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fontivisive Il teatro e i costumi di scena
Dialogo con i MODELLI
Epigrammi sepolcrali per un animaletto: Anite, Archia e Meleagro
Nell’Antologia Palatina, la monumentale raccolta che conserva la quasi totalità dei testi epigrammatici greci giunti fino a noi, nella sezione degli epigrammi sepolcrali (libro VII) si trovano oltre venti composizioni dedicate alla morte di animali. Iniziatrice riconosciuta della lunga e fortunata tradizione è la poetessa Anite di Tegea (IV-III secolo a.C.), che canta in versi delicati e malinconici il dolore della piccola Miro per la morte di un grillo e di una cicala, suoi compagni di giochi [a]. Sono già presenti qui non pochi motivi che ritroviamo nel carme di Catullo (l’animaletto come caro trastullo, le lacrime, la crudeltà di Ade, la violenza e l’amarezza del distacco), insieme a un’acuta sensibilità che in una certa misura avvicina Anite alla partecipazione emotiva del poeta latino. Numerose e variate le riprese fra III e I secolo a.C.: Simia di Rodi scrive l’epitafio per una pernice, Mnasalca per una locusta, Antipatro di Sidone per una formica, Timne per un cane, Archia di Antiochia per un delfino [b] e per una cicala. Gradatamente il motivo perde di spontaneità, degenerando in maniera, gioco smaliziato, parodia, come è evidente nell’epigramma sepolcrale di Meleagro per un leprotto [c], dove prevale la ricerca di contrasti inattesi e immagini curiose (vv. 5-6). La tradizione, sull’esempio di Catullo, trova illustri continuatori anche in Roma: ricordiamo Ovidio, che negli Amores (II, 6) piange la morte del pappagallo di Corinna, e Stazio (I secolo d.C.), che nell’epicedio di un altro pappagallo dilata e sovraccarica manieristicamente gli spunti offerti dai modelli (Silvae III, 4). [a] A un grillo, usignolo dei campi, e a una cicala, ospite delle querce, piangendo molte lacrime infantili, una tomba comune fece Miro.
Ade crudele le strappò di colpo i suoi amati trastulli.
(Antologia Palatina VII, 190; trad. di S. Quasimodo)
[b] Non più, delfino, solcando gli abissi risonanti del mare, spaventerai branchi di animali aquatici; né, danzando al suono di un flauto dai molti fori, emergerai con un balzo sul mare presso le carene delle navi; né tra la schiuma, sollevando sul tuo dorso le Nereidi come un tempo, le traghetterai fino alle estremità della terra di Teti. Un’onda infatti, alta come il promontorio di Malea, si sollevò, e ti scaraventò su arenili sabbiosi.
(Antologia Palatina VII, 214; trad. di F. Beschi)
[c] Me, l’orecchiuto leprotto veloce, rapito piccino alle mammelle della madre, Fanio dolce di carni nutriva con tenero affetto nel grembo, di tutti i fiori della primavera.
Né nostalgia della madre sentivo. Crepai di vivande senza fine, ingrassandomi di cibo.
Lei seppellì la mia spoglia vicino al letto: nei sogni vuole vedersi la mia tomba accanto.
(Antologia Palatina VII, 207; trad. di F. M. Pontani)