice» decretò questi «se volete che la sorte di vostra figlia cambi, non dovete far altro che accompagnarla sulla cima di una rupe sperduta e abbandonarla lì». La mamma e il papà della fanciulla si scambiarono uno sguardo, sconcertati e confusi, ma poi si convinsero, a malincuore, che quella fosse la cosa migliore da fare. Si recarono dunque in vetta a una montagna deserta insieme a Psiche; dopodiché la salutarono, lasciandola lì, sola e impaurita. Psiche non sapeva se tremare per il gran freddo o per il terrore di ritrovarsi in un posto così aspro e selvaggio; come se non bastasse, iniziò a mugghiare lo Zefiro, un vento tanto impetuoso da riuscire a sollevarla… e a trasportarla lontano. La fanciulla giunse, grazie al soffio della brezza, in una meravigliosa valletta, nella quale fiorivano piante e alberi di ogni specie. Al suo interno vi era un palazzo sontuoso, con ampie camere e un letto d’oro. Stanca per tutte le vicissitudini che le erano capitate, si sdraiò, addormentandosi dolcemente. Nel cuore della notte venne svegliata da un bacio leggero e appassionato: qualcuno era entrato nella stanza! «Non temere, Psiche. Sono il tuo sposo. Il mio cuore ti appartiene, così come questo palazzo, il giardino e la valle. Se lo vorrai, vivremo felici per sempre. Ma a un patto: io verrò da te soltanto di notte, nascosto dall’oscurità, e tu non dovrai domandarmi chi sono, né cercare di vedere il mio volto, altrimenti tutto ciò andrà perduto». La sua voce era calma e rassicurante, quindi Psiche fu 126


Eros e Psiche

ben contenta di accettare quella singolare condizione, che le impediva di guardare in faccia suo marito: si incontravano soltanto dopo il calar del sole, quando le tenebre avvolgevano ogni cosa. Dopo molti giorni sereni, Psiche espresse al misterioso sposo il desiderio di riabbracciare mamma e papà; in men che non si dica la richiesta fu esaudita, poiché i famigliari della ragazza vennero sollevati dal vento e condotti nella magnifica valle dove risiedeva. «Miei amati genitori, care sorelle, eccovi finalmente. Anch’io sono giunta in questo posto da sogno senza sapere come, né perché… a quanto pare la brezza di Zefiro è l’unico mezzo di trasporto per giungere qui. Vivo circondata da ricchezze di ogni sorta e giardini lussureggianti. Il mio palazzo è sfarzoso e accogliente. E non vi ho detto la cosa più importante: sono una donna sposata!» Le sorelle di Psiche sgranarono gli occhi: proprio non si aspettavano che la più piccola della famiglia avrebbe avuto la sorte migliore di tutte, e iniziavano a rodersi per l’invidia… «Come sarebbe a dire che non hai mai visto in faccia tuo marito?» domandò malignamente una, dopo che Psiche le ebbe spiegato la situazione. «Sicuramente c’è qualcosa sotto! Forse ha un aspetto deforme e mostruoso, quindi non vuole farsi vedere da te» incalzò l’altra, soddisfatta di aver trovato qualcosa che non andava nella vita di sua sorella. «Se fossi nei tuoi panni, indagherei: farei di tutto per spiare il suo viso, magari quando meno se lo aspetta!» riprese la prima, fregandosi le mani. Le due sorelle se ne andarono sogghignando e Psiche rimase da sola, turbata da mille dubbi. Quella notte stessa, sentendosi angosciata, prese coraggio e, dopo essersi accertata che l’amato stesse dormendo profondamente, gli accostò una candela, illuminandogli il volto. Appena lo ebbe visto, Psiche non poté 127


Mitica Grecia

credere ai suoi occhi: lo sposo era eccezionale, ineguagliabile, meraviglioso! La sua bellezza sovrumana non poteva appartenere a un mortale, ma a un essere divino: si trattava di Eros! «Sono sposata con il dio dell’amore in persona!» esclamò Psiche, che per l’agitazione fece cadere una goccia d’olio bollente sulla fronte del marito. «Che cosa sta succedendo?» domandò Eros, svegliandosi di soprassalto. «Oh no, amore mio: hai combinato un pasticcio, volendo vedermi a ogni costo!» Subito dopo aver pronunciato queste parole, il dio svanì nel nulla, e con lui scomparvero il palazzo, le ricchezze, il giardino e la valle fiorita. Psiche si ritrovò, ancora una volta, da sola. Ma non si perse d’animo, determinata com’era. «Non importa se lui è una divinità e io una mortale. Sono innamoratissima e farò di tutto per ritrovarlo» disse, mettendosi in cammino. Andò a cercarlo ovunque: su montagne impervie, presso deserti aridi e assolati, mari profondi e pericolosi, finché, un giorno, si imbatté in Demetra, la dea delle messi, che la mise in guardia: «Psiche, i tuoi sforzi sono inutili. Afrodite ti odia e cercherà in tutti i modi di ostacolarti». «Non importa!» replicò la giovane donna «Andrò da lei, che è la madre del mio sposo. E me lo riprenderò». Con una tenacia straordinaria, riuscì a raggiungere la cima dell’Olimpo e in breve fu condotta al cospetto di Afrodite. «Cara mia, tu non puoi essere la compagna di mio figlio: non sei che una mortale!» disse sprezzante la dea. «E allora concedimi il dono dell’immortalità» implorò Psiche. «Se proprio lo desideri, dovrai dimostrarmi quanto vali!» tagliò corto Afrodite. Da quel giorno iniziò a sottoporre Psiche a una serie di prove, una più rischiosa dell’altra. Il patto era semplice: se le avesse superate tutte, avrebbe ottenuto di vivere in eterno. 128


Eros e Psiche

Sebbene la dea della bellezza le imponesse delle fatiche immani, Psiche le portava a termine con ostinazione. Quando non rimaneva che un’ultima impresa da compiere, la fanciulla era ormai stremata dalla stanchezza. «Prendi un’anfora e vai nel regno di Ade, riempila con l’acqua dello Stige, il famoso fiume infernale, poi riportala qui senza versarne neanche una goccia, altrimenti tutto ciò che hai fatto finora sarà vanificato2» comandò Afrodite, senza mostrare un briciolo di pietà per la ragazza. Psiche giunse sulle rive dello Stige e, con le ultime forze che le rimanevano in corpo, riempì l’anfora. C’era però un problema: l’acqua emanava un odore infernale, di morte, in grado di stordire qualsiasi vivente, e questo Afrodite lo sapeva bene! La fanciulla non riuscì neanche a compiere pochi passi, che cadde a terra svenuta, facendo rompere il vaso in mille pezzi. Restò lì per un tempo indefinito, interminabile. Era immobile e sconfitta… quando, inaspettatamente, giunse il suo sposo, che era riuscito a ribellarsi all’arcigna madre. Eros si chinò su Psiche, la prese delicatamente e, volando con insuperabile leggiadria, la riportò alla luce del sole. Quindi volò ancora, fino all’Olimpo, dove si presentò a Zeus in persona. «Zeus, abbi pietà di Psiche e del nostro amore, che supera ogni differenza, anche quelle tra mortali e divinità» supplicò Eros. Il re degli dèi provò compassione; si schiarì la voce e disse: «Eros, non soltanto benedico le tue nozze con Psiche, ma concedo a lei di entrare nella schiera delle divinità olimpiche. Psiche vivrà eternamente, giovane e bella, e resterà sempre accanto a te. Il vostro amore, autentico e sincero, è destinato a trionfare». vanificato: annullato, reso inutile.

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PERCORSI DI LETTURA COMPRENSIONE 1 Collega con una freccia i nomi dei seguenti personaggi, citati in questo capitolo, alla loro… anima gemella. Eros Alcesti Admeto Povertà Espediente Euridice Orfeo Persefone Ade Psiche 2 Indica se le seguenti affermazioni, sulla vicenda di Alcesti, sono vere o false. Vero Falso Admeto tratta Apollo come se fosse l’ultimo dei suoi schiavi. Apollo svolge il lavoro che gli è stato affidato in maniera lodevole. Admeto riesce, da solo, ad aggiogare il leone e il cinghiale. Admeto trova molte persone disposte a dare la vita per lui. Alcesti dimostra amore e coraggio nei confronti del marito. 3 Chi incontra Orfeo nel regno dei morti? Completa le seguenti frasi, ricavando le informazioni dal testo. Cerbero era il cane ............................................................................................. Caronte era il traghettatore ......................................................................... Tantalo era punito ............................................................................................. Il povero Sisifo ...................................................................................................... 4 Indica se le seguenti affermazioni, tratte dal mito di Orfeo ed Euridice, sono vere o false. Vero

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Orfeo, attraverso la sua musica, riesce ad addomesticare gli animali selvaggi. Euridice viene uccisa dal veleno di un serpente. Orfeo ottiene di riportare in vita Euridice grazie alla sua forza fisica. Orfeo, cantando, suscita la pietà di Persefone. Euridice segue Orfeo verso l’uscita degli inferi, parlandogli dolcemente.

Falso


PERCORSI DI LETTURA 5 Perché Psiche viene condotta dai genitori sulla cima di una montagna? ....................................................................................................................................... ....................................................................................................................................... 6 Qual è il patto stabilito tra Psiche e il suo sposo? ....................................................................................................................................... ....................................................................................................................................... LESSICO 1 Sottolinea, nel testo, tutte le espressioni riferite alla personalità del giovane Orfeo. 2 Come definiresti il personaggio di Afrodite, descritta nel mito di Eros e Psiche? Descrivila con cinque aggettivi, da riportare nello spazio sottostante. ....................................................................................................................................... ....................................................................................................................................... 3 E le sorelle di Psiche? ....................................................................................................................................... ....................................................................................................................................... PRODUZIONE SCRITTA 1 Tra i valori più importanti della vita ci sono l’amore e l’amicizia. Condividi questo pensiero? Spiega il perché, scrivendo un breve testo sul tuo quaderno. 2 E adesso tocca a te: inventa e scrivi sul quaderno un mito che spieghi l’origine dell’amore, traendo ispirazione da ciò che hai letto in queste pagine.

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PERCORSI DI LETTURA

Titolo PRODUZIONE ORALE

1 Come giudichi il comportamento di Admeto di fronte alla morte? Scegli una risposta, poi avvia una discussione insieme ai tuoi compagni di classe. a) Umano, perché è normale temere la fine della propria vita. b) Vigliacco, perché non avrebbe dovuto accettare di far morire Alcesti al suo posto. c) Tormentato, perché dopo la morte di Alcesti si rende conto di aver sbagliato. 2 Qual è, secondo te, l’aspetto principale che emerge dalla lettura del mito di Orfeo ed Euridice? Scegli una risposta e poi avvia un dibattito con i tuoi compagni di classe. a) La necessità di imparare, nella vita, a non voltarsi indietro. b) Il potere della poesia e della musica, in grado di sconfiggere anche la morte. c) L’amore, visto come qualcosa di travolgente e soprannaturale. 3 Che cosa ti ha colpito maggiormente, invece, leggendo il mito di Eros e Psiche? Scegli una risposta e poi avvia un dibattito con i tuoi compagni di classe. a) L’ironia della sorte… perché è il dio dell’amore a innamorarsi perdutamente. b) La solitudine di Psiche: la sua bellezza fuori dal comune la allontana dai suoi simili. c) La perseveranza di Psiche, che affronta prove difficilissime, pur di tornare dal suo amato. d) L’invidia e la malvagità di Afrodite, volte a ostacolare in tutti i modi Psiche.

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Intervista all'illustratrice - Alessandra Fusi Com'è nata la tua passione per il disegno? Non saprei dirlo con precisione, piuttosto direi che è nata insieme a me ed al mio essere una bambina piuttosto tranquilla e osservatrice. La mia passione è stata poi nutrita e sostenuta dalle persone intorno a me ma, da quel che ricordo, dal primo momento in cui sono riuscita a tenere una matita in mano è diventata una mia “appendice”: che si trattasse di disegnare pony, eroi dei fumetti o personaggi della mia fantasia. Che cosa caratterizza il tuo stile? Tutto ciò che mi piace e attrae la mia curiosità: il mio stile cresce, evolve e cambia. A posteriori mi è capitato di accorgermi che le varie sfumature dei miei lavori rispecchiassero i vari periodi della mia vita. Ci sono chiaramente degli elementi fissi, come i colori caldi, le linee morbide, i soggetti sognanti e malinconici, il fascino degli animali e della natura. E i gatti. I gatti sempre. Qual è la regola per essere un bravo illustratore? Ce ne fosse solo una! Quale insegnante di illustrazione, posso dire che se c’è una cosa che cerco di trasmettere ai miei allievi è: siate curiosi, sperimentate, non limitatevi e soprattutto non abbiate paura di sbagliare. Chi non sbaglia non impara mai.

