La nuova cucina professionale

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PLAN.Cop.Alma. Cucina professionale:Layout 1

20-03-2012

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INDICE DEGLI ARGOMENTI

Macroarea B • Gli aspetti organizzativi In questa parte del testo si analizzano le caratteristiche del mercato ristorativo nella sua attuale classificazione e nei mutamenti che interessano il consumatore. Un tema correlato e che rappresenta la carta d’identità del professionista è il menu nelle sue varie forme, significati e regole per una appropriata compilazione. Il tema delle risorse umane e della loro gestione, di un’efficiente organizzazione del lavoro costituisce un fondamentale focus di approfondimento. L’aspetto del controllo dei costi (food cost) è analizzato con numerosi esempi, e significativamente ampliato sul web con la proposta di fogli di calcolo finalizzati all’esercitazione didattica e all’applicazione. Rientra in questo ambito anche l’analisi delle nuove forme di ristorazione, in particolare il catering e il banqueting. Macroarea C • Le tecniche di preparazione degli alimenti Questa parte del testo affronta, alcuni dei nuclei fondanti della cucina: le tecniche di preparazione degli alimenti pesci e carni, le tecniche di cottura, gli impasti fondamentali in pasticceria. La trattazione è completata con una corposa parte, disponibile sul web, relativa alle principali materie prime della cucina italiana Macroarea D • La cucina, le cucine Si affronta in modo puntuale ed esaustivo tutta la cucina regionale italiana, dedicando uno spazio significativo di approfondimento alle materie prime dei territori, ai piatti tipici delle varie realtà in cui si articola l’Italia, presentando per ciascuna regione una ricetta d’autore ideata di volta in volta da uno chef di Alma, che reinterpreta la tradizione secondo i canoni della odierna cucina professionale. Una panoramica molto ampia è poi riservata alla cucina internazionale, presentata attraverso alcune delle esperienze maturate nelle più prestigiose Scuole di Cucina partner di Alma. Un glossario professionale particolarmente utile al futuro professionista conclude la trattazione.

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Questo volume, sprovvisto del talloncino qui a lato, è da considerarsi SAGGIO-CAMPIONE GRATUITO, fuori commercio (vendita e altri atti di disposizione vietati: art. 17, c. 2 L. 633/1941). Esente da I.V.A. (D.P.R. 26-10-1972, n. 633, art. 2, lett. d). Esente da bolla di accompagnamento (D.P.R. 6-10-1978, N. 627, ART. 4, N.6).

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La messa in commercio di questo volume senza il talloncino triangolare è passibile di denuncia per evasione fiscale.

Materiali aggiornati, elaborati e sperimentati da Cuochi, Pasticcieri, Sommelier di fama internazionale per formare le nuove generazioni di professionisti della ristorazione La nuova cucina professionale è organizzata in macroaree che affrontano i seguenti temi: cucina e salute, con particolare attenzione sia ai temi della sicurezza alimentare, sia a quelli della dieta e delle combinazioni alimentari, gli aspetti organizzativi della ristorazione, dagli stili alimentari, al menu, all’organizzazione del personale di cucina, ai costi, al catering, banqueting e buffet, le tecniche di preparazione degli alimenti, la cucina regionale italiana e la cucina internazionale Il testo rispecchia le indicazioni ministeriali e i nuovi orientamenti della formazione, che al posto del concetto obsoleto di addestramento sviluppano un itinerario di studio finalizzato al conseguimento di competenze. La nuova cucina professionale si caratterizza nell’approccio didattico in quanto costruisce gradualmente competenze che restano.

Didatticamente molto utile è il ruolo svolto dall’iconografia, con immagini di grande visibilità e chiarezza, realizzate nelle aule attrezzate di Alma per essere funzionali al testo. Il metodo di lavoro proposto è unico e innovativo: insegnare attraverso l’esempio, mostrando “come si fa” e spiegando “perché si fa”. Le estensioni web del volume comprendono fra l’altro: i principali testi legislativi di riferimento, un focus sull’uso del sale, degli zuccheri e dei grassi in cucina; il mercato del fuori casa, i fogli di calcolo per la gestione e il controllo del food cost, e le materie prime. Uno strumento di straordinaria efficacia è inoltre costituito dalle video lezioni. Un servizio personalizzato di tutorship curato dai Docenti di Alma permette di ottenere aggiornamenti costanti sulle tematiche trattate nel volume. www.edizioniplan.it

Il volume è disponibile, sempre in forma mista, in confezione indivisibile con il Dizionario di enogastronomia in cinque lingue (ISBN 978 88 88 719 450) e anche in versione interamente scaricabile da internet (ISBN 978 88 88 719 542)

Euro 23,00

e attuali conoscenze in ambito professionale, le richieste del mercato del lavoro, le metodologie attraverso cui si ottengono oggi le informazioni sollecitano anche alla scuola importanti cambiamenti. Due sono gli aspetti che connotano questo processo: una maggiore attenzione alla dimensione tecnico-professionale e quindi un collegamento più stretto con il mondo del lavoro; il passaggio da un concetto di addestramento ad un concetto di competenze. Solo dall’insieme di una serie di competenze tecniche, culturali, relazionali, organizzative le nuove figure professionali saranno infatti in grado di rapportarsi a contesti operativi dinamici, molto diversi dal passato. Ed è anche per questa ragione che proposte didattiche che nascono anche da un contatto diretto e quotidiano con una realtà in continua evoluzione rappresentano una garanzia per costruire un professionalità al passo con i tempi. I volumi di questa collana sono in sintonia con un approccio per competenze. Nel volume cartaceo si trovano le basi degli insegnamenti, presentate appunto per competenze; nei materiali disponibili in rete sono proposti molteplici approfondimenti, dove le sequenze di lavoro descritte nel testo vengono “fatte vedere” anche attraverso video lezioni appositamente preparate nelle aule attrezzate di Alma per rendere più efficace l’apprendimento (le tecniche di cottura degli alimenti, le preparazioni di base in pasticceria, come si preparano le carni o i pesci): un vero e proprio laboratorio virtuale per integrare il percorso di studio. Il metodo proposto è unico e innovativo: insegnare attraverso l’esempio, mostrando “come si fa” e spiegando “perché si fa”.

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Per i Professionisti di domani

La nuova cucina professionale

Macroarea A • Cucina e salute In questa parte del testo vengono esaminate le relazioni che intercorrono fra cucina, alimentazione e salute: dagli aspetti energetici ai fattori che condizionano la digeribilità degli alimenti, alle allergie e intolleranze alimentari, alla dieta e alle combinazioni più opportune per realizzare una cucina del benessere. Una parte specifica è poi dedicata al sistema HACCP, alle azioni da compiere per il mantenimento dell’igiene, ai rischi microbiologici e ai fattori che influenzano la crescita dei microrganismi, alle modalità di conservazione degli alimenti con i diversi metodi, fisici e chimici che possono essere utilizzati e alla tematica della filiera alimentare.

I libri Alma – Plan

La nuova cucina professionale Libro misto, con videolezioni e integrazioni on line (L. 133/2008). Disponibile anche in versione scaricabile.

La nuova cucina professionale nasce dall’esperienza dei docenti Alma, ciascuno dei quali si è dedicato ai vari ambiti descritti nel libro per portare all’interno di ogni argomento informazioni rigorose e aggiornate. Il volume rispecchia quindi un nuovo modo di fare formazione, che prevede da un lato una forte interdisciplinarità tra le materie e dall’altro un apprendimento basato sulla didattica laboratoriale, per sollecitare nell’allievo lo sviluppo del pensiero critico grazie alle esperienze significative che nascono dalle relazioni che si instaurano durante il lavoro. La GUIDA ON LINE che correda il volume si configura come un elemento di innovazione rispetto ai supporti cartacei che, solitamente, sono abbinati ai manuali scolastici. Si tratta infatti di una vera e propria Guida Personalizzata in cui vengono messi a disposizione materiali utili per il lavoro quotidiano in classe: dalla programmazione didattica, agli spunti per lo svolgimento delle lezioni, ai suggerimenti per l’utilizzo delle video lezioni collegate al testo, test e mappe concettuali e spunti per una efficace programmazione didattica coerente con le richieste delle Linee-Guida ministeriali.

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BIOLOGIA 2 LA DELL’ALIMENTAZIONE

UN APPARATO PER DIGERIRE GLI ALIMENTI L’uomo dispone di un apparato digerente, che trasforma gli alimenti assunti durante il pasto e i loro macronutrienti complessi, cioè i carboidrati, i lipidi e le proteine, in nutrienti semplici, ossia in monosaccaridi, acidi grassi e aminoacidi, che saranno poi assorbiti nell’intestino tenue. L’organismo umano, inoltre, è in grado di sterilizzare il cibo che ingerisce, oltre che mediante i succhi digestivi, anche con la pulizia preliminare e la cottura, riducendo così l’ingresso di microrganismi esterni. Dopo aver permesso la digestione e l’assorbimento dei cibi, l’apparato provvede a eliminare gli alimenti non digeriti, mediante le feci, garantendo nel contempo la protezione nei confronti di sostanze potenzialmente tossiche.

Dalla bocca allo stomaco: la prima digestione La prima fase della digestione avviene nella bocca, dove i denti effettuano lo sminuzzamento del cibo. Nel cavo orale viene liberata poi la saliva, un succo digestivo secreto da ghiandole salivari, in quantità di 1.000-1.500 ml A • 16

ogni giorno, e ricco di un enzima glicolitico, la ptialina, e di mucina, una glicoproteina che lubrifica il cibo, facilitandone lo scorrimento lungo il resto del tubo digerente. Dopo il passaggio attraverso il canale del faringe, mediante movimenti peristaltici della sua parete, il cibo prosegue nell’esofago, un tubo muscolare di 2022 cm, che termina con uno sfintere, il cardias, dal quale il bolo alimentare passa nello stomaco, una dilatazione del tubo digerente a forma di sacca, che termina con un secondo sfintere, il piloro. Il succo gastrico, prodotto dalle cellule di rivestimento dello stomaco, contiene: • alcuni enzimi, come la pepsina, dall’azione proteolitica, la rennina o chimosina, che coagula il latte, e la lipasi gastrica, con una debole azione lipolitica; • l’acido cloridrico, dall’attività battericida e capace di consentire l’assorbimento del calcio e del ferro, oltre ad attivare il pepsinogeno in pepsina; • la mucina, che protegge lo stomaco dall’autodigestione; • il fattore intrinseco, una mucoproteina essenziale per assorbire la vitamina B12. Lo stomaco sminuzza le particelle solide del bolo mediante un’attività motoria coordinata fino alla loro

completa sospensione con la fase liquida. È importante ricordare che i grassi alimentari, ingeriti in forma liquida o solida, lasciano lo stomaco molto lentamente, in un arco di tempo che va dalle tre fino alle sei ore. apertura del cardias

esofago

pieghe gastriche canale gastrico apertura del piloro coppa duodenale sfintere pilorico intestino tenue

Dallo stomaco al termine dell’intestino: digestione e assorbimento Il cibo, che ha subito la fase di digestione nello stomaco, passa ora nell’intestino tenue, dove agiscono altri succhi digestivi: • il succo pancreatico, secreto nel duodeno dalla porzione esocrina del pancreas, che contiene enzimi proteolitici (tripsina e chimotripsina), lipolitici (lipasi pancreatica) e glicolitici (amilasi pancreatica); • la bile, proveniente dalla colecisti e riversata in modo intermittente nel duodeno, in relazione all’arrivo del


materiale gastrico acido; i sali biliari che contiene agiscono sui grassi, emulsionandoli e permettendo, in tal modo, l’intervento della lipasi; • il succo enterico, che è ricco di enzimi e di muco. Il materiale ormai digerito raggiunge, quindi, la parte dell’intestino tenue nella quale la superficie interna è caratterizzata da sporgenze digitiformi, i villi intestinali, dove avviene l’assorbimento dei nutrienti semplici, che saranno poi, in vario modo, riversati nel sangue. L’ultimo tratto del tubo digerente, l’intestino crasso (consistente nel cieco, nel colon e nel retto), pur non producendo enzimi, svolge un’importante funzione per garantire la salute dell’organismo per mezzo della flora batterica saprofita e provvede, inoltre, all’assorbimento dei nutrienti non energetici (acqua, vitamine, minerali e così via). In questo tratto di intestino si formano, infine, le feci. esofago

fegato cistifellea

stomaco

duodeno

pancreas

colon

intestino tenue

cieco

appendice

retto

ano

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La digestione dei glucidi Per la sua importanza, in particolare sotto l’aspetto energetico, riteniamo utile prendere in considerazione la digestione dei glucidi, che dipende da due tipi di fattori: • intrinseci, che consistono nella presenza di una parete cellulare rigida (come nei legumi), di una struttura granulare (cereali) o di una preparazione di tipo industriale (spaghetti); • estrinseci, rappresentati dalla masticazione, dal tempo di transito del cibo, dalla concentrazione dell’amilasi, come pure dalla quantità di amido e dalla contemporanea presenza di altri cibi. È possibile riconoscere vari tipi di amido: • rapidamente digeribile (pane, patate e cornflakes); • lentamente digeribile (spaghetti e legumi); • resistente (legumi e patate raffreddate).

La maggior parte dei polisaccaridi non disponibili o non digeribili, comprendenti cellulosa, emicellulosa, pectine, gomme (gomma arabica), mucillagini (ispagula) e così via, non viene invece digerita nella prima parte dell’intestino, ma è attaccata nel colon dalla flora anaerobica, fermentando e producendo acidi grassi a catena corta. La prima digestione dei glucidi inizia nella bocca, durante la masticazione e con l’azione della alfa-amilasi salivare (ptialina). La digestione per via enzimatica che avviene lungo l’apparato digerente è necessaria per l’assorbimento e per la successiva utilizzazione dei monosaccaridi, in gran parte glucosio, proveniente da amido e saccarosio, che raggiunge poi i vari organi tramite il circolo sanguigno. Il glucosio può essere ossidato fino a formare acqua e CO2, oppure può essere convertito in glicogeno a livello epatico e muscolare a scopo di deposito energetico oppure utilizzato per la sintesi degli acidi grassi (lipogenesi), sotto lo stimolo dell’insulina, ormone secreto dalle beta-cellule del pancreas endocrino.

I FATTORI CHE CONDIZIONANO LA DIGERIBILITÀ DEGLI ALIMENTI La digeribilità di un alimento è condizionata da vari fattori, fra i quali le caratteristiche fisico-chimiche e organolettiche del cibo stesso, nonché la sua presentazione, la genuinità delle materie prime, l’associazione con altri cibi o condimenti, il tipo e i tempi di cottura. In ogni caso, i glucidi hanno tempi di digestione più veloci rispetto alle proteine ma, soprattutto, ai lipidi. Inoltre, l’acqua, come pure alcune soluzioni semiliquide, purché non troppo acide, alcaline o concentrate, passano rapidamente attraverso lo stomaco e, quindi, non possono determinare problemi digestivi. La digeribilità di alcuni tipi di carne, invece, dipende dal periodo di conservazione (frollatura) prima del loro utilizzo. Infatti, mentre le carni bianche possono essere consumate rapidamente, poiché hanno fibre muscolari fini, le carni rosse e, soprattutto, le carni nere (selvaggina) necessitano di un periodo di attesa maggiore, in rapporto inversamente proporzionale alla temperatura ambientale alla quale sono conservate.

La cottura Lo scopo della cottura è quello di rendere i cibi adatti al consumo mediante trattamento termico, svolgendo, inoltre, un’azione battericida e modificando le caratteristiche organolettiche (colore e consistenza) degli alimenti, con modificazioni più o meno elevate del loro valore nutritivo. Per esempio, le perdite vitaminiche sono maggiori quando si cuoce l’alimento in acqua abbondante a temperatura elevata e, in particolare, quando la durata della cottura è A • 18


prolungata. Un altro aspetto della cottura è collegato alla formazione di sostanze potenzialmente cancerogene, come le ammine eterocicliche (HA), favorita da fattori quali il tipo di alimento, il metodo di cottura, i tempi e, soprattutto, la temperatura. Tra i vari metodi di cottura, la frittura e la cottura alla griglia avvengono a temperature più alte, provocando facilmente la formazione di ammine eterocicliche (da 200 a 250 °C il loro contenuto triplica). Nel forno la probabilità è minore, anche se il liquido di cottura può contenere queste sostanze in quantità apprezzabili, mentre nel caso di carni in umido o bollite, la temperatura non supera i 100 °C e, quindi, il rischio è insignificante. Un accorgimento, a questo proposito, potrebbe essere quello di precuocere le carni al microonde, prima di friggerle o grigliarle, in modo tale da ridurre i tempi e non usare il fondo di cottura. Una cottura a calore umido e per tempi prolungati (bagnomaria, stufato, stracotto, brasato) mantiene la carne più morbida e digeribile, mentre una cottura rapida, a calore secco e a temperature elevate (griglia, arrosti, forno, spiedo e, soprattutto, frittura) rende le carni più dure e meno digeribili, in quanto, così facendo, si rompono le membrane delle fibrocellule muscolari, con fuoriuscita del liquido intracellulare. Ne deriva una prevalenza dei contenuti fibrosi e connettivali della carne, più difficili da digerire. La digeribilità della carne, infatti, dipende anche dalla quantità di connettivo presente: per esempio, l’agnello e il maiale, poveri di connettivo, sono in genere più digeribili, indipendentemente dal tipo di cottura; il connettivo bianco del vitello si ammorbidisce e si trasforma in gelatina, mentre quello giallo del bovino adulto rimane duro, risultando, quindi, meno digeribile.

I vari metodi di cottura • Ogni metodo di cottura si presta a cucinare diversi tipi di alimenti, con vantaggi e rischi per la salute, che l’operatore di cucina deve saper valutare attentamente.

• Le cotture alla griglia o allo spiedo, che avvengono a temperature elevate, si addicono a pezzi piccoli, per evitare di bruciarne la superficie, formando anche sostanze tossiche o cancerogene. Particolarmente pericolosa sembra essere la cottura sulla fiamma viva della legna. Un effetto protettivo può essere ottenuto ungendo l’alimento con una marinata a base di olio, prezzemolo e rosmarino. Una rapida rosolatura senza bruciature, come nel caso del roastbeef, rende il cibo saporito e con un valore nutritivo elevato. • La cottura al forno è adatta per pezzi più grandi, assicurando un ottimo sapore e una facile digeribilità, anche se, protraendosi per una o due ore, riduce il valore nutritivo. • La brasatura (ossia la cottura di grossi pezzi, in poca acqua, in un recipiente chiuso e a bassa temperatura) e la stufatura (metodo analogo al precedente, con pezzi più piccoli e una quantità maggiore di acqua) richiedono tempi lunghi, che assicurano una migliore digeribilità, con, però, una perdita nutritiva consistente. • La cottura a vapore è adatta alle verdure, alla carne e al pesce, per la sottrazione vitaminica modesta. Inoltre, poiché non si aggiungono grassi da condimento, consente un’ottima digeribilità. Per i vegetali è molto usata anche la cottura in acqua, a pressione atmosferica, che determina però una dispersione di glucidi, vitamine e sali minerali; A • 19


per evitare tale perdita, si può mantenere la buccia e adoperare poca acqua, facendola bollire prima di aggiungere le verdure. Una variante è la cottura in umido, che, oltre all’acqua, prevede l’uso del pomodoro. • La cottura in pentola a pressione permette di cuocere a una pressione superiore a quella atmosferica, al riparo dell’aria, a una temperatura di 110-120 °C e in tempi molto più veloci rispetto alla cottura comune, rispettando aromi e sapori degli alimenti. • La cottura nel forno a microonde è, invece, molto rapida poiché avviene grazie alle onde elettromagnetiche (microonde) che fanno vibrare le molecole di acqua contenute nell’alimento, con la produzione di calore all’interno dei cibi stessi, senza coinvolgere l’aria nel forno né i recipienti (i quali non devono mai essere di metallo), che restano freddi. Poiché le onde penetrano solo per 4-5 cm all’interno degli alimenti, se questi sono di grossa pezzatura, ripieni o a più strati, talvolta la temperatura critica (70-72 °C per almeno 2-4 minuti) non è raggiunta in modo omogeneo e uniforme, con il rischio di non eliminare eventuali germi patogeni presenti. Le microonde sono anche in grado di scongelare velocemente un alimento e poi di cuocerlo. Siccome nel forno non si raggiungono mai temperature molto elevate (il valore massimo è quello di ebollizione dell’acqua), le modificazioni e le perdite vitaminiche e minerali sono ridotte. • La frittura con grassi (prevalentemente olio o burro) raggiunge temperature elevate, determinando trasformazioni soprattutto sul mezzo riscaldante, A • 20

che impregna l’alimento anche all’interno. Le modificazioni chimiche che avvengono negli oli usati per friggere sono dovute a vari tipi di reazioni (ossidazione, polimerizzazione dei gliceridi, ecc.), provocando la formazione di sostanze irritanti e dannose per l’organismo. Durante questa cottura, incidono in modo negativo soprattutto le temperature superiori a 180 °C e la “storia” dell’olio, ossia la sua eventuale rifrittura o la “ricolmatura”, cioè l’aggiunta di

olio fresco a quello già usato. Gli oli di semi (mais, girasole, vinacciolo e così via) hanno un “punto di fumo” basso, quindi sono facilmente ossidabili e più esposti a modificazioni rispetto all’olio di oliva. In commercio, si trovano miscele di olio di palma, girasole e arachide realizzate appositamente per friggere, poiché sono chimicamente molto stabili e più economiche. Infine, è importante ricordare che la conservazione protratta dell’olio già impiegato comporta una maggiore presenza di perossidi, che continuano a formarsi anche nell’intervallo tra due utilizzi consecutivi.


Le temperature consigliate per friggere sono: • 140-160 °C per tranci di pesce, pollo, coniglio e cacciagione; • 175 °C per crocchette di patate e polpette di carne; • 180 °C per pesciolini e patatine.

I grassi e gli oli I lipidi sono i prodotti di origine animale o vegetale utilizzati come condimenti; fra le loro caratteristiche vi sono quelle di essere insolubili in acqua e di manifestare una caratteristica untuosità al palato e al

I grassi idrogenati, sono prodotti mediante una tecnica di idrogenazione, consistente nell’inserimento di atomi di idrogeno in corrispondenza dei doppi legami della catena degli acidi grassi insaturi, che divengono, così, saturi e, quindi, solidi. Dal punto di vista merceologico, le sostanze grasse possono essere classificate in: • grassi del latte, cioè il burro usato in cucina; • burro vegetale come, per esempio, il burro di cacao, usato a scopi alimentari oltre che farmaceutici; • grassi di animali, in particolare quelli di maiale, come lo strutto, la pancetta e il sego; • oli dalle olive, comprendenti l’extravergine, l’olio d’oliva, l’olio di sansa d’oliva; • oli da semi, principalmente di arachide, vinacciolo, mais, girasole, soia e di semi vari. Per quanto riguarda l’impiego dei grassi e degli oli, vale la pena di ricordare che:

I CONDIMENTI In cucina si impiegano numerosi prodotti indicati genericamente come condimenti, utilizzati per vari scopi, come, per esempio, dare sapore ai cibi, renderli in generale più palatabili, consistenti o fluidi. Non si deve dimenticare, però, che i condimenti sono sostanze chimiche anche complesse, in grado di avere effetti diversi sull’organismo umano, sia positivi, poiché possono apportarvi vitamine, sia negativi, in quanto sono costituiti da lipidi, il cui eccesso, soprattutto se sono composti da acidi grassi saturi, tipicamente di origine animale, è sempre da evitare.

tatto. Inoltre, in tutti i grassi e oli da condimento sono presenti vitamine liposolubili (A, D, E e K). I lipidi di origine animale sono in prevalenza saturi, cioè con tutti legami semplici fra gli atomi di carbonio della loro catena, e di consistenza solida a temperatura ambiente, mentre quelli di origine vegetale sono in genere insaturi (mono e polinsaturi), cioè con uno o più doppi legami fra gli atomi di carbonio, oltre a essere di consistenza liquida a temperatura ambiente. Per le loro caratteristiche fisiche, quindi, le sostanze lipidiche di origine animale sono dette grassi, mentre quelle di origine vegetale vengono chiamate oli.

• l’olio migliore, sotto tutti i punti di vista, è quello extravergine d’oliva; • durante la cottura, tutti i grassi subiscono alterazioni, anche se i danni minori sono subiti dagli oli extravergine d’oliva, d’oliva e di arachidi; • i grassi subiscono danni maggiori quanto più sono esposti a temperature elevate; • tutti i grassi vecchi non devono essere usati per le cotture; • per friggere non si devono mai usare due volte gli stessi grassi; • non si devono mai miscelare fra loro (o ringiovanire) oli già utilizzati per fritture con oli freschi; • bisognerebbe cuocere senza grassi, aggiungendoli soltanto dopo cottura. A • 21


Il burro • Il burro è la sostanza formata dal grasso del latte, che si ricava sbattendo la panna ed eliminando la parte liquida che ne deriva, il cosiddetto latticello. Oltre che da quello vaccino, questo alimento è ottenuto anche dal latte di altri animali (capra, bufala, asina o cammella) e, in generale, la denominazione “burro” si applica a tutte le sostanze grasse, vellutate e solide a temperatura ambiente, come quelle provenienti da vegetali, cioè il burro di cacao, il burro d’arachidi, il burro di cocco e quello di mandorla. Il burro di latte è un grasso che fornisce meno calorie rispetto all’olio, sia d’oliva sia di semi, poiché, al contrario di questi, contiene acqua (circa 12,2%). È comunque ricco di acidi grassi saturi e colesterolo, quindi da usare con moderazione, nonché di vitamine A e D. In commercio si possono reperire varie qualità di burro, fra le quali sono da ricordare:

• il burro pastorizzato, realizzato con crema di latte che è sottoposta a pastorizzazione a 95 °C;

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• il burro semisalato, nel quale sono introdotti 5 g di cloruro di sodio (NaCl) su 100 g di prodotto totale; • il burro salato, nel quale il cloruro di sodio è nella concentrazione di 10 g su 100 g di prodotto totale. In cucina, il burro di latte è usato in tutte le preparazioni dove si prevede l’utilizzo di un grasso, in particolare per minestre, salse, risotti, creme e dolci; a crudo lo si può spalmare su pane e tartine, oppure lo si impiega per preparare salse di farcitura e dolci o come accompagnamento per ortaggi, frutti di mare, pesci, grigliate e lumache. In cucina, il burro è anche aromatizzato con prezzemolo, aglio, senape, caviale, crescione, scalogno, spezie, vino o fondi di cottura. La margarina • La margarina è un prodotto ideato in Francia intorno al 1860 per sostituire il burro, all’epoca raro e costoso, di cui, ancora oggi, è considerata un succedaneo. È un grasso alimentare ottenuto emulsionando in acqua un grasso di origine vegetale o animale, come gli oli di soia, di arachidi, di girasole, di palma e di colza, oppure l’olio di pesce, lo strutto o il sego. La margarina, quindi, contiene acidi grassi polinsaturi, in teoria positivi per la salute, che spesso, però, sono idrogenati (quindi resi saturi) per conferirle una consistenza migliore. Ricordiamo, comunque, che in commercio si trovano anche margarine molli a base di grassi non idrogenati. Tutte le margarine non possono contenere meno dell’84% di grassi, mentre l’acqua è presente in quantità fra il 2% e il 16% e in esse sono presenti anche sodio, potassio, fosforo e calcio. Quella prodotta con oli vegetali, diversamente dal burro, non contiene colesterolo ma, durante la lavorazione, si perdono le vitamine. Infine, la margarina, in cucina, può sostituire il burro in tutte le ricette,

anche se conferisce ai piatti un sapore meno intenso. Le margarine dietetiche, ricche d’acqua, sono ideali, invece, per essere spalmate. L’olio di oliva • L’olio di oliva è ottenuto dalla lavorazione del frutto dell’olivo, senza aggiunta di sostanze diverse o di oli ricavati da altre piante. Le olive necessarie per produrre l’olio devono essere raccolte, sane e senza difetti, e soltanto quando hanno raggiunto il giusto grado di maturazione. Negli oli, l’acidità naturale indica la quantità di acido oleico presente in essi, tenendo conto del fatto che se la sua percentuale è troppo alta, il prodotto ne risente negativamente in qualità. Esistono in commercio diversi tipi di olio di oliva, classificati in:

1. oli d’oliva vergini, ottenuti dalle olive, meccanicamente o con altri processi fisici, in condizioni di temperatura tali da non alterarle; – olio d’oliva extravergine, dal sapore assolutamente perfetto e con una percentuale di acido oleico non superiore all’1%; – olio d’oliva vergine, dal sapore perfetto e con una percentuale di acido oleico non superiore al 2%; – olio d’oliva vergine corrente, dal sapore buono e con una percentuale di acido oleico non


superiore al 3,3%; non è vendibile al minuto; – olio d’oliva vergine lampante, di sapore imperfetto e con una percentuale di acido oleico superiore al 3,3%; 2. olio d’oliva raffinato, costituito da olio di oliva vergine che ha subito processi chimici e fisici per correggerne l’acidità o il sapore; ha una percentuale massima di acido oleico dello 0,5%; non è vendibile al minuto; 3. olio d’oliva, ottenuto tagliando oli di oliva vergini diversi dal lampante, uniti a olio d’oliva raffinato, con una percentuale massima di acido oleico dell’1,5%; 4. olio di sansa d’oliva greggio, ottenuto dalla sansa (residui di polpa e noccioli), dopo la spremitura degli oli vergini; non vendibile al minuto; 5. olio di sansa d’oliva raffinato, con una percentuale massima di acido oleico dello 0,5%, non vendibile al minuto; 6. olio di sansa d’oliva, taglio di olio di sansa d’oliva raffinato e di oli d’oliva vergini diversi dal lampante, con una percentuale massima di acido oleico del 1,5%.

L’olio è uno degli elementi di base della cucina mediterranea e, insieme all’aceto, è il condimento più utilizzato; può sostituire il burro, serve come conservante per gli ortaggi e per le erbe aromatiche e rientra nelle marinate usate con volatili, carne, selvaggina e pesce. Si impiega, inoltre, per ungere gli alimenti cotti allo spiedo o al barbecue e per la preparazione di salse d’accompagnamento. L’olio di semi • L’olio di semi è un prodotto ricavato dalla lavorazione dei frutti e dei semi di numerose piante, con l’eccezione dell’olivo. In commercio si trovano, infatti:

Per gli oli extravergini e vergini esiste anche il riconoscimento della Denominazione d’Origine Protetta (DOP) e dell’Indicazione Geografica Protetta (IGP).

• oli monoseme, ottenuti da una sola specie vegetale; • oli di semi vari, preparati con una miscela di diversi oli di semi; non devono contenere più del 5% di acido erucico; • oli dietetici, arricchiti con sostanze nutrienti, come alcune vitamine, ma inadatti alla cottura.

Facendo riferimento, invece, alla materia prima d’origine, fra i principali ricordiamo gli oli di semi di: • arachidi, che si presenta limpido, di colore giallo chiaro, con odore e sapore delicati; è fra i meno ricchi di acidi grassi polinsaturi e ha un buon contenuto di acido oleico, oltre a essere il più stabile ad alte temperature e, quindi, il più indicato per le fritture; • mais, che si estrae dal germe del seme di mais; è di colore giallo dorato e limpido, con sapore e odore più forti rispetto all’olio di arachidi; contiene molti acidi grassi polinsaturi, non è adatto alla cottura ed è soggetto a ossidazione; • girasole, che ha un colore giallo intenso e un sapore marcato; contiene circa il 50% di acidi grassi polinsaturi, quindi non è adatto alla cottura; • soia, che è di colore giallo chiaro, con sapore e odore delicati; contiene molti acidi grassi A • 23


polinsaturi, quindi è usato come condimento a crudo; palma, ottenuto spremendo la polpa dei frutti della palma; è un olio rossastro, dall’odore marcato; è ricco di acidi grassi saturi, quindi è usato per produrre oli speciali per le fritture; sesamo, che ha sapore di nocciola ed è ricco di acidi grassi monoinsaturi e polinsaturi; è molto impiegato nella cucina asiatica; vinacciolo, che si ottiene dai semi dell’uva; ha un sapore leggermente acre e contiene un’elevata percentuale di acidi grassi polinsaturi; è usato soprattutto per produrre margarine; cotone, che contiene acidi grassi polinsaturi, monoinsaturi e saturi ed è usato normalmente per la produzione di margarine; cocco, che è estratto dalla polpa delle noci di cocco; ricco di acidi grassi saturi, è impiegato nella preparazione di margarine e nell’industria dolciaria.

Gli oli di semi hanno gli stessi impieghi dell’olio d’oliva e, per il loro costo minore, sono preferiti dalle

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industrie alimentari e dalla ristorazione collettiva. Inoltre, sono utilizzati come condimento di pietanze o quale ingrediente di prodotti alimentari. Per quanto riguarda il loro uso a crudo, sono particolarmente indicati l’olio di soia, di mais, di arachidi e di girasole; quest’ultimo è impiegato anche per preparare conserve alimentari sott’olio.


QUANDO IL CIBO FA MALE: ALLERGIE E INTOLLERANZE Sempre più spesso, anche attraverso i mezzi di comunicazione, si apprende che alcuni individui sono soggetti a varie manifestazioni, con risposte anche negative per la salute, derivanti dal consumo di un pasto o anche soltanto di un certo alimento. I nutrizionisti, negli ultimi anni, hanno messo in evidenza che nella popolazione possono insorgere due tipi reazioni all’assunzione dei cibi: le allergie e le intolleranze. Spesso questi due fenomeni sono assimilati fra loro, mentre, come vedremo, essi derivano da condizioni diverse e complesse, che, tuttavia, nella ristorazione moderna, non possono essere trascurate.

Le allergie agli alimenti Alcuni cibi che assumiamo possono essere la causa di allergie alimentari, che si scatenano in seguito a una risposta da parte del nostro sistema immunitario, lo stesso che ci difende dai virus e dai batteri. La differenza, però, in questo caso sta nel fatto che le sostanze contro le quali agisce la difesa immunitaria sono presenti normalmente negli alimenti e a livello ambientale. La maggior parte di queste molecole, dette allergeni (cioè che scatenano allergie), sono proteiche e resistono anche bene alla cottura. Di conseguenza, un soggetto sensibile a un certo allergene produce contro questa sostanza anticorpi che scatenano la reazione allergica, che può manifestarsi in varie forme: gastroenterica, a livello di cute o anche con sintomi respiratori. Il caso più grave, e per fortuna raro, è rappresentato dallo shock anafilattico, che può anche portare a un esito

infausto per il soggetto (naturalmente se non curato in tempo). Un ulteriore aspetto da considerare è rappresentato dalla presenza, in un certo cibo, non dell’alimento che provoca l’allergia, bensì di prodotti derivati da esso oppure da altri che hanno in qualche modo contaminato la filiera tecnologica di produzione: si parla, in questo caso, di allergeni occulti. È utile, pertanto, considerare quali sono gli alimenti che più di altri possono contenere sostanze allergeniche, distinguendoli, secondo la loro origine, in: • vegetali, come mais, frumento, arachidi, noci, pesche, kiwi, fragole, melone, avocado, pomodori, cacao (cioccolato), soia, sesamo, senape e girasole; • animali, fra cui uova, latte vaccino, carne di maiale, pesci, crostacei e frutti di mare.

Da quanto si è detto, risulta importante anche avere in cucina un comportamento tale che porti a non creare contaminazioni crociate di allergeni nel momento in cui si utilizzato attrezzature con lo scopo di elaborare diete ipoallergeniche. Pertanto, gli strumenti e le attrezzature usate per realizzare i piatti di un menu attento alle allergie non devono mai essere impiegati per le normali preparazioni.

Le intolleranze agli alimenti Al contrario delle allergie, le intolleranze alimentari, pur determinando fenomeni di vario tipo in seguito all’ingestione di un certo cibo, non hanno una base immunologica nella loro risposta. In questo caso, la manifestazione di intolleranza dipende da carenze nella produzione di un enzima specifico per la sostanza in questione, come avviene per la lattasi, l’enzima che scinde il lattosio presente nel latte. Bisogna anche ricordare, però, che, in alcuni soggetti, le intolleranze sono determinate da sostanze che, contenute naturalmente negli alimenti, manifestano un’azione farmacologica, come nel caso dell’istamina. Proprio quest’ultima è molto presente in diversi alimenti, come i crostacei, il pesce azzurro, gli A • 25


riguardano più da vicino il mondo della ristorazione, ricordiamo che il lattosio, oltre che nel latte, si trova nei suoi derivati, come la panna e i formaggi “freschi”, mentre lo yogurt e i formaggi stagionati possono essere consumati grazie ai microrganismi che si utilizzano per la loro lavorazione e che effettuano la scissione enzimatica del lattosio. Infine, anche in questo caso, si deve ricordare che il lattosio può trovarsi in forma occulta in diversi alimenti, che sono preparati o integrati con tale disaccaride, quali dolci di vario tipo (anche biscotti), cioccolato, besciamella, numerosi cibi in scatola, insaccati e salumi.

insaccati, i pomodori, il vino e la birra, ma anche in alimenti lievitati e in alcuni formaggi (fermentati). Le due intolleranze più comuni, con le quali spesso ci si deve confrontare nella ristorazione, sono quelle al lattosio e al glutine. Un aspetto importante da ricordare, prima di affrontarne la trattazione, è legato al fatto che gli enzimi, che sono proteine, implicati in questi fenomeni, sono prodotti su base genetica. Pertanto, se l’alterazione è a livello del DNA dell’individuo, l’enzima, per esempio la lattasi, non verrà prodotto oppure sarà sintetizzato in quantità deficitarie. Non è possibile, quindi, “abituare l’individuo” alla sostanza a cui è intollerante (come alcuni credono), ma egli resterà tale per tutta la vita. L’intolleranza al lattosio • Il lattosio è un glucide disaccaride, composto da due monosaccaridi (monomeri) diversi fra loro: il glucosio e il galattosio. Quando l’enzima lattasi A • 26

agisce sul composto, lo separa nei due monosaccaridi, che vengo poi metabolizzati normalmente dall’organismo. Nel caso dell’intolleranza al lattosio, invece, la mancanza o il deficit enzimatico fa in modo che il lattosio giunga completo nell’intestino, dove, a livello del colon, la flora batterica ne provoca la fermentazione, determinando, dopo alcune ore, manifestazioni gastroenteriche più o meno gravi, che vanno dal gonfiore alla diarrea. Tuttavia, come abbiamo accennato, in alcuni soggetti la carenza enzimatica non è completa, quindi, essi possono consumare quantità limitate di sostanze contenenti lattosio. Una situazione simile si può avere nel caso di patologie dell’intestino (a carico delle cellule che formano la sua mucosa) che provocano la comparsa di un deficit momentaneo di lattasi, la cui produzione si normalizza quando la mucosa stessa viene ricostruita. Per quanto riguarda gli aspetti strettamente alimentari, che

L’intolleranza permanente al glutine • Come per l’intolleranza al lattosio, anche quella al glutine, nota come celiachia (o morbo celiaco), è su base genetica, quindi permanente nel soggetto interessato. Il glutine è costituito da un complesso in cui si trovano due proteine, la glutenina e la gliadina, ed è presente nelle cariossidi di alcune specie di cereali, come orzo, frumento, segale, avena, farro, kamut e triticale, nonché in tutte le farine che da loro si ottengono, oltre che nei prodotti derivati (pasta, pane, pizza, grissini, caffè d’orzo, birra e così via). Naturalmente, come si è visto per il lattosio, anche per il glutine esiste il rischio di una sua presenza occulta, la quale può essere riscontrata in prodotti alimentari che ne sono di per sé privi, ma che sono venuti a contatto con queste proteine durante alcune fasi della loro lavorazione o di quella delle materie prime da cui hanno avuto origine. I soggetti affetti da morbo celiaco possono consumare, invece, riso e mais (privi di glutine nonostante siano cereali), grano saraceno (che non è un cereale, ma una poligonacea), soia, manioca, verdura, legumi, frutta, come


anche carne e pesce, uova, latte e derivati. L’intolleranza al glutine determina nel soggetto predisposto, problemi infiammatori a carico dell’intestino tenue, dove i villi intestinali, preposti ad assorbire le sostanze nutritizie, possono essere distrutti, determinando nel tempo la comparsa di patologie anche gravi, come alcune forme di tumore. In ogni caso, i sintomi di tale intolleranza sono a carico dell’intestino, andando dalla diarrea alla stipsi, ma anche di altri distretti dell’organismo, dove provocano anemia, dolori articolari, perdita di capelli e così via. Da quanto abbiamo visto, è chiaro che il soggetto celiaco deve astenersi totalmente dall’assunzione di glutine e che tale comportamento deve essere mantenuto per tutta la vita. Come si può intuire, è necessario evitare rigorosamente qualsiasi contaminazione, anche minima, fra materiali contenenti glutine e altri prodotti alimentari, pena l’insorgenza dei problemi di cui abbiamo trattato.

