G. Romagnoli
“Non si sa chi li abbia scritti, non si sa quando, ma piace dare loro credito; garbano perché cristallizzano in modo semplice e icastico sapienze la cui spiegazione dovrebbe consumare preziose parole in congetture. Loro invece sono diretti, ritmati, mnemonici, sembrano un codice. Le cose diventano perciò proverbiali quando fanno riferimento a un codex quasi immutabile, inopinabile probabilmente perché insondabile”. (dalla Prefazione di A. Sinigaglia)
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Vino al vino esplora nelle sue innumerevoli accezioni il paradigma del vin proverbio proponendo una selezione di un formidabile patrimonio orale di esperienza e saggezza popolare al quale fanno da contrappunto costante una serie di note tecniche che spiegano al lettore di oggi quella sapienza pratica fondata sull’osservazione dei fenomeni della natura. Prefazione di Andrea Sinigaglia, Direttore di Alma Wine Academy Note tecniche di Paolo Nuvolati, enologo
Vino al vino
I proverbi legati al vino e alla vite, manifestano spesso il pensiero di una pragmatica “filosofia” spicciola contadina quale espressione di infallibili verità che, ripetute con puntigliosa precisione, sono poi state tramandate fino a noi. Si calcola approssimativamente che nelle nostre campagne le esperienze acquisite e tramandate fra le genti, di generazione in generazione, attraverso motti e versi dedicati al tempo e all’agricoltura in generale, stratificate nei secoli, costituiscano un tesoro di circa 50.000 massime!
Vino al vino Giuseppe Romagnoli
proverbi • tradizioni • enologia
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Prima edizione: aprile 2014 Nell’eventualità che illustrazioni di competenza altrui siano riprodotte in questo volume, l’editore è a disposizione degli aventi diritto che non si sono potuti reperire. L’editore porrà inoltre rimedio, in caso di cortese segnalazione, a eventuali non voluti errori e/o omissioni nei riferimenti relativi. Nel rispetto della normativa vigente sulla trasparenza nella pubblicità, le immagini escludono ogni e qualsiasi possibile intenzione o effetto promozionale verso i lettori.
Grafiche Flaminia – Trevi (PG) – aprile 2014 – 14.83.264.0
Indice Un libro in 3D di Andrea Sinigaglia
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Pillole di saggezza
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I proverbi della vite e del vino • Quantità e verità relative
Leggende e credenze popolari • • • •
L’origine del vino Miti e pratiche vitivinicole L’amore, le nozze e l’amicizia Uva e vino per le feste di fine anno
Santi per tutte le stagioni
• Enologia e calendario • Protettori della vite e del vino • I miracoli per vite e vino
Consuetudini agronomiche • • • • •
Localizzazione e tecniche di coltivazione Il calendario del vignaiolo Le attività nei primi sei mesi dell’anno Verso l’estate Finalmente la vendemmia!
Vino e salute • • • • • •
Qualità intrinseche Panacea di tutti i mali Profilassi e cura Vini medicati Alcune ricette Testimonianze salutistiche
Tradizioni enologiche • • • • • •
Paesi d’Italia Stemmi con il vino Memorie, motti e boccali incisi. Canzoni e brindisi augurali Citazioni dotte Accademie e corporazioni
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Antiche consuetudini • • • • • • • • •
Usi viticoli e vitivinicoli I guardiani dei vigneti La vendemmia, grande festa! La vinificazione Il vino nuovo e la pubblicità Diversi e curiosi modi di bere Non c’è festa senza vino! Brindisi e burle La sbornia: allegria e disagio sociale
Le osterie • • • • • • • • • • •
Un palcoscenico di vita quotidiana Entriamo all’osteria Arredi spartani Il lessico di Bacco Come una seconda abitazione Vita dura per gente dura Vino buono, genuino e a buon mercato Colazioni frugali e pasti a tutte le ore Il mercato e l’osteria I giochi e i divertimenti Covi di sovversivi
Osterie storiche
• Non solo vino • Leggi e decreti • Antiche osterie milanesi: il problema della giusta misura • Osterie a Venezia • Canti e cori • Osterie nel Trentino • Osterie a Firenze e in Toscana • Osterie a Roma e dintorni • Le insegne • Pive, zufoli e tamburelli • Scritte sagaci • Il riscatto dell’osteria
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Un libro in 3D
C’
di Andrea Sinigaglia
è chi dice che la poesia in Cina sia nata contestualmente all’inizio della produzione e del consumo di vino. C’è chi lo dice. Ma chi lo dice? E da quando? Non si sa. Tendenzialmente però ci piace crederlo, è una bella storia, è piacevole pensare che il vino sia stato il sangue della vis poetica prima sconosciuta, ignota come la bevanda alcolica che affiancandosi al tè, bevanda nervina, ha dato origine a questa azione così alta e misteriosa. I proverbi, a ben pensare, devono il loro successo proprio a questa dinamica. Non si sa chi li ha scritti, non si sa quando, ma ci piace dare loro credito; ci garbano perché cristallizzano in modo semplice e icastico sapienze la cui spiegazione dovrebbe consumare preziose parole in congetture. Loro invece sono diretti, ritmati, mnemonici, sembrano un codice. Le cose diventano perciò proverbiali quando fanno riferimento a un codex quasi immutabile, inopinabile probabilmente perché insondabile. Vino nei proverbi. Un tema che racconta di un rapporto tra alimento sacro e vissuto quotidiano. È qui il punto di intersezione. Forse non c’è in occidente un argomento tanto alto, consacrato, metafisico quanto il vino che, per contro, è protagonista di un quotidiano che al solo pensiero porta alla mente odori, sentori, rumori. Non c’è esperienza più celebrata e nel contempo legata alla perdita di equilibro dell’uomo, connessa alla sua euforia, al suo smarrimento.
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È divino, ma è del popolo e quindi come i santi, le stagioni, il tempo, il corpo umano è il contenuto perfetto per il più imperfetto dei contenitori letterari – ma anche il più libero – il proverbio. Nell’antica Roma vigeva lo jus osculi, il diritto di bacio. I parenti fino al cugino di terzo grado, incontrando una donna della loro dinastia, avevano il diritto di baciarla sulla bocca per verificare se la femmina avesse fatto consumo di vino a lei proibito. In caso affermativo, con grande disonore, la rea sarebbe stata punita severamente. Il vino è dunque materia pericolosa, il suo consumo è discriminante, segna passaggi, dal giovane all’adulto, dal sobrio all’ebbro, dal cristiano al musulmano. La nostra storia, il nostro DNA, la piazza, la tavola, sono intrise della sua presenza ma in questa sede ci dobbiamo fare una domanda. Che valore possono avere nel terzo millennio i proverbi sul vino? Essi pescano nell’antico, in un luogo che si perde nel tempo, col vino condividono il vanto di essere invecchiati. Non hanno autore. Infatti di chi sono i proverbi? La risposta più logica è che essi appartengono a chi li dice. Appartengono a chi li tiene in vita poiché egli pronunciandoli, li tramanda, li salva. Il vino fa sangue. Questo era un proverbio che mio nonno Pino aveva fatto suo, era suo, era così d’accordo che… sí… certo per me – a otto anni quando mi sporcava l’acqua del bicchiere con qualche goccia color rubino e mi faceva sentire meno bambino –, quel proverbio era lui, l’aveva inventato, scritto, promulgato lui, non c’è dubbio. I proverbi sono di chi li dice, così come la legge è di chi la legge; per forza, lo dice il proverbio! Essi sono entità assai diverse dagli aforismi. Gli aforismi sono “capi fir-
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mati” sono proverbi con la griffe, tocca pure fare la fatica di ricordarsi l’autore; per i proverbi no, ed è per tale motivo che essi sono del popolo, non hanno copyright, come si addice alla cultura, quella più vera, quella che è patrimonio dell’umanità. Se dovessimo chiederci oggi che senso può avere un proverbio sul vino e quindi un libro dedicato a tale realtà, il nostro pensiero dovrebbe correre subito, per analogia, a ciò che ha sostituito questa forma d’espressione ai giorni nostri, lo slogan. Questa realtà è la versione 2.0 del proverbio: niente autore, niente dimensione temporale, ti entra nel cervello e associandola a un’immagine o a un evento, rimbalza dalla memoria alla lingua e urge l’essere pronunciata. In una società liquida come la nostra, proverbi, slogan, password e codici PIN sono tra le poche cose che cristallizzano. Sono come una boa nel mare dell’esperienza quotidiana, consolano, ammiccano, ci mettono dentro a una community, sono i picconi a cui leghiamo attimi di socializzazione o i ponti con cui ci mettiamo in contatto con generazioni diverse dalla nostra. Leggendo quindi le pagine di questo volume si vedrà, nell’ottimo lavoro fatto da Romagnoli, il paradigma del vinproverbio rappresentato nelle tante sue declinazioni. Se dovessi darvi una guida alla lettura vi proporrei tre chiavi per accedere al testo. Contro la legge della non contraddizione Stagionalità, un’esigenza tutta contemporanea No narrazione, no party
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Cerco di spiegarmi meglio: poiché questo libro che avete tra le dita è una specie di museo animato, necessita quindi di alcuni accorgimenti alla lettura che ben si possono indicare nelle tre dimensioni che sopra ho elencato e sotto vado a spiegare. Quindi come avete capito questo è un libro in 3D. Contro la legge della non contraddizione Scusate, ma da che mondo è mondo i proverbi si scrivono? Essi appartengono alla cultura orale per antonomasia. I proverbi si sentono, si dicono, si declamano, si ripetono, si invocano, ma non si leggono. Eppure il fatto che se ne debba fare una raccolta come questa, che non è un mero elenco, ma è più un dizionario ragionato, ci impone una riflessione. Questi proverbi sono in via d’estinzione. Le pratiche a cui si riferiscono, la devozione, i luoghi, le consuetudini non sono più scenario quotidiano per la maggioranza di noi. I vecchi, quelli che basavano e diffondevano la loro saggezza e spesso identità attraverso queste giaculatorie, oggi non sono più abbastanza vecchi per affidarsi a questo registro, magari scrivono un sms o un post, ma non sono più il vettore sul quale i proverbi hanno attraversato i secoli. Ciò che era abituato a volare affidandosi alla mnemonica tradizione oggi necessita, per sopravvivere a tutti coloro che lo hanno fatto scorrere nel tempo, di essere scritto e addirittura spiegato, contestualizzato, indicizzato. Un catalogo di farfalle splendide, che se riusciranno a sedurre il lettore torneranno a battere le ali sulla bocca di chi li pronuncerà e si spoglieranno dell’inchiostro e della carta che li confina.
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Lettori, quindi, avete una missione e ad ogni proverbio liberato il brindisi sarà d’obbligo. Stagionalità, un’esigenza tutta contemporanea È veramente un bisogno di noi uomini contemporanei questa incredibile sete di sentire sulla nostra pelle la stagionalità, i rintocchi del tempo che tra liturgia, clima e maturazione danno alle giornate, alle ore, agli istanti un gusto diverso. I proverbi del vino spesso sono come fotogrammi di quel miracolo sempre in divenire che si chiama vigna, la mamma dell’uva. Tecniche di coltivazione tra agronomia e preghiere, tecniche di cantina tra enologia e alchimia, per tutto c’è un proverbio, un mantra che accompagna le fasi che si inanellano per arrivare, alla fine, attraverso la bottiglia, al calice: ambedue realtà non esenti da proverbi. Oggi noi si vive come climatizzati, in una sorta di atemporalità enogastronomica dove tutto è disponibile sempre su scala spazio-temporale cosicché sentire attraverso la lettura delle righe di questo testo che c’è un modo proverbiale di aspettare – fare – ringraziare ci sembra più liberatorio dell’avere tutto senza soluzione di continuità. I proverbi sono sempre contemporanei in quanto accadono come eventi musicali, pronunciati come formule magiche all’avverarsi di un appuntamento seppur piccolissimo ma cosmico per chi segua istante per istante la vita vegetale di una pianta o il ribollir di un tino. Non è l’azzeramento della scelta che ci rende liberi; è l’accorgerci stupito che frutto della terra e lavoro dell’uomo sono la più grande offerta che si possa fare, ergo il maggiore dei doni in nostro possesso.
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I proverbi non fermano il tempo, lo scandiscono, ne illuminano gli snodi, sono l’unica cosa che si possa dire quando tutte le altre parole sarebbero superflue. No narrazione, no party Leggendo questo catalogo di cristalli preziosi vi renderete conto presto che noi viviamo proprio su un altro pianeta rispetto alle dinamiche che i proverbi indicano. Tanto è vero che il grande valore di questo libro è il telaio costruito dall’autore intorno ai proverbi che vengono così incastonati in una trama. Abbiamo bisogno che espressioni popolari, semplici, rustiche come queste ci vengano introdotte, contestualizzate, narrate. Non siamo più capaci di leggerle, siamo sordi davanti a questi motti. Tutto ciò mi ricorda un po’ la sensazione che l’uomo moderno ha davanti alle sculture di una chiesa romanica. Per i nostri avi analfabeti quelle erano pietre parlanti; oggi noi, dinnanzi ad esse siamo ciechi, guardiamo ma non vediamo e ci perdiamo il bello. Nell’era della comunicazione ciò che è più semplice ci impone fatica. La fatica sta tutta nella nostra incapacità di andare a pescare nel profondo di un’esperienza che per noi è inimmaginabile. La storia del vissuto quotidiano, crudo e maschio per un verso femmineo e materno per l’altro, a cui fanno riferimento questi proverbi, è il tesoro sotto la cenere di questi messaggi che ci arrivano da ignoto amante. Senza immedesimazione, è matematicamente impossibile percepire la vibrazione di questa ricchezza rinchiusa in poche parole.
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Tutto ciò che abbiamo detto sui proverbi è ancor più vero per il vino. Come si fa a stappare una bottiglia senza percepire la vita della persona che l’ha prodotta? Il metodo non cambia, l’esperienza del conoscere è possibile solo a chi vive l’oggetto che ha davanti come un terminale, un segno, la punta di un iceberg sommerso. Si può essere superficiali, accontentarsi e godere oppure affondare lo sguardo, conoscere ed essere felici. Chi si accontenta gode dice il proverbio ma questa forse è la dimostrazione che a volte… anche i proverbi sbagliano! Essi sono umani, umanissimi, per questo simpatici, non hanno pretese, non li si potrà accusare mai di nulla, li si usa a proprio rischio e pericolo e soprattutto li si mette in campo quando serve la benzina del vivere quotidiano, l’ironia, appunto… spirito, esattamente come il vino.
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Pillole di saggezza
al latino proverbium deriva la parola proverbio, un sostantivo utilizzato per indicare una massima contenente dettami, norme o consigli in forma sintetica, scaturiti da esperienze millenarie. Pertanto comunemente si ritiene che la fonte dei proverbi sia la saggezza popolare, a guisa di un grande contenitore di conoscenze e di osservazioni stratificate nel corso della storia quotidiana dell’uomo, un “distillato” delle sue più genuine e popolari manifestazioni, quasi la “summa” delle verità umane. Possono contenere similitudini o metafore, si presentano nei linguaggi più disparati, spesso in dialetto. Lo studio dei proverbi si chiama paremiologia. Molti appartengono ad una ben determinata area geografica e forse non potrebbero trovare adeguato riscontro in altre regioni, perché sono localmente commisurati. Altri invece sono universalmente validi tanto che, ad una rapida ricerca, se ne possono reperire varianti in quasi tutti i dialetti. A volte la differenza linguistica ne può modificare interamente il senso, ma ciò è naturale se si considera che il medesimo proverbio ha attecchito su realtà culturali spesso contrastanti tra loro. Se ne deduce che, qualsiasi raccolta, come quella che segue, non è mai esaustiva, ma sempre incompleta, come un laboratorio in perenne divenire; è quindi solo uno stimolo per scoprire spigolature e “pillole” di saggezza che speriamo possano generare una lettura amena, piacevole o, perlomeno, incuriosire, senza pretese di esaustività.
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I proverbi della vite e del vino
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Quantità e verità relative
proverbi legati al tempo, all’agricoltura, alla vite e al vino, manifestano spesso il pensiero di una “dura”, pragmatica, spicciola “filosofia” contadina, quale espressione di infallibili verità che, ripetute con puntigliosa precisione, sono poi state tramandate fino a noi. Si calcola approssimativamente che, nelle nostre campagne, le esperienze acquisite e riportate fra le genti, di generazione in generazione, attraverso motti e versi, stratificate nei secoli, costituiscano un tesoro di circa cinquantamila massime! Nel più ristretto campo viticolo ed enologico, bisogna poi distinguere quelle che esprimono massime generali, con quelle che evidenziano pratiche enologiche o vinicole, influenze astro-meteorologiche, previsioni, costumanze.
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arecchi proverbi si equivalgono come concetto: sarebbe troppo complicato passare in rassegna tutte le forme assunte nei vari dialetti e quindi si darà corpo, per ovvie ragioni di comprensione, alla forma italiana, intelligibile a tutti. Così come non è sempre vero che i proverbi non siano fallaci, come sentenzia il motto meneghino “i proverbi falleng minga”, ovvero che i proverbi non sbagliano mai; allo stesso modo della poesia, l’analisi dei proverbi ci mostra il rapporto del vino con la psiche umana, alla quale quest’ultimi prescrivono il più delle volte, attraverso la brevità della loro formulazione e l’immediata ricettività, un
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canone di condotta. Nell’antichità, in particolare, non è sempre agevole tracciare una linea di confine netta tra poesia e proverbi: lo stesso Orazio ammoniva che: “agli astemi il cielo rende dura vita”. Ma è nella Bibbia, forse, che si ritrova il più ampio complesso di proverbi: “il vino nuovo darà vigore alle fanciulle” (infonde forza anche agli animi femminei rendendoli ardimentosi o altro?), “ogni boccale va riempito di vino” (a sottolineare il senso dell’ospitalità), oppure: “il vino è come la vita per gli uomini” (nel significato che infonde energia, stagionando migliora, così come il raziocino e la capacità analitica; questa asserzione andrebbe tuttavia smentita, perché il vino, a quei tempi, non si faceva invecchiare). Sempre dalla Bibbia derivano i motti secondo cui: “il vino allieta la vita”, così come: “il vino e la musica rallegrano il cuore”. Ma si celebra anche il “vino nuovo, amico nuovo” (cioè un legame che si rafforza nel brindisi). Insomma quasi una panacea esistenziale, dove però si dimentica di citare anche le molestie comportamentali di una solenne ubriacatura.
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Leggende e credenze popolari
L’
L’origine del vino
origine della vite è fantasticamente spiegata in molti modi: o nata da una goccia del sangue divino caduta sulla terra, o dal sangue dei giganti, o da Bacco stesso trasformato in pianta. Noè, secondo la leggenda, sarebbe stato aiutato dal diavolo a piantare e coltivare la vite; Satana prima innaffiò la terra con il sangue di una mansueta pecora, poi con quello di un leone, infine con quello di un porco. Secondo una versione arabica non sarebbe stato Noè, ma Adamo. In base al Leviticus Rabbah, l’albero proibito del Paradiso terrestre non sarebbe stato un pomo, ma una vite. Infine secondo un antico libro francese, la strana concimazione operata sulla vite sarebbe stata opera di Noè che cambiò la vite selvatica in domestica con sangue di leone, porco, agnello e scimmia. Questa leggenda, nell’una o nell’altra forma, chiunque venga ritenuto il creatore, vuol significare la gradazione degli effetti che il vino produce: lieve libagione, vuol dire mansuetudine e dolcezza come la pecora. Maggior libagione significa vigore ed orgoglio, come nel leone. Infine lo smodato uso del bere è una sozzura che fa assomigliare a un porco. In una antica porta in legno di un ex albergo della Val di Non (Trento), erano scolpite quattro facce che volevano rappresentare i quattro stati cui può sottostare un bevitore: contenta, con un sorriso; allegra, con risate scomposte; sonnolenta o nel sonno; irosa. Il filosofo latino Apuleio Medaurense aveva specificato addirittura nove gradazioni del bere: il primo
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bicchiere giova alla sete; il secondo al buonumore; il terzo al piacere; il quarto tien dietro all’ubriachezza; il quinto genera ira, il sesto le liti, il settimo il furore; infine il sonno dall’ottavo e la malattia dal nono. Giovanni Pascoli nella poesia I tre grappoli dedicata a Giacinto Stiavelli scrisse: “Ha tre, Giacinto, grappoli la vite. Bevi del primo il limpido piacere; bevi dell’altro l’oblio dolce e mite; e …più non bere: chè sonno è il terzo e con lo sguardo acuto nel nero sonno vigila da un canto, sappi, il dolore; e alto grida un muto pianto già pianto”. Del resto un proverbio toscano insegna: “uno di sanità, uno di letizia ed uno di ubriachezza”. E l’antico filosofo Anacarsi affermava: “la vite produce tre sorta di frutti: il piacere, l’ubriachezza ed il pentimento”.
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Miti e pratiche vitivinicole
ono innumerevoli le credenze popolari relative alle pratiche vitivinicole. In alcune province della Sicilia si usava mozzare i giovani germogli delle viti a pergola il giorno di San Giovanni (24 giugno), nella credenza che in quella notte le viti distribuissero negli acini ancora verdi quel succo che avrebbe dovuto renderli ancora pieni di agresto mosto.
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La produttività della vite è in rapporto al numero di gemme che vengono lasciate in potatura invernale per unità di superficie. Ai fini della produzione, l’eliminazione dei giovani germogli non è necessaria, anzi la quantità di prodotto aumenta, ma peggiora notevolmente la qualità. Un mese dopo si immaginava che Sant’Anna (26 luglio) scendesse in terra con un pentolino e venisse a spennellare l’uva in nero. In quel giorno a Salaparuta, a Naro e altrove, si usava mandare in dono ad amici e parenti quel novello frutto, come simbolo ed augurio. In Romagna, quando nasceva un bambino, si era soliti dargli in mano un tralcio di vite accesa perché guarisse gli offesi dal fuoco. Questo però, secondo la credenza, non era possibile con il settimo figlio maschio, quello nato con la cosiddetta “camicia”. Se l’amorosa si fosse trovata ad una festa di campagna con l’amante, essa non poteva accettare da bere da nessun altro, se l’amante per primo non pagava da bere vino. E se offriva, medesimo trattamento doveva essere riservato a tutte le ragazze che erano con lei. Al matrimonio, il padre dello sposo, al giungere della sposa, si presentava sull’aia con un fiasco di vino e le porgeva da bere. In Romagna le viti non dovevano essere potate in febbraio e in marzo: si poteva solo a luna calante. Il periodo adatto per la potatura della vite è molto ampio. Esso può variare dalla caduta delle foglie, all’inizio del germogliamento. È bene sottolineare però che si ottengono risultati diversi in base al periodo in cui viene effettuata sia sul grado di vigore della pianta, che sulla fruttificazione. In ogni caso la potatura eseguita anticipatamente, oppu-
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re molto in ritardo, viene adottata soprattutto nelle zone fredde a settentrione; quella eseguita in inverno risulta più adatta ai climi delle zone meridionali. Al Carnevale si usava ballare attorno a fiaschi di vino e poi si offriva da bere a tutti. Alla vigilia di Natale si gettava una piccola quantità di vino vicino alle viti affinché producessero grande quantità d’uva. Se un contadino veniva attaccato dalla terzana, lo si faceva passare sotto una vite affinché guarisse. Se si eseguivano lavori attorno alle viti, si diceva che queste mormorassero. “Prender non me ne devi, oppur levare. Quando bagnata son, lasciami stare”. Questa affermazione trova riscontro nel fatto che alcune sintomatologie riscontrate soprattutto nelle primavere caratterizzate da abbondanti piogge, la vite va incontro, per effetto del compattamento del terreno, ad un particolare stress che si manifesta con evidente riduzione del vigore. Quando, sempre in Romagna, ma anche altrove, si versava vino sulla tavola, si usava intingervi il dito e con quello si bagnavano sulla fronte i presenti i quali non dovevano asciugarsi o pulirsi, anche se si trattava di vino rosso, perché questo atto arrecava fortuna. Ai Castelli Romani, l’ultimo giorno di vendemmia, a tutti coloro che entravano nel tinello, si faceva l’“ammostatura” e cioè si prendevano dei grappoli e si spremevano loro sul viso. Se le persone erano di riguardo, lo si faceva sulle scarpe per buon augurio. In molti luoghi sognare uva nera era buon segno, bianca significava lacrime; ma vedere in sogno il vino
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non andava bene per l’esito del lotto; quello bianco era negativo, quello rosso voleva invece dire “prossime nozze, nascita di un figlio”. Versarlo era “di buon augurio”, berlo era sinonimo di “forza, salute, vigore”. La colazione delle rogazioni (la prima riguardava ortaglia e vendemmia), i friulani la svolgevano seduti sull’erba, con l’indispensabile compagnia di bottiglie o bariletti di vino. Bevutane la maggior parte, il contadino si puliva con il dorso della mano la bocca e lo rendeva all’amico offerente che era tenuto a vuotarlo del tutto. Ai castelli romani il feticcio (che consisteva in una calamita racchiusa in un sacchetto di flanella insieme ad altri ingredienti come cera, raschiatura di ferro, palme di ulivo, ruta e una mollica di pane), portava fortuna e si doveva portare sempre con sé. Ma ogni quindici giorni bisognava far bere la calamita inzuppandola nel vino: di preferenza il marsala, ma comunque un vino superiore. Se non si faceva così, spariva ogni incantesimo.
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L’amore, le nozze e l’amicizia
elle nostre campagne detti e motti scandivano ogni momento dell’esistenza e per questo, dalle osservazioni relative alla vite e al vino, se ne desumevano consigli relativi a periodi cardine della vita come amore, matrimoni, amicizia. Così, ad esempio, per quanto riguarda i rapporti matrimoniali, in relazione sempre all’enologia, si affermava decisamente che “è meglio la botte piena che la moglie ubriaca”, oppure, a scelta che: “non si può avere la botte piena e la moglie ubriaca”. Circa le nozze, si consigliava con decisione: “Amico ti scongiuro di non sposarti e di preferire la bottiglia ad una bellezza; se la bottiglia si rompe, potrai cambiarla, mentre se tua moglie è cattiva, ti tocca tenerla”. Ma non tutto dell’esperienza matrimoniale sembrava da gettare perché “chi ha bella moglie e ottima cantina, amici intorno avrà”. Ma se il matrimonio fosse “come una botte, dove in superficie c’è miele, ma sotto… solo robaccia”, arrivati ad una certa età, era opportuno che, consigliava un altro motto: “l’uomo sulla cinquantina, lasci la carne e prenda la cantina”. “Dio”, ammonisce un altro detto, “ti salvi da acqua e vento, da un cocchiere sonnolento, da una donna che ama il vino e da un uomo femminino”, ma il vino appare quasi anche un precursore del Viagra, ad ascoltare i proverbi secondo cui: “senza Cerere e Bacco,
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amor debole e fiacco” o: “’l vino è come l’amore: scalda la testa e ’l core”. L’eccesso però, come si evidenzia soprattutto in altri paragrafi del testo, nuoce sempre, anche nell’amore, perché: “un uomo preso dal vino, non vale un quattrino”. Dall’amore all’amicizia, ma con un sottinteso pessimistico perché: “per farsi un amico basta un bicchiere, ma per mantenerlo non basta una botte”. Una “stilettata” anche verso la collettività: “Il popolo è come il somaro, porta il vino e beve l’acqua”. E a distinguere il genere umano, senza scomodare Darwin, una distinzione netta: “Bevano il vino gli uomini, l’acqua tutti gli altri animali”. La rottura del fiasco, del boccale, della bottiglia ed il versare accidentalmente vino in un banchetto di nozze, significavano buon augurio e perciò, qualche volta, lo sposo alzava il lembo della tovaglia e mandava a terra tutto quanto vi era sopra. Così si usava in Abruzzo. Nel Canavese i due sposi dovevano bere nello stesso bicchiere; nella tradizione foggiana nella raccolta dell’uva si impiegava la donna perché si credeva che la giovinetta, sopra tutte, restando a contatto con il frutto divino che racchiudeva il sangue del Cristo, tenesse sempre pura la sua anima e fortificasse il suo corpo, così da renderlo capace di affrontare cimenti e tentazioni. Nelle colonie albanesi di Sicilia, durante le nozze, il sacerdote scambiati gli anelli, versava del vino, vi inzuppava pane o biscotto, lo dava da mangiare per tre volte e dopo cantato: “Prenderò il calice salutare nel nome del Signore”, buttava con furia a terra il bicchiere che andava in pezzi (in caso contrario era di cattivo auspicio). Molti dei riti nuziali tipici del popolo ebreo vennero adottati nella celebrazione re-
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ligiosa delle nozze cristiane. Così il rito del pane e del vino consumato dagli sposi. Dopo la Messa il sacerdote benediceva (tradizione a lungo viva in Val Gardena e nelle valli Ladine dell’Alto Adige) il pane e il vino e lo porgeva allo sposo che lo passava alla sposa. La Chiesa tentò di vietare agli sposi l’usanza di bere nella stessa coppa (Sinodo di Angere, 1277) e l’altra di infrangere la coppa in cui gli sposi avevano bevuto insieme, solo perché basata sulla superstizione (Sinodo di Arezzo, 1597). Ma a parte la cerimonia religiosa dello sposalizio, il vino nuziale bevuto insieme nello stesso bicchiere, rimase un’usanza fra le feste matrimoniali come nel rito pagano e nel costume medievale. In alcuni luoghi era la madre dello sposo che offriva il vino rituale. Così a Muscletto, ad Ariis, così nel Leccese, mentre in Savoia l’uso avveniva alla ratifica del fidanzamento. Del resto tra gli israeliti il vino nel battesimo e nelle nozze era uso antichissimo. Nella circoncisione, dopo che il Mohel aveva pronunciato la relativa benedizione ed eseguito il taglio, il mohel stesso o il rabbino prendeva il bicchiere di vino, pronunciava le parole: “Benedetto tu sia Signore nostro Dio, re del mondo, creatore del frutto della vite”, beveva e continuava recitando la formula d’imposizione del nome. Giunto alle parole di Esek: “ego disci tibi cum esses in sanguine tuo, vive” intingeva il dito nel bicchiere e lo passava sulla bocca del bambino. Ciò per due volte, ripetendo le stesse parole. Pare che la ripetizione volesse alludere alle due vite, presente e futura, di cui si augurava partecipe il bambino. Nel matrimonio il rabbino teneva in mano il bicchiere e dopo avere benedetto il vino, ne versava una parte
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in un altro bicchiere che porgeva allo sposo il quale beveva; la sposa e contemporaneamente il rabbino facevano altrettanto. Dopo la benedizione e la consegna dell’anello nuziale e il canto di lode e di augurio, si brindava un’altra volta con lo stesso cerimoniale. In alcune comunità il bicchiere era consegnato dal rabbino alle madrine che lo passavano agli sposi. In talune si usava rompere subito le coppe in cui si era degustato il vino, per ravvivare, anche nella gioia, il dolore per la perduta patria di Gerusalemme. Si usava vino rosso e sempre kosher, prodotto cioè dagli ebrei. Nella Contea di Modica, prima che gli sposi entrassero in casa, si spargeva del vino sull’uscio rompendone il recipiente, donde il proverbio locale: “Resti, boni festi”. Finché i pampini erano attaccati alla vite, le macchie d’uva, di mosto e di vino, nonostante i lavaggi, non andavano via.
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Uva e vino per le feste di fine anno
uva fresca era utilizzata a Capodanno come simbolo di prosperità e ricchezza: se ne mangiava un racimolo, non solo per propiziarsi l’anno, ma anche per non soffrire penuria di danaro, così come si fa con le lenticchie. La vigilia di Natale nelle famiglie friulane era consuetudine gettare sul fuoco alcune gocce di vino e qualche pezzo dei cibi che si mangiavano. Le famiglie slovene del Friuli versavano vino nel tradizionale ceppo natalizio e a San Giovanni Evangelista (27 dicembre), benedivano il vino del quale in famiglia tutti dovevano ingoiarne alcune gocce a digiuno. Il resto si conservava in caso di malattia e talora lo si faceva assaggiare ai congiunti in agosto. Le viti bisognava piantarle in settimana Santa e possibilmente tra un Gloria e l’altro, perché dessero ogni anno copioso prodotto. In moltissimi luoghi del Monferrato e del Piemonte il giorno dell’Invenzione della Santa Croce si usava piantare nelle vigne croci di canne benedette per scongiurare la grandine. Di buon augurio era innaffiare il ceppo di Natale con un buon bicchiere di vino e che questo durasse fino al mattino dopo. Antica e curiosa era questa credenza: se si scriveva il breve: “Gustate et videte quam suavis est Dominus” sulla botte o sopra un pomo gettatovi dentro, il vino non sarebbe mai andato a male.
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E se un ubriaco recitava il verso omerico: “Jupiter his alta tonuit clementer ab Ida”, o gli cessava l’ubriacatura, o mai più sarebbe stato ebbro. A riassumere le credenze sul vino vale la sintesi che, in due versi, ne fece Margotte: “Soprattutto nel buon vino ho fede e credo che sia salvo chi ci crede”.
Bacco - particolare - Caravaggio
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Santi per tutte le stagioni
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Enologia e calendario
oltissimi sono i proverbi che insegnano a trarre oroscopi o previsioni dall’andamento del tempo secondo i santi del calendario. A gennaio per esempio, “Se sono belli i giorni di San Paolo (15) e di San Vincenzo (22), pel vino va bene”, mentre a febbraio si guarda al giorno di Sant’Eulalia (12): “Sole a Sant’Eulalia, porta molta frutta e molto vino”; inoltre: “dopo il dì di Sant’Urbano, più non gelano tralci e grano”. Marzo si desidera asciutto e che la vite tardi a germogliare per evitare il più possibile le gelate tardive. “Marzo senza umido, riempie la botte” e: “per San Benedetto la vite e il suo paletto”, adattamento enologico della più celebre frase: “la rondine sotto il tetto”, almeno prima che inquinamento e mutazioni climatiche non ne minacciassero la sopravvivenza. Quando in aprile germoglia, deve seguire un maggio fresco, affinché non acceleri troppo la vegetazione. La nutrizione dei sali minerali, unitamente alla riserva idrica del terreno e dell’andamento climatico con temperature elevate, condizionano notevolmente l’attività biologica della vite, per cui nei terreni freschi dotati di buona fertilità, la pianta tende a vegetare a lungo con un notevole rigoglio vegetativo che sottrae zuccheri al grappolo. Da un punto di vista biologico, queste manifestazioni si evidenziano con un intenso processo respiratorio che si può protrarre fino al periodo dell’invaiatura, distruggendo zuccheri e ritardando la maturazione che risulta altresì incompleta.
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Ad aprile se “a San Giorgio (24) la vite è senza germogli, darà uva”, così a San Marco (25) “deve fare sole se si vuole il buon vino”. Se piove per Santa Petronilla (31 maggio) “poco mosto dall’uva zampilla”; peggio ancora: “Se piove per San Barnaba (11 giugno) perché “l’uva bianca se ne va”; analogamente, per questa ricorrenza: “se piove mattina e sera, se ne va la bianca e la nera”, perché le fitopatologie proliferano a causa dell’eccesso di umidità. Una delle ampelopatie più temibili, con rapida diffusione come la peronospora, ad esempio necessita, per lo sviluppo, di una temperatura ambientale non inferiore a 10°, di una pioggia corrispondente a circa 10 mm. e di germogli a tre-quattro foglie di 10 cm. Queste condizioni si verificano frequentemente in aprile-maggio e si ripropongono in giugno-luglio. Condizioni del tutto opposte riguardano invece lo sviluppo dell’oidio, ma sempre in condizioni particolari di umidità e di temperatura. Tuttavia “dopo il dì di Sant’Urbano (17 maggio), più non gelano tralci e grano.” Per maggio occorre tempo fresco ed umido, mentre giugno e luglio devono essere asciutti. Attenti quindi ai santi delle gelate tardive, quelle di maggio, San Pancrazio il giorno 12, San Gervaso il 13 e San Bonifacio il 15: “Pancrazio e Gervaso sono assassini del vino, ma se tutti e tre i giorni vanno bene, così sarà per il vino”. Se poi “piove per San Vito (15 giugno) “il vino se n’è ito”, mentre con la “notte di San Giovanni (il 24), entra il mosto nel chicco”.
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La vite è particolarmente sensibile all’eccesso di umidità, mentre resiste molto bene alla carenza idrica; risulta altresì sensibile alle basse temperature: al di sotto dei 10/15 gradi, le gemme vengono danneggiate; nei freddi primaverili (gelate tardive), i giovani germogli sono danneggiati in modo da compromettere il futuro raccolto. Le persistenti piogge primaverili compromettono l’intero raccolto, favorendo la colatura e la filatura dei grappoli. “Il Corpus Domini deve essere bello e sereno”; “a San Pietro (29) non deve piovere”; lo stesso per San Giacomino (25 luglio), perché: “se piove a San Giacomino, non c’è benedizione per il vino”. “Santa Cristina (24 luglio) vuota il tino”. Quanto ad agosto, che grazie al sole e al calore, “porta il sapore al vino”, c’è San Lorenzo (il 10), quello “pascoliano” per intenderci, che per il vino, “se c’è il sole”, non porta “pianto dal cielo”, ma “buon anno di vino”; oppure per “San Lorenzo l’uva tinge”. All’Assunta (15 agosto): “Se Maria va al cielo, con bel tempo e sole, viene buon vino” e a San Felice (30), il mese deve chiudersi caldo, altrimenti settembre non compenserà. In settembre migliore è il tempo, più matura l’uva: “Se settembre non cuoce ed arrostisce, anche l’uva non cresce bene” e “Bel tempo a San Matteo (21), molto vino”. Poi: “la luna co’ la stella, Sant’Angelo che veliegna (vendemmia); ed ancora: “A San Simone, al vino si mette il tappo”; per “San Michele (29 settembre), l’uva è come miele”. Infine non in ordine cronologico, ma di maturazione, ossia circa il momento in cui il vino apparirà dal mo-
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sto, il Santo di riferimento è Martino: “Per San Martino, ogni mosto è vino”. Quindi: “per San Martino buon vino”, ed inoltre “per San Martino, un bicchier di vino”. Ancora: “A San Martino ogni mosto è vino”, “A San Martino si lascia l’acqua e si beve il vino”, “per San Martino si spilla il botticino”, “per San Martino cadon le foglie e si spilla il vino”, o “per San Martino si ubriacano grandi e piccoli”. Tuttavia, per averlo proprio maturo, con tutte le migliori qualità organolettiche, bisognerebbe attendere San Valentino (14 febbraio): “A San Valentìn, se spilla il buon vin”. Da un punto di vista enologico, questa affermazione trova riscontro nel fenomeno dell’illimpidimento spontaneo per graduale decantazione delle sostanze disperse nel vino per lo più allo stato colloidale. Questo fenomeno viene favorito dall’abbassamento della temperatura e coinvolge anche la precipitazione di molti sali minerali, in primo luogo il bitartrato di potassio ne abbassa notevolmente il tenore in acidità tartarica e conferisce al vino una gradevole piacevolezza. La stabilizzazione spontanea modifica in modo profondo la composizione chimica del prodotto, nonché i caratteri organolettici, così da migliorarne, in certi casi, la struttura.
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Protettori della vite e del vino
lcuni santi sono invece menzionati come diretti protettori della vite e del vino o ebbero, nella devozione popolare, più accentuati rapporti con la viticoltura. Primo tra tutti, come già evidenziato da alcuni proverbi, San Martino. La leggenda narra che il Santo, inseguito dai nemici, ricoverò da un povero contadino il quale lo nascose dentro una botte vuota. Entrati i nemici lo cercarono dappertutto e trovando le botti piene di vino, tanto ne bevvero, che si ubriacarono. Il Santo nel frattempo poté fuggire e ricompensò il contadino facendogli trovare di nuovo tutte le botti piene, compresa quella nella quale era stato nascosto. San Martino divenne dunque per antonomasia il patrono dei bevitori; da lui derivarono frasi e verbi. I francesi dicono: “avoir l’hotel de Saint Martin”, a significare il godimento di tutte le dolcezze della vita. “Fare San Martino”, vuol dire anche assumere un buon pasto accompagnato dal vino. “Martiner”, significa bere ad oltranza e perfino l’ubriachezza era denominata in Francia “mal de Saint Martin”. In parecchie nostre regioni il vino nuovo si spilla solo a San Martino ed infatti in Friuli i produttori, prima di San Martino (11 novembre), non lasciano assaggiare i loro vini e solo in quel giorno lo spillano dalle botti. Così Pascoli: “[…] mosto che cupo brontola e tra nere ombre sospira e canta San Martino, allor che singultando nel bicchiere, sdrucciola vino […]”
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In molte regioni italiane, era consolidata l’usanza di assaggiare il vino nuovo ottenuto dopo la svinatura, al successivo punto giusto di fermentazione lenta, quando il vino conteneva ancora un certo residuo zuccherino e con l’acidità totale abbastanza sostenuta. Il vino così ottenuto, per tradizione, era chiamato “vino novello” e veniva spillato proprio il giorno di San Martino. Un santo protettore delle vigne, e come tale venerato in tutto l’Alto Adige, era Sant’Urbano, il papa il cui martirio è datato 25 maggio 230. Si raccontava che i viticoltori, almeno quelli della Spagna, consideravano la vendemmia come ormai assicurata, quando le vigne avevano passato la festa di Sant’Urbano (25 maggio) senza accidenti. I tedeschi, quantunque coltivino la vite in un clima ben diverso dalla Spagna, ritenevano questa giornata decisiva per i pronostici sul raccolto. In Alto Adige, Sant’Urbano era invocato per impetrare buona vendemmia e se ne portava in processione l’immagine. In alcune zone del Lagundo, in Tirolo, e a Lana, le guardie campestri ne portavano in processione la statua fin dentro le cantine dei produttori perché vi portasse la benedizione. Nel giorno della natività di Maria (8 settembre), a Lana si usava adornare la statua di Sant’Urbano con tralci di vite, e alle cappellette o alle croci sparse per la campagna, si attaccava dell’uva in ringraziamento del buon raccolto e per propiziarne l’eletta qualità. (Sant’Urbano è il vero uomo, Sant’Urbano è anche un eroe del vino). Molti presagi si traevano dall’andamento del tempo nel giorno della sua festa: “Sant’Urbano
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chiaro e bello, benedice le botti”. “Sole a Sant’Urbano promette molto buon vino”. “Se Sant’Urbano è bello, le donne devono vendere il loro velo e bere vino, tanto deve riuscire bene”. Al contrario, “Sant’Urbano umido, porta nulla alla botte”. E si traevano previsioni anche per la vendemmia: “Il tempo che c’è a Sant’Urbano, vi sarà anche in vendemmia”. In rapporto anche all’andamento stagionale, nei territori viticoli, la qualità della vendemmia risulta connessa alle condizioni climatiche che la precedono. Le annate migliori risultano essere quelle in cui i mesi di agosto e settembre sono caldi e secchi. Anche il Sant’Urbano vescovo di Langres nel V secolo, era ritenuto protettore di vigne nella Champagne e la leggenda gli attribuì miracoli in loro favore. Ma pure ad altri santi sono attribuiti i medesimi meriti. San Grato, vescovo di Aosta, era spesso invocato nella valle per salvare le vigne dalla grandine ed era sovente rappresentato nell’atto di benedire un tino con l’uva. San Teodulo o San Teodoto, patrono degli osti, era spesso dipinto con un grappolo in mano o benedicente una botte. Si raccontava di lui che il suo popolo era venuto a riferirgli che una brinata nelle vigne aveva provocato una drastica riduzione del raccolto, danneggiando in modo irreparabile tutti i germogli della vite deludendo pertanto tutte le speranze dopo tanto lavoro. Fece portare delle botti e dei barili vuoti e dopo aver invocato il soccorso del cielo e raccomandato al suo popolo la fiducia in Dio, schiacciò qualche grappolo di uva sul foro del cocchiume dei recipienti
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che gli avevano portato e li benedisse. Botti e barili si riempirono tutti di un eccellente vino. Per questo la diocesi di Sion e Losanna, nei viticoli cantoni del Vallese e di Vaud, ha conservato vivo per secoli il culto di questo benefico santo. Vi è anche un Saint Mitre patrono di Aix-en-Provence (festa del 13 novembre) martire sotto Diocleziano. Lo si rappresentava con un grappolo in mano o nell’atto di offrirlo a un povero. La tradizione vuole che egli fosse stato incaricato di custodire le vigne da un pagano, un padrone avaro, e che questi, vedendosi o credendosi depauperato dalla frequente elemosina di uva che il servitore guardiano elargiva agli indigenti, lo abbia, per punizione, messo a morte. Un altro santo spesso dipinto con un grappolo d’uva in mano, è Saint Othmar abate; la tradizione voleva con ciò ricordare la moltiplicazione del vino che sarebbe avvenuta mentre si trasportava la sua salma all’abbazia di San Gallo. Per San Davino, pellegrino morto a Lacques, si raccontava che un ceppo di vite crebbe sulla sua tomba; gli artisti dipinsero ripetutamente il suo sepolcro coronato di tralci e pampini che traevano la loro linfa dalla terra ove giaceva il corpo santo. San Morando di Cerny, benedettino del X secolo, (festa del 3 giugno), era figurato con un grappolo d’uva da cui si spremeva il succo in un barile; talora lo si rappresentava sullo sfondo di colline rivestite di belle vigne. Era venerato dai vignaioli del Sundgau e un convento nei dintorni di Altkirch portava il suo nome. Non è ben chiara l’origine di questo attributo, ma una vecchia biografia popolare del santo benedettino pre-
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tendeva spiegarla narrando che questo religiosissimo uomo passò un’intera quaresima senza altro nutrimento che un grappolo d’uva. San Barnaba (11 giugno) in Friuli era ritenuto protettore della vite perché assicurava abbondanti vendemmie: “Se piove il dì di San Barnaba, c’è uva in abbondanza”. Anche San Vincenzo passerebbe per patrono dei lavori delle vigne e dei viticoltori. Altri due santi sono legati all’uva e al vino con minor misticismo. San Giovanni, in molte regioni, si credeva mettesse il succo nell’uva. “San Zvàn al mett al sugh int l’ù” dicono i bolognesi. La festa del 24 giugno corrisponderebbe alla festa pagana del sole. Nel giorno di San Luca (18 ottobre), nella vecchia Bologna si effettuava l’assaggio del vino nuovo. Si offrivano insieme i marroni lessati detti “balùs” (in altre parti dell’Emilia, “plòn”). A San Martino invece il vino si tramutava e si festeggiava con raduni familiari ed abbondanti libagioni. “La sira d’San Martin s’imbriaega grand e cen (piccoli)”. Nella chiesa dell’isola degli Armeni a Venezia, il giorno dell’Assunta (15 agosto), dopo la messa solenne, si distribuiva a tutti gli intervenuti un grappolo d’uva suggerendo di mangiarla per ottenere vantaggi spirituali. Nello stesso giorno i pagani festeggiavano ugualmente la festa della più celebre dea, l’augusta donna Anahit-Nahit-Nane. La benedizione dell’uva secondo la chiesa armena si spiegava così: “la gran madre di Dio raffigura la vite che dà il frutto, l’uva, dalla quale si prepara il vino che nel sacrificio della santa Messa si converte in vero sangue del suo figliolo, Gesù Cristo”. Il che significa,
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da un punto di vista della storia dell’alimentazione, che al tempo della caduta dell’Impero romano d’Occidente, attraverso il vino, la cultura romana si era legata (sangue-carne) con quella barbarica. Il cristianesimo aveva infatti sincreticamente sussunto ed inglobato alcuni capisaldi della cultura alimentare delle popolazioni barbariche legate alla carne-forza. Anche alla Madonna, sporadicamente, furono affidati attributi viticoli. Non pare però che la significazione vada oltre l’idea di invocare la protezione della Vergine sulle vigne o quella di ricordare il luogo vitato ove sorgeva una chiesa o una cappella ad essa dedicata. Nell’abbazia di Hautecombe sorse, nel 1889, una statua della Vergine che ebbe nome di Notre Dame des Vignes, con inciso nello zoccolo il versetto del Capo I del Cantico dei Cantici: posuerunt me custodem in vineis, per invocare la protezione nelle vigne ricostituite dopo la fillossera. Questo fitofago della vite, originario del Nord America, attacca le radici della vite europea. La sua comparsa in Europa fu segnalata in Francia nella seconda metà dell’Ottocento e si diffuse disastrosamente, provocando la distruzione totale di tutti i vigneti. Alcuni vitigni americani, pur manifestando alcuni sintomi localizzati sull’apparato aereo e su quello radicale, non erano attaccati da questo fitofago e pertanto, dopo il grave attacco subito dai vigneti europei, le viti furono innestate su piede americano. Il portainnesto americano pertanto ha conferito alla pianta della vite la propria tolleranza alla fillossera; la parte apicale costituita dal vitigno europeo, risulta quindi indenne dall’attacco fillosserico.
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Ugualmente Santa Maria delle vigne in Genova, fu così chiamata perché sorta “dov’era per quel tempo pieno di vigne” e pure la cappella della Madonna delle vigne fu costruita dai Cistercensi in Montarolo a Trino per la medesima ragione. Altrettanto si poteva affermare per San Francesco della Vigna a Venezia dove anche l’isola dell’estuario che va sino al porto di Sant’Erasmo, si chiamava Vignale. Il grappolo d’uva è, con la perla, il melograno e la bivalve chiusa, tra gli emblemi della Madonna. E l’uva figurava nelle rappresentazioni artistiche della Madonna in una terracotta di Luca della Robbia e in quadri del Mabuse, del Mignard, del Botticelli e del Ghedina.
Pierre Mignard - Madonna dell’uva.
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I miracoli per vite e vino
arecchie leggende si riferiscono al ruolo che vite e vino ebbero nei miracoli. Quello dell’uva è attribuito a San Francesco d’Assisi. Nel fioretto XIX si racconta che nel settembre 1225, andando verso Rieti, si fermò ad una chiesa nei pressi della città, forse San Fabiano. I cittadini venuti a conoscenza della sua presenza, accorsero là e la vigna della chiesa dovette sopperire ai numerosi visitatori. Il prete in cuor suo si doleva di aver ricevuto Francesco, ma il Santo, indovinatone il pensiero, gli disse di non aver timore e saputo che quella vigna gli assicurava abbondante raccolto, garantì che da quell’anno ne avrebbe avuto molto di più. Il prete lasciò allora saccheggiare liberamente la vigna e all’epoca della vendemmia non era rimasto quasi più nulla, se non pochi, sparuti grappoli che, raccolti e pigiati, diedero un’abbondante resa di ottimo vino. Ma l’opera di Francesco si esplicò anche sull’uva e sulla sua relativa cura. Ne Lo specchio di perfezione e nell’opera di Tommaso da Celano, si narra che una volta San Francesco, giunto a Rivotorto, trovò un frate molto spirituale dell’Ordine, infermo e assai debole e pensò: “Se questo frate di buon mattino mangiasse dell’uva matura, io sono dell’avviso che ne trarrebbe grande giovamento. Riuscì a convincerlo e si recarono in una vigna lì vicino e dopo che se ne furono nutriti, il frate fu del tutto libero dal male ed insieme resero grazie al Signore”.
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Anche a Sant’Antonio da Padova è ascritto un miracolo sul vino. Entrato in una povera casa di Marsiglia, con un altro frate, venne loro offerta la cena: un boccone alla buona. La povera donna che li aveva ospitati si accorse che mancava un bicchiere per servire il vino e ne ottenne uno in prestito da una vicina: un calice bello e prezioso. Poi scese in cantina a spillare una certa botticella di buon vino ma colmato il boccale, nell’ansia di servire bene, si dimenticò, tornata di sopra, di chiudere lo zipolo e il vino si sparse sul pavimento. Si accorse inoltre che il frate compagno di Antonio aveva spezzato il bicchiere. La donna perciò si disperò, ma il Santo la rincuorò dicendo che Dio l’avrebbe aiutata. Infatti il bicchiere miracolosamente era già ricomposto e poi, tornata in cantina, constatò che il fusto era di nuovo pieno come prima, nonostante che il vino si fosse riversato ovunque. Un altro miracolo dell’uva è stato assegnato a Santa Francesca Romana. Questa, che al secolo fu la nobildonna Francesca Anna Ponziani, era solita condurre le Oblate (ordine da lei istituito) nelle sue vigne fuori le mura, a lavorare per raccogliere legna ed erbaggi e a far fastelle come le povere contadine. In una giornata del gennaio 1438, Francesca era fin dall’alba con sette o otto compagne nella vigna di Porta Portese. Dopo avere lavorato con intensità, sentirono il bisogno di un ristoro: avevano fame ed ancora di più sete, ma avevano dimenticato di portare con loro delle provviste. Francesca avendo colto la lamentela e l’impazienza di una delle più giovani, Perna, che voleva andare a bere lontano, ad una fonte sulla strada, si inginocchiò e
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pregò fervidamente il Signore di aiutarla. Perna rinnovò insistentemente la domanda alla Santa facendo ben capire il suo malcontento. Ma Francesca la rimproverò di non avere avuto abbastanza fiducia in Dio e le disse: “Alza gli occhi e vedi”. Guardarono una vite attorcigliata a un albero e videro dai rami secchi e senza foglie, pendere magnifici grappoli d’uva maturi, tanti quanti erano le persone presenti. Si cibarono allora tutte del soccorso che le preghiere della Santa aveva ottenuto. In realtà già gli etruschi nel III secolo A.C utilizzavano le alberate. Gran parte dell’Italia era sotto la loro influenza culturale e la viticoltura “maritata” ad un albero vivo derivava dalla tendenza di considerare la vite come una liana rampicante, un concetto questo completamente estraneo alla cultura dei popoli asiatici e orientali. Lo stesso Virgilio ha ricordato più volte nei suoi testi che nell’Italia settentrionale si “maritava” la vite all’olmo. Nelle “Georgiche” il poeta rammentava l’importanza della qualità del vino “quando sulle alte e miti ed apriche colline, matura la dolce uva”.
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Consuetudini agronomiche
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Localizzazione e tecniche di coltivazione
ulla viticoltura, proverbi antichissimi e fondati sono quelli che affermano che la vite predilige le colline e le esposizioni ben soleggiate come: “Bacco ama il colle” o: “Pianta la vigna dove non rotola la botte”; con un altro si conferma che: “Vigna al nugolo, fa debol vino” che tradotto in conoscenze tecniche moderne ci spiega come un’adeguata esposizione solare sia fondamentale per la maturazione e la concentrazione degli zuccheri. In realtà l’esposizione solare è uno dei tanti fattori che influiscono sulla maturazione dell’uva. Non dobbiamo tuttavia dimenticare il clima nel suo complesso che incide notevolmente sulla composizione dell’uva, con tutti i suoi componenti. La vite incontra le condizioni ambientali più favorevoli nelle zone temperate. Gravi danni possono essere causati da piogge o nebbie persistenti che, durante il periodo di maturazione dell’uva, possono limitare il contenuto in zuccheri e favorire attacchi parassitari e crittogamici. Un altro fattore di fondamentale importanza per la maturazione dell’uva è poi il terreno; la sua composizione infatti risulta molto importante per il futuro vino. Da non sottovalutare altresì la scelta del portainnesto, quella del vitigno, quindi l’esposizione e la giacitura del vigneto. Da ultimo, di certo non per ordine di importanza, la scelta del sistema di allevamento, la densità d’impianto, il numero di gemme
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per unità di superficie ed infine la potatura e l’epoca della vendemmia. La viticoltura dei terreni declivi, è quella che offre, nella generalità dei casi, prodotti di pregio. L’habitat naturale della vite è la collina nella quale è più facile lo sgrondo delle acque e sulla quale è migliore l’incidenza dei raggi solari e la maggior ventilazione. Dalle pendici collinari si ottengono dunque vini di alta qualità da uve con ottimi gradi zuccherini e basse acidità. Inoltre l’altitudine, spiegano le più avanzate ricerche, consente, grazie alla migliore esposizione solare, una maggior produzione di resveratrolo, quello che la scienza moderna ha definito “lo spazzino delle arterie”, sostanza antiossidante, probabilmente anticancerogena, contenuta soprattutto nei vini rossi. A proposito di questo particolare antiossidante, vale la pena di osservare che con il processo dell’invaiatura, ovvero l’avvio della maturazione dell’uva, compaiono nell’acino le sostanze coloranti. Si tratta di sostanze fenoliche nelle quali l’ossigeno entra a costituire il nucleo aromatico. Le sostanze fenoliche sono rappresentate da fenoli semplici, flavonoidi, acidi fenolici, tannini e stilbeni. È utile ricordare che al gruppo dei flavonoidi appartengono gli antociani (sostanze coloranti delle uve rosse) ed i flavoni (sostanze coloranti delle uve bianche). Tra i fenoli non flavonoidi, ricordiamo tra l’altro, appunto il resveratrolo. Anche un’eccessiva pendenza, se non è stato effettuato un inerbimento controllato, è deleteria: in caso di piogge insistenti, infatti si determina il dilavamento del terreno, con conseguenti smottamenti.
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La pratica dell’inerbimento che si sta sempre più diffondendo, permette una sensibile riduzione di mano d’opera per l’eliminazione quasi totale delle lavorazioni del terreno; in quello inerbito, il passaggio dei mezzi agricoli viene notevolmente semplificato, le operazioni di potatura e raccolta sono facilitate, le erosioni e i dilavamenti operati dalle piogge sono evitate. Inoltre le radici superficiali della vite non vengono danneggiate dalle lavorazioni del terreno. Questa pratica consiste nel lasciare tutta, o solo in parte, l’erba sulla superficie del vigneto sfalciandola periodicamente e lasciandola sul terreno. Per questi motivi l’ubicazione è importantissima: “Uva di colle, noce di valle”. “Vicino al fiume non comprar né vino né casa”, come pure: “Il vino nel sasso ed il popone nel terreno grasso”, con la variante: “vigna tra sasso e sasso, orto in terreno grasso”. Questa affermazione trova riscontro nel fatto che la vite vegeta molto bene nei terreni argillosi e ricchi di sostanze minerali con buone dotazioni di sostanza organica, determinando un prodotto abbondante, ma non sempre qualitativamente buono. Viceversa nei terreni calcarei, ciottolosi, con buon drenaggio e non troppo ricchi di sostanze minerali, il prodotto che ne deriva sarà senz’altro di quantità scarsa ma di ottima qualità. Quanto più ci si alza dal livello del mare, si verifica un graduale abbassamento delle temperature che fanno ritardare la maturazione o la rendono incompleta. I limiti altimetrici della vite sono però in diretto rapporto con la latitudine.
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Vanno tenuti in considerazione anche i rilevanti costi degli impianti per cui si afferma che: “Chi fa la vigna, fa la tigna” oppure che: “Casa fatta e vigna posta, nun se sa quello che costa”. Numerosi anche gli accostamenti vite-donna: “Di buona terra pianta la vigna, di buona madre sposa la figlia”. “Donne, vigne e giardini, guardati da vicini”. E a sottolineare la necessità di cure costanti “Alla vigna ed alla sposa, manca sempre qualche cosa”. La vite richiede cure appropriate, frutto dell’esperienza e della passione per cui: “Se tu vuoi della vite trionfare, non gli tòrre e non gli dare, e più di due volte non la legare”. Il legare significa che il capo lasciato non deve essere tanto lungo da dover eseguire medesima operazione due volte. Infine il detto: “Non mi toccare quando son molle” è riferito al potare, operazione che deve avvenire con il freddo, anche intenso. Il periodo adatto per la potatura della vite, è molto ampio, dalla caduta delle foglie, all’inizio del germogliamento. È indubbio però che i risultati sono diversi in rapporto al periodo in cui essa viene effettuata. Con la potatura precoce si determina un ritardo del germogliamento e una diminuzione del vigore. La potatura eseguita dopo la caduta delle foglie provoca un germogliamento precoce. In ogni caso l’intervento va effettuato durante il riposo vegetativo della vite e questo avviene durante i mesi invernali. E ancora: “Ramo corto, vendemmia lunga”. Significa che la potatura invernale è fondamentale per la gradazione del vino.
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Nel classificare i vari tipi di potature dobbiamo ricordare che rimane tutt’ora in uso la differenza tra potatura “povera” e potatura “ricca”, ad indicare il numero di gemme lasciate sulle singole viti. La potatura risulta povera quando sulla vite vengono lasciate un numero di gemme inferiore a dieci, media quando il numero oscilla tra dieci e venti, ricca quando si superano le venti gemme. È comprovato che il prodotto finale più o meno abbondante, comporta evidenti riflessi sulla qualità. Subito dopo si asserisce, confermando quanto affermato, che: “Chi pota di maggio e zappa ad agosto, non ha né pane né mosto”. Sfortunatamente, subito dopo, un altro detto lo contraddice con: “Zappa la vite d’agosto, se vuoi avere del mosto”. Purtroppo, o per fortuna, il comportamento della vite è assai diverso dalle altre piante. La vite è un arbusto rampicante e sarmentoso che necessita di essere regolato nel suo sviluppo; è pur vero che, non potandola, essa produce lo stesso, ma peggiora considerevolmente la qualità dell’uva. La potatura varia con diversi fattori legati al vitigno, al portainnesto, alla forma di allevamento, alla natura del terreno ma, in ogni caso, è meglio effettuare potature corte e lasciare un minor numero di gemme per ottenere tralci vigorose di grande sviluppo. Il buon vino si fa prima nel vigneto e poi in cantina, per cui: “Chi pota bene, vendemmia bene” e: “Quando zappi e quando poti, niente parenti, niente nipoti”, ovvero un’operazione da compiere con accuratezza e la doverosa attenzione.
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Dunque: “Che l’occhio della vite, non veda il potatore. A febbraio il taglio è amaro”. Un altro proverbio si spinge addirittura avanti nel tempo con: “Pota tardi e semina presto, se un anno fallirai, quattro ne assicurerai” che tuttavia appare come una “bufala” bella e buona, perché le annate cambiano costantemente e la produzione, come ben sanno i viticoltori, non è mai simile all’anno precedente; non a caso, il vino assume valori organolettici peculiari diversi, proprio in base all’annata. Sempre sulla necessità di potare d’inverno si riferisce il: “Se d’aprile a potar andrai, contadino, molta acqua berrai”, così come: “Vite in april potata, ha mai la sete al vignaiol levata”, mentre per chi desidera un raccolto molto abbondante, un proverbio ammonisce: “Chi vuole tutta l’uva non ha buon vino”, perché la gradazione non può che risultare bassa. E infine “Chi zappa la vigna d’agosto, la cantina empie di mosto”. Il terreno deve poter essere adeguatamente aerato per favorire il passaggio delle sostanze nutritive; le viti si contentano anche di non essere governate, purché non si depauperi il terreno attorno a loro con sementi che le possano privare dei principi essenziali alla crescita.
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Il calendario del vignaiolo
proverbi legati al tempo, ai mesi, alle stagioni, sono più che mai il frutto di una puntigliosa osservazione generazionale tanto che, anche durante la Rivoluzione francese, ai mesi vennero attribuiti i nomi dagli eventi atmosferici che li caratterizzavano, oppure dalla produzione agricola. Così gennaio è zappatore (nevoso), febbraio potatore (piovoso), marzo amoroso o broccolaro (ventoso), aprile carciofaio o cerasaro (germinale), maggio fiorellaro o ciliegiaio (fiorile), giugno fruttaio (pratile), luglio agrestaio (messidoro), agosto pescaio (termidoro), settembre ficaio (fruttidoro), ottobre mortaio (vendemmiaio), novembre vinaio (brumaio) e infine dicembre favaio (frimaio). Possiamo poi citarne alcuni specifici per i singoli mesi iniziando da gennaio: “Tempo chiaro e mite a Capodanno, assicura bel tempo tutto l’anno”. Chi non avesse travasato il vino a dicembre, lo faccia quanto prima, per evitare che il contatto prolungato del vino sulle fecce (ricche di cellule di lieviti in fase di autolisi) che possono conferire al prodotto il difetto, peraltro correggibile, di sapore di feccia. Controllare altresì, con un’analisi chimica, tutti quei parametri indispensabili, come il grado alcolico, il valore degli zuccheri, dell’acidità totale, di quella volatile e dell’anidride solforosa. È bene effettuare una prova all’aria che ci consente di identificare eventuali malattie, difetti ed alterazioni, per dare modo agli operatori del settore di intervenire ed eliminare il problema. Eventualmente procedere ad una indispensabile chiarifica.
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Segue: “Freddo e sereno il gennaio, riempie botte e granaio. Ma se è umido va male”. Relativi alla luna: “La luna di gennaio è la luna del vino” e “Luna di grappoli a gennaio, luna di racimoli a febbraio”. Sulla potatura: “Chi pota a gennaio, pota al grappolaio” (ovvero avrà abbondanza di prodotto) oppure: “Chi pota alla mancanza di gennaio, pota a uva” (cioè con la luna calante). La luna in base alla sapienza popolare, come già più volte evidenziato, presiede alla nascita e allo sviluppo delle piante e governa le faccende e i lavori. In genere la luna buona è quella calante. “La luna di gennaio è la luna del vino”. Bisogna sapere che la luna “buona” o semplicemente “luna” è per i contadini il periodo della luna calante; con la luna “cattiva” (crescente) non si semina, perché le piante producono subito il seme, non si pota, non si travasa il vino perché intorpidisce e tale resta, soprattutto quello bianco, non si rimuove il letame, non si castrano animali, non si fanno altre faccende. L’influenza della luna su tutto quanto vive, muta, fermenta, è un fatto incontestato. Ma in che modo questo avvenga è tutt’ora discusso; esistono diverse opinioni anche in campagna. Nonostante ciò, quasi nessuno semina o effettua operazioni sul vino con la luna “cattiva”. Nei mesi seguenti: “Se di febbraio corrono i viottoli, vino ed olio in tutti i ciottoli” e: “Se per la Candelora il tempo è bello, molto più vino avremo che vinello”; “Se ci sono mosche in febbraio, bisogna scaldarsi le orecchie a marzo”.
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Nel frattempo completare la potatura e la concimazione del vigneto, operazione che riveste grande importanza incidendo in modo spesso determinante sugli aspetti quantitativi e qualitativi della produzione. Eventualmente preparare il terreno per nuovi impianti. Infatti, sottolinea un motto: “Avaro agricoltore non fu mai ricco”, nel senso che la terra dà, solo se la nutri. Si avverte poi che: “Quando di marzo a notte tuona, la vendemmia sarà buona”. All’opposto, a sottolineare ancora una volta la contraddittorietà e il carattere spesso volutamente aleatorio di alcuni proverbi: “marzo secco e caldo, fa il vignaiuol spavaldo”. “Chi nel marzo non pota la sua vigna, perde la vendemmia” (un invito agli ultimi ritardatari ad affrettarsi in questa fondamentale operazione), mentre: “La nebbia di marzo non fa male, ma quella d’aprile toglie pane e vino”, si genera cioè un clima adatto alla formazione di peronospora e botrytis. A questo proposito va ancora ricordato quanto già precisato in precedenza: queste crittogame sono favorite dalle temperature e dall’andamento climatico in generale. Nel contempo bisogna effettuare un altro travaso del vino cui fa seguito una filtrazione. Con questa operazione, il vino passa attraverso uno strato poroso sul quale, per il ridotto diametro dei pori, deposita il materiale in esso sospeso, rendendo il prodotto limpido. Controllare sempre che i recipienti siano ben colmi, onde evitare pericolose ossidazioni.
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Un altro proverbio conferma uno degli ultimi citati: “Chi vuol pane, porti letame”. “Se la vite fiorisce d’aprile, no sperà d’arrimpì (di riempire) lu barile” perché è troppo presto e qualche tardiva gelata potrebbe creare danni. Citiamo di nuovo: “aprile, ogni goccia un barile (cioè, la pioggia di aprile favorisce un buon raccolto di uva), così come: “Quando tuona d’aprile, buon per il barile”. Aprile sembra dunque un mese importante, perché i proverbi relativi al periodo si sprecano: “aprile freddo sera e mane - dà gran copia di vino e pane”. Del resto una decisa escursione termica nella vendemmia, favorisce i profumi nelle uve bianche. “Il freddo d’aprile appresta al contadino pane e vino” e “Vigna ad april potata, ha mai sete al vignaiol levata”, a sottolineare che è troppo tardi per un’attività nel vigneto, più consona ai mesi invernali. Lo ribadisce anche questo detto: “Se vai a potar d’aprile, contadino, molt’acqua beverai e poco vino”. Diffidare poi di una primavera precoce: “Tralcio nato in aprile, poco vino mette in barile” e “La gemma d’aprile non empie il barile”. Iniziare i trattamenti al vigneto a base di zolfo e prodotti rameici. Non irrorare prima che i nuovi germogli abbiano raggiunto 6,8 centimetri di lunghezza. Ricontrollare i livelli del vino nei contenitori, analizzare analiticamente il vino (chimicamente) ed eventualmente imbottigliare. Se si desidera un vino frizzante stare attenti al residuo zuccherino.
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Le attività nei primi sei mesi dell’anno
l primo periodo, che va dal mese di febbraio a luglio, è quello dedicato alla preparazione del vigneto in cui si predispone, si pulisce, si ordina, si preserva il vigneto per la stagione della raccolta che in realtà, in alcune zone, inizia già a metà agosto con le uve bianche a “base spumante” che necessitano quindi di elevata acidità. I climi più adatti per la coltivazione delle uve da utilizzare per la spumantizzazione sono quelli temperato-freddi perché permettono di ottenere un’uva sana e di buona acidità, e una produzione di vini profumati, sapidi e con pochi polifenoli ossidabili. La vendemmia delle uve destinate alla spumantizzazione viene di norma molto anticipata allo scopo di ottenere un prodotto con maggiore acidità e profumi varietali. In effetti un primo lavoro di preparazione del terreno, andrebbe eseguito a fine autunno alla profondità di 20/25 cm; nel periodo del germogliamento, a primavera, è consigliabile una zappatura e/o fresatura per eliminare le erbe infestanti ed evitare perdite di acqua attraverso le screpolature del terreno. In agosto va effettuata un’ulteriore lavorazione per eliminare le erbe infestanti e mantenere il terreno fresco, abbastanza umido per favorire così un’ottimale maturazione dell’uva. A febbraio le piante segnalano il loro prossimo risveglio attraverso il “pianto”, cioè l’emissione di una linfa trasparente, più o meno abbondante, dai rami
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potati; i proverbi popolari relativi a questo mese precisano: “Se per la Candelora il tempo è bello, molto più vino avremo che vinello”. Se il clima di gennaio è stato particolarmente rigido, meglio potare subito; se il clima di febbraio è troppo freddo rispetto alla norma, meglio rimandare ancora la potatura, ma si faccia la valutazione con molta cautela. In cantina intanto si prosegue con le colmature settimanali delle botti; non dovrebbe ormai esserne necessaria più di una alla settimana. Con il mese di marzo le piante stanno per risvegliarsi e quindi bisogna affrettare la fine dei lavori di preparazione. Continua la potatura invernale (nelle regioni a clima molto rigido) e si revisionano le impalcature di sostegno dei filari. Si procede all’aratura del terreno e si legano i tralci al filo più basso dell’impalcatura. Si eseguono gli innesti e si mettono a dimora le “barbatelle” già innestate. A proposito del rapporto tra marzo e la vendemmia, la tradizione popolare dice: “Chi nel marzo non pota la sua vigna, perde la vendemmia” (cioè chi non l’effettua in questo periodo, non potrà farlo mai più). La ripresa dell’attività vegetativa è segnalata dal germogliamento; la schiusa delle gemme si può delineare attraverso tre diverse tipologie: si dicono “pronte” quelle che si apriranno nella stagione corrente e daranno origine a rami generalmente sterili; “ibernanti”, quelle che si apriranno l’anno dopo, producendo fiori e frutti; infine “latenti” che
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si apriranno anche dopo anni, dando origine a rami generalmente sterili. In cantina è tempo di effettuare il secondo travaso del vino conservato nelle tradizionali botti di legno, ma anche di imbottigliare i vini bianchi, quelli giovani (non a lenta maturazione), ed il periodo più adatto per farlo è questo; i vini a lenta maturazione si possono imbottigliare anche in autunno. L’ideale è imbottigliare il vino durante la fase calante della luna di primavera, che di solito coincide con la settimana di Pasqua; meglio effettuarlo in una giornata serena, non troppo fredda, perché il freddo favorisce lo scambio tra aria e vino e, quindi, la sua ossidazione. Le bottiglie tappate vanno tenute in posizione verticale su scaffali e in ambienti adatti, in modo che dilatandosi, i tappi di sughero, si adattino perfettamente alle bottiglie; vanno poi disposte orizzontalmente in modo che non rimanga aria tra tappo e vino. Ad aprile è tempo di preparare il terreno all’attività frenetica legata alla stagione primaverile e poi estiva. Bisogna spargere il concime e cominciare l’opera di protezione contro malattie e parassiti, in particolare contro l’oidio, la peronospora e la botritys. Circa l’epoca di somministrazione dei vari concimi, va ricordato, per quelli a lento effetto, che il periodo migliore risulta quello autunnale. Si consiglia altresì di abbinare la concimazione con la lavorazione del terreno che usualmente si effettua prima dell’inverno. Trattandosi di concimi a pronto effetto il periodo più indicato risulta essere quello che precede il risveglio vegetativo.
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Sulla concimazione molti proverbi riflettono l’erronea massima che “la vite non ne ha bisogno per fare vino buono”, come se la vite si contentasse delle foglie cadute a terra e non volesse letame. Infatti un proverbio afferma che il miglior concime per la vite è “l’orma delle scarpe del padrone”. Anche per la vite, la fertilità del terreno è molto importante: si ottiene sia nella fase d’impianto, che in quella di produzione. La concimazione va praticata tenendo conto della pronta disponibilità degli elementi nutritivi e delle loro qualità presenti nel terreno. Contro i parassiti sarebbe meglio orientarsi anche verso la “lotta integrata”, imparando ad utilizzare cioè insetti che degli stessi parassiti si nutrono. È bene richiamare l’attenzione sul concetto di “lotta guidata”, lotta biologica, agronomica, integrata. Il principio fondamentale sul quale si basa la “guidata” è quello di poter effettuare i trattamenti nel periodo in cui il parassita risulta più vulnerabile, al fine evidente di ridurre il numero di trattamenti. Con la lotta biologica si utilizzano invece organismi antagonisti ai fitofagi. Nella lotta agronomica invece si utilizzano tecniche colturali che modificano le reazioni delle piante nei confronti di attacchi crittogamici o di insetti fitofagi. Infine la lotta integrata, si attua con l’utilizzo di tutti i mezzi citati precedentemente, senza trascurare l’impiego di fitofarmaci a bassa o nulla tossicità. Nella tradizione popolare aprile è un mese molto importante per la vendemmia. Numerosi i proverbi; alcuni li ripetiamo: “aprile, ogni goccia un barile” (cioè, la pioggia di aprile favorisce
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un buon raccolto di uva). “Quando tuona d’aprile, buon per il barile”. “Nebbia di marzo, mal non fa, ma in aprile, pane e vino a metà”. “Aprile freddo sera e mane, dà gran copia di vino e pane”. “Il freddo d’aprile appresta al contadino pane e vino”. E ancora: “Tralcio nato in aprile, poco vino mette in barile” e: “La gemma d’aprile non empie il barile”. Verso la fine del mese, in base alle zone di produzione, possono cominciare a formarsi le prime foglie e i primi abbozzi di grappoli: questo processo è detto allegagione. A maggio, nella stagione del rigoglio naturale, si effettua la potatura verde che consiste nell’eliminare i germogli sterili, stando bene attenti a non eliminare quelli ibernanti che, come già precisato, fruttificheranno l’anno successivo. Puntuale il proverbio: “Tutto maggio si lega la vite; se maggio non è assai lungo, se ne lega anche di giugno”. La legatura della vite veniva fatta anticamente non sopra supporti sterili, ma sulle piante, per lo più di olmo, che venivano poste lungo il filare per permettere alla vite di arrampicarvisi e fruttificare. È tempo di cominciare i trattamenti contro la peronospora e la pianta apre i suoi fiori al sole e alla calda stagione. A giugno giunge il tempo di sminuzzare il terreno tra le viti; si legano i tralci in modo che non travalichino il filare; si rinnovano i trattamenti contro malattie e parassiti, mentre la pianta trasforma alcune delle sue infiorescenze in viticci ed altre ne fa cadere; pertanto solo il quindici - venti per cento dei fiori si trasformerà in uva.
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Anche in questo caso si possono reperire precisi detti popolari: “Se piove per San Barnaba - l’uva bianca se ne va” perché è quella dove l’allegagione avviene prima, ma: “Se piove mattina e sera, se ne va la bianca e la nera” e quindi tutto il raccolto sarà particolarmente compromesso. Infatti, a rafforzamento: “Quando piove il giorno di San Vito, il raccolto dell’uva va fallito” o: “Se piove per San Vito, il raccolto dell’uva se n’è ito”. Ma: “Se piove per Sant’Anna, l’acqua diventa manna”. La terra in questo periodo è riarsa; l’eccessiva aridità nuoce anche ai chicchi; in quel giorno, generalmente piove. Raccontano che fu l’unica dote che la madre della Vergine portò in dote a San Gioacchino. In cantina intanto è arrivato il momento di effettuare il terzo travaso del vino conservato nelle tradizionali botti di legno. Infine a luglio si effettuano solo lavori di controllo, eliminando eventuