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Un dibattito storiografico

T 9

carme 8

LATINO

L’amore-tormento

In un drammatico monologo interiore Catullo esorta se stesso a prendere atto con fermezza e rassegnazione dell’abbandono di Lesbia (iam illa non volt, v. 9). Il carme presenta una struttura bipartita: la prima sezione (vv. 1-11) assume la forma di un tormentoso e contraddittorio monologo interiore, nel quale il poeta si rivolge a se stesso esortandosi alla fermezza e nondimeno rievocando con struggente rimpianto i giorni felici; nella seconda (vv. 12-18) il discorso poetico si converte improvvisamente in un’apostrofe alla puella, che ha inizio con un secco Vale, almeno in apparenza un addio definitivo, per continuare con una serie di ambigue interrogative attraversate da un’inquietudine angosciosa. Nell’ultimo verso il poeta ritorna circolarmente alla modalità del colloquio con se stesso, incitandosi nuovamente a persistere nel proposito iniziale (At tu, Catulle, destinatus obdura). L’apparenza di spontaneità e immediatezza quasi miracolosa del carme non deve far dimenticare i precedenti letterari su cui Catullo modella l’espressione del suo dissidio interiore, in particolare i grandi monologhi tragici (celeberrimi quelli della protagonista nella Medea di Euripide) in cui il personaggio esorta se stesso con argomentazioni razionali a dominare dentro di sé le forze sconvolgenti della passione.

Nota metrica:

trimetri giambici scazonti o coliambi. Miser Catulle, desinas ineptire, et quod vides perisse perditum ducas. Fulsere quondam candidi tibi soles, cum ventitabas quo puella ducebat

1-2 Infelice Catullo, smetti di vaneggiare, e quel che vedi perduto, stimalo [veramente] perduto.

Miser: attributo del vocativo Catulle, è un aggettivo che ricorre con notevole frequenza nel Liber catulliano [Nomi

e parole degli antichi]. – desinas: congiuntivo esortativo, come ducas (v. 2); regge l’infinito ineptire, dall’aggettivo ineptus (in + aptus), che indica, secondo la definizione data da Cicerone nel De oratore, il comportamento sconveniente e inopportuno di «colui che non capisce ciò che le circostanze richiedono» (qui... tempus quid postulet non videt; II, 17). – quod... perisse: relativa prolettica rispetto alla reggente perditum ducas; quod è pronome relativo neutro, oggetto di vides, che regge l’infinito perfetto perisse, da pereo. – perditum: participio perfetto da perdo, dipende da ducas ed ha valore predicativo rispetto a quod. Il verso, con l’accostamento allitterante in funzione rafforzativa (perisse perditum) dei due verbi di significato affine, riprende quasi alla lettera un’espressione colloquiale e proverbiale, attestata in Plauto, Trinummus 1026: quin tu quod periit perisse ducis? («perché tu quel che è perduto non lo consideri perduto?»), dove duco è impiegato quale verbo estimativo.

MISER Tra le numerose sfumature di significato che l’aggettivo miser, a, um può assumere nella lingua latina, predominano quelle di «infelice», «sofferente», «sventurato». Ricorre diffusamente nella poesia di Catullo (qui, nel carme 8, ben due volte; in 51, 5 [T19]; in 76, 12 [T24]), anche nella forma del

Nomi e parole degli antichi

diminutivo misellus (3, 16 [T5]). Nell’ambito delle relazioni amorose, il vocabolo esprime non soltanto il tormento dell’amante tradito e/o non corrisposto, ma anche, più in generale, la condizione di chi è travagliato dalla passione d’amore, in cui sempre si mescolano gioia e sofferenza, e che non di rado viene assimilata a un morbus (una «malattia»: così ancora in Catullo, 76, 25 [T24]). Termine specifico, per così dire tecnico, della poesia erotica neoterica e poi dell’elegia, include anche una più o meno accentuata componente di insania («follia»); in questa accezione lo si trova già in Terenzio (Eunuchus, 71) e in Lucrezio (De rerum natura IV, 1068).

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