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3 I personaggi

Dialogo con i MODELLI

Il carme 101 di Catullo: sviluppi originali nella poesia italiana moderna e contemporanea

È universalmente noto che Ugo Foscolo si ispirò al carme 101 del Liber catulliano nella composizione di uno dei suoi splendidi sonetti, In morte del fratello Giovanni (1802). Forse meno conosciuta l’intensa lirica in verso libero Atque in perpetuum, frater (1978), che fin dal titolo rende apertamente omaggio a Catullo, del poeta contemporaneo Giorgio Caproni (1912-1990), inclusa nella raccolta Il franco cacciatore (1982).

Ugo Foscolo, In morte del fratello Giovanni

Un dì, s’io non andrò sempre fuggendo di gente in gente, me vedrai seduto su la tua pietra, o fratel mio, gemendo il fior de’ tuoi gentili anni caduto.

La madre or sol suo dì tardo traendo, parla di me col tuo cenere muto: ma io deluse a voi le palme tendo; e se da lunge i miei tetti saluto,

sento gli avversi Numi, e le secrete cure che al viver tuo furon tempesta, e prego anch’io nel tuo porto quiete.

Questo di tanta speme oggi mi resta! Straniere genti, le ossa mie rendete allora al petto della madre mesta.

Giorgio Caproni, Atque in perpetuum, frater

Quanto inverno, quanta neve ho attraversato, Piero, per venirti a trovare.

Cosa mi ha accolto?

Il gelo della tua morte, e tutta tutta quella neve bianca di febbraio – il nero della tua fossa.

Ho anch’io detto le mie preghiere di rito.

Ma solo, Piero, per dirti addio e addio per sempre, io che in te avevo il solo e vero amico, fratello mio.

T 30

carme 109

LATINO ITALIANO

LETTURA ESPRESSIVA IN LINGUA ITALIANA

Nota metrica: distici elegiaci.

Il foedus amoroso

Nei carmi per Lesbia l’amore è ora felicità da afferrare e godere nel presente, ora (e più sovente) ricordo nostalgico del passato; in questa lirica si configura invece come progetto e speranza per il futuro. Lesbia (forse all’indomani di una riconciliazione) promette a Catullo un amore «eterno e felice». Il poeta esita, sospeso fra l’ardente desiderio di poterle credere e il timore del disinganno. Allora, con uno scatto improvviso che ritroviamo in 76, 17 [T24], si volge agli dèi con una fervida preghiera, chiedendo che la donna tanto amata abbia promesso con animo veramente sincero, così che il sacro patto d’amore (sanctae foedus amicitiae) che egli auspica possa durare davvero tutta la vita. La breve lirica rappresenta l’ideale antefatto del carme 72 [T23]: mentre qui, nonostante i dubbi e le incertezze, risuona una nota di accesa, entusiastica speranza, là è subentrata la più amara disillusione. Ma la disillusione (con la drammatica scissione fra amare e bene velle), a ben guardare è prevista e annunciata già in questa lirica, nella distanza incolmabile che si apre fra il primo e l’ultimo verso, fra l’amore che Lesbia promette, gioioso e sensuale (iucundus amor), e il legame appassionatamente serio e profondo (sancta amicitia) che Catullo vorrebbe stringere con lei.

Iucundum, mea vita, mihi proponis amorem hunc nostrum inter nos perpetuumque fore.

Di magni, facite ut vere promittere possit, atque id sincere dicat et ex animo, 5 ut liceat nobis tota perducere vita aeternum hoc sanctae foedus amicitiae.

Mi prometti, mia vita, che questo nostro amore sarà eterno e felice. O grandi dèi, fate che sia vero ciò che promette e che lo dica dal profondo del cuore; 5 potremo così mantenere per tutta la vita questo sacro giuramento d’amore senza fine.

(trad. di S. Quasimodo)

1. proponis: del collegamento con il carme 72 [T23] sono spia anche i tempi verbali, in questa lirica il presente, nell’altra il passato, con un contrasto vistoso e voluto soprattutto per quanto riguarda le affermazioni di Lesbia (dicat/ Dicebas). 2. nostrum inter nos: ripetizione pleonastica del medesimo concetto; analogamente vere... atque sincere... et ex animo (vv. 3-4); tota vita... aeternum (vv. 5-6). L’intensità dell’emozione che Catullo prova nell’esprimere il suo voto si avverte nell’accumulo enfatico delle ripetizioni e dei pleonasmi, proprio del linguaggio colloquiale e ricorrente nei comici.