Sei anche una buona lettrice? Sono un’assidua amante della lettura, sempre affamata di storie. Quando poi si parla di libri illustrati, sono anche un’accumulatrice compulsiva. Che cosa ti ha colpito di questi racconti? La bellezza dei miti greci per me sta nel loro essere, così come le fiabe, archetipici e traboccanti di allegorie. I protagonisti possiedono un fascino senza tempo: riescono ad essere al contempo simbolici e psicologicamente ricchi e sfaccettati, veicoli di tragedie e sentimenti potenti. A livello immaginifico, poi, sono una miniera inesauribile di suggestioni. Personalmente posso dire di avere una predilezione per la figura di Medea, potente maga incantatrice. Che libro consiglieresti ai nostri ragazzi? Tra i miei classici del cuore ci sono Alice nel Paese delle Meraviglie e Il Giardino Segreto. Ma uno dei miei libri preferiti letti da ragazzina è sicuramente La collina dei Conigli di Richard Adams. Un messaggio importante: Coltivate le vostre passioni tutti i giorni: per quanto strane, inusuali, impopolari esse siano, sono ciò che vi rende unici. Le cose che vanno per la maggiore sono spesso, non sempre, anche le più noiose... Perché limitarsi a quelle?

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Titolo

Dèi greci e romani

Di seguito le principali divinità con il nome greco e il corrispondente nome romano.

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Nome nell’antica Grecia

Nome nell’antica Roma

Descrizione

Ade

Plutone

Dio degli inferi

Afrodite

Venere

Dea dell’amore e della bellezza

Febo

Apollo

Dio della luce e della bellezza

Atena

Minerva

Dea delle arti e della scienza

Crono

Saturno

Titano, padre di Demetra, Ade, Era, Poseidone e Zeus

Demetra

Cerere

Dea delle messi

Dioniso

Bacco

Dio del vino

Era

Giunone

Moglie di Zeus, regina degli dèi

Eracle

Ercole

Eroe reso immortale dagli dèi

Gea

Terra

Personificazione della Terra, madre di tutti gli esseri

Persefone

Proserpina

Dea degli inferi

Poseidone

Nettuno

Dio del mare

Urano

Cielo

Personificazione del cielo

Zeus

Giove

Re degli dèi


Sei un mito!

Abbiamo imparato il significato del termine “mito”, che nel Statua di Platone mondo greco è stato spesso contrapposto a un’altra forma di conoscenza: il logos. Da questa parola, che indica un discorso o un pensiero di carattere razionale, deriva l’espressione “logica”. Il logos, infatti, si propone di offrire delle risposte agli interrogativi degli uomini attraverso l’uso della ragione, e non facendo affidamento sulla fantasia e sull’inventiva, come nelle narrazioni contenute in questo libro. Si iniziò a sottolineare l’importanza del logos a partire dal VII secolo a.C. quando, nelle colonie greche dell’Asia Minore, alcuni studiosi diedero vita a una disciplina chiamata filosofia (da philosophía, letteralmente “amore per la sapienza”). Tale campo di studi, che ha il compito di riflettere sul mondo, sull’uomo e sul senso dell’esistenza, si caratterizzò, all’inizio, per una presa di distanza dall’irrazionalità delle narrazioni leggendarie, senza dubbio piene di fascino, ma prive di fondamenti scientifici. Dunque il mito è morto con la nascita della filosofia e lo sviluppo del pensiero razionale? Sebbene le scienze abbiano contribuito e tuttora contribuiscano al progresso della società, il bisogno di dar vita a storie meravigliose in cui “credere” è sempre presente nell’essere umano, così come è vivo il concetto di mito, anche se esso ha assunto sfumature di significato diverse dalla “narrazione, discorso” dell’antichità. Chissà quante volte avrete usato le espressioni “mitico” oppure “sei un mito”, molto frequenti nel linguaggio odierno anche grazie all’influenza della musica e dei mass media. Ai giorni nostri siamo abituati a usare il termine “mito” per indicare un fatto straordinario o per designare personaggi famosi che diventano dei veri e propri simboli nel settore in cui operano. Per esempio, in ambito sportivo, si parla del mito di Lionel Messi, un calciatore che rappresenta per molti ragazzi un modello, un sogno a cui ambire: insomma, qualcosa di paragonabile alle gesta esaltanti delle figure mitologiche tramandate nell’antichità! 135


Cartoni animati, fumetti e manga

Le avventure del re Mida e quelle di Aracne vi suonano familiari? Forse perché, magari quando eravate più piccoli, avete già sentito parlare di questi personaggi, anche se non vi trovavate in un’aula scolastica e non c’era un professore a narrarvi le loro imprese. I miti dell’antica Grecia, infatti, sono molto diffusi nella cultura popolare, soprattutto in quella destinata a bambini e ragazzi, costituita, per esempio, da cartoni animati e comics. È proprio a partire da un manga, cioè da un fumetto giapponese, che, alla fine degli anni Settanta, viene ideata la serie d’animazione C’era una volta… Pollon, decisamente ironica e un po’ irriverente. La protagonista è Pollon, una bambina che vive nell’Olimpo e aspira a diventare una dea. Per riuscirci dovrà compiere una serie di buone azioni, aiutando gli eroi, le divinità e i personaggi dei miti più celebri, che vengono rivisitati in chiave leggera e divertente: così, se l’apprendista dea è una combina-guai piuttosto burlona, suo padre Apollo è un dio fannullone e irresponsabile, mentre Eros, il suo migliore amico, viene presentato come un mostriciattolo brutto e sgraziato, in grado di donare l’amore alle persone, ma incapace di trovarlo per sé. Anche il settimanale “Topolino” ha da sempre mostrato un notevole interesse per le storie dell’antichità ellenica, dando vita a parodie spassose ma allo stesso tempo educative, l’ultima delle quali, pubblicata nel 2013, è intitolata Le dodici fatiche di Pippercole: in questa serie Pippo veste i panni dell’eroe ed è costretto ad affrontare una serie di prove analoghe a quelle di Eracle. 136


Restando in casa Disney, non bisogna dimenticare che la mitologia ha anche ispirato film d’animazione di grande successo: l’esempio più noto è Hercules. Questa pellicola del 1997, tuttavia, non è incentrata sulle fatiche superate dall’eroe, bensì sulla sua vita, le lotte contro i giganti e l’amore per la bella Megara. Non solo il mondo occidentale, ma anche quello giapponese ha rivolto la sua attenzione al patrimonio di storie, personaggi e ideali tramandati dalla mitologia greca: basti pensare alle numerose allusioni alla cultura classica presenti nei raffinati film d’animazione del fumettista e regista Hayao Miyazaki. Le sue opere sono ricchissime di questi riferimenti, che costituiscono un omaggio alla civiltà che stiamo studiando. Un esempio? Nel cartone animato La città incantata (2001), i genitori della protagonista, Chichiro, vengono trasformati in maiali proprio come accade ai compagni di Ulisse, nell’episodio dell’Odissea dedicato alla maga Circe.

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Viaggio in Grecia Leggendo queste storie, avrai notato che sono presenti molti riferimenti geografici: Atene, Creta, il mar Egeo e lo stretto del Bosforo, solo per citarne qualcuno. I protagonisti dei miti, nel compiere le loro imprese, attraversano numerosi luoghi, conquistano città, oltrepassano mari e pericolosi passaggi. Perché, allora, non andare alla scoperta della Grecia e dei posti che vengono nominati in questo libro? Innanzitutto occorre avere qualche informazione sul territorio: la penisola ellenica è caratterizzata da una parte continentale e una serie di isole, grandi e piccole, distribuite tra il mar Ionio e il mar Egeo: in tutto sono quasi mille! Tra gli arcipelaghi di maggiore interesse ricordiamo le Ionie, le Sporadi, le Cicladi, il Dodecanneso e l’isola più ampia: Creta. Dal punto di vista morfologico la Grecia, confinante con l’Albania, la Macedonia, la Bulgaria e la Turchia Calcedonia

Macedonia

Bisanzio

Maronea

mar di Marmara

Anfipoli

Epidamno

Olinto

Epiro

Samotracia

Lampsaco Abido

Tessaglia

mar Egeo

Calcide Eretria Tebe Egio Corinto Megara Atene Nemea Elide Argo Tirinto Locri

Lesbo

Mitilene

Smirne Efeso

Chio

Samo Eralon

Mileto

Nasso

Messene

Alicarnasso

Sparta

Cnido

mar Ionio

Thera

Cnosso

mar Mediterraneo

Ialiso

Lindo Rodi

Cidonia

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Cizico

Larissa

Corcira

Gortina Creta

Itanos


europea, è caratterizzata da un paesaggio brullo e arido, prevalentemente montuoso, con coste disseminate di baie e pochi corsi d’acqua. Il clima è mediterraneo. Il nostro viaggio immaginario può iniziare da Atene, la capitale. Qui è possibile salire sulla collina dell’Acropoli, su cui si erge il grande tempio del Partenone. Vale la pena di visitare anche la città di Delfi, che nell’antichità era sede di un oracolo del dio Apollo, per poi imbarcarsi alla volta di Creta, dove si potranno ammirare i resti dei palazzi reali di Cnosso e Festo. Giusto il tempo per riprendere il traghetto, alla volta di un arcipelago suggestivo e di grande richiamo turistico: quello delle Cicladi. In queste isolette, tra le quali spicca Santorini, le case sono bianche, con le cornici delle finestre colorate di un azzurro intenso, proprio come quello del mare. Siete stanchi di stare in spiaggia e passeggiare tra le strette viuzze delle città di queste isole? Nella parte continentale della Grecia ce n’è per tutti i gusti, anche per chi predilige la montagna: i più intrepidi possono avventurarsi sul monte Athos, un rilievo della penisola occupato da una repubblica monastica. Qui gli eremiti si stabilirono oltre mille anni fa, fondando un importante monastero. Allora, che altro aggiungere? Correte a preparare i bagagli!

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La vita nella polis Se le rappresentazioni teatrali erano così importanti per i cittadini delle antiche poleis, forse ti starai chiedendo com’era la vita all’interno di queste città-Stato, cioè cittadine che costituivano piccoli Stati a sé stanti. Per indicare tali comunità si usava appunto l’espressione polis (al plurale poleis), che aveva due significati: indicava sia la città “materiale”, costituita da case, strade, piazze e mura di difesa, sia l’insieme dei cittadini. La polis era un’organizzazione di uomini liberi, dotata di un proprio governo ed esercito, nonché di leggi per regolare la vita collettiva. Solitamente sorgeva attorno a un’altura, chiamata acropoli, cioè città alta, sulla quale venivano costruiti gli edifici pubblici e religiosi. La vita dei Greci si svolgeva nella parte bassa della città, in particolare nell’agorà, ossia la piazza. Qui aveva luogo il mercato, venivano celebrate le cerimonie sacre, si amministrava la giustizia e si tenevano le riunioni dei cittadini. Poiché l’agorà mano a mano divenne il cuore della vita politica della comunità, fu abbellita con templi e monumenti.

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L'antica agorà di Atene

Gli altri luoghi significativi della polis erano il teatro, all’aperto, scavato sui fianchi di una collina, e il porto, luogo di contrattazioni e affari tra i mercanti, pieno di negozi e magazzini. Nella polis vivevano persone molto diverse tra loro: innanzitutto gli aristocratici, ricchi proprietari terrieri, quindi gli uomini liberi, che potevano essere contadini, artigiani, commercianti e partecipavano attivamente alla vita della città. Non avevano nessun diritto politico, invece, i meteci, cioè gli stranieri, ma anche gli schiavi catturati in guerra e le donne: a questi gruppi sociali era negato l’accesso alle cariche pubbliche e la partecipazione alle assemblee. Il teatro di Erode Attico ad Atene

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Il mito nell'arte

Pensa alla struggente storia d’amore tra Eros e Psiche: essa ha toccato la sensibilità di numerosi artisti, per esempio pittori e scultori, che in passato hanno dato vita a capolavori indiscussi ispirandosi a questa vicenda e ad altri celebri miti antichi. Prendiamo per esempio il gruppo scultoreo “Amore e Psiche”, realizzato da Antonio Canova tra il 1788 e il 1793, esposto al museo del Louvre a Parigi. L’opera, che rappresenta i due amanti intenti a scambiarsi uno sguardo intenso, prima di un bacio, è considerata l’emblema del Neoclassicismo, movimento artistico che esalta la ricerca del bello ideale e dell’equilibrio, attraverso l’imitazione della perfezione attribuita all’antichità greco-latina. 142


Ma Canova non è stato l’unico a essere affascinato dal mondo classico: qualche secolo prima di lui, più precisamente tra il 1622 e il 1625, Gian Lorenzo Bernini realizzò la scultura “Apollo e Daphne”, che si trova nella Galleria Borghese a Roma. L’artista rappresenta, con eccezionale maestria, il momento in cui la ninfa viene trasformata in una pianta, mentre è rincorsa dal dio, che la fissa incredulo. Le sfumature nelle espressioni dei volti, la resa del movimento e la presenza di molti particolari verosimili come la carne che si trasforma in legno o le dita che prendono la forma di sottilissime foglie, rendono quest’opera una delle più rappresentative del Barocco, una corrente artistica sviluppata nel Seicento, legata all’estrosità e alla fantasia. “Amore e Psiche” di Canova e “Apollo e Daphne” di Bernini sono due opere famosissime ma, studiando la storia dell’arte oppure recandoti nel museo della tua città, scoprirai che esistono numerosissime rappresentazioni mitologiche nella pittura e nella scultura, poiché le arti figurative, a partire soprattutto dal Rinascimento, hanno attinto al vasto patrimonio narrativo della classicità, per donarci delle opere che sono divenute immortali e ancora oggi non ci stanchiamo di ammirare. 143


I GRANDI CLASSICI G. Boccaccio Decameron Amori, duelli, magie. L’epica medievale a cura di A. Cristofori M. Shelley Frankenstein B. Stoker Dracula A. Mazzaferro La storia di Odisseo F. H. Burnett Il giardino segreto M. Maggi Enea D. Alighieri La Divina Commedia A. Manzoni I Promessi Sposi M. de Cervantes Don Chisciotte W. Shakespeare Tragedie e commedie E. Salgari Sandokan J. London Il richiamo della foresta J. Verne Ventimila leghe sotto i mari M. Twain Le avventure di Tom Sawyer A. de Saint-Exupéry Il piccolo principe L. Pirandello Novelle scelte L’ira di Achille a cura di M. Maggi R.L. Stevenson L’isola del tesoro Vamba Il giornalino di Gian Burrasca G. Verga I Malavoglia L. Ariosto Orlando furioso F. Sarcuno Mitica Grecia RACCONTI D’AUTORE E.A. Poe Racconti di paura C. Dickens Canto di Natale R.L. Stevenson Dottor Jekyll e mister Hyde G. Verga Rosso Malpelo J.K. Jerome Storie di fantasmi per il dopocena O. Wilde Il fantasma di Canterville A.C. Doyle Le avventure di Sherlock Holmes La rosa rossa a cura di M. Giuliani Mistero e paura a cura di M.C. Sampaolesi

ORA E POI G. Di Vita Onde - Uomini in viaggio G. Di Vita Alya e Dirar G. Di Vita Il Muro M. Maggi Quando si aprirono le porte M. Maggi E il vento si fermò ad Auschwitz E. Colonnesi – S. Galligani Storia di Zhang E. Colonnesi – S. Galligani Viaggio a Kabul C. Scarpelli Il bullo innamorato F. Sarcuno Il diario di Edo R. Melchiorre Madiba M. Papeschi Sulle tracce della Grande Guerra A. di Prisco Il poeta favoloso M. Strianese Il domatore di libri M. Giannattasio Trappola nella rete NON SOLO LETTERE M. Carpineti Un occhio nello spazio A. Cristofori Viva Verdi P. Ercolini Il valzer del bosco M. Papeschi – S. Azzolari 1848 L. Corvatta Una missione speciale A. Sòcrati L’uovo cosmico ATTUALMENTE S. Lisi – C. Piccinini – F. Senigagliesi Sguardo sul mondo. Problematiche di attualità e spunti di riflessione R. Melchiorre Storie di oggi. L’attualità raccontata ai ragazzi


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