Vista l’importanza, e anche la gravità, di questa intolleranza, nel nostro Paese è attiva l’AIC (Associazione Italiana Celiachia) la quale, ogni anno, aggiorna e pubblica il Prontuario AIC degli Alimenti, nel quale sono indicati i prodotti commercializzati che sono privi di glutine, come garantito dalle aziende che li producono, sottoposte a loro volta a una severa sorveglianza. L’AIC autorizza tali aziende a utilizzare il marchio “Spiga barrata”, che possono riportare sui prodotti che hanno superato positivamente le verifiche chimico-merceologiche legate all’assenza del glutine, aiutando in questo modo anche gli operatori della ristorazione nella scelta di prodotti adeguati. Per comprendere appieno l’importanza di tale intolleranza anche a livello di ristorazione, è bene ricordare che la celiachia compare in 1 individuo ogni 100-150 soggetti, esigendo, quindi, un’attenzione al problema da parte degli operatori del settore. Dal punto di vista tecnico, durante la

preparazione dei cibi per celiaci, l’operatore deve seguire alcune regole, fra le quali: • astenersi dall’usare gli stessi utensili impiegati per la cucina consueta (non utilizzare, per esempio, lo stesso attrezzo per mescolare una pasta di frumento e una di riso e nemmeno la stessa pentola); • evitare assolutamente di friggere le verdure dedicate a una dieta per celiaci nell’olio dove si sono immersi prodotti impanati; • lavare molto bene tutto quanto entra in contatto con farine contenenti glutine, comprese le mani dell’operatore; • rivestire con fogli di alluminio le superfici soggette a possibile contaminazione; • avvolgere nella stagnola gli alimenti per celiaci, se devono essere cotti in un forno comune; • usare piani diversi per tagliare alimenti con o senza glutine.

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4 L’ALIMENTAZIONE SICURA UNA STORIA “PULITA” La storia dell’igiene e della sicurezza alimentare in Europa, come in altre Nazioni dell’Occidente industrializzato, ha avuto varie tappe, alcune delle quali pionieristiche, come quelle che in Italia, nel 1893, istituirono i primi Laboratori comunali di profilassi, per poi proseguire, nel secondo dopoguerra, con la conferma dei Laboratori provinciali di igiene e profilassi (1958), già presenti fin dal 1923, ma sotto il controllo del Ministero dell’Interno. Nel 1969, negli Stati Uniti, la FDA (Food and Drug Administration) inizia a elaborare un programma sanitario per il controllo di alimenti quali latte e prodotti ittici, facilmente deperibili, oltre ad avviare iniziative analoghe nel campo dei servizi per l’alimentazione. È soltanto nel 1995, però, che, sempre negli Stati Uniti, sono pubblicati e messi in atto i regolamenti HACCP (Hazard Analisys and Critical Control Points) che diventeranno poi uno standard di riferimento anche in Europa e, quindi, in Italia. Proprio l’Unione Europea, nel gennaio del 2000, ha presentato ufficialmente il Libro bianco sulla sicurezza alimentare, nel quale si sottolinea l’esigenza di giungere a un livello di sicurezza alimentare alto e costante, soprattutto per mezzo della tracciabilità degli alimenti lungo tutta la loro filiera A • 46

produttiva. Nel 2004, infine, è approvato il cosiddetto Pacchetto Igiene, nel quale trovano posto le leggi e i regolamenti comunitari che rendono attuabili gli obiettivi messi già in evidenza nel Libro bianco. Pertanto, sulla scorta di quanto stabilito dal Regolamento CE n. 852/2004, tutti coloro che operano in un’attività ristorativa, di qualsiasi tipo, devono seguire una formazione specifica per poter applicare i principi dell’HACCP nel corso delle varie fasi della lavorazione dei prodotti alimentari.

IL PIANO HACCP PER LA SALUTE DEL CONSUMATORE Il regime di autocontrollo impone agli operatori dell’industria alimentare che la preparazione, la trasformazione, il deposito e la somministrazione dei prodotti avvengano in modo igienico, a garanzia della loro salubrità. Tale obiettivo si fonda sul piano HACCP, il metodo che, per legge, deve essere applicato; per prevenire i rischi nell’ambito della ristorazione e della produzione di alimenti.


Esso si basa su tre punti fondamentali: • l’analisi sistematica dei pericoli, che possono essere di tipo chimico, fisico e biologico; • la valutazione della probabilità che si verifichino; • l’applicazione di misure di controllo lungo tutta la filiera. Per operare in modo conforme ai regolamenti, un’azienda di ristorazione deve attenersi a norme igieniche generali e al metodo HACCP, elaborando un piano in cui si considerino la provenienza delle materie prime e degli ingredienti, i processi di lavorazione, l’uso finale del prodotto, le categorie di consumatori interessati (clienti della ristorazione commerciale, ospiti di asili od ospedali, soggetti allergici e così via) e

i risultati epidemiologici riguardanti la diffusione delle infezioni e delle intossicazioni alimentari nella popolazione, i rischi relativi a un certo prodotto o a una determinata emergenza alimentare in corso. Nel quadro di innovazione normativa già avviato in tempi precedenti, si inserisce il Regolamento CE n. 178/2002, che definisce principi e requisiti generali della legislazione alimentare, istituisce l’EFSA (European Food Safety Authority, ossia l’Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare), e fissa le procedure da attuare per garantire la sicurezza dei consumatori.

A tale scopo, l’autocontrollo è esteso all’intera filiera in maniera che sia favorito il collegamento tra i singoli anelli della filiera stessa e che sia assicurata la rintracciabilità dei prodotti, dei flussi materiali e delle responsabilità. In questo ambito, la norma italiana UNI 11020, “Sistemi di rintracciabilità nelle aziende agro-alimentari”, recepita dalla norma UNI EN ISO 22005:2008, ha avuto valida applicazione nei servizi di erogazione di pasti, come strumento per acquisire le informazioni relative ai prodotti utilizzati in azienda. Nel contesto internazionale, invece, la pubblicazione della norma UNI EN ISO 22000, “Sistemi di gestione della sicurezza alimentare – Requisiti per ogni organizzazione della filiera agroalimentare”, è perfettamente allineata con le nuove istanze definite a livello europeo. La norma conferma, inoltre, la validità dei principi del Codex Alimentarius per lo sviluppo del metodo HACCP e crea un legame tra i sistemi di gestione della qualità attivati in accordo con la ISO 9001 (la più famosa norma internazionale per la certificazione della qualità delle aziende) e quelli di autocontrollo aziendale. Il Codex Alimentarius, infatti, è un insieme di regole e di normative elaborate per proteggere la salute dei consumatori e assicurare la correttezza degli scambi internazionali dalla Codex Alimentarius Commission, istituita nel 1963 dalla FAO (Food and Agriculture Organization) e dall’OMS. In questo contesto è significativo il contributo tecnico e formativo di tutti i soggetti coinvolti. Al centro del sistema rimane, in ogni caso, la soddisfazione delle aspettative dell’utenza in termini di gusto, flessibilità, accuratezza, immagine e tempestività del servizio, il quale ha come “prerequisiti”, e dunque come fattori di costo non eliminabili, la sicurezza e l’affidabilità dei prodotti. A • 47


Le fasi del piano HACCP Delle dodici fasi che compongono l’HACCP, sette sono obbligatorie. Fra queste, le prime cinque, che prenderemo in esame, riguardano le attività preparatorie alla redazione e all’applicazione del piano di autocontrollo. La costituzione del gruppo di lavoro HACCP Secondo quanto stabilito dal Codex Alimentarius, per prima cosa è indispensabile costituire un gruppo di lavoro con l’incarico di realizzare il piano di autocontrollo basato sui criteri dell’HACCP. Di questo aspetto, però, negli esercizi di ristorazione piccoli o a conduzione familiare si occupa il titolare stesso. Nel caso di esercizi di ristorazione più complessi, con vari dipendenti e diversi livelli di competenza, è necessario, invece, riunire gli interessati e discutere le procedure da adottare. I nomi dei partecipanti al gruppo e dell’eventuale consulente a cui ci si rivolge devono essere elencati su un apposito modello, che servirà anche da calendario degli incontri. Questo documento è parte integrante del piano di autocontrollo e deve essere conservato nel relativo dossier, del quale tratteremo più avanti. La descrizione dei prodotti Dopo che si è formato il gruppo di lavoro, si deve effettuare la descrizione del prodotto in esame, ricordando che il manuale di autocontrollo si occupa di esercizi commerciali che offrono ogni tipo di piatto, anche confezionato. Nel caso dei ristoranti, il prodotto è l’insieme di ciò che viene somministrato, ma una descrizione dettagliata delle singole unità è impossibile. A • 48

Infatti, l’attività di ristorazione tratta prodotti alimentari eterogenei e nel manuale di autocontrollo possono essere inseriti, a seconda del proprio settore, i cibi altamente deperibili (latte pastorizzato, prodotti di gastronomia, prodotti della pesca, salumi cotti, alcuni tipi di frutta e verdura, latticini, ecc.) e quelli a lunga conservazione (frutta secca, scatolame, acque minerali e bevande, formaggi stagionati, ecc). L’esercente può ottenere le indicazioni riguardanti la deperibilità e, quindi, il rischio microbiologico dei prodotti, basandosi sulle date di durabilità e di scadenza riportate sulle confezioni (“da consumarsi entro”, “da consumarsi preferibilmente entro”). La definizione della destinazione d’uso del prodotto A questo punto, si deve stabilire se i piatti e/o i prodotti sono destinati a essere somministrati direttamente al consumatore, oppure se si tratta di semilavorati. Inoltre, è necessario specificare se si tratta di piatti e/o prodotti destinati a un’alimentazione particolare (soggetti allergici o intolleranti, categorie sensibili come, per esempio, bambini, anziani e immunodepressi). La redazione dei diagrammi di flusso L’intero flusso della lavorazione delle materie prime o di altre tipologie di prodotti che si rendano necessarie per giungere al prodotto finale, cioè la sequenza di operazioni che si succedono tra il momento dell’acquisto dai propri fornitori e quello della vendita ai clienti, deve essere riportato sotto forma di diagramma.

La verifica dei diagrammi di flusso in loco Il quinto e ultimo punto delle varie operazioni che precedono la redazione e l’applicazione del piano di autocontrollo consiste nella verifica della correttezza dei diagrammi che sono stati realizzati. Questo aspetto viene valutato tramite un controllo “sul campo” delle diverse lavorazioni indicate nel diagramma di flusso.

I principi del metodo HACCP Il metodo HACCP si fonda sull’applicazione di sette principi fondamentali, identificati, per la loro importanza, dal Codex Alimentarius. I principio – L’analisi dei pericoli Mediante un albero delle decisioni, costituito da uno schema composto di domande a risposta guidata, del


Selezione fornitori

Approvvigionamento

Ricevimento surgelati

Ricevimento deperibili

Ricevimento non deperibili

Ricevimento verdure

Ricevimento uova

Possibile CCP

Conservazione in congelatore

Conservazione in frigorifero

Conservazione in dispensa

Conservazione in frigorifero

Dispensa

Possibile CCP

Scongelamento

Lavaggio o mondatura

Sconfezionamento

Lavorazione

Lavorazione a freddo Cottura

Possibile CCP

Raffreddamento

Lavorazione a freddo

Conservazione a freddo

Possibile CCP

Lavorazione a caldo

Possibile CCP

Somministrazione

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quale tratteremo più avanti, si individuano i vari pericoli, suddivisi in tre categorie, in base alla natura dell’agente nocivo. • Pericolo chimico. Consiste nella contaminazione da xenobiotici, cioè molecole estranee all’alimento derivanti: – dalla produzione primaria animale e vegetale (fitofarmaci, zoofarmaci, pesticidi e metalli pesanti); – da sostanze usate per la sanificazione (detergenti e disinfettanti); – da procedure di disinfestazione e di derattizzazione (disinfestanti e ratticidi). • Pericolo fisico. È rappresentato dalla contaminazione corpuscolare di natura biologica e non, come per esempio peli, capelli, frammenti di infestanti, di metallo, di ossa, di plastica e così via. • Pericolo microbiologico. Deriva dalla contaminazione da microrganismi alterativi e patogeni che determinano fenomeni di tossinfezione e infezione alimentare; si tratta del tipo di pericolo più probabile e può determinare modificazioni nel cibo tali da renderlo dannoso per la salute dei consumatori. Il calcolo del rischio, cioè la possibilità che si verifichi un pericolo, si ottiene mediante la formula: Identificazione del rischio (Ir, Indice di rischio) = (frequenza ⴛ gravità ⴛ rilevabilità) del pericolo I pericoli messi in evidenza possono essere associati a particolari cibi oppure ad alcune operazioni svolte durante la loro lavorazione. Infatti, A • 50

alcuni alimenti sono più esposti di altri a determinati rischi igienici. Quelli di tipo microbiologico, per esempio, colpiscono più spesso i prodotti di gastronomia, in particolare a causa di alcuni comportamenti tenuti durante la loro preparazione, come, per esempio, il mancato rispetto delle temperature di conservazione o la carenza di norme igieniche. Pertanto, conoscere adeguatamente i rischi significa poterli prevenire. II principio – L’identificazione dei CCP (Critical Control Point) Un CCP (Punto Critico di Controllo) è un fattore operativo, una fase o un’attività della lavorazione durante la quale si devono prendere provvedimenti per prevenire, eliminare o ridurre a un livello accettabile un certo pericolo riguardante la salubrità del prodotto. I CCP sono identificati mediante un

secondo albero delle decisioni applicato a ogni fase per la quale siano stati individuati pericoli, dall’esame dei quali si stabiliscono le materie prime e le fasi potenzialmente pericolose. Nel caso delle attività prese in esame da questo manuale, ogni operazione è potenzialmente in grado di causare un aumento inaccettabile della contaminazione e soltanto una corretta gestione delle attività nel loro complesso può garantire la sicurezza dei prodotti. In realtà, secondo i principi logici su cui si fonda l’HACCP, un punto critico comprende più procedimenti diversi tra loro, come, per esempio, tutte le operazioni di manipolazione, indipendentemente dal fatto che si tratti di macinazione, impasto, taglio, decorazione e così via. Per ognuna di esse è indicato il tipo di parametro che costituisce il limite critico, il cui rispetto garantisce la sicurezza del prodotto.


III principio – La definizione dei limiti critici per ogni CCP

• redazione di piani di lotta agli infestanti.

Il limite critico conferma o nega l’accettabilità del CCP monitorato ed è quel valore entro il quale il punto critico deve rimanere per essere considerato sotto controllo. Esso consiste in valori fisici, chimici, normativi oppure comportamentali facilmente controllabili (tempi, temperature, modalità, quantità di prodotti, presenza di garanzie e comportamenti errati) che vanno fissati a un certo livello, per prevenire, eliminare o ridurre i rischi individuati.

V principio – L’individuazione delle misure correttive Qualora dai controlli effettuati durante le lavorazioni risulti che un certo punto critico non rientra nei limiti, occorre stabilire le azioni correttive per riportare la situazione sotto controllo e il comportamento da adottare nel caso si rilevi un prodotto potenzialmente difettoso. Tali

In caso di

IV principio – L’attivazione del sistema di monitoraggio Ogni CCP è monitorato da una procedura di sorveglianza volta a mantenere i parametri relativi ai limiti critici entro i livelli stabiliti. Pertanto, si deve osservare la variabile ritenuta fattore di rischio seguendo un metodo di rilevazione programmata e cadenzata, registrandone i valori su un’apposita scheda, denominata ALL.XX. L’applicazione del sistema di monitoraggio avviene seguendo alcune procedure, che comprendono:

interventi devono essere attuati in tempi brevi e, affinché siano efficaci, definiti e programmati in anticipo. Nel caso in cui non sia possibile intervenire con misure correttive, l’unica operazione da svolgere comunque è quella di eliminare il prodotto. Come vedremo tra poco, il piano di autocontrollo prevede, inoltre, che il monitoraggio dei CCP sia registrato in una documentazione idonea alle dimensioni aziendali (manuale più diversi allegati).

Interventi correttivi per i più comuni CCP Intervenire con

Temperatura troppo bassa

Riscaldamento

Temperatura troppo alta

Raffreddamento

Cottura incompleta

Ulteriore cottura

Blocco di un frigorifero

Spostamento in altro frigorifero

Tracce di roditori

Intensificazione degli interventi di disinfestazione

Difetti dei prodotti

Resa dei prodotti

Prodotti scaduti

Eliminazione

Tracce di unto al tatto

Ulteriore pulizia prima dell’uso

Operazioni scorrette

Richiamo immediato all’addetto

• richiesta ai fornitori di dichiarazioni di idoneità, certificazioni e garanzie; • controllo visivo delle condizioni dei prodotti (integrità, aspetto e date di scadenza); • rilevazione della temperatura dei prodotti nelle varie fasi; • impostazione di procedure di lavoro definite (modi e tempi); • controllo delle condizioni dei magazzini e dei frigoriferi, nonché dello stato dei prodotti (conservazione e scadenze); • organizzazione di programmi per la formazione del personale; A • 51


VI principio – L’applicazione delle verifiche Per accertare l’effettivo funzionamento del sistema e delle misure previste secondo i principi I-V, occorre applicare regolarmente le procedure di verifica, con lo scopo di accertare: 1 che quanto sviluppato continui a essere adeguato alla realtà aziendale di ristorazione; 2 che le procedure di monitoraggio e le azioni correttive siano condotte in modo appropriato. Tali verifiche possono essere effettuate mediante ispezioni interne, utilizzando liste di riscontro (check list). VII principio – La redazione di un sistema di documentazione Per dimostrare l’effettiva applicazione delle misure fin qui esaminate, il piano di autocontrollo deve essere documentato in tutte le fasi ritenute critiche mediante un’apposita modulistica. L’insieme delle registrazioni deve essere adeguato alla natura e alle dimensioni dell’impresa alimentare e, per legge, tutti i documenti devono essere tenuti a disposizione dell’autorità sanitaria. È quindi opportuno raccogliere in un dossier il materiale comprendente: • la copia del manuale di autocontrollo – HACCP; • la documentazione relativa all’autorizzazione sanitaria; • lo scadenzario della formazione dei dipendenti (sostitutiva del libretto sanitario) e i certificati di formazione del personale (copie di attestati e diplomi); • la documentazione informativa consegnata al personale con la relativa lista di distribuzione firmata; • copie di leggi riguardanti il proprio settore di attività; A • 52

• le procedure scritte riguardanti pulizie e manutenzione (ricavate da questo manuale) e le copie delle bolle relative a interventi sulle apparecchiature; • l’inventario delle attrezzature, se presente; • l’elenco dei fornitori, se presente, e le certificazioni fornite; • eventuali annotazioni relative alla definizione del piano di autocontrollo aziendale, nel caso in cui sia stato costituito il gruppo di lavoro; • il/i diagramma/i di flusso; • le schede relative alle diverse fasi di lavoro; • eventuale copia del contratto con la ditta di disinfestazione; • il quaderno degli interventi di disinfestazione; • eventuali analisi effettuate sui prodotti, con il relativo programma;

• copie di lettere di reclamo ai fornitori, o di reclami ricevuti, se presenti; • le schede di rilevazione delle temperature, se presenti; • il ricettario utilizzato in azienda; • qualsiasi altro documento che si ritenga possa far parte della documentazione sull’autocontrollo.

L’albero delle decisioni Grazie all’albero delle decisioni è possibile stabilire se una materia prima o una fase di lavoro sia da considerare critica (CCP). Nel caso delle attività considerate da questo manuale sarà difficile, se non impossibile, rispondere ad alcune delle domande previste da questo modello, perché spesso i tempi e i modi di una singola operazione sono


ALBERO DELLE DECISIONI (utilizzare il seguente schema logico per confermare o meno i CCP individuati nell’analisi dei pericoli)

D.1

Esistono misure di prevenzione? SI

NO È necessario il controllo per la sicurezza in questa fase?

SI NO

D.2

NON È UN CCP

MODIFICA LA FASE, IL PROCESSO O IL PRODOTTO FERMARE

La fase è destinata ad eliminare o ridurre ad un livello accettabile il pericolo? NO

SI La fase comporta contaminazione o aumento del pericolo al di sopra di valori accettabili?

D.3

SI

NO

NON È UN CCP

Una fase successiva sarà in grado di eliminare il pericolo identificato o ridurre la probabilità che si verifichi ad un livello inaccettabile?

D.4

SI NON È UN CCP

NO

PUNTO CRITICO DI CONTROLLO

FERMARE

variabili oppure non sempre è presente una certa fase di lavoro. Nei casi dubbi è consigliabile, quindi, considerare critiche le fasi esaminate. L’albero è suddiviso in parte A, relativa a ciascuna materia prima o prodotto, e parte B, dedicata a ogni fase od operazione di lavoro. Se si evidenzia un punto critico di controllo in una materia prima o in un prodotto acquistati da un fornitore, è indispensabile ottenere da questo tutte le conferme in merito, richiedendo le relative certificazioni; inoltre, si deve

sempre controllare e ispezionare le merci in arrivo dai fornitori, oltre a effettuare eventuali analisi di laboratorio, a campione, sui prodotti. In modo analogo alla parte A, se si riscontra un punto critico di controllo che corrisponde a una fase o a un’operazione, occorre verificare che si stiano adottando le opportune misure preventive. Qualora queste procedure siano state attivate, si dovrà poter dimostrare in ogni momento che sono tenute costantemente sotto controllo. In caso contrario, è indispensabile

modificare il procedimento oppure il passaggio della lavorazione corrispondente al punto critico, per poter garantire la sicurezza dei prodotti.

La normativa HACCP semplificata Per semplificare la compilazione e l’utilizzo dei manuali HACCP, numerose Giunte regionali hanno adottato nuove procedure rivolte alla maggioranza delle aziende della A • 53


ristorazione. In questo modo, le Regioni hanno inteso venire incontro alle esigenze delle piccole e medie imprese, secondo quanto indicato dal regolamento comunitario (Reg. CE n. 852/2004), il quale prevede la possibilità di utilizzare procedure e adempimenti flessibili e semplificati, idonei a qualsiasi situazione. Le aziende che possono applicare tali procedure sono di due tipi: • quelle che non si occupano della preparazione, della produzione o della trasformazione di prodotti alimentari, oppure che svolgono soltanto semplici operazioni di preparazione dei cibi;

stesso tempo, siano rispettati i prerequisiti igienico-alimentari stabiliti a priori dalla normativa. L’applicazione flessibile e semplificata dei principi del sistema HACCP deve tenere in particolare considerazione la natura dei processi di lavorazione e le dimensioni dell’impresa alimentare. Tra i prerequisiti introdotti per l’utilizzo del sistema HACCP in forma semplificata, vi è inoltre l’obbligo di predisporre un piano di formazione del personale, comprendente lo svolgimento di corsi, di momenti di addestramento, di affiancamento pratico e di verifiche documentate di quanto appreso.

La gestione del prodotto per garantire la sicurezza

• quelle che manipolano gli alimenti secondo procedure consolidate, che costituiscono spesso parte della normale formazione professionale degli operatori del settore. Sulla base di questi principi, i pericoli igienico-alimentari non sono più gestiti mediante le fasi di controllo, anche strumentali (come la verifica della taratura dei termometri dei frigoriferi), che in genere sono messe in atto in seguito alla valutazione e all’analisi dei rischi. Infatti, la semplificazione prevede che siano predisposte e applicate procedure di lavoro corrette e che, allo A • 54

Secondo il V principio del metodo HACCP, il piano di autocontrollo deve prevedere che, qualora le condizioni di sicurezza alimentare siano compromesse da un prodotto, questo sia eliminato dal mercato. Nel caso in cui il gestore di un esercizio di ristorazione apprenda dai mezzi di informazione che è in corso una procedura d’allarme a carico di uno dei suoi fornitori, deve provvedere immediatamente alla sospensione delle derrate riconosciute pericolose, in attesa del normale intervento di sequestro di tutta la partita da parte degli organi di controllo (NAS e ASL). Durante la produzione ordinaria, però, non è necessario attivare particolari procedure di identificazione di lotti o di ritiro dal mercato; infatti, poiché la somministrazione è diretta al consumatore, non è materialmente possibile provvedere al richiamo dei prodotti non idonei. Inoltre, nel caso dei prodotti di gastronomia, per i quali è previsto un consumo pressoché immediato, un’eventuale procedura di ritiro si rivelerebbe tardiva e del tutto

inefficace. Un caso a sé è quello della produzione autonoma di salumi stagionati, per i quali, invece, è bene identificare il lotto di produzione mediante l’apposizione di un cartellino riportante la data. Nel caso si rilevi un elemento di pericolosità, occorre bloccare la vendita del prodotto giacente e interpellare l’ASL competente per la distruzione. Per evitare rischi per la salute pubblica, le materie prime, gli ingredienti intermedi e i prodotti finiti, sui quali possono proliferare microrganismi patogeni o nei quali possono formarsi tossine, devono essere mantenuti a temperature adeguate durante le operazioni di conservazione e di trasporto. Compatibilmente con la sicurezza degli alimenti, è permesso rimandare il controllo della temperatura per periodi limitati, qualora prevalgano motivi di praticità durante la preparazione, il trasporto, l’immagazzinamento, la collocazione e il servizio degli alimenti. La combinazione tempitemperature, però, va sempre tenuta presente e non deve costituire un pericolo per la salute del consumatore.

CONSERVARE GLI ALIMENTI: UN PROBLEMA ANTICO L’uomo, per conservare gli alimenti, fino ad alcuni secoli fa poteva sfruttare soltanto fenomeni o sostanze naturali. L’essiccamento al sole, la salatura (uno dei metodi più usati nell’antichità) e l’affumicamento erano già praticati nel tardo Paleolitico (circa 30.000 a.C.), così come era già nota in tempi lontani la capacità conservante del freddo: i popoli nordici, infatti, erano soliti riporre il pesce appena pescato in anfratti rivolti a nord, in modo tale che si congelasse, mantenendosi inalterato per lungo tempo. Per


Temperature massime di conservazione di prodotti deperibili

Condizioni di temperatura che devono essere rispettate durante il trasporto

Tipo di alimento

Temp. di conservazione

Tipo di alimento

Latte, bibite a base di latte non sterilizzato; yogurt

+4 °C

+8 °C

Pasta fresca preconfezionata o sfusa

+4 °C

Latte crudo trasportato in cisterna o bidoni dalle aziende di produzione ai centri di raccolta ovvero direttamente agli stabilimenti di trattamento termico e confezionamento per il consumo diretto

Prodotti di gastronomia con copertura di gelatina

+4 °C

da 0 °C a +4 °C

Alimenti deperibili con copertura o farciti con panna e crema pasticcera a base di uova e latte

+4 °C

Latte crudo trasportato in cisterna dai centri di raccolta agli stabilimenti di trattamento termico e confezionamento per il consumo diretto

da 0 °C a +4 °C

Alimenti deperibili cotti da consumare freddi (arrosti e roast-beef, …)

+10 °C

Latte pastorizzato trasportato in cisterna da uno stabilimento di trattamento termico ad altro stabilimento termico e confezionamento per il consumo diretto Latte pastorizzato, in confezioni

da 0 °C a +4 °C

Carni fresche (bovine, suine, ovicaprine, equine), selvaggina grossa anche allevata (cervo)

+7 °C

Prodotti lattiero-caseari (latti fermentati, panna o crema di latte, formaggi freschi ricotta)

da 0 °C a +4 °C

Pollame, coniglio, lepre, selvaggina piccola

+4 °C

Burro e burro concentrato (anidro)

da +1 °C a +6 °C

Carni macinate e separate meccanicamente

+2 °C

Prodotti della pesca freschi (da trasportare sempre sotto ghiaccio)

da 0 °C a +4 °C

Preparazioni a base di carne

+4 °C

Carni

da –1 °C a +7 °C

Frattaglie

+3 °C

Pollame e conigli

da –1 °C a +4 °C

Prodotti della pesca freschi, decongelati, cosce di rana e lumache

Temperatura vicina a quella del ghiaccio in fusione

Selvaggina

da –1 °C a +3 °C

Frattaglie

da –1 °C a +3 °C

Molluschi bivalvi

+6 °C

Prodotti della pesca che vanno consumati crudi

Temperatura vicina a quella del ghiaccio in fusione

Gelati alla frutta e succhi di frutta congelati

–10 °C

Uova

Temperatura costante, adatta a garantire una conservazione ottimale delle loro caratteristiche igieniche

Altri gelati

–15 °C

Prodotti della pesca congelati o surgelati

–18 °C

Altre sostanze alimentari surgelate

–18 °C

Uova liquide

+4 °C

Burro o altre sostanze grasse congelate

–15 °C

Grassi fusi di origine animale

+7 °C

Frattaglie, uova sgusciate, pollame e selvaggina congelata

–15 °C

Carni congelate

–15 °C

Altre sostanze alimentari congelate

–15 °C

migliaia di anni, quindi, le popolazioni hanno utilizzato queste tecniche naturali per fronteggiare l’alterazione dei cibi da parte di microrganismi o di agenti fisico-chimici e prolungare così la loro conservabilità, cioè quel periodo di tempo nel quale l’alimento è sicuro, apprezzabile e nutriente.

A partire dalla metà del XIX secolo, però, la tecnologia incominciò a sviluppare nuovi procedimenti di conservazione e di trasformazione del cibo, provocando una vera e propria rivoluzione nell’alimentazione umana, soprattutto per quanto riguarda gli aspetti igienico-sanitari.

Temp. di trasporto

La conservazione degli alimenti si basa, quindi, sull’insieme delle tecniche che servono a rallentare i processi di alterazione, il fenomeno in seguito al quale in un alimento si verificano alcune modificazioni chimiche, a causa di acqua e ossigeno, e biologiche, nella maggior parte dei A • 55


casi a opera di microrganismi, in particolare batteri, che provocano cambiamenti nelle caratteristiche organolettiche (odore, sapore, consistenza e colore) del prodotto. Grazie a queste tecniche di conservazione, inoltre, si possono preservare gli alimenti in luoghi diversi da quelli di produzione e in stagioni differenti da quelle di raccolta, ottenendo così un’economia di spesa ed evitando il deprezzamento dovuto all’esubero dei prodotti. Le varie tecniche di conservazione, infine, rispondono pienamente alle esigenze attuali di mercato, che richiedono sempre più alimenti pronti, per venire incontro alla scarsa disponibilità di tempo da dedicare alla preparazione dei cibi.

LA CONSERVAZIONE CON METODI FISICI Il caldo e il freddo sono le due condizioni estreme sulle quali si basano tutti i principali metodi fisici di conservazione degli alimenti, se si ecludono alcune tecniche che prevedono l’impiego di radiazioni (meno utilizzate, però, delle precedenti). La conservazione con metodi fisici avviene agendo sul prodotto in diversi modi, ma, nella maggior parte dei casi, gli effetti sono soprattutto a carico dell’acqua presente negli alimenti, alla quale è fatto cambiare stato fisico, portandola in forma di vapore o di solido (ghiaccio).

L’essiccazione Durante l’essiccazione, gli alimenti sono esposti all’aria calda, che può essere naturale (atmosferica) o artificiale (ventilazione forzata). In tal modo si provvede ad allontanare A • 56

da essi l’acqua che contengono e che, in breve tempo, li farebbe deteriorare. L’essiccazione domestica • L’essiccazione domestica si effettua esponendo l’alimento al calore dell’irraggiamento solare, come accade, in particolare, per certi tipi di frutta e per lo stoccafisso. Questo metodo naturale, tuttavia, richiede molto tempo per eliminare l’acqua dagli alimenti, oltre a non preservarli totalmente da eventuali contaminazioni da parte dei microrganismi presenti nell’ambiente. Inoltre, le proprietà nutritive e organolettiche dei prodotti si modificano anche molto, a seconda delle condizioni climatiche nelle quali si effettua l’essiccazione e del tipo di alimento. Fra i cambiamenti più frequenti, e indesiderati, ricordiamo:

• la formazione di croste; • la denaturazione delle proteine; • l’irrancidimento ossidativo dei lipidi (evitabile aggiungendo all’alimento acido ascorbico, un antiossidante); • la caramellizzazione dei glucidi; • la perdita di proprietà delle vitamine termolabili, come, per esempio, la C e quelle del gruppo B.


Vi sono, però, numerosi aspetti positivi a favore di questo sistema di conservazione; in particolare: • non si aggiungono prodotti chimici; • i consumi energetici, dal punto di vista economico, sono nulli o limitati (quando dovesse mancare l’irraggiamento naturale); • il volume del prodotto può ridursi dell’80-90%. L’essiccazione industriale • Per quanto concerne la produzione alimentare di tipo industriale, la conservazione dei prodotti avviene mediante essiccatori appositi, che sono costituiti da:

• una sorgente di calore, rappresentata, in genere, da una resistenza elettrica, azionabile mediante un termostato; • un’elettroventola, per far circolare l’aria calda intorno agli alimenti; • alcuni ripiani continui o forati, il cui numero può variare da 2-3 fino a 10-15.

Per quanto riguarda il flusso d’aria, gli essiccatori industriali possono essere: • a flusso verticale, contenenti una serie di ripiani rotondi, sovrapposti, con l’elettroventola alla base dei ripiani stessi o, talvolta, al di sopra; • a flusso orizzontale, con ripiani, di forma rettangolare o quadrata, che possono essere sovrapposti, quindi a diretto contatto l’uno con l’altro, oppure sistemati su guide di scorrimento; tale disposizione consente al flusso di aria calda una circolazione che facilita l’essiccazione anche di grandi quantitativi di alimenti. Sempre a livello industriale esistono altre due modalità di essiccazione: • su tamburi cilindrici surriscaldati, sopra i quali si fa cadere un sottile film di liquido dell’alimento da essiccare che, una volta diventato una pellicola sottile, viene rimosso mediante coltelli o con sistemi pneumatici; • a spruzzo (spray dry), con il quale l’alimento, concentrato e riscaldato in precedenza, viene sminuzzato in piccolissime particelle, mediante aria calda e secca inviata ad alta pressione in un recipiente in cocorrente o in controcorrente. Gli alimenti che si possono ottenere con queste tecniche sono, per esempio, il latte e i pomodori in polvere. Tuttavia, gli effetti che si conseguono con entrambi i metodi e, in particolare con lo spray dry, sono soltanto in parte positivi. Infatti, se la perdita d’acqua (nell’alimento resta soltanto il 2-3% di liquidi) ha il pregio di arrestare l’attività batterica, nello stesso tempo modifica le proprietà organolettiche del prodotto, con la denaturazione delle proteine e la perdita delle vitamine termolabili.

Come essiccare correttamente gli alimenti • Il processo di essiccazione richiede alcune manipolazioni preliminari dei cibi. I frutti e gli ortaggi di grossa taglia non possono essere essiccati interi o semplicemente divisi a metà, ma devono essere tagliati in fette, pezzi, cubetti, striscioline, ecc. Le forme e le dimensioni del taglio dipendono dalle caratteristiche del prodotto. Poiché l’essiccazione avviene per evaporazione dell’acqua contenuta nelle cellule dell’alimento, essa deve attraversare numerosi strati cellulari (ce ne possono essere più di 10 per ogni millimetro di spessore) prima di raggiungere la superficie. Pertanto, quanto più spesse sono le fette, tanto più lungho sarà il percorso da effettuare e, di conseguenza, il tempo di essiccazione, a parità di condizioni ambientali esterne. Con un po’ di approssimazione, quindi, si può dire che uno spessore doppio richiede un tempo di essiccazione pressoché raddoppiato. L’esperienza ha dimostrato che lo spessore delle fette deve essere per lo più compreso fra 4 e A • 57


10 mm, senza con questo escludere la possibilità di fare anche fette più spesse. Il pesce, invece, prima dell’essiccazione deve essere aperto e salato, per evitare la proliferazione di batteri, anche se, nonostante tutte le precauzioni, talvolta si sviluppano specie alofile (dal greco alòs, sale), che vivono in condizioni ipersaline. Il giusto grado di essiccazione Per decidere quando un certo prodotto ha raggiunto un grado di essiccazione adeguato per i nostri scopi, è sufficiente controllare il comportamento dei vari alimenti nel corso del processo. All’inizio, infatti, essi perderanno abbastanza rapidamente l’umidità, con una sensibile diminuzione di volume e di peso, nonché con un graduale aumento della consistenza al tatto; a mano a mano che il processo volgerà al termine, queste trasformazioni rallenteranno gradualmente, fino a fermarsi del tutto. Ogni prodotto in fase di essiccazione raggiungerà, pertanto, una condizione di equilibrio dell’umidità interna, dipendente dal tipo di frutto o di

ortaggio e dalle condizioni ambientali in cui si opera. Le condizioni di conservazione dei prodotti essiccati Prima di riporre il prodotto per la conservazione, bisogna assicurarsi che sia perfettamente secco, cioè con l’umidità inferiore al 13-15% . Un prodotto essiccato può essere conservato per alcuni mesi, anche a temperatura ambiente, se posto in luogo fresco e asciutto. In caso contrario o se le chiusure dei recipienti non sono ermetiche, si incorre nella formazione di muffe. Talvolta, però, nonostante tutte le accortezze, potrebbero svilupparsi larve simili a quelle della farina, poiché la contaminazione è avvenuta sulla pianta o in tempi successivi, se si tratta di un prodotto vegetale, o durante le operazioni precedenti al trattamento di spray dry o di essiccazione su tamburi.

Per evitare tale inconveniente è sufficiente mettere il prodotto in forno per circa 15 minuti a 80 °C, realizzando una sorta di pastorizzazione, facendolo poi raffreddare prima di riporlo in recipienti ermetici. In ogni caso i prodotti sottoposti a essiccazione devono essere protetti da insetti e altri animali per evitare pericolose infestazioni, le quali potrebbero introdurre specie microbiche, in particolare batteri, nell’alimento. Seguendo alcune procedure idonee, è comunque possibile evitare molti inconvenienti di natura microbica dopo l’essiccazione. Infatti: • prevenendo la riumidificazione dell’alimento, la disponibilità di acqua (aW) al suo interno risulta troppo bassa per consentire la crescita microbica nella maggior parte dei prodotti; • ad alcuni prodotti (come frutta e uova) si può applicare un processo di pastorizzazione dopo l’essiccazione; • la reidratazione di alimenti liofilizzati da consumare cotti va effettuata ad alta temperatura (95100 °C) per distruggere gli eventuali microrganismi patogeni sopravvissuti.

La microfiltrazione Mediante la microfiltrazione si rimuovono le particelle solide presenti in un fluido facendolo passare attraverso una membrana i cui pori hanno un diametro che varia da 0,1 a 10 μm (1 μm = 10–6 m). Si ricorre a questo procedimento, per esempio, per rendere potabile l’acqua, eliminando così batteri e altri microrganismi patogeni. Con lo stesso scopo lo si usa, nell’industria A • 58


alimentare, a carico di latte, succhi di frutta, birre speciali e vino. In questi prodotti, tale tecnica sta sostituendo la pastorizzazione, poiché la microfiltrazione preserva le caratteristiche organolettiche dell’alimento. Nel settore caseario, invece, le membrane utilizzate per la microfiltrazione hanno pori del diametro di 1,4 μm, per consentire il passaggio della caseina, costituita da alcune fosfoproteine del latte, che formano micelle piuttosto grandi (sovramolecolari).