Nomi e parole degli antichi

SANCTUS Sanctus, participio perfetto del verbo sancire, termine tecnico del linguaggio giuridico-sacrale romano (nelle locuzioni sancire ius, legem, foedus ecc.), significa originariamente «sancito», «fissato, stabilito in forma solenne», quindi «inviolabile», «sacro».

AMICITIA Occorre ricordare che in Roma il legame dell’amicitia, fondato sulla benevolentia e la reciproca stima, coinvolge totalmente la persona, indica comunanza di ideali e comporta precisi impegni morali e sociali, estendendosi alla sfera politica, dato che il termine include il significato di «alleanza» fra individui, famiglie e anche Stati; può dunque arrivare ad assumere anche un valore giuridico.

Leggere un TESTO CRITICO

La donna e l’amore in Roma

Paolo Fedeli analizza la straordinaria novità della poesia d’amore catulliana rispetto alla tradizione letteraria in prospettiva storico-antropologica, mettendola in relazione con i progressivi mutamenti della mentalità e del costume sociale romano.

Il poeta d’amore dà vita a un nuovo modello di comportamento nell’intento di realizzare un rapporto di coppia di tipo nuovo, che non è quello destinato a concretizzarsi nel matrimonio, né la fugace passione per donne di poco conto [...]. Il canto d’amore presuppone la creazione di un rapporto affettivo, reale o fittizio che esso sia, di natura etero o omosessuale: nella tradizione latina l’amore oggetto di canto è – con Catullo e gli elegiaci – prevalentemente quello eterosessuale [...]. Si capisce, allora, che è il ruolo stesso della donna nella società umana a far sì che essa non costituisca inizialmente un facile oggetto di canto: perché se la donna romana gode di più ampie libertà di quella greca e può partecipare alle varie manifestazioni della vita sociale, perdura comunque il cliché della madre e sposa esemplare, sottomessa al marito e a lui legata anche al di là della morte, ferocemente punita in caso di adulterio, raramente dotata di cultura. In campo letterario la tradizione romana conosceva gli amori della palliata; ma non a caso nella commedia si era sempre posti di fronte alla passione per le cortigiane, con un finale obbligato: il matrimonio era possibile solo se la cortigiana, grazie a un prodigioso riconoscimento, si ritrovava di nascita libera; non c’era alcuna alternativa, quindi, fra amori futili e passeggeri e serio legame matrimoniale. A quali limitazioni debba sottostare l’amore della palliata è detto, d’altronde, a chiare note nei vv. 37-38 del Curculio plautino: dum te abstineas nupta, vidua, virgine,/ iuventute et pueris liberis, ama quidlibet [«purché ti tenga lontano da donne maritate, vedove, vergini, giovani e fanciulli di nascita libera, ama chi ti pare e piace»]. Nella svolta che nel corso del I sec. a.C. si operò a partire da Catullo, agì indubbiamente una componente di natura letteraria (il maggiore influsso del Callimaco degli epigrammi erotici e di altri più recenti rappresentanti ellenistici dell’epigramma d’amore). Ma un fenomeno che diverrà d’ampia portata non può essere stato solo di natura letteraria. Il canto della donna e dell’amore deve aver trovato un terreno fertile in un progressivo mutamento della mentalità: la riflessione sullo stato, sul ruolo dell’individuo nella società, sul senso della vita avrà predisposto gli animi più sensibili a un atteggiamento, nei confronti della donna stessa, di maggior comprensione, in contrasto magari con la realtà giuridica. È vero, però, che la donna romana anonima non sarà stata troppo diversa dai mitici esempi di una Lucrezia o di una Cornelia: ne abbiamo la prova nelle iscrizioni funerarie, in cui della donna si elogiano le doti tradizionali di pietas pudicitia castitas, oltreché la sua perizia nel filare la lana. Ciò significa che, nonostante le eccezioni e le aperture, l’antico modello continuava tenacemente a resistere nella mentalità comune; ma quello di Catullo e degli elegiaci sarà il modello vincente, se giudichiamo il modo di concepire l’amore e i rapporti con la donna dai suoi esiti, sino ai giorni nostri.

(P. Fedeli, La poesia d’amore, in Lo spazio letterario di Roma antica I, Salerno editore, Roma 1989, pp. 145-146)

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