G. Romagnoli
“Non si sa chi li abbia scritti, non si sa quando, ma piace dare loro credito; garbano perché cristallizzano in modo semplice e icastico sapienze la cui spiegazione dovrebbe consumare preziose parole in congetture. Loro invece sono diretti, ritmati, mnemonici, sembrano un codice. Le cose diventano perciò proverbiali quando fanno riferimento a un codex quasi immutabile, inopinabile probabilmente perché insondabile”. (dalla Prefazione di A. Sinigaglia)
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Vino al vino esplora nelle sue innumerevoli accezioni il paradigma del vin proverbio proponendo una selezione di un formidabile patrimonio orale di esperienza e saggezza popolare al quale fanno da contrappunto costante una serie di note tecniche che spiegano al lettore di oggi quella sapienza pratica fondata sull’osservazione dei fenomeni della natura. Prefazione di Andrea Sinigaglia, Direttore di Alma Wine Academy Note tecniche di Paolo Nuvolati, enologo
Vino al vino
I proverbi legati al vino e alla vite, manifestano spesso il pensiero di una pragmatica “filosofia” spicciola contadina quale espressione di infallibili verità che, ripetute con puntigliosa precisione, sono poi state tramandate fino a noi. Si calcola approssimativamente che nelle nostre campagne le esperienze acquisite e tramandate fra le genti, di generazione in generazione, attraverso motti e versi dedicati al tempo e all’agricoltura in generale, stratificate nei secoli, costituiscano un tesoro di circa 50.000 massime!
Vino al vino Giuseppe Romagnoli
proverbi • tradizioni • enologia
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Prima edizione: aprile 2014 Nell’eventualità che illustrazioni di competenza altrui siano riprodotte in questo volume, l’editore è a disposizione degli aventi diritto che non si sono potuti reperire. L’editore porrà inoltre rimedio, in caso di cortese segnalazione, a eventuali non voluti errori e/o omissioni nei riferimenti relativi. Nel rispetto della normativa vigente sulla trasparenza nella pubblicità, le immagini escludono ogni e qualsiasi possibile intenzione o effetto promozionale verso i lettori.
Grafiche Flaminia – Trevi (PG) – aprile 2014 – 14.83.264.0
Indice Un libro in 3D di Andrea Sinigaglia
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Pillole di saggezza
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I proverbi della vite e del vino • Quantità e verità relative
Leggende e credenze popolari • • • •
L’origine del vino Miti e pratiche vitivinicole L’amore, le nozze e l’amicizia Uva e vino per le feste di fine anno
Santi per tutte le stagioni
• Enologia e calendario • Protettori della vite e del vino • I miracoli per vite e vino
Consuetudini agronomiche • • • • •
Localizzazione e tecniche di coltivazione Il calendario del vignaiolo Le attività nei primi sei mesi dell’anno Verso l’estate Finalmente la vendemmia!
Vino e salute • • • • • •
Qualità intrinseche Panacea di tutti i mali Profilassi e cura Vini medicati Alcune ricette Testimonianze salutistiche
Tradizioni enologiche • • • • • •
Paesi d’Italia Stemmi con il vino Memorie, motti e boccali incisi. Canzoni e brindisi augurali Citazioni dotte Accademie e corporazioni
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Antiche consuetudini • • • • • • • • •
Usi viticoli e vitivinicoli I guardiani dei vigneti La vendemmia, grande festa! La vinificazione Il vino nuovo e la pubblicità Diversi e curiosi modi di bere Non c’è festa senza vino! Brindisi e burle La sbornia: allegria e disagio sociale
Le osterie • • • • • • • • • • •
Un palcoscenico di vita quotidiana Entriamo all’osteria Arredi spartani Il lessico di Bacco Come una seconda abitazione Vita dura per gente dura Vino buono, genuino e a buon mercato Colazioni frugali e pasti a tutte le ore Il mercato e l’osteria I giochi e i divertimenti Covi di sovversivi
Osterie storiche
• Non solo vino • Leggi e decreti • Antiche osterie milanesi: il problema della giusta misura • Osterie a Venezia • Canti e cori • Osterie nel Trentino • Osterie a Firenze e in Toscana • Osterie a Roma e dintorni • Le insegne • Pive, zufoli e tamburelli • Scritte sagaci • Il riscatto dell’osteria
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Un libro in 3D
C’
di Andrea Sinigaglia
è chi dice che la poesia in Cina sia nata contestualmente all’inizio della produzione e del consumo di vino. C’è chi lo dice. Ma chi lo dice? E da quando? Non si sa. Tendenzialmente però ci piace crederlo, è una bella storia, è piacevole pensare che il vino sia stato il sangue della vis poetica prima sconosciuta, ignota come la bevanda alcolica che affiancandosi al tè, bevanda nervina, ha dato origine a questa azione così alta e misteriosa. I proverbi, a ben pensare, devono il loro successo proprio a questa dinamica. Non si sa chi li ha scritti, non si sa quando, ma ci piace dare loro credito; ci garbano perché cristallizzano in modo semplice e icastico sapienze la cui spiegazione dovrebbe consumare preziose parole in congetture. Loro invece sono diretti, ritmati, mnemonici, sembrano un codice. Le cose diventano perciò proverbiali quando fanno riferimento a un codex quasi immutabile, inopinabile probabilmente perché insondabile. Vino nei proverbi. Un tema che racconta di un rapporto tra alimento sacro e vissuto quotidiano. È qui il punto di intersezione. Forse non c’è in occidente un argomento tanto alto, consacrato, metafisico quanto il vino che, per contro, è protagonista di un quotidiano che al solo pensiero porta alla mente odori, sentori, rumori. Non c’è esperienza più celebrata e nel contempo legata alla perdita di equilibro dell’uomo, connessa alla sua euforia, al suo smarrimento.
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È divino, ma è del popolo e quindi come i santi, le stagioni, il tempo, il corpo umano è il contenuto perfetto per il più imperfetto dei contenitori letterari – ma anche il più libero – il proverbio. Nell’antica Roma vigeva lo jus osculi, il diritto di bacio. I parenti fino al cugino di terzo grado, incontrando una donna della loro dinastia, avevano il diritto di baciarla sulla bocca per verificare se la femmina avesse fatto consumo di vino a lei proibito. In caso affermativo, con grande disonore, la rea sarebbe stata punita severamente. Il vino è dunque materia pericolosa, il suo consumo è discriminante, segna passaggi, dal giovane all’adulto, dal sobrio all’ebbro, dal cristiano al musulmano. La nostra storia, il nostro DNA, la piazza, la tavola, sono intrise della sua presenza ma in questa sede ci dobbiamo fare una domanda. Che valore possono avere nel terzo millennio i proverbi sul vino? Essi pescano nell’antico, in un luogo che si perde nel tempo, col vino condividono il vanto di essere invecchiati. Non hanno autore. Infatti di chi sono i proverbi? La risposta più logica è che essi appartengono a chi li dice. Appartengono a chi li tiene in vita poiché egli pronunciandoli, li tramanda, li salva. Il vino fa sangue. Questo era un proverbio che mio nonno Pino aveva fatto suo, era suo, era così d’accordo che… sí… certo per me – a otto anni quando mi sporcava l’acqua del bicchiere con qualche goccia color rubino e mi faceva sentire meno bambino –, quel proverbio era lui, l’aveva inventato, scritto, promulgato lui, non c’è dubbio. I proverbi sono di chi li dice, così come la legge è di chi la legge; per forza, lo dice il proverbio! Essi sono entità assai diverse dagli aforismi. Gli aforismi sono “capi fir-
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mati” sono proverbi con la griffe, tocca pure fare la fatica di ricordarsi l’autore; per i proverbi no, ed è per tale motivo che essi sono del popolo, non hanno copyright, come si addice alla cultura, quella più vera, quella che è patrimonio dell’umanità. Se dovessimo chiederci oggi che senso può avere un proverbio sul vino e quindi un libro dedicato a tale realtà, il nostro pensiero dovrebbe correre subito, per analogia, a ciò che ha sostituito questa forma d’espressione ai giorni nostri, lo slogan. Questa realtà è la versione 2.0 del proverbio: niente autore, niente dimensione temporale, ti entra nel cervello e associandola a un’immagine o a un evento, rimbalza dalla memoria alla lingua e urge l’essere pronunciata. In una società liquida come la nostra, proverbi, slogan, password e codici PIN sono tra le poche cose che cristallizzano. Sono come una boa nel mare dell’esperienza quotidiana, consolano, ammiccano, ci mettono dentro a una community, sono i picconi a cui leghiamo attimi di socializzazione o i ponti con cui ci mettiamo in contatto con generazioni diverse dalla nostra. Leggendo quindi le pagine di questo volume si vedrà, nell’ottimo lavoro fatto da Romagnoli, il paradigma del vinproverbio rappresentato nelle tante sue declinazioni. Se dovessi darvi una guida alla lettura vi proporrei tre chiavi per accedere al testo. Contro la legge della non contraddizione Stagionalità, un’esigenza tutta contemporanea No narrazione, no party
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Cerco di spiegarmi meglio: poiché questo libro che avete tra le dita è una specie di museo animato, necessita quindi di alcuni accorgimenti alla lettura che ben si possono indicare nelle tre dimensioni che sopra ho elencato e sotto vado a spiegare. Quindi come avete capito questo è un libro in 3D. Contro la legge della non contraddizione Scusate, ma da che mondo è mondo i proverbi si scrivono? Essi appartengono alla cultura orale per antonomasia. I proverbi si sentono, si dicono, si declamano, si ripetono, si invocano, ma non si leggono. Eppure il fatto che se ne debba fare una raccolta come questa, che non è un mero elenco, ma è più un dizionario ragionato, ci impone una riflessione. Questi proverbi sono in via d’estinzione. Le pratiche a cui si riferiscono, la devozione, i luoghi, le consuetudini non sono più scenario quotidiano per la maggioranza di noi. I vecchi, quelli che basavano e diffondevano la loro saggezza e spesso identità attraverso queste giaculatorie, oggi non sono più abbastanza vecchi per affidarsi a questo registro, magari scrivono un sms o un post, ma non sono più il vettore sul quale i proverbi hanno attraversato i secoli. Ciò che era abituato a volare affidandosi alla mnemonica tradizione oggi necessita, per sopravvivere a tutti coloro che lo hanno fatto scorrere nel tempo, di essere scritto e addirittura spiegato, contestualizzato, indicizzato. Un catalogo di farfalle splendide, che se riusciranno a sedurre il lettore torneranno a battere le ali sulla bocca di chi li pronuncerà e si spoglieranno dell’inchiostro e della carta che li confina.
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Lettori, quindi, avete una missione e ad ogni proverbio liberato il brindisi sarà d’obbligo. Stagionalità, un’esigenza tutta contemporanea È veramente un bisogno di noi uomini contemporanei questa incredibile sete di sentire sulla nostra pelle la stagionalità, i rintocchi del tempo che tra liturgia, clima e maturazione danno alle giornate, alle ore, agli istanti un gusto diverso. I proverbi del vino spesso sono come fotogrammi di quel miracolo sempre in divenire che si chiama vigna, la mamma dell’uva. Tecniche di coltivazione tra agronomia e preghiere, tecniche di cantina tra enologia e alchimia, per tutto c’è un proverbio, un mantra che accompagna le fasi che si inanellano per arrivare, alla fine, attraverso la bottiglia, al calice: ambedue realtà non esenti da proverbi. Oggi noi si vive come climatizzati, in una sorta di atemporalità enogastronomica dove tutto è disponibile sempre su scala spazio-temporale cosicché sentire attraverso la lettura delle righe di questo testo che c’è un modo proverbiale di aspettare – fare – ringraziare ci sembra più liberatorio dell’avere tutto senza soluzione di continuità. I proverbi sono sempre contemporanei in quanto accadono come eventi musicali, pronunciati come formule magiche all’avverarsi di un appuntamento seppur piccolissimo ma cosmico per chi segua istante per istante la vita vegetale di una pianta o il ribollir di un tino. Non è l’azzeramento della scelta che ci rende liberi; è l’accorgerci stupito che frutto della terra e lavoro dell’uomo sono la più grande offerta che si possa fare, ergo il maggiore dei doni in nostro possesso.
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I proverbi non fermano il tempo, lo scandiscono, ne illuminano gli snodi, sono l’unica cosa che si possa dire quando tutte le altre parole sarebbero superflue. No narrazione, no party Leggendo questo catalogo di cristalli preziosi vi renderete conto presto che noi viviamo proprio su un altro pianeta rispetto alle dinamiche che i proverbi indicano. Tanto è vero che il grande valore di questo libro è il telaio costruito dall’autore intorno ai proverbi che vengono così incastonati in una trama. Abbiamo bisogno che espressioni popolari, semplici, rustiche come queste ci vengano introdotte, contestualizzate, narrate. Non siamo più capaci di leggerle, siamo sordi davanti a questi motti. Tutto ciò mi ricorda un po’ la sensazione che l’uomo moderno ha davanti alle sculture di una chiesa romanica. Per i nostri avi analfabeti quelle erano pietre parlanti; oggi noi, dinnanzi ad esse siamo ciechi, guardiamo ma non vediamo e ci perdiamo il bello. Nell’era della comunicazione ciò che è più semplice ci impone fatica. La fatica sta tutta nella nostra incapacità di andare a pescare nel profondo di un’esperienza che per noi è inimmaginabile. La storia del vissuto quotidiano, crudo e maschio per un verso femmineo e materno per l’altro, a cui fanno riferimento questi proverbi, è il tesoro sotto la cenere di questi messaggi che ci arrivano da ignoto amante. Senza immedesimazione, è matematicamente impossibile percepire la vibrazione di questa ricchezza rinchiusa in poche parole.
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Tutto ciò che abbiamo detto sui proverbi è ancor più vero per il vino. Come si fa a stappare una bottiglia senza percepire la vita della persona che l’ha prodotta? Il metodo non cambia, l’esperienza del conoscere è possibile solo a chi vive l’oggetto che ha davanti come un terminale, un segno, la punta di un iceberg sommerso. Si può essere superficiali, accontentarsi e godere oppure affondare lo sguardo, conoscere ed essere felici. Chi si accontenta gode dice il proverbio ma questa forse è la dimostrazione che a volte… anche i proverbi sbagliano! Essi sono umani, umanissimi, per questo simpatici, non hanno pretese, non li si potrà accusare mai di nulla, li si usa a proprio rischio e pericolo e soprattutto li si mette in campo quando serve la benzina del vivere quotidiano, l’ironia, appunto… spirito, esattamente come il vino.
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Pillole di saggezza
al latino proverbium deriva la parola proverbio, un sostantivo utilizzato per indicare una massima contenente dettami, norme o consigli in forma sintetica, scaturiti da esperienze millenarie. Pertanto comunemente si ritiene che la fonte dei proverbi sia la saggezza popolare, a guisa di un grande contenitore di conoscenze e di osservazioni stratificate nel corso della storia quotidiana dell’uomo, un “distillato” delle sue più genuine e popolari manifestazioni, quasi la “summa” delle verità umane. Possono contenere similitudini o metafore, si presentano nei linguaggi più disparati, spesso in dialetto. Lo studio dei proverbi si chiama paremiologia. Molti appartengono ad una ben determinata area geografica e forse non potrebbero trovare adeguato riscontro in altre regioni, perché sono localmente commisurati. Altri invece sono universalmente validi tanto che, ad una rapida ricerca, se ne possono reperire varianti in quasi tutti i dialetti. A volte la differenza linguistica ne può modificare interamente il senso, ma ciò è naturale se si considera che il medesimo proverbio ha attecchito su realtà culturali spesso contrastanti tra loro. Se ne deduce che, qualsiasi raccolta, come quella che segue, non è mai esaustiva, ma sempre incompleta, come un laboratorio in perenne divenire; è quindi solo uno stimolo per scoprire spigolature e “pillole” di saggezza che speriamo possano generare una lettura amena, piacevole o, perlomeno, incuriosire, senza pretese di esaustività.
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I proverbi della vite e del vino
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Quantità e verità relative
proverbi legati al tempo, all’agricoltura, alla vite e al vino, manifestano spesso il pensiero di una “dura”, pragmatica, spicciola “filosofia” contadina, quale espressione di infallibili verità che, ripetute con puntigliosa precisione, sono poi state tramandate fino a noi. Si calcola approssimativamente che, nelle nostre campagne, le esperienze acquisite e riportate fra le genti, di generazione in generazione, attraverso motti e versi, stratificate nei secoli, costituiscano un tesoro di circa cinquantamila massime! Nel più ristretto campo viticolo ed enologico, bisogna poi distinguere quelle che esprimono massime generali, con quelle che evidenziano pratiche enologiche o vinicole, influenze astro-meteorologiche, previsioni, costumanze.
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arecchi proverbi si equivalgono come concetto: sarebbe troppo complicato passare in rassegna tutte le forme assunte nei vari dialetti e quindi si darà corpo, per ovvie ragioni di comprensione, alla forma italiana, intelligibile a tutti. Così come non è sempre vero che i proverbi non siano fallaci, come sentenzia il motto meneghino “i proverbi falleng minga”, ovvero che i proverbi non sbagliano mai; allo stesso modo della poesia, l’analisi dei proverbi ci mostra il rapporto del vino con la psiche umana, alla quale quest’ultimi prescrivono il più delle volte, attraverso la brevità della loro formulazione e l’immediata ricettività, un
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canone di condotta. Nell’antichità, in particolare, non è sempre agevole tracciare una linea di confine netta tra poesia e proverbi: lo stesso Orazio ammoniva che: “agli astemi il cielo rende dura vita”. Ma è nella Bibbia, forse, che si ritrova il più ampio complesso di proverbi: “il vino nuovo darà vigore alle fanciulle” (infonde forza anche agli animi femminei rendendoli ardimentosi o altro?), “ogni boccale va riempito di vino” (a sottolineare il senso dell’ospitalità), oppure: “il vino è come la vita per gli uomini” (nel significato che infonde energia, stagionando migliora, così come il raziocino e la capacità analitica; questa asserzione andrebbe tuttavia smentita, perché il vino, a quei tempi, non si faceva invecchiare). Sempre dalla Bibbia derivano i motti secondo cui: “il vino allieta la vita”, così come: “il vino e la musica rallegrano il cuore”. Ma si celebra anche il “vino nuovo, amico nuovo” (cioè un legame che si rafforza nel brindisi). Insomma quasi una panacea esistenziale, dove però si dimentica di citare anche le molestie comportamentali di una solenne ubriacatura.
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Leggende e credenze popolari
L’
L’origine del vino
origine della vite è fantasticamente spiegata in molti modi: o nata da una goccia del sangue divino caduta sulla terra, o dal sangue dei giganti, o da Bacco stesso trasformato in pianta. Noè, secondo la leggenda, sarebbe stato aiutato dal diavolo a piantare e coltivare la vite; Satana prima innaffiò la terra con il sangue di una mansueta pecora, poi con quello di un leone, infine con quello di un porco. Secondo una versione arabica non sarebbe stato Noè, ma Adamo. In base al Leviticus Rabbah, l’albero proibito del Paradiso terrestre non sarebbe stato un pomo, ma una vite. Infine secondo un antico libro francese, la strana concimazione operata sulla vite sarebbe stata opera di Noè che cambiò la vite selvatica in domestica con sangue di leone, porco, agnello e scimmia. Questa leggenda, nell’una o nell’altra forma, chiunque venga ritenuto il creatore, vuol significare la gradazione degli effetti che il vino produce: lieve libagione, vuol dire mansuetudine e dolcezza come la pecora. Maggior libagione significa vigore ed orgoglio, come nel leone. Infine lo smodato uso del bere è una sozzura che fa assomigliare a un porco. In una antica porta in legno di un ex albergo della Val di Non (Trento), erano scolpite quattro facce che volevano rappresentare i quattro stati cui può sottostare un bevitore: contenta, con un sorriso; allegra, con risate scomposte; sonnolenta o nel sonno; irosa. Il filosofo latino Apuleio Medaurense aveva specificato addirittura nove gradazioni del bere: il primo
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bicchiere giova alla sete; il secondo al buonumore; il terzo al piacere; il quarto tien dietro all’ubriachezza; il quinto genera ira, il sesto le liti, il settimo il furore; infine il sonno dall’ottavo e la malattia dal nono. Giovanni Pascoli nella poesia I tre grappoli dedicata a Giacinto Stiavelli scrisse: “Ha tre, Giacinto, grappoli la vite. Bevi del primo il limpido piacere; bevi dell’altro l’oblio dolce e mite; e …più non bere: chè sonno è il terzo e con lo sguardo acuto nel nero sonno vigila da un canto, sappi, il dolore; e alto grida un muto pianto già pianto”. Del resto un proverbio toscano insegna: “uno di sanità, uno di letizia ed uno di ubriachezza”. E l’antico filosofo Anacarsi affermava: “la vite produce tre sorta di frutti: il piacere, l’ubriachezza ed il pentimento”.
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Miti e pratiche vitivinicole
ono innumerevoli le credenze popolari relative alle pratiche vitivinicole. In alcune province della Sicilia si usava mozzare i giovani germogli delle viti a pergola il giorno di San Giovanni (24 giugno), nella credenza che in quella notte le viti distribuissero negli acini ancora verdi quel succo che avrebbe dovuto renderli ancora pieni di agresto mosto.
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La produttività della vite è in rapporto al numero di gemme che vengono lasciate in potatura invernale per unità di superficie. Ai fini della produzione, l’eliminazione dei giovani germogli non è necessaria, anzi la quantità di prodotto aumenta, ma peggiora notevolmente la qualità. Un mese dopo si immaginava che Sant’Anna (26 luglio) scendesse in terra con un pentolino e venisse a spennellare l’uva in nero. In quel giorno a Salaparuta, a Naro e altrove, si usava mandare in dono ad amici e parenti quel novello frutto, come simbolo ed augurio. In Romagna, quando nasceva un bambino, si era soliti dargli in mano un tralcio di vite accesa perché guarisse gli offesi dal fuoco. Questo però, secondo la credenza, non era possibile con il settimo figlio maschio, quello nato con la cosiddetta “camicia”. Se l’amorosa si fosse trovata ad una festa di campagna con l’amante, essa non poteva accettare da bere da nessun altro, se l’amante per primo non pagava da bere vino. E se offriva, medesimo trattamento doveva essere riservato a tutte le ragazze che erano con lei. Al matrimonio, il padre dello sposo, al giungere della sposa, si presentava sull’aia con un fiasco di vino e le porgeva da bere. In Romagna le viti non dovevano essere potate in febbraio e in marzo: si poteva solo a luna calante. Il periodo adatto per la potatura della vite è molto ampio. Esso può variare dalla caduta delle foglie, all’inizio del germogliamento. È bene sottolineare però che si ottengono risultati diversi in base al periodo in cui viene effettuata sia sul grado di vigore della pianta, che sulla fruttificazione. In ogni caso la potatura eseguita anticipatamente, oppu-
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re molto in ritardo, viene adottata soprattutto nelle zone fredde a settentrione; quella eseguita in inverno risulta più adatta ai climi delle zone meridionali. Al Carnevale si usava ballare attorno a fiaschi di vino e poi si offriva da bere a tutti. Alla vigilia di Natale si gettava una piccola quantità di vino vicino alle viti affinché producessero grande quantità d’uva. Se un contadino veniva attaccato dalla terzana, lo si faceva passare sotto una vite affinché guarisse. Se si eseguivano lavori attorno alle viti, si diceva che queste mormorassero. “Prender non me ne devi, oppur levare. Quando bagnata son, lasciami stare”. Questa affermazione trova riscontro nel fatto che alcune sintomatologie riscontrate soprattutto nelle primavere caratterizzate da abbondanti piogge, la vite va incontro, per effetto del compattamento del terreno, ad un particolare stress che si manifesta con evidente riduzione del vigore. Quando, sempre in Romagna, ma anche altrove, si versava vino sulla tavola, si usava intingervi il dito e con quello si bagnavano sulla fronte i presenti i quali non dovevano asciugarsi o pulirsi, anche se si trattava di vino rosso, perché questo atto arrecava fortuna. Ai Castelli Romani, l’ultimo giorno di vendemmia, a tutti coloro che entravano nel tinello, si faceva l’“ammostatura” e cioè si prendevano dei grappoli e si spremevano loro sul viso. Se le persone erano di riguardo, lo si faceva sulle scarpe per buon augurio. In molti luoghi sognare uva nera era buon segno, bianca significava lacrime; ma vedere in sogno il vino
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non andava bene per l’esito del lotto; quello bianco era negativo, quello rosso voleva invece dire “prossime nozze, nascita di un figlio”. Versarlo era “di buon augurio”, berlo era sinonimo di “forza, salute, vigore”. La colazione delle rogazioni (la prima riguardava ortaglia e vendemmia), i friulani la svolgevano seduti sull’erba, con l’indispensabile compagnia di bottiglie o bariletti di vino. Bevutane la maggior parte, il contadino si puliva con il dorso della mano la bocca e lo rendeva all’amico offerente che era tenuto a vuotarlo del tutto. Ai castelli romani il feticcio (che consisteva in una calamita racchiusa in un sacchetto di flanella insieme ad altri ingredienti come cera, raschiatura di ferro, palme di ulivo, ruta e una mollica di pane), portava fortuna e si doveva portare sempre con sé. Ma ogni quindici giorni bisognava far bere la calamita inzuppandola nel vino: di preferenza il marsala, ma comunque un vino superiore. Se non si faceva così, spariva ogni incantesimo.
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L’amore, le nozze e l’amicizia
elle nostre campagne detti e motti scandivano ogni momento dell’esistenza e per questo, dalle osservazioni relative alla vite e al vino, se ne desumevano consigli relativi a periodi cardine della vita come amore, matrimoni, amicizia. Così, ad esempio, per quanto riguarda i rapporti matrimoniali, in relazione sempre all’enologia, si affermava decisamente che “è meglio la botte piena che la moglie ubriaca”, oppure, a scelta che: “non si può avere la botte piena e la moglie ubriaca”. Circa le nozze, si consigliava con decisione: “Amico ti scongiuro di non sposarti e di preferire la bottiglia ad una bellezza; se la bottiglia si rompe, potrai cambiarla, mentre se tua moglie è cattiva, ti tocca tenerla”. Ma non tutto dell’esperienza matrimoniale sembrava da gettare perché “chi ha bella moglie e ottima cantina, amici intorno avrà”. Ma se il matrimonio fosse “come una botte, dove in superficie c’è miele, ma sotto… solo robaccia”, arrivati ad una certa età, era opportuno che, consigliava un altro motto: “l’uomo sulla cinquantina, lasci la carne e prenda la cantina”. “Dio”, ammonisce un altro detto, “ti salvi da acqua e vento, da un cocchiere sonnolento, da una donna che ama il vino e da un uomo femminino”, ma il vino appare quasi anche un precursore del Viagra, ad ascoltare i proverbi secondo cui: “senza Cerere e Bacco,
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amor debole e fiacco” o: “’l vino è come l’amore: scalda la testa e ’l core”. L’eccesso però, come si evidenzia soprattutto in altri paragrafi del testo, nuoce sempre, anche nell’amore, perché: “un uomo preso dal vino, non vale un quattrino”. Dall’amore all’amicizia, ma con un sottinteso pessimistico perché: “per farsi un amico basta un bicchiere, ma per mantenerlo non basta una botte”. Una “stilettata” anche verso la collettività: “Il popolo è come il somaro, porta il vino e beve l’acqua”. E a distinguere il genere umano, senza scomodare Darwin, una distinzione netta: “Bevano il vino gli uomini, l’acqua tutti gli altri animali”. La rottura del fiasco, del boccale, della bottiglia ed il versare accidentalmente vino in un banchetto di nozze, significavano buon augurio e perciò, qualche volta, lo sposo alzava il lembo della tovaglia e mandava a terra tutto quanto vi era sopra. Così si usava in Abruzzo. Nel Canavese i due sposi dovevano bere nello stesso bicchiere; nella tradizione foggiana nella raccolta dell’uva si impiegava la donna perché si credeva che la giovinetta, sopra tutte, restando a contatto con il frutto divino che racchiudeva il sangue del Cristo, tenesse sempre pura la sua anima e fortificasse il suo corpo, così da renderlo capace di affrontare cimenti e tentazioni. Nelle colonie albanesi di Sicilia, durante le nozze, il sacerdote scambiati gli anelli, versava del vino, vi inzuppava pane o biscotto, lo dava da mangiare per tre volte e dopo cantato: “Prenderò il calice salutare nel nome del Signore”, buttava con furia a terra il bicchiere che andava in pezzi (in caso contrario era di cattivo auspicio). Molti dei riti nuziali tipici del popolo ebreo vennero adottati nella celebrazione re-
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ligiosa delle nozze cristiane. Così il rito del pane e del vino consumato dagli sposi. Dopo la Messa il sacerdote benediceva (tradizione a lungo viva in Val Gardena e nelle valli Ladine dell’Alto Adige) il pane e il vino e lo porgeva allo sposo che lo passava alla sposa. La Chiesa tentò di vietare agli sposi l’usanza di bere nella stessa coppa (Sinodo di Angere, 1277) e l’altra di infrangere la coppa in cui gli sposi avevano bevuto insieme, solo perché basata sulla superstizione (Sinodo di Arezzo, 1597). Ma a parte la cerimonia religiosa dello sposalizio, il vino nuziale bevuto insieme nello stesso bicchiere, rimase un’usanza fra le feste matrimoniali come nel rito pagano e nel costume medievale. In alcuni luoghi era la madre dello sposo che offriva il vino rituale. Così a Muscletto, ad Ariis, così nel Leccese, mentre in Savoia l’uso avveniva alla ratifica del fidanzamento. Del resto tra gli israeliti il vino nel battesimo e nelle nozze era uso antichissimo. Nella circoncisione, dopo che il Mohel aveva pronunciato la relativa benedizione ed eseguito il taglio, il mohel stesso o il rabbino prendeva il bicchiere di vino, pronunciava le parole: “Benedetto tu sia Signore nostro Dio, re del mondo, creatore del frutto della vite”, beveva e continuava recitando la formula d’imposizione del nome. Giunto alle parole di Esek: “ego disci tibi cum esses in sanguine tuo, vive” intingeva il dito nel bicchiere e lo passava sulla bocca del bambino. Ciò per due volte, ripetendo le stesse parole. Pare che la ripetizione volesse alludere alle due vite, presente e futura, di cui si augurava partecipe il bambino. Nel matrimonio il rabbino teneva in mano il bicchiere e dopo avere benedetto il vino, ne versava una parte
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in un altro bicchiere che porgeva allo sposo il quale beveva; la sposa e contemporaneamente il rabbino facevano altrettanto. Dopo la benedizione e la consegna dell’anello nuziale e il canto di lode e di augurio, si brindava un’altra volta con lo stesso cerimoniale. In alcune comunità il bicchiere era consegnato dal rabbino alle madrine che lo passavano agli sposi. In talune si usava rompere subito le coppe in cui si era degustato il vino, per ravvivare, anche nella gioia, il dolore per la perduta patria di Gerusalemme. Si usava vino rosso e sempre kosher, prodotto cioè dagli ebrei. Nella Contea di Modica, prima che gli sposi entrassero in casa, si spargeva del vino sull’uscio rompendone il recipiente, donde il proverbio locale: “Resti, boni festi”. Finché i pampini erano attaccati alla vite, le macchie d’uva, di mosto e di vino, nonostante i lavaggi, non andavano via.
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L’
Uva e vino per le feste di fine anno
uva fresca era utilizzata a Capodanno come simbolo di prosperità e ricchezza: se ne mangiava un racimolo, non solo per propiziarsi l’anno, ma anche per non soffrire penuria di danaro, così come si fa con le lenticchie. La vigilia di Natale nelle famiglie friulane era consuetudine gettare sul fuoco alcune gocce di vino e qualche pezzo dei cibi che si mangiavano. Le famiglie slovene del Friuli versavano vino nel tradizionale ceppo natalizio e a San Giovanni Evangelista (27 dicembre), benedivano il vino del quale in famiglia tutti dovevano ingoiarne alcune gocce a digiuno. Il resto si conservava in caso di malattia e talora lo si faceva assaggiare ai congiunti in agosto. Le viti bisognava piantarle in settimana Santa e possibilmente tra un Gloria e l’altro, perché dessero ogni anno copioso prodotto. In moltissimi luoghi del Monferrato e del Piemonte il giorno dell’Invenzione della Santa Croce si usava piantare nelle vigne croci di canne benedette per scongiurare la grandine. Di buon augurio era innaffiare il ceppo di Natale con un buon bicchiere di vino e che questo durasse fino al mattino dopo. Antica e curiosa era questa credenza: se si scriveva il breve: “Gustate et videte quam suavis est Dominus” sulla botte o sopra un pomo gettatovi dentro, il vino non sarebbe mai andato a male.
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E se un ubriaco recitava il verso omerico: “Jupiter his alta tonuit clementer ab Ida”, o gli cessava l’ubriacatura, o mai più sarebbe stato ebbro. A riassumere le credenze sul vino vale la sintesi che, in due versi, ne fece Margotte: “Soprattutto nel buon vino ho fede e credo che sia salvo chi ci crede”.
Bacco - particolare - Caravaggio
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