La congelazione La congelazione è un metodo molto efficace per conservare gli alimenti estremamente deperibili, poiché distrugge dal 30% al 70% dei batteri presenti. Anche se non consente la sterilizzazione totale del prodotto, essa riduce di molto l’attività delle cellule microbiche vive e degli enzimi eventualmente prodotti. Nonostante la congelazione sia molto idonea ai fini della conservazione degli alimenti, essa determina il deterioramento delle qualità organolettiche originarie: nel pesce congelato, per esempio, intervengono fenomeni di denaturazione proteica, di ossidazione dei lipidi e di disidratazione del prodotto. Inoltre, il ghiaccio, espandendosi dentro le cellule dell’alimento, modifica la struttura dei tessuti animali, diminuendone il valore nutritivo e provocandone il rammollimento. Se si mantiene, però, una temperatura compresa fra –25 °C e –30 °C, questi fenomeni si riducono, permettendo di preservare le qualità organolettiche dell’alimento. Una modalità di congelazione molto praticata da alcuni anni è quella

effettuata in mare, che consente ai pescherecci di restare per un tempo più lungo nelle aree di cattura e di sbarcare, quindi, un prodotto di qualità elevata. La tecnica della congelazione in mare, oltre ad abbattere i costi delle successive manipolazioni, consente di mantenere altissima la qualità del pescato, grazie alla produzione di filetti senza spine, nonché di prodotti ittici decapitati, sgusciati e precotti. Quest’ultima procedura riguarda in

particolare i crostacei, per i quali, il congelamento a bordo, oltre ad aumentare in maniera rilevante la shelf-life del prodotto, consente anche di accrescerne la qualità estrinseca. Infatti, in tal modo, si elimina quasi del tutto l‘utilizzo degli additivi chimici (bisolfito), largamente usati in tutto il mondo per evitare le alterazioni del carapace, ma che, durante il decongelamento, impregnano la carne dei crostacei di un retrogusto a volte nauseante. A • 59


mentre con l’azoto liquido si giunge fino a –196 °C, con una rapidità molto superiore rispetto agli altri metodi e bloccando qualsiasi fenomeno di degradazione batterica.

La refrigerazione

La surgelazione Nel corso del processo di surgelazione il prodotto, nel tempo massimo di 4 ore, è portato almeno alla temperatura di –18 °C. La tendenza odierna, però, è quella di abbassare la temperatura fino a –30 °C per un tempo che dipende dal calibro del prodotto, anche se, comunque, lo stato termico deve essere raggiunto al cuore; oltre tale valore di temperatura, tuttavia, non è più corretto parlare di surgelazione, bensì di crioconservazione. La surgelazione permette di conseguire numerosi vantaggi, tra i quali vanno ricordati: • la rapida fissazione delle caratteristiche originarie dei tessuti del prodotto fresco; • il blocco o il marcato rallentamento dei processi biochimici degradativi; • la microcristallizzazione dell’acqua nelle cellule del prodotto, che in tal modo si preservano meglio; • una notevole riduzione del liquido allo sgocciolamento del prodotto, A • 60

quando, cioè, si desidera utilizzarlo; di conseguenza, il suo valore nutritivo ha un calo minore. Le condizioni ottimali sono raggiunte, tuttavia, con la surgelazione IQF (Individual Quick Freezing), che si ottiene immergendo il prodotto in un liquido nitrogenico (a base di azoto) la cui temperatura è di –196 °C (–320 °F). Tale metodo previene le alterazioni superficiali, minimizza la disidratazione, mantenendo le proprietà organolettiche del prodotto.

La refrigerazione è un metodo di conservazione nel quale la temperatura, pur essendo bassa, permette all’acqua contenuta nell’alimento di non solidificare, mantenendo così intatte le strutture cellulari. Questo metodo può essere applicato anche in atmosfera controllata (basse concentrazioni di ossigeno) su frutta e ortaggi, ma, in tal caso, la conservabilità del prodotto è limitata a pochi giorni. Il prodotto ittico, invece, viene conservato tra 0 e 1°C in celle frigorifere o mescolato a ghiaccio in scaglie e posto in scatole di polistirolo. Il pesce, in particolare, è conservato intero, sviscerato, oppure in filetti, in confezioni sottovuoto o in atmosfera modificata. In queste ultime condizioni lo si può conservare per 910 giorni, mentre nel ghiaccio non può essere superata la settimana.

La catena del freddo La surgelazione criogenica • La surgelazione criogenica si avvale di una tecnologia d’avanguardia, oltre che a basso impatto ambientale, che impiega due gas presenti nell’atmosfera: l’azoto e l’anidride carbonica liquidi. Utilizzando questi due gas, infatti, è possibile regolare meglio il valore delle basse temperature, conservando le caratteristiche del prodotto fresco. Inoltre, se con il freddo prodotto dalle macchine di refrigerazione si possono raggiungere i – 40 °C, con l’anidride carbonica liquida si toccano i – 80 °C,

La catena del freddo si compone di tutte le fasi, di trasporto, stoccaggio ed esposizione presso il punto vendita, nelle quali devono essere rispettati specifici valori di temperatura. Tuttavia, anche la catena del freddo può presentare alcune aree critiche, cioè particolari momenti in cui i prodotti subiscono sbalzi termici, che risultano deleteri per la corretta conservazione degli alimenti. Per spiegarci meglio, prenderemo in considerazione le aree critiche rilevabili, per esempio, nella filiera


ittica e le operazioni che sono effettuate nei vari passaggi. • Cattura e primo condizionamento. Il pescato, dopo essere stato selezionato e pulito, è stivato o ricoperto di ghiaccio in celle frigorifere, a una temperatura compresa tra 0 e 4 °C, oppure collocato in celle di congelamento, dove la temperatura scende a valori tra –20 e –30 °C. • Trasporto e primo controllo di qualità. In banchina, il pesce è caricato su automezzi, sempre a temperatura refrigerata-congelata, per raggiungere lo stabilimento di lavorazione, dove è controllato da veterinari e analisti di laboratorio, per verificare che sia esente da germi e, quindi, idoneo per l’alimentazione umana.

temperatura costante. È bene mantenere spazi liberi nei corridoi intorno alle celle, per consentire la circolazione dell’aria di raffreddamento, ed effettuare la manutenzione delle guarnizioni delle porte, per evitare rotture della catena del freddo. Inoltre, attorno alle porte delle celle si deve evitare la formazione di ghiaccio e condensa, utilizzando per l’illuminazione lampade fluorescenti, che non riscaldano l’ambiente. • Logistica di distribuzione. Mediante automezzi frigoriferi, in cui la temperatura è di –18 °C, il prodotto è trasportato ai grossisti o ai punti vendita, dove è collocato nei banchi frigoriferi, al cui interno la temperatura deve essere sempre di –18 °C.

Nei frigoriferi o nelle celle la temperatura non è costante in ogni loro settore. Riferendoci ora a un frigorifero, poiché è certamente il macchinario più impiegato, vediamo come, sfruttando questo aspetto, è possibile conservare alimenti diversi. • È bene sistemare i derivati del latte, gli affettati e tutti quegli alimenti che devono essere preservati al freddo dopo l’apertura della loro confezione nella parte centrale del macchinario, cioè alla temperatura di 4-5 °C, oppure in alto, a 8 °C. • I cassetti in basso nel frigorifero, dove la temperatura è di circa Vendita al dettaglio e all’ingrosso

Magazzino frigorifero

Lavorazione dei prodotti e imballaggio

La conservazione degli alimenti in ambienti refrigerati

Magazzino frigorifero Produzione

Trasporto

Vendita

Consumo

• Condizionamento. Nel terzo passaggio della catena, il prodotto è distinto in due parti, l’una inviata direttamente ai mercati di vendita, l’altra da trasformare. Quest’ultima è collocata in celle di refrigerazione o di congelazione, in attesa di essere confezionata nelle unità di vendita. • Mantenimento. Il prodotto, una volta confezionato, è stoccato in celle a –18 °C e mantenuto a A • 61


10 °C, servono a conservare frutta e verdura; • Negli sportelli, che si trovano a circa 10-15 °C, si possono riporre burro, maionese e bibite varie. In generale, per utilizzare al meglio un frigorifero, è utile fare proprie alcune regole pratiche: • non lo si deve riempire troppo, perché altrimenti l’aria non circola bene, ostacolando così il raffreddamento; inoltre, di tanto in tanto è necessario sbrinarlo, pulendolo con acqua e aceto per sanificarlo; • alcuni tipi di verdura, come pomodori e zucchine, non hanno bisogno di refrigerazione, così come la frutta non ancora matura; • il pane conservato in frigorifero diventa raffermo più in fretta; • in estate si deve abbassare la temperatura del refrigeratore, aprendo lo sportello soltanto quando è veramente necessario e richiudendolo subito dopo;

• per conservare meglio i vari alimenti, si deve avvolgere ognuno di essi nella carta o collocarli in contenitori con il coperchio, affinché non perdano la loro umidità; • gli alimenti devono essere conservati in frigorifero soltanto per il tempo indicato sull’etichetta; • non si devono mai riporre in frigorifero gli alimenti ancora caldi, perché, oltre a sottoporre il macchinario a uno sforzo supplementare per riequilibrare il calore aggiunto, la temperatura interna aumenta, provocando uno shock termico agli altri alimenti.

La liofilizzazione La liofilizzazione consiste nell’essiccazione di un prodotto per sublimazione dell’acqua contenuta in esso, ed è denominata anche crioessiccamento. Per realizzarla bisogna operare a temperature inferiori a 0 °C e a bassa pressione, fino al sottovuoto.

Il processo di liofilizzazione inizia congelando gli alimenti tritati, che vengono portati a una temperatura compresa tra –30 e –50 °C, bloccando, così, i processi degenerativi. In seguito si procede con l’essiccazione sottovuoto spinto. Le confezioni di prodotto vengono poi sigillate ermeticamente, per mantenere il grado di secchezza raggiunto (inferiore all’12% massimo di umidità). La completa disidratazione dell’alimento, oltre a non alterare le sue caratteristiche originarie, consente di ottenere prodotti (liofilizzati) di peso e volume nettamente inferiori (da 1/4 a 1/10) rispetto a quelli di partenza, con vantaggi anche per il trasporto e l’immagazzinamento. Con questa procedura le caratteristiche nutritive e la forma degli alimenti restano invariate, mentre la loro struttura diventa spugnosa, ma possono essere reidratati più facilmente rispetto a quelli essiccati. Attualmente, questa tecnica trova svariate applicazioni, fra le quali la preparazione di brodi, minestroni, pappe per bambini, carni e verdure omogeneizzate.

La pastorizzazione e la sterilizzazione La pastorizzazione e la sterilizzazione sono trattamenti termici che, sfruttando l’azione battericida del calore, riescono a disattivare gli enzimi e a distruggere gran parte dei microrganismi presenti nell’alimento, anche se alcune forme possono comunque sopravvivere. La durata del trattamento varia con la natura del prodotto e col grado di contaminazione: più elevata è la carica microbica iniziale (bioburden) e più drastico deve essere il trattamento termico. A • 62


La pastorizzazione • Si deve al microbiologo francese Louis Pasteur l’invenzione, alla fine dell’Ottocento, del metodo della pastorizzazione, consistente in un trattamento termico che rende inattivi gli enzimi, i quali degraderebbero l’alimento, e distrugge buona parte dei germi patogeni presenti nel prodotto. Le spore batteriche e i microrganismi termofili, però, non sono eliminati alle temperature della pastorizzazione, comprese tra 50 °C e 60 °C; di conseguenza, questa tecnica è solitamente accoppiata ad altri metodi come, per esempio, la refrigerazione. La pastorizzazione può essere:

• bassa (60-65 °C per 30 minuti), utilizzata principalmente per la birra e il vino; • alta (>75-85 °C per circa 10-15 secondi), impiegata soprattutto per il latte e i suoi derivati. I liquidi possono essere sottoposti anche alla pastorizzazione HTST

(High Temperature Short Time), durante la quale essi scorrono tra due pareti scaldate a 75-85 °C per 15-20 secondi. La sterilizzazione • Con la sterilizzazione il cibo viene liberato dai microrganismi nocivi tramite un trattamento a temperatura che, in genere, supera i 100 °C.

Per il latte, in particolare, si usa il metodo UHT (Ultra High Temperature) in cui si raggiungono almeno i 121 °C, per pochi secondi, con il risultato di distruggere buona parte delle spore e delle forme microbiche. In sintesi, per sterilizzare si possono impiegare vari metodi, vale a dire: • sterilizzazione classica, che si effettua su alimenti inscatolati, alla temperatura di 100-120 °C per più di 20 minuti; • UHT indiretto, compiuto sull’alimento sfuso, posto in acqua dentro l’autoclave a 140-150 °C; • UHT diretto, che consiste nel riscaldare l’alimento a 75-85 °C e nel sottoporlo poi a un getto di vapore a 130-140 °C, per pochi secondi. In generale, con la sterilizzazione è possibile conservare molti alimenti, fra i quali confetture, sottaceti, latte, succhi di frutta, conserve, carne, verdure e pietanze già pronte. A • 63


Anche i pesci possono essere conservati con questo metodo, in particolare le acciughe, le sarde e le aringhe. Per evitare, però, la realizzazione di prodotti scadenti e alterati, è bene che la salagione avvenga immediatamente dopo la pesca.

Il trattamento con soluzioni zuccherine

LA CONSERVAZIONE CON METODI CHIMICI I metodi chimici di conservazione (per esempio, l’aggiunta di sale o di zucchero) sono sistemi più economici rispetto a quelli fisici a cui devono comunque essere abbinati, poiché da soli non sono sufficienti.

La salatura La salatura, o salagione, è forse il sistema di conservazione più antico. La sua efficacia dipende dal fatto che le cellule dei microrganismi, se sono immerse in una soluzione salina, perdono acqua per osmosi, morendo. Esistono due tipi di salatura: • a secco, ottenuta cospargendo gli alimenti di sale e sfregandoli di tanto in tanto, oppure impilandoli in modo alternato con il sale; A • 64

• a umido, detta anche salamoia, che consiste in una soluzione di acqua e sale al 10% (salamoia debole), al 18% (salamoia media) e al 25-30% (salamoia forte); si tratta di un sistema più rapido di quello a secco ma meno efficace. Per quanto riguarda le carni, si può anche iniettare acqua salata nei muscoli e nel sistema arterioso (siringatura), come nel caso dei prosciutti. La carne è adatta alla salagione, basti pensare agli insaccati, ma a suo carico avvengono alcune variazioni come: • l’aumento di acidità; • la denaturazione delle proteine muscolari; • la diminuzione del valore nutrizionale, poiché si perdono sali minerali e vitamine; • l’accelerazione dell’ossidazione dei lipidi; • la variazione di colore.

Il meccanismo di azione dello zucchero (saccarosio) è identico a quello osmotico svolto dal sale. Inoltre, lo zucchero inibisce i processi fermentativi e la moltiplicazione di buona parte dei microrganismi. Alcuni di essi sopravvivono e, di conseguenza, si deve abbinare anche la sterilizzazione. La concentrazione di zucchero deve essere, in genere, del 65-70%, se si vogliono conservare marmellate e confetture. Se la percentuale è minore, è necessario abbinare altri metodi, compreso quello di acidificare l’alimento. La frutta candita si conserva senza sterilizzarla perché contiene meno


acqua libera, mentre la frutta sciroppata, che ha una concentrazione di zucchero compresa tra il 18-25%, deve essere sterilizzata. I prodotti trattati con questa tecnica devono essere tenuti in contenitori chiusi, al riparo dall’umidità, per evitare che le muffe trovino nello zucchero un substrato adatto per crescere.

La marinatura La marinatura consiste nell’immergere l’alimento in sostanze acide, come aceto, succo di limone o vino, a volte abbinate a olio e a spezie: si tratta di una conservazione a breve termine, che ammorbidisce le fibre muscolari della carne, elimina sapori forti, come quelli della selvaggina oppure “cuoce” a freddo, come nel caso del carpaccio. I tempi necessari per una buona marinatura variano a seconda delle dimensioni del pezzo impiegato, che, se è grande, si consiglia di incidere, per aumentare la superficie di contatto

con la marinata. Inoltre, a temperatura ambiente, il processo è più rapido, mentre è rallentato alle basse temperature.

La conservazione nell’aceto La conservazione nell’aceto, da solo o in abbinamento con altre tecniche, si compie grazie all’acido acetico che si trova diluito nell’aceto stesso, abbassando il pH della soluzione. L’aceto, inoltre, deve possedere più del 6% di acidità totale e una quantità residua di alcol non superiore all’1,5%. Per realizzare la preparazione con l’aceto, i vegetali, come cetrioli, cipolline, peperoni, funghi e verdure miste, vengono ridotti a piccoli pezzi, sbollentati e sgocciolati, quindi immersi nell’aceto di vino, in genere bianco, perché non altera il colore degli alimenti. Nel caso di prodotti ittici, come le aringhe, la conservazione può avvenire in due modi: • a freddo, previa salagione; • a caldo, per immersione in una salamoia con il 2-3% di aceto e il 4-5% di sale.

La conservazione nell’alcol L’alcol è usato per conservare gli alimenti poiché, quando la sua concentrazione è superiore al 60%-70%, i microrganismi non possono svilupparsi: infatti, tranne che per le spore batteriche, l’alcol è letale per tutte le forme vegetative. Nel caso si debba conservare la frutta, come ciliegie, albicocche e prugne, all’alcol, in genere contenuto nel maraschino o nel rum, si aggiunge anche zucchero, incrementando così il potere conservante.

La conservazione in atmosfera protettiva Per conservare in atmosfera protettiva, durante il confezionamento di un prodotto, l’aria è sostituita con una miscela di gas, solitamente azoto e anidride carbonica, sottraendo così l’ossigeno ai microrganismi aerobi (che necessitano di questo gas), preservando molto più a lungo l’alimento e prolungandone lo shelf-life. Inoltre, con questo trattamento, si conservano bene l’aroma, il sapore, il colore e tutte le proprietà nutrizionali e organolettiche dei vari prodotti. L’atmosfera protettiva, però, non uccide i microrganismi già presenti nell’alimento; di conseguenza, per ottenere il massimo dei risultati, è fondamentale l’igiene di tutta la linea produttiva. Questo metodo di conservazione è impiegato per la preparazione di formaggi, carni e piatti pronti, ma anche per quella di caffè istantaneo, latte in polvere e succhi di limone, fino alle verdure e ai funghi. A • 65


LA CONSERVAZIONE CON I METODI CHIMICO-FISICI E BIOLOGICI Nel campo della conservazione degli alimenti si impiegano anche metodi che si avvalgono di più agenti conservanti, associando, quindi, le componenti fisiche, chimiche e, in alcuni casi, quelle biologiche.

L’affumicatura L’affumicatura si svolge esponendo l’alimento al fumo di vari tipi di legna (quercia, abete e pino o piante aromatiche, come salvia, alloro e rosmarino) per vari giorni alla temperatura di 25 °C, oppure soltanto per poche ore a 70-100 °C. Con questo metodo sono sfruttati sia aspetti fisici, come la disidratazione operata dal calore, sia l’azione chimica delle sostanze contenute nel fumo, il quale è composto da una fase gassosa, responsabile dell’aroma, e da una fase solida, che contiene, però, anche A • 66

sostanze cancerogene. Per questo motivo, talvolta, vengono usati aromatizzanti per simulare l’affumicatura, anche se il risultato è spesso deludente. La tecnica dell’affumicatura è usata soprattutto per conservare pesce, carne e salumi; è possibile prolungarne l’azione abbinandola alla salagione e all’essiccamento. I pesci sottoposti ad affumicatura sono,

da alcune specie di lieviti e di batteri, capaci di produrre sostanze che impediscono il deperimento dell’alimento. Questi processi chimico-biologici aumentano la conservabilità degli alimenti di origine animale e distruggono le componenti tossiche eventualmente presenti in essi, ma, nello stesso tempo, ne modificano il gusto e la composizione.

in genere, i salmoni, le sardine, le trote, le anguille, le aringhe e gli storioni. Per quanto riguarda la carne, si ricorre a questa tecnica nei casi di prodotti come, per esempio, pancetta, salsiccia e prosciutto cotto, vale a dire per quegli alimenti che possono essere conservati per alcuni mesi a temperature poco sopra lo zero.

Esistono tre tipi principali di fermentazione:

La fermentazione La fermentazione è un metodo biologico che sfrutta l’azione di microrganismi (fermenti) rappresentati

• alcolica, usata per produrre pane, vino e birra, grazie a lieviti del genere Saccharomyces che trasformano il glucosio in alcol etilico e anidride carbonica; • lattica, svolta da batteri dei generi Lactobacillus e Streptococcus, che trasformano il lattosio in acido lattico, fondamentale per produrre formaggi e yogurt, ma importante anche nella maturazione degli insaccati; • propionica, favorita dal


Proprionibacterium, che trasforma gli zuccheri semplici in acido propionico e anidride carbonica; è la fermentazione che produce i fori tipici del formaggio svizzero.

L’aggiunta di additivi L’additivo alimentare è una sostanza che normalmente non è consumata come alimento in sé ma lo diventa dopo essere stata aggiunta ai vari prodotti durante una delle fasi del loro trattamento. Gli additivi sono essenziali per conservare la qualità e le caratteristiche degli alimenti, mantenendo il cibo sicuro e, nello stesso tempo, appetitoso. La loro sicurezza è provata da vari studi e ne è consentito l’uso, secondo dosi ben definite, soltanto per un’esigenza tecnologica documentata. Il loro profilo tossicologico, inoltre, è costantemente monitorato da organizzazioni nazionali e internazionali, anche se si deve ricordare che molti additivi sono costituenti naturali, come l’acido citrico

(dagli agrumi), la lecitina (dalla soia) e le pectine (dalla frutta in genere). A partire dal 1962, l’uso degli additivi nell’industria alimentare è consentito, secondo la Legge 30 aprile 1962, n. 283, soltanto a seguito di un’autorizzazione con decreto del Ministero per la sanità e, dal 1996, l’impiego è stato disciplinato da direttive del Parlamento italiano e del Consiglio europeo. Infine, il 16 dicembre 2008 sono state emanate nuove disposizioni comunitarie, cioè il Regolamento (CE) n. 1331/2008 e il Regolamento (CE) n. 1333/2008 del Parlamento europeo e del Consiglio, che regolamentano i cosiddetti “migliorativi alimentari” e stabiliscono un’unica procedura per la loro autorizzazione. Secondo il Regolamento (CE) n. 1331/2008, gli additivi alimentari, gli enzimi e gli aromi possono essere commercializzati e impiegati negli alimenti soltanto se inclusi in apposite liste pubblicate dell’Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare. Lo stesso regolamento, che modifica soltanto in parte la normativa vigente, prevede il

trasferimento degli additivi alimentari già autorizzati negli allegati II e III dello stesso regolamento. Tuttavia, finché non sarà completato il nuovo regolamento, continueranno a essere applicate le disposizioni del Decreto 27 febbraio 1996 n. 209 e successive modifiche. La disciplina del 2008, però, prevede importanti adempimenti: • a partire dal 20 luglio 2010 gli alimenti contenenti i coloranti E 102, E 104, E 110, E 122, E 124 ed E 129 devono riportare sull’etichetta della loro confezione le informazioni previste nell’allegato V del Regolamento (CE) n. 1333/2008; tuttavia, gli alimenti presenti sul mercato o etichettati prima di tale data possono essere commercializzati fino al termine minimo di conservazione o data di scadenza; a questo proposito si vedano gli articoli 24, 31 e l’allegato V del Regolamento (CE) n. 1333/2008; • a partire dal 20 gennaio 2011, i produttori di edulcoranti da tavola sono tenuti a informare i consumatori sull’uso corretto dei loro prodotti, mediante l’etichettatura ma anche con siti Internet specifici, attraverso linee d’informazione destinate ai consumatori o direttamente nel punto di vendita. In termini generali, quando sull’etichetta di un prodotto troviamo la lettera “E” seguita da un numero, per esempio E 212, ciò significa che quel prodotto contiene un additivo o un colorante autorizzato dall’Unione Europea. Ai sensi del Regolamento (CE) n. 1333/2008, gli additivi alimentari sono classificati in categorie sulla base della loro funzione tecnologica come indicato nella tabella alla pagina seguente. A • 67


Utilizzi degli additivi alimentari Acidificanti

Aumentano l’acidità del prodotto conferendogli un sapore aspro.

Addensanti

Aumentano la viscosità di un prodotto alimentare, come condimenti per insalate e latte aromatizzato. In natura troviamo la gelatina e la pectina.

Agenti antischiumogeni

Impediscono o riducono la formazione di schiuma.

Agenti di carica

Contribuiscono ad aumentare il volume di un prodotto alimentare senza partecipare in modo significativo al suo valore energetico disponibile.

Agenti di resistenza

Rendono o mantengono croccanti i tessuti dei frutti o degli ortaggi.

Agenti di rivestimento (inclusi gli agenti lubrificanti)

Sono sostanze che, applicate alla superficie esterna di un prodotto alimentare, gli conferiscono un aspetto brillante o gli forniscono un rivestimento protettivo.

Agenti di trattamento delle farine

Si tratta di sostanze che vengono aggiunte alla farina o a un impasto per migliorarne le qualità di cottura, con l’esclusione, però, degli emulsionanti.

Agenti gelificanti

Danno consistenza a un prodotto alimentare tramite la formazione di un gel.

Agenti lievitanti

Sostanze, o combinazioni di sostanze, che, reagendo, liberano gas e, in questo modo, aumentano il volume di un impasto o di una pastella.

Agenti schiumogeni

Consentono di ottenere una dispersione omogenea di una fase gassosa in un prodotto alimentare liquido o solido.

Agenti sequestranti

Sono sostanze che formano complessi chimici con ioni metallici.

Agenti umidificanti

Impediscono l’essiccazione degli alimenti, contrastando la scarsa umidità atmosferica, oppure promuovono la dissoluzione di una polvere in un ambiente acquoso.

Amidi modificati

Sostanze ottenute mediante uno o più trattamenti chimici, fisici ed enzimatici a carico di amidi alimentari; possono essere acidi o alcalini, diluiti o bianchiti.

Antiagglomeranti

Riducono la tendenza delle particelle che compongono un prodotto alimentare ad aderire l’una all’altra.

Antiossidanti

Proteggono gli alimenti dall’ossidazione, che può causare l’irrancidimento e la variazione di colore dei prodotti.

Coloranti

La maggior parte di essi è di origine sintetica e servono a rendere più invitanti alcuni alimenti.

Conservanti

Prolungano la conservazione degli alimenti impedendo la proliferazione di microrganismi patogeni.

Edulcoranti

Conferiscono sapore dolce agli alimenti e sono utili nella preparazione di prodotti ipocalorici o dietetici speciali (per esempio, per diabetici).

Emulsionanti

Sono sostanze che rendono possibile la formazione o il mantenimento di una miscela omogenea, composta da due o più fasi immiscibili, come olio e acqua, in un prodotto alimentare (per esempio, margarina e gelato).

Esaltatori di sapidità

Esaltano il sapore e/o la fragranza già esistente in un prodotto alimentare.

Gas d’imballaggio

Gas differenti dall’aria, introdotti in un contenitore prima, durante o dopo avervi immesso un prodotto alimentare.

Propellenti

Gas differenti dall’aria che espellono un prodotto alimentare da un contenitore.

Regolatori dell’acidità

Sostanze che controllano l’acidità o l’alcalinità di un prodotto alimentare.

Sali di fusione

Disperdono le proteine contenute nel formaggio, realizzando in tal modo una distribuzione omogenea dei grassi e di altri componenti.

Stabilizzanti

Componenti che rendono possibile la conservazione dello stato fisico-chimico di un prodotto alimentare. Essi comprendono: le sostanze che rendono possibile il mantenimento di una dispersione omogenea di due o più sostanze immiscibili in un prodotto alimentare, quelle che stabilizzano, trattengono o intensificano la colorazione esistente di un prodotto alimentare e le sostanze che aumentano la capacità degli alimenti di formare legami, compresi quelli incrociati tra le proteine, in modo tale da consentire il legame delle particelle per la formazione dell’alimento ricostituito.

Supporti

Modificano fisicamente le sostanze aggiunte agli alimenti allo scopo di facilitarne la manipolazione.

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DAL PRODUTTORE

I NUOVI STRUMENTI PER LA SICUREZZA ALIMENTARE Dopo l’emanazione del Pacchetto Igiene nel 2004, la sicurezza alimentare può contare su alcuni aspetti operativi di fondamentale importanza, consistenti in: • valutazione del rischio a carico dei prodotti alimentari e dei procedimenti a cui sono sottoposti; • effettuazione di controlli che coinvolgono gli alimenti lungo la loro filiera produttiva, considerando le procedure di tracciabilità e di rintracciabilità dei prodotti stessi; • attribuzione di responsabilità sia a coloro che operano nel settore alimentare e della ristorazione, sia al consumatore, che non deve essere più un semplice fruitore, ma un attore partecipe del mantenimento della sicurezza degli alimenti.

AL CONSUMATORE

La filiera alimentare Ogni prodotto alimentare immesso sul mercato per giungere al consumatore finale ha una sua storia, che possiamo identificare con la filiera in cui è inserito, che, partendo dai campi dove è stato coltivato, prosegue nell’azienda che l’ha trasformato in un derivato o in un prodotto finito, per poi giungere sulla tavola del consumatore. È interessante notare che, mentre in passato il consumo alimentare si basava su filiere corte, costituite da un percorso che spesso si esauriva nello stesso territorio in cui viveva il fruitore dei prodotti, dagli ultimi decenni del XX secolo si è visto aumentare il numero di filiere lunghe, caratterizzate da percorsi di produzione, trasformazione, A • 69


conservazione e trasporto che spesso coinvolgevano (e coinvolgono tutt’ora in molti casi) regioni e anche nazioni diverse. Questa seconda condizione di filiera determina, chiaramente, la necessità di predisporre metodi di conservazione che talvolta sono drastici, con la conseguenza di diminuire le qualità organolettiche e nutrizionali degli alimenti. A ciò si aggiungono i fenomeni di inquinamento ambientale generati dall’uso di sostanze chimiche nel corso della produzione primaria (per esempio fitofarmaci, concimi) e dai combustibili necessari per il trasporto su lunghe distanze dei prodotti stessi. Attualmente, però, si sta assistendo a un’inversione di tendenza, che vede collocati in primo piano nell’attenzione dei consumatori i cosiddetti alimenti a chilometri zero, i quali fanno parte di filiere corte, che spesso si esauriscono a livello locale, con percorrenze che raramente superano i 30 km dall’area di produzione primaria. I vantaggi di questi prodotti sono molti: • presentano un’elevata sostenibilità ambientale (prodotti ecosostenibili), poiché riducono l’emissione di gas serra grazie al fatto che sono trasportati per percorsi brevi o, in alcuni casi, sono addirittura venduti direttamente dal produttore; • danno maggiori garanzie di freschezza e di genuinità, poiché in genere non necessitano di processi di conservazione, se non legati, in alcuni casi, alla catena del freddo; • valorizzano la stagionalità degli alimenti, fonte di maggiore salubrità dei cibi; • favoriscono il recupero delle produzioni locali e delle tradizioni alimentari. A • 70

La tracciabilità e la rintracciabilità degli alimenti Come abbiamo osservato, un punto importante per il mantenimento della sicurezza alimentare è rappresentato da due procedure indicate come rintracciabilità e tracciabilità, che meritano di essere considerate con attenzione, anche perché i termini che li identificano sono molto simili, pur riguardando percorsi diversi. • La rintracciabilità, rappresenta, infatti, la possibilità di conoscere l’intero percorso seguito da un certo alimento lungo la sua filiera, da quando arriva sul mercato andando a ritroso verso il momento della produzione, cioè, “dalla foce alla sorgente”. Questo scopo può essere raggiunto mediante l’esame della documentazione fornita dai vari addetti lungo la filiera stessa, così da poter intervenire in modo

immediato e capillare nel caso in cui il prodotto fosse interessato da problemi igienico-sanitari che necessitino il suo ritiro dal mercato. L’obbligo di rintracciabilità, a partire da gennaio 2006, è relativo a tutti i prodotti alimentari immessi al consumo. • La tracciabilità, invece, si basa, come ricorda il termine stesso, sulle tracce che l’alimento lascia lungo un percorso, più o meno lungo, che questa volta si snoda “dalla sorgente alla foce”, cioè dal produttore al consumatore, il quale, grazie a queste informazioni, può conoscere la storia del prodotto di cui si sta cibando. Questa seconda procedura mira a rendere consapevole il consumatore dell’iter che ha seguito un certo cibo prima di giungere sulla sua tavola, consentendogli di effettuare scelte alimentari più motivate e consapevoli.


B Gli aspetti organizzativi MACROAREA


MERCATO 1 ILRISTORATIVO E LA NEO-RISTORAZIONE

LE CLASSI RISTORATIVE Intendendo come mercato ristorativo il punto di incontro tra la domanda e l’offerta inerenti il settore della ristorazione inteso nel suo senso più ampio, occorre definire chi sono gli attori dell’offerta, pur mantenendo come presupposto la centralità della domanda e, quindi, del cliente. Trattandosi, infatti, di imprese di servizi, il ruolo del cliente è fondamentale tanto che, in sua assenza, il servizio stesso non può essere erogato e che il consumatore stesso partecipa attivamente all’erogazione del servizio, oltre a esserne fruitore, assumendo il ruolo di prosumer (termine derivante dalla fusione di “produttore”, producer, e “consumatore”, consumer). Non a caso la ristorazione commerciale e quella collettiva in particolare hanno manifestato una sempre crescente attenzione per le esigenze dietetiche personali dei consumatori, concentrandosi, per esempio, sulla preparazione di piatti consumabili anche da parte di quei soggetti che presentano intolleranze alimentari. Un’impresa di servizi deve saper trasformare, infatti, il proprio metodo di lavoro, diventando un organo vitale e adattabile alle varie esigenze, con l’obiettivo preciso della soddisfazione dei desideri e delle aspettative del cliente. Partendo da questo presupposto, è necessario chiarire che le classi ristorative, cioè le diverse attività di settore, non sono più entità monolitiche e definite come avveniva, invece, un tempo, dato che il mercato registra una sempre maggiore B•2

richiesta di flessibilità e di adattabilità, quasi una commistione di generi e modi, con il preciso obiettivo di soddisfare le richieste di una domanda di settore sempre più diversificata. Chiaramente le aziende operanti sul mercato ristorativo possono essere classificate secondo diversi criteri, quali, per esempio, la modalità di servizio, la tipologia di cucina oppure la categoria di prezzo applicata alle prestazioni, anche se è preferibile, in primis, distinguerle in due macrocategorie, che tengono conto sia del servizio offerto nel suo insieme sia della dinamica organizzativo-gestionale dell’impresa, riconoscendole come operatori della ristorazione sociale o collettiva o della ristorazione commerciale.

La ristorazione collettiva La ristorazione collettiva è un servizio di fornitura di cibi e bevande rivolto a esercizi pubblici, come, per esempio, scuole di qualsiasi ordine e grado, aziende, aziende ospedaliere e strutture militari, cioè strutture costituite, nell’ottica di chi fornisce un servizio ristorativo, da una o più categorie di consumatori con esigenze per lo più omogenee e costanti, una su tutte la necessità di consumare uno o più pasti fuori dall’ambiente domestico. La crescente tendenza al consumo di pasti al di fuori delle mura domestiche registrata negli ultimi decenni scaturisce da una serie di dinamiche sociali difficilmente riassumibili


nella loro complessità, ma riconducibili, almeno in parte e per quello che riguarda la ristorazione collettiva, ad alcuni fenomeni, tra i quali è bene ricordare: • l’aumentata scolarizzazione unita al maggior numero di ore di insegnamento che ha portato alla necessità di organizzare servizi di mensa all’interno delle scuole di ogni ordine e grado; • la flessibilità e la mobilità richieste dal mercato del lavoro, che hanno incrementato, spesso, la distanza tra la residenza abituale e il luogo di lavoro, rendendo più frequentemente necessario, laddove conveniente, organizzare mense aziendali ad uso del personale; • la maggiore attenzione posta alla qualità del cibo, anche e soprattutto in ambito terapeutico, che ha influenzato positivamente l’organizzazione della ristorazione ospedaliera. Quando si avvale di servizi di ristorazione collettiva, che mirano a soddisfare bisogni di tipo primario facenti capo a un grande numero di persone, l’utente finale paga solo una parte del servizio, in quanto la quota rimanente è a carico dell’ente, azienda, scuola, o istituzione che lo ha commissionato. Dagli anni Ottanta del secolo scorso, le aziende, le scuole e gli ospedali hanno cominciato ad affidare, mediante gare di appalto, ad aziende esterne, nella fattispecie a società di catering (caterer), la preparazione dei pasti, favorendo lo sviluppo di questa tipologia di imprese, specializzate nell’erogazione di servizi di ristorazione collettiva. Queste aziende, organizzate su base industriale e mai a conduzione familiare, hanno idonee attrezzature di proprietà e personale esperto dipendente e, di volta in volta, possono produrre le pietanze secondo il sistema

convenzionale, cioè presso le strutture fornite del committente, oppure con un sistema a legame differito, ossia direttamente in locali di proprietà dai quali le vivande sono trasportate presso i luoghi di consumo. Queste imprese hanno un’articolazione piuttosto complessa, anche perché l’organizzazione completa del servizio e il suo successo dipendono da un investimento economico che permette di usufruire di strutture e attrezzature adatte, nonché di ausili logistici, informatici e tecnici utili anche nelle fasi di coordinamento e verifica. Naturalmente, trattandosi di aziende del settore alimentare, fondamentale importanza assumono il rispetto rigoroso di norme igieniche fissate per legge e la garanzia di elevati livelli qualitativi del prodotto; non può mancare una particolare attenzione posta allo svolgimento delle fasi di trasporto delle vivande, qualora quest’ultimo sia previsto. Pur essendo destinati a grandi numeri di persone, i servizi di ristorazione collettiva richiedono un’attenzione particolare per quelle che sono le esigenze dell’utente finale, che devono sempre essere valutate e soddisfatte. Una delle forme principali di ristorazione collettiva è quella sanitaria, prestata all’interno di aziende ospedaliere e case di


cura o di riposo, spesso provviste di una propria cucina interna. Rivolgendosi a utenti particolarmente delicati, che presentano necessità nutritive e dietetiche particolari, questo servizio richiede la massima attenzione alle materie prime e al rispetto di precise norme igieniche e applicative. I menu proposti devono essere vari, studiati appositamente per rispondere alle esigenze degli utenti finali, che possono essere in età pediatrica, adulta o senile, oltre a presentare precise esigenze dietoterapeutiche dovute a particolari patologie, allergie o intolleranze alimentari. La ristorazione in comunità interessa realtà particolari, come, per esempio, carceri e strutture militari. In questi casi, l’azienda ristorativa può basarsi sia sul modello convenzionale sia su quello a legame differito, vale a dire che i pasti possono essere preparati nella sede di consumo oppure preparati e successivamente trasportati dal centro di produzione al luogo di consumo, ma la gestione del servizio deve tenere conto del fatto che a farsi pienamente carico del suo costo è la collettività tutta.

appalto dai Comuni a ditte specializzate esterne, che si occupano di preparare cibi nutrienti e prodotti con materie prima di qualità, preferibilmente biologiche, vista la delicata categoria di utenti, composta da bambini e ragazzi, ricorrendo sia al sistema convenzionale sia a quello a legame differito. I menu destinati alle scuole devono considerare le direttive imposte dagli enti organizzatori del servizio, garantendo il rispetto delle indicazioni fornite dai LARN (Livelli di assunzione raccomandati di nutrienti e di energia). Essi devono essere, quindi, non solo vari, ma anche leggeri e bilanciati dal punto di vista nutrizionale e devono prevedere soluzioni alternative altrettanto valide per quei soggetti che presentano esigenze speciali.

La ristorazione scolastica è nata nell’ambito della scuola dell’obbligo, per poi potenziarsi e integrarsi anche ad altri livelli del sistema dell’istruzione e della formazione. Il servizio ristorativo di asili e scuole dell’obbligo è dato in

Ai lavoratori dipendenti, invece, è dedicata la ristorazione aziendale, che trova applicazione nelle classiche mense. Il servizio di fornitura dei pasti è commissionato di solito a ditte esterne che, in genere, propongono la modalità selfservice, con menu a rotazione che offrono un numero limitato di scelte per le varie portate. Indipendentemente dal sistema adottato, convenzionale o a legame differito, all’interno delle aziende si ricerca un servizio efficiente, di alto livello qualitativo e igienico. Il crescente e gravoso impegno di provvedere al pasto dei propri dipendenti ha portato non solo le aziende, per le quali i costi di gestione di una mensa aziendale, soprattutto nelle realtà di dimensioni minori, sono piuttosto elevati, ma anche le imprese di servizi a ricorrere alla formula dei ticket restaurant, cioè di buoni, di B•4


un certo valore economico prefissato, spendibili sul territorio nazionale presso esercizi (ristoranti, bar o selfservice), negozi e supermercati convenzionati con la società emittente che li ha venduti al datore di lavoro. Incassati i buoni pasto dei dipendenti, l’esercizio ristorativo li consegne alla società per ricevere il rimborso del servizio offerto.

La ristorazione commerciale Nella categoria della ristorazione commerciale rientra tutta una serie di esercizi pubblici, dalla pizzeria al taglio fino al ristorante di lusso, diversi tra loro per organizzazione interna,

sostentamento, sia secondario, che prevedono, invece, un’alimentazione intesa come momento di svago. I luoghi tradizionali della ristorazione commerciale • Il ristorante è il luogo per eccellenza dove, per lunga tradizione, si consumano pasti fuori casa, per le più svariate ragioni. Innanzi tutto, quindi, è bene definire cosa si intende col termine ristorante: esso contraddistingue un locale pubblico arredato, strutturato e gestito secondo il gusto del proprietario che ha lo scopo di soddisfare i bisogni dei consumatori (clienti), con un’offerta di cucina e di servizio specifiche. In genere, il ristorante è composto da due aree, l’una di produzione, la cucina, e l’altra di consumo, la sala.

dimensioni e tipologia di servizio. In linea di massima, questi locali nascono per soddisfare le esigenze di un pubblico che presenta le motivazioni più svariate, andando, per esempio, da chi vuole fare uno spuntino, a chi intende consumare un pasto fuori casa per semplice svago, a chiusura di un’attività culturale o durante una gita turistica, oppure per celebrare un evento speciale. Più frequentemente, in realtà, i clienti di queste strutture ristorative scelgono il pasto fuori dalle mura domestiche per necessità legate al lavoro o allo studio. In ogni caso, si usufruisce di questo servizio in modo saltuario e pagando subito l’intero prezzo della consumazione. Solitamente è un servizio inteso per piccoli gruppi di persone e può mirare a soddisfare bisogni sia di tipo primario, che intendono cioè l’alimentazione come B•5


Accanto ai ristoranti tradizionali, dove si possono consumare piatti della cucina nazionale e internazionale, in un’atmosfera curata, con un servizio di livello medio e prezzi modici, il mercato offre altre forme, tra le quali i ristoranti gourmet, spesso consigliati nelle maggiori guide gastronomiche, che offrono un servizio e una proposta enogastronomica molto accurati, i ristoranti d’affari, vale a dire locali con un servizio esclusivo e una cucina caratterizzata da un’offerta ampia e attenta ai consumatori internazionali, i ristoranti etnici, rivolti soprattutto a un pubblico che ricerca una nuova esperienza gastronomica o l’atmosfera dei luoghi di vacanza, oppure il fascino dell’Oriente e dell’esotico, e i ristoranti alternativi, basati su forme di cucina particolari, come quella salutistica o macrobiotica, oppure appartenenti a catene in franchising, variamente note, che diventano luoghi di aggregazione per i più giovani e prestano un servizio standardizzato, di livello medio e a prezzi moderati. Non va dimenticata quella che può essere definita la tipologia ristorativa tipicamente italiana, cioè il ristorante-pizzeria, un locale di solito informale, che offre una vasta gamma di pizze, insieme a una cucina varia, con un servizio rapido, di livello medio e a prezzi piuttosto contenuti. Sempre restando nell’ambito della tradizione italiana, vanno ricordate le trattorie, strutture a gestione familiare, dall’atmosfera semplice e casalinga, che, a un prezzo moderato, offrono un menu non troppo ampio composto di piatti della tradizione locale, e gli agriturismi, strutture alberghiero-ristorative, che, all’offerta eno-gastronomica caratterizzata da un ottimo rapporto qualità-prezzo, uniscono i vantaggi della collocazione in ambiente rurale. La ristorazione veloce • Nata per soddisfare le esigenze di una clientela giovane, sempre in movimento e spesso di fretta, con una predilezione per gli ambienti rumorosi, nel

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quadro di una vita sempre più frenetica, la ristorazione veloce ha subito un notevole impulso dalla tendenza sempre più generalizzata di consumare i pasti, specialmente il pranzo, fuori casa e, in genere, di fretta. Questa categoria ristorativa è caratterizzata dall’informalità, offre cibi di modesta qualità (e di varietà limitata), a prezzi decisamente contenuti, che soddisfano categorie di avventori con una ridotta possibilità di spesa e sono nettamente inferiori a quelli praticati dai servizi della ristorazione classica. Il servizio è veloce e semplice, prevedendo, in genere, tavoli condivisi tra più clienti, senza tovaglia e senza coperto. Inoltre, il personale del locale non fornisce alcuna prestazione, dato che il cliente preleva direttamente il cibo. Fanno parte della ristorazione veloce molte forme organizzative, alcune delle quali condotte a livello personale o familiare e altre gestite da aziende di dimensioni mediograndi dal marchio famoso: esempi emblematici di questa classe ristorativa sono le più famose catene di fast food, ma anche self-service, pizzerie al taglio o da asporto, spaghetterie, take away, gastronomie e rosticcerie, snack bar, piadinerie, crêperie, paninoteche, kebaberie e altri locali di questo genere, tra i quali grill room e steak house. Le pizzerie al taglio o da asporto propongono vari tipi di pizze e focacce in tranci, che possono essere sia consumati nel locale, in genere in piedi, sia predisposti in apposito imballaggio di cartone e consumati in altro luogo. Per quanto riguarda l’offerta gastronomica di piadinerie, crêperie e kebaberie, essa è definita in modo univoco dal nome usato per identificare queste strutture, che possono disporre di spazi per il consumo in loco, spesso in piedi, oppure essere attrezzate per la consegna delle preparazioni debitamente imballate da consumarsi altrove. Il take away consente di acquistare cibi pronti da asporto, per poi

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consumarli a casa o per strada. Si tratta di una modalità di servizio presente anche presso ristoranti etnici o regionali, come, per esempio, le friggitorie tipiche della Sicilia. Anche presso le tradizionali gastronomie e rosticcerie si possono acquistare primi piatti, secondi piatti o preparazioni a base di vegetali pronti da asporto. Le spaghetterie offrono, invece, una vasta scelta di piatti a base di pasta precotta o surgelata, preparata con una vasta gamma di salse, che necessariamente sono consumati nel locale. In Italia sono molto diffusi gli snack bar e le paninoteche, evoluzione dei bar classici che si sono trasformati in veri punti di ristorazione, presso i quali, quotidianamente, molte persone consumano pasti veloci a base di piatti caldi e freddi, tramezzini, panini e insalate. Una forma ristorativa veloce ma più curata è quella delle grill room e delle steak house. In certi alberghi di grandi dimensioni, oltre al ristorante classico, sono presenti le grill room, tipicamente inglesi, presso le quali si possono scegliere e consumare cibi in una zona dedicata alla cottura allo spiedo e alla griglia. Dagli Stati Uniti arrivano, invece, le steak house, locali specializzati nella carne alla griglia, soprattutto bistecche, delle quali si possono scegliere le dimensioni e il livello di cottura.

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Il fast food L’espressione fast-food significa “cibo veloce” e indica una forma ristorativa sorta negli anni Cinquanta del secolo scorso negli Stati Uniti e diffusasi in Europa un paio di decenni dopo. In genere, a gestire questo tipo di servizio sono aziende di grandi dimensioni, organizzate in franchising , con locali presenti nelle città medio-grandi di tutto il mondo. La catena più famosa, vero e proprio simbolo di questa categoria ristorativa, è Mc Donald’s, che offre vari menu accomunati dalla presenza, in linea di massima, di hamburger, patatine fritte e bibita a scelta, anche se nel corso del tempo l’offerta è andata allargandosi, offrendo, per esempio, anche un servizio di piccola colazione particolarmente ampio e curato o dessert di vario genere. Le caratteristiche di ogni fast food che si rispetti sono: • i menu prestabiliti e uguali per ciascun punto vendita della catena; • i cibi per lo più semilavorati e precotti; • il servizio rapido; • l’assenza di piatti e posate tradizionali, in quanto il coperto è composto da un vassoio in plastica, completato

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tte

da tovaglioli di carta e scatole di cartone per contenere gli alimenti; • i prezzi molto bassi; • i locali ampi e dotati di attrezzature e aree speciali, per esempio per i bambini; • l’orario di apertura continuato. Talvolta, al fast food tradizionale si affianca anche la possibilità di acquistare il pasto ed essere serviti direttamente nella propria automobile (drive in). La strategia di guadagno dei fast food risiede nell’acquisire un numero molto elevato di clienti, puntando sui prezzi contenuti e sulla garanzia del rispetto delle norme igienico-sanitarie.

Il self-service Una delle forme più diffuse di ristorazione veloce è quella del self-service, che si suddivide in due categorie: tradizionale e free-flow. La tipologia di self-service tradizionale prevede una distribuzione a catena, in cui il cliente preleva un vassoio e il coperto e poi segue un percorso obbligato, durante il quale può scegliere i cibi e le bevande nell’ordine proposto, fino ad arrivare alla cassa, dove effettua il pagamento. Una volta saldato il conto, il cliente accede a una sala destinata al consumo del pasto. In tempi più recenti, è andato diffondendosi il self-service free-flow, un sistema di distribuzione “a isole”, tra le quali il cliente può spostarsi, prelevando, da ognuna, una categoria di cibo (antipasti, primi e secondi piatti, dolci e così via) e di bevande. L’assenza di un percorso prestabilito evita il formarsi delle code. La ristorazione nei centri commerciali • La ristorazione nei centri commerciali è presente in aree ristorative, dislocate negli ipermercati e nei grandi magazzini, definite food court o food park, che propongono diverse tipologie di cibi e bevande presso fast food, selfservice, bar, pizzerie al taglio o d’asporto, birrerie, gelaterie o yogurterie, take away, ristoranti tematici o etnici e così via. Spesso, sono anche installate vending machine, cioè distributori automatici di prodotti alimentari che funzionano a moneta o con gettoni appositi. Lo sviluppo di queste forme di ristorazione veloce all’interno dei centri commerciali è diventato possibile perché, in tempi recenti, i supermercati e i centri commerciali sono diventati sempre più simili a luoghi di aggregazione dove trascorrere il tempo libero, e queste aree ristorative permettono di soddisfare le esigenze di svago e intrattenimento durante le commissioni. B•9


Gli alberghi e i villaggi turistici • Negli alberghi, in genere, è presente un ristorante classico insieme e un punto di ristorazione più veloce e informale, mentre nei villaggi turistici oltre al ristorante classico è solitamente presente un ristorante con servizio a buffet e alcuni differenti punti di ristorazione veloce. In genere, si tratta, quindi, di servizi ristorativi più moderni che completano un’offerta molto diversificata, che deve soddisfare l’esigenza di un semplice spuntino così come quella di un pasto vero a proprio. Nelle strutture turistico-ricettive di una certa dimensione, a ciascuna tipologia ristorativa deve essere riservata una zona apposita, collocata in punti diversi dell’albergo o del villaggio. Nonostante la diversa collocazione, tutte le strutture ristorative disponibili fanno riferimento a un’unica zona operativa, dove si svolgono le attività di produzione e porzionatura dei cibi, preparazione delle materie prime, completamento dei semilavorati e gestione delle provviste.

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Un servizio particolare che, negli ultimi anni, è andato sempre più diffondendosi, soprattutto nelle strutture alberghiere di dimensioni maggiori, è quello della ristorazione congressuale, destinata, in genere, a grandi eventi o a momenti di pausa nel corso di incontri professionali di vario genere. In genere, questa formula ristorativa prevede il consumo di pranzi veloci o di coffee break mattutini o pomeridiani. In occasioni di questo tipo, il menu è stabilito con l’organizzatore dell’evento e deve essere curato in tutti i dettagli con grande professionalità. La preparazione delle vivande e il servizio devono avvenire nel pieno rispetto delle norme igienico-sanitarie. Il servizio, a sua volta, deve essere rapido e di qualità, oltre a dover essere pianificato attentamente, destinando aree all’esposizione e alla conservazione adeguata di alimenti caldi e freddi e delle relative decorazioni, nonché delle bevande da servire.


La ristorazione viaggiante • Per ristorazione viaggiante si intende quella a bordo di aerei, treni e navi (definita on board), ma anche quella presente sulle autostrade. La sua principale caratteristica sta nel dover predisporre il servizio a seconda del mezzo di trasporto sul quale esso si svolge. La ristorazione a bordo degli aerei si è diffusa molto negli ultimi decenni e prevede la preparazione dei pasti da servire presso le strutture centralizzate di un’impresa di catering, che li consegna alla compagnia aerea o a quella di gestione aeroportuale. I cibi preconfezionati sono riscaldati e serviti dal personale di bordo. La ristorazione ferroviaria si svolge, in genere, in un apposito vagone del treno provvisto di bar o minibar, dove si possono consumare snack e panini, oppure in un vagone adibito a vero e proprio ristorante (sui treni di lunga percorrenza), che offre una scelta di piatti da un menu completo. Solitamente, però, il rapporto qualità-prezzo non è conveniente, data la modalità di servizio offerta e la qualità dei cibi, a fronte delle quali i prezzi sono piuttosto elevati. B • 11


Dati i tempi di permanenza a bordo limitati, la ristorazione marittima a bordo dei traghetti riguarda il consumo di snack di vario genere, sia dolci sia salati. Diverso è il caso delle navi da crociera, sulle quali sono offerti un servizio elevato e cibi di ottima qualità. Infine, non va dimenticata la ristorazione autostradale, composta da aree di ristoro gestite da grandi società, in genere suddivise in snack bar e self-service. Questo tipo di ristorazione è diretto a una clientela molto variegata e mira a offrire un servizio di qualità e, soprattutto, il più possibile rapido.

LE FUTURE TENDENZE DEL GUSTO A partire dall’osservazione delle attuali tendenze alimentari, che rientrano per lo più nell’ambito della ristorazione veloce, è possibile prevedere quali stili ristorativi si diffonderanno in futuro, che, nel loro insieme, prendono il nome di neo-ristorazione. Le tendenze attuali della ristorazione seguono due direzioni, si può dire, opposte: • da una parte, l’aumento dell’impegno lavorativo (da parte sia degli uomini sia delle donne), la conseguente minor importanza data al pasto di mezzogiorno, la mobilità territoriale per motivi di lavoro e la diminuzione del tempo libero hanno portato alla diffusione della ristorazione veloce e di locali aperti anche in orari tradizionalmente non dedicati ai pasti; • dall’altra, non solo l’aumento del reddito pro-capite ha favorito un aumento della spesa dedicata al tempo libero, ma ha anche fatto sì che si diffondesse una maggiore attenzione all’alimentazione come svago e piacere, che, a sua volta, ha permesso la diffusione di una classe di ristorazione più attenta alle esigenze alimentari degli individui e alla qualità, all’origine e alla genuinità degli ingredienti, essendo il consumatore finale più interessato a prodotti naturali e salutistici e all’accuratezza nella preparazione dei piatti.

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Il consumatore moderno La grande tradizione nella cucina e il ruolo importante che assume il mangiare insieme, e quindi, l’aspetto conviviale del pasto, sono sempre stati per gli Italiani l’aspetto determinante per quello che riguarda le scelte relative al consumo di cibo e, di conseguenza, di servizi ristorativi. Qualcosa, però, sta cambiando. In generale, si stanno verificando una serie di nuove situazioni legate al consumo di cibo: • • • •

cresce il consumo di grassi animali; cala il consumo di frutta e verdura; diminuisce il tempo speso in casa per cucinare; aumenta il peso della cena come pasto principale della giornata; • cresce il numero delle persone che pranzano fuori casa; • aumentano le intolleranze alimentari; • aumenta la percentuale di popolazione affetta da obesità. Tutte queste considerazioni assumono un elevato valore nelle scelte del consumatore che, in linea di tendenza, ha il desiderio di avere a disposizione cibi sicuri e “genuini”, considerando gli alimenti come elementi indispensabili per la tutela della salute (un’aspirazione sensibilmente cresciuta a partire da eventi di grande impatto mediatico come, per esempio, quello della cosiddetta “mucca pazza”), e che abbiano un alto contenuto di servizio. Ne deriva un fenomeno che, con efficace espressione, è stato definito politeismo alimentare, caratterizzato da “combinazioni soggettive di luoghi di acquisto dei prodotti e relative diete alimentari; così il rapporto con il cibo è una dimensione sempre più soggettiva, espressione dell’io che decide e che, a partire dalle proprie preferenze, abitudini, prassi e aspettative, nonché dalle risorse di cui dispone, definisce il contenuto del carrello e della tavola”. In genere, gli aspetti che contraddistinguono il consumatore moderno sono rappresentati dal passaggio alla cultura dei consumi style simbol, cioè il passaggio dai consumi di tipo status symbol ai consumi style symbol, cioè in grado di comunicare i valori culturali, l’identità e lo stile di vita di ciascun individuo. Inoltre, si identifica nel consumatore anche una crescente sensibilità nei confronti dei prodotti alimentari tipici. Il consumatore è d’altronde sempre più mobile, informato e competente, meno fedele al punto di consumo e si fa attrarre da esperienze innovative. Inoltre, è molto più attento al rapporto qualità-prezzo e vuole avere a disposizione i prodotti e i marchi di riferimento ovunque si rechi. Tutte queste indicazioni devono essere, di conseguenza, il punto di partenza per chi si inserisce in questo settore e intende operarci con successo. B • 13


lombardia tra montagne e pianura Quarta regione per estensione, la Lombardia ha una configurazione fisica quanto mai varia: a nord il suo territorio è dominato dalle Alpi, solcate da ampie valli, come la Valtellina e la Valcamonica; scendendo verso sud si incontra la fascia delle Prealpi, rilievi più bassi, ricchi di valli e corsi d’acqua, che pian piano digradano verso la pianura. Tutta la parte meridionale della regione è occupata dalla Pianura Padana, a eccezione dell’area sud occidentale, dove si innalzano le colline dell’Oltrepò Pavese. La pianura è molto estesa e occupa il 47% del territorio, dividendosi in alta e bassa pianura, quest’ultima molto fertile e intensamente coltivata, bagnata dal Po e dai suoi affluenti. L’agricoltura ha infatti altissimi valori di produttività, rappresentando il 10% della produzione italiana; è un settore con varie specializzazioni, che corrispondono alle diverse aree geografiche: per citarne solo alcune, l’uva da vino nell’Oltrepò Pavese e in Valtellina, e il riso nella Lomellina, cioè la pianura attorno a Pavia. Nelle grandi aziende agricole della pianura si allevano bovini e suini, cui si collega una fiorente produzione di insaccati e di formaggi.

M ilano

La Lombardia ospita anche grandi laghi di origine glaciale: a est infatti è bagnata dalle acque del Lago di Garda, a ovest da quelle del Lago Maggiore e del Lago di Como. Il clima della regione è per lo più di tipo continentale, con inverni rigidi ed estati calde e afose; naturalmente un ruolo determinante nelle temperature ha l’altitudine: esse scendono nettamente via via che si passa dalle zone padane a quelle alpine. Lungo le sponde dei grandi laghi, invece, il clima è mite consentendo la crescita di specie arboree addirittura mediterranee, come l’olivo e i limoni. La Lombardia presenta tante realtà territoriali una diversa dall’altra, che si ripercuotono anche sulle risorse ambientali, sulle colture agricole e sulle tradizioni gastronomiche.

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Materie prime e derivati

Grazie alla morfologia del territorio così variegata, la regione ha a disposizione una vasta gamma di materie prime.

Cereali Nella produzione agricola lombarda un posto di primo piano spetta ai cereali, con un’importante produzione di grano, granoturco e riso, quest’ultimo soprattutto nella Lomellina, ma anche orzo e segale. In Valtellina si coltiva il grano saraceno (originario dell’area siberiana), da cui si ricava una farina scura utilizzata nei piatti tipici di questa zona.

Verdure Nell’alta pianura prevale la coltivazione di barbabietole da zucchero e patate, che non hanno bisogno di terreni molto fertili. In Valtellina, nella zona di Bormio, si producono patate molto ricercate per il gusto particolare. Tra gli ortaggi più tipici della Lombardia ricordiamo la zucca gialla di Spineda, il radicchio di Soncino, gli asparagi di Gravedona, e poi ancora verze, fagiolini, piselli, cipolline. I boschi della regione sono ricchi di funghi e di tartufi sia bianchi sia neri. Il clima temperato dei laghi permette la coltivazione dell’olivo, da cui si ricava olio di buona qualità.

Frutta In Lombardia si producono notevoli quantitativi di frutta: famose sono le mele della Valtellina e le pere di Mantova (entrambe hanno ottenuto il riconoscimento IGP), ma anche le fragole di Primaluna, e poi ciliegie e meloni; inoltre, i limoni di Sirmione, che trovano l’ambiente ideale grazie al clima mite del lago (un particolare microclima mediterraneo). Nei boschi di montagna si raccolgono molte castagne e nella provincia di Sondrio discrete quantità di frutti di bosco. D

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Salumi La maggior parte della carne suina della Lombardia è convogliata verso l’industria, dove vengono prodotti diversi tipi di salume: il cotechino bianco, realizzato quasi interamente con cotenne, la mortadella di fegato, il salame di rape, carne suina mista a rape e cavoli di pronto consumo, e ancora il salame Cremona IGP, il salame Brianza DOP, il salame di Varzi DOP e il salame verzino, a pasta dolce che viene utilizzato esclusivamente nella preparazione della cassoela. Ma i salumi sono realizzati anche con altri tipi di carne: dalla Valtellina ci arriva la celebre bresaola di carne bovina (che ha ottenuto il riconoscimento IGP), che esiste anche nella versione equina e di cervo; la carne d’oca è protagonista di squisiti salumi come il petto d’oca stagionato e il salame d’oca di Mortara IGP; caratteristico è il violino di capra, prosciutto che si ricava dalle cosce posteriori della capra, salato, stagionato e affumicato, tipico della Valtellina e della Valchiavenna.

Carne

Ricordiamo il Valtellina Casera DOP e il Bitto della Valtellina DOP, il Formai de mut dell’Alta Val Brembana DOP, il Gorgonzola DOP, il Quartirolo Lombardo DOP e il Taleggio DOP; infine il Provolone Valpadana DOP e il Grana Padano DOP, stagionato da nove mesi fino a tre anni, di cui si producono ogni anno quasi un milione e mezzo di quintali. La pastorizia fornisce un formaggio caprino di qualità detto ‘del bec’.

Pesce di acqua dolce Le acque dei laghi sono ricche di pesce che alimenta una cucina piuttosto varia: i missoltitt, cioè agoni marinati pescati a maggio/giugno nel lago di Como, essicati e stagionati nella missolta un recipiente chiuso da un coperchio di legno gravato di pesi, in modo che i missoltini restino sotto pressione per alcuni mesi, i lavarelli del lago di Como e del lago Maggiore, per citare qualche esempio; mentre il lago di Iseo fornisce grande quantità di tinche, ideali da cucinare al forno, il luccio e il pesce persico. I torrenti sono ricchi di trote, ma anche di anguille, da preparare ripiene o in umido.

La carne bovina è sicuramente quella che rientra nella maggior parte dei piatti tipici della cucina lombarda, seguita in misura minore da quella suina. Un posto importante è occupato anche dalla carne fornita dagli animali da cortile, soprattutto l’oca, nelle più svariate preparazioni, e poi pollo e tacchino, anatra, faraona e fagiano. Le numerose risaie favoriscono la cucina delle rane; molto diffuse, soprattutto nella provincia di Cremona, sono anche le lumache.

vese, la Valtellina e la Franciacorta. L’Oltrepò Pavese è un’area che corrisponde grossomodo alla provincia di Pavia; la DOC è riservata ai vini ottenuti dai vigneti dell’omonima zona di produzione e tutela venti vini diversi, in particolare: la Bonarda, prodotta da uva Croatina e con uve Barbera e Rara, si presenta nella sua versione più diffusa vivace e frizzante e si abbina a salumi, bolliti, cotechino e cassoeula; il Buttafuoco, realizzato perlopiù con uve Barbera e Croatina, è un vino color rosso vivo dall’odore intenso e dal sapore asciutto, che ben si abbina a carni rosse e selvaggina; il Barbacarlo, infine, prodotto con uve Barbera, Croatina e Ughetta da una sola azienda agricola nei pressi di Broni. La DOCG tutela l’Oltrepò Pavese metodo classico. Nella zona della Valtellina, attorno alla provincia di Sondrio, i vini sono prodotti con uva Nebbiolo del Piemonte, un vitigno noto nella regione come Chiavannesca. Il vino più famoso è lo Sforzato prodotto con grappoli fatti essiccare tre mesi, per aumentare la concentrazione zuccherina; si accompagna a carni rosse e selvaggina e a formaggi saporiti e stagionati. La terza zona di maggiore produzione è la Franciacorta, in provincia di Brescia, dove si producono vini bianchi, rossi e spumanti famosi a livello internazionale.

Vini DocG Franciacorta Valtellina Superiore (sottozone Grumello, Sassella, Inferno, Vagella, Maroggia) Sforzato di Valtellina Oltrepò Pavese metodo classico

Formaggi Trenta milioni di quintali di latte alimentano ogni anno l’industria casearia che produce una grande varietà di formaggi, molti dei quali hanno il riconoscimento DOP.

Vini Doc Lambrusco Mantovano Lugana

Vini La Lombardia non vanta una grande quantità di vini ma può comunque contare su alcuni di essi veramente famosi. La produzione ruota attorno a tre zone principali: l’Oltrepò Pa-

Riviera del Garda Bresciano San Colombano al Lambro Terre di Franciacorta Valcalepio D

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Materie prime e derivati

Grazie alla morfologia del territorio così variegata, la regione ha a disposizione una vasta gamma di materie prime.

Cereali Nella produzione agricola lombarda un posto di primo piano spetta ai cereali, con un’importante produzione di grano, granoturco e riso, quest’ultimo soprattutto nella Lomellina, ma anche orzo e segale. In Valtellina si coltiva il grano saraceno (originario dell’area siberiana), da cui si ricava una farina scura utilizzata nei piatti tipici di questa zona.

Verdure Nell’alta pianura prevale la coltivazione di barbabietole da zucchero e patate, che non hanno bisogno di terreni molto fertili. In Valtellina, nella zona di Bormio, si producono patate molto ricercate per il gusto particolare. Tra gli ortaggi più tipici della Lombardia ricordiamo la zucca gialla di Spineda, il radicchio di Soncino, gli asparagi di Gravedona, e poi ancora verze, fagiolini, piselli, cipolline. I boschi della regione sono ricchi di funghi e di tartufi sia bianchi sia neri. Il clima temperato dei laghi permette la coltivazione dell’olivo, da cui si ricava olio di buona qualità.

Frutta In Lombardia si producono notevoli quantitativi di frutta: famose sono le mele della Valtellina e le pere di Mantova (entrambe hanno ottenuto il riconoscimento IGP), ma anche le fragole di Primaluna, e poi ciliegie e meloni; inoltre, i limoni di Sirmione, che trovano l’ambiente ideale grazie al clima mite del lago (un particolare microclima mediterraneo). Nei boschi di montagna si raccolgono molte castagne e nella provincia di Sondrio discrete quantità di frutti di bosco. D

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Salumi La maggior parte della carne suina della Lombardia è convogliata verso l’industria, dove vengono prodotti diversi tipi di salume: il cotechino bianco, realizzato quasi interamente con cotenne, la mortadella di fegato, il salame di rape, carne suina mista a rape e cavoli di pronto consumo, e ancora il salame Cremona IGP, il salame Brianza DOP, il salame di Varzi DOP e il salame verzino, a pasta dolce che viene utilizzato esclusivamente nella preparazione della cassoela. Ma i salumi sono realizzati anche con altri tipi di carne: dalla Valtellina ci arriva la celebre bresaola di carne bovina (che ha ottenuto il riconoscimento IGP), che esiste anche nella versione equina e di cervo; la carne d’oca è protagonista di squisiti salumi come il petto d’oca stagionato e il salame d’oca di Mortara IGP; caratteristico è il violino di capra, prosciutto che si ricava dalle cosce posteriori della capra, salato, stagionato e affumicato, tipico della Valtellina e della Valchiavenna.

Carne

Ricordiamo il Valtellina Casera DOP e il Bitto della Valtellina DOP, il Formai de mut dell’Alta Val Brembana DOP, il Gorgonzola DOP, il Quartirolo Lombardo DOP e il Taleggio DOP; infine il Provolone Valpadana DOP e il Grana Padano DOP, stagionato da nove mesi fino a tre anni, di cui si producono ogni anno quasi un milione e mezzo di quintali. La pastorizia fornisce un formaggio caprino di qualità detto ‘del bec’.

Pesce di acqua dolce Le acque dei laghi sono ricche di pesce che alimenta una cucina piuttosto varia: i missoltitt, cioè agoni marinati pescati a maggio/giugno nel lago di Como, essicati e stagionati nella missolta un recipiente chiuso da un coperchio di legno gravato di pesi, in modo che i missoltini restino sotto pressione per alcuni mesi, i lavarelli del lago di Como e del lago Maggiore, per citare qualche esempio; mentre il lago di Iseo fornisce grande quantità di tinche, ideali da cucinare al forno, il luccio e il pesce persico. I torrenti sono ricchi di trote, ma anche di anguille, da preparare ripiene o in umido.

La carne bovina è sicuramente quella che rientra nella maggior parte dei piatti tipici della cucina lombarda, seguita in misura minore da quella suina. Un posto importante è occupato anche dalla carne fornita dagli animali da cortile, soprattutto l’oca, nelle più svariate preparazioni, e poi pollo e tacchino, anatra, faraona e fagiano. Le numerose risaie favoriscono la cucina delle rane; molto diffuse, soprattutto nella provincia di Cremona, sono anche le lumache.

vese, la Valtellina e la Franciacorta. L’Oltrepò Pavese è un’area che corrisponde grossomodo alla provincia di Pavia; la DOC è riservata ai vini ottenuti dai vigneti dell’omonima zona di produzione e tutela venti vini diversi, in particolare: la Bonarda, prodotta da uva Croatina e con uve Barbera e Rara, si presenta nella sua versione più diffusa vivace e frizzante e si abbina a salumi, bolliti, cotechino e cassoeula; il Buttafuoco, realizzato perlopiù con uve Barbera e Croatina, è un vino color rosso vivo dall’odore intenso e dal sapore asciutto, che ben si abbina a carni rosse e selvaggina; il Barbacarlo, infine, prodotto con uve Barbera, Croatina e Ughetta da una sola azienda agricola nei pressi di Broni. La DOCG tutela l’Oltrepò Pavese metodo classico. Nella zona della Valtellina, attorno alla provincia di Sondrio, i vini sono prodotti con uva Nebbiolo del Piemonte, un vitigno noto nella regione come Chiavannesca. Il vino più famoso è lo Sforzato prodotto con grappoli fatti essiccare tre mesi, per aumentare la concentrazione zuccherina; si accompagna a carni rosse e selvaggina e a formaggi saporiti e stagionati. La terza zona di maggiore produzione è la Franciacorta, in provincia di Brescia, dove si producono vini bianchi, rossi e spumanti famosi a livello internazionale.

Vini DocG Franciacorta Valtellina Superiore (sottozone Grumello, Sassella, Inferno, Vagella, Maroggia) Sforzato di Valtellina Oltrepò Pavese metodo classico

Formaggi Trenta milioni di quintali di latte alimentano ogni anno l’industria casearia che produce una grande varietà di formaggi, molti dei quali hanno il riconoscimento DOP.

Vini Doc Lambrusco Mantovano Lugana

Vini La Lombardia non vanta una grande quantità di vini ma può comunque contare su alcuni di essi veramente famosi. La produzione ruota attorno a tre zone principali: l’Oltrepò Pa-

Riviera del Garda Bresciano San Colombano al Lambro Terre di Franciacorta Valcalepio D

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Piatti tipici La cucina lombarda è cucina delle lunghe cotture, dei bolliti e degli stufati, degli intingoli adatti ad accompagnarsi alla polenta più che al pane, del riso e delle paste ripiene più che della pasta di grano duro, del burro e del lardo più che dell’olio.

Primi piatti Il riso è sicuramente uno degli ingredienti più celebri della cucina lombarda: chi non conosce il risotto alla milanese con zafferano e midollo di bue? Ma il riso è protagonista di tanti altri primi: con le verze, con gli asparagi, in cagnon, con le rane e nel minestrone alla milanese, per citarne solo alcuni. Sulle sponde del lago di Como si gusta il risotto con i filetti di pesce persico o con gli agoni, che è proprio una specialità locale.

Altrettanto ricco è il panorama delle polente, soprattutto nelle zone di montagna; ricordiamo la famosa polenta taragna della Valtellina, realizzata con farine miste di mais e grano saraceno e condita con burro e formaggio. Un posto a parte merita la büsèca, ovvero la trippa cucinata sia in brodo sia in asciutto. La pasta ripiena è diffusa in tutta la regione: di Mantova sono i famosi tortelli di zucca; mentre nel cremonese troviamo i marubini ripieni con midollo di bue, formaggio, pane e uova, che vengono cotti e serviti nei tre brodi, di manzo, maiale e gallina. Del bergamasco e del bresciano sono i casonsei ripieni di sala-

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me, spinaci, uova, uva passa, amaretti, formaggio, serviti con burro fuso e salvia. Non possiamo dimenticare, infine, i pizzoccheri della Valtelina, tagliatelle di grano saraceno e frumento cucinate con verze e patate e condite con il bitto e un soffritto di burro fuso e aglio.

Secondi di carne Protagonista indiscussa dei secondi piatti è la carne di manzo e di vitello con la cotoletta alla milanese, passata nell’uovo sbattuto, impanata e quindi fritta nel burro, e con l’ossobuco, vale a dire la zampa di vitello a fette, infarinata e passata in padella con olio e burro, poi cucinata con salsa di pomodoro e infine condita con un trito (gremolada) di buccia di limone, aglio, rosmarino, salvia e prezzemolo; e i mondeghili, le tipiche polpette milanesi fritte nel burro preparate con pane raffermo e avanzi di carne. Altri secondi piatti tipici lombardi sono la cassoeula, costine di maiale, cotenne, musetto e salamino “verzino” cotti con verze, il tutto rosolato con lardo e pancetta, e la luganega, una salsiccia fresca, a base di carne di maiale.

Mostarda Un posto a parte merita la mostarda, una specialità lombarda e precisamente di Cremona e di Mantova. La prima prevede diversi tipi di frutta fatta macerare in uno sciroppo di zucchero e insaporita con essenza di senape; mentre la seconda solo mele cotogne o eventualmente pere secondo lo stesso procedimento; la mostarda si consuma con i bolliti e con i formaggi, in particolare nella cena tradizionale di Natale.

da industrie dolciarie e pasticcerie artigianali di tutta Italia, con varianti che li allontanano dalla ricetta originaria, per esempio le farciture di creme o cioccolato. Anche le chiacchiere, le famose frittelle di farina, latte, uova e zucchero, e il torrone hanno le loro origini in Lombardia. Nella provincia di Mantova è tradizionale la torta sbrisolona, così chiamata perché essendo molto friabile si sbriciola facilmente, realizzata con farina bianca e gialla, impastata con zucchero, uova, mandorle, strutto, burro, aroma di limone e di vaniglia; a Pavia, invece, è tipica la torta paradiso, fatta di farina, uova, burro e zucchero, lasciata ben lievitare prima di passare al forno e spesso accompagnata da crema o zabaione.

Dolci I dolci tipici regionali si sono pian piano diffusi a livello nazionale; pensiamo al panettone natalizio, il simbolo dolciario della Lombardia, e alla colomba pasquale, oggi fabbricati entrambi

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Piatti tipici La cucina lombarda è cucina delle lunghe cotture, dei bolliti e degli stufati, degli intingoli adatti ad accompagnarsi alla polenta più che al pane, del riso e delle paste ripiene più che della pasta di grano duro, del burro e del lardo più che dell’olio.

Primi piatti Il riso è sicuramente uno degli ingredienti più celebri della cucina lombarda: chi non conosce il risotto alla milanese con zafferano e midollo di bue? Ma il riso è protagonista di tanti altri primi: con le verze, con gli asparagi, in cagnon, con le rane e nel minestrone alla milanese, per citarne solo alcuni. Sulle sponde del lago di Como si gusta il risotto con i filetti di pesce persico o con gli agoni, che è proprio una specialità locale.

Altrettanto ricco è il panorama delle polente, soprattutto nelle zone di montagna; ricordiamo la famosa polenta taragna della Valtellina, realizzata con farine miste di mais e grano saraceno e condita con burro e formaggio. Un posto a parte merita la büsèca, ovvero la trippa cucinata sia in brodo sia in asciutto. La pasta ripiena è diffusa in tutta la regione: di Mantova sono i famosi tortelli di zucca; mentre nel cremonese troviamo i marubini ripieni con midollo di bue, formaggio, pane e uova, che vengono cotti e serviti nei tre brodi, di manzo, maiale e gallina. Del bergamasco e del bresciano sono i casonsei ripieni di sala-

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me, spinaci, uova, uva passa, amaretti, formaggio, serviti con burro fuso e salvia. Non possiamo dimenticare, infine, i pizzoccheri della Valtelina, tagliatelle di grano saraceno e frumento cucinate con verze e patate e condite con il bitto e un soffritto di burro fuso e aglio.

Secondi di carne Protagonista indiscussa dei secondi piatti è la carne di manzo e di vitello con la cotoletta alla milanese, passata nell’uovo sbattuto, impanata e quindi fritta nel burro, e con l’ossobuco, vale a dire la zampa di vitello a fette, infarinata e passata in padella con olio e burro, poi cucinata con salsa di pomodoro e infine condita con un trito (gremolada) di buccia di limone, aglio, rosmarino, salvia e prezzemolo; e i mondeghili, le tipiche polpette milanesi fritte nel burro preparate con pane raffermo e avanzi di carne. Altri secondi piatti tipici lombardi sono la cassoeula, costine di maiale, cotenne, musetto e salamino “verzino” cotti con verze, il tutto rosolato con lardo e pancetta, e la luganega, una salsiccia fresca, a base di carne di maiale.

Mostarda Un posto a parte merita la mostarda, una specialità lombarda e precisamente di Cremona e di Mantova. La prima prevede diversi tipi di frutta fatta macerare in uno sciroppo di zucchero e insaporita con essenza di senape; mentre la seconda solo mele cotogne o eventualmente pere secondo lo stesso procedimento; la mostarda si consuma con i bolliti e con i formaggi, in particolare nella cena tradizionale di Natale.

da industrie dolciarie e pasticcerie artigianali di tutta Italia, con varianti che li allontanano dalla ricetta originaria, per esempio le farciture di creme o cioccolato. Anche le chiacchiere, le famose frittelle di farina, latte, uova e zucchero, e il torrone hanno le loro origini in Lombardia. Nella provincia di Mantova è tradizionale la torta sbrisolona, così chiamata perché essendo molto friabile si sbriciola facilmente, realizzata con farina bianca e gialla, impastata con zucchero, uova, mandorle, strutto, burro, aroma di limone e di vaniglia; a Pavia, invece, è tipica la torta paradiso, fatta di farina, uova, burro e zucchero, lasciata ben lievitare prima di passare al forno e spesso accompagnata da crema o zabaione.

Dolci I dolci tipici regionali si sono pian piano diffusi a livello nazionale; pensiamo al panettone natalizio, il simbolo dolciario della Lombardia, e alla colomba pasquale, oggi fabbricati entrambi

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Ricetta d’autore ravioli di crescenza e salsa verde Luciano Tona Una pasta farcita con un tipico formaggio fresco e arricchita dalla vivacità cromatica di un condimento che sa di primavera: così si incontrano in Lombardia la crescenza e le verdure.

Ingredienti per 4 porzioni

Procedimento

Presentazione e finitura

Per il ripieno 150 g di crescenza  50 g di panna fresca  2 g di scorza di limone grattugiata 

Per il ripieno Predisporre il ripieno amalgamando tutti gli ingredienti.

Disporre un velo di salsa sui piatti piani e sistemare nove ravioli per piatto, distanziandoli leggermente tra loro. Posizionare in modo casuale quattro fiori di borragine e due di pisello per piatto.

Per i ravioli 350 g di pasta per i ravioli  Per la salsa 100 g di cipollotto  180 g di piselli freschi  30 g di foglie di prezzemolo  100 g di borragine in foglie  5 g di zucchero  70 g di lattuga  40 g di burro  5 g di cerfoglio  8 cl di olio extravergine d’oliva,  molto dolce e fruttato Per la finitura 16 fiori di borragine  8 fiori di pisello 

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Per i ravioli Preparare i ravioli a forma di margherita, del diametro di 3,5 cm, utilizzando la pasta tirata molto sottile e farcendola con il ripieno. Bollire i ravioli in acqua salata. Per la salsa Stufare i piselli con i cipollotti, le foglie di prezzemolo e lo zucchero. Mondare e lavare la lattuga e la borragine. Sbianchire la lattuga e la borragine, poi scolare, aggiungere il cerfoglio e frullare finemente tutti gli ingredienti. Infine, montare all’olio con un poco di liquido di cottura.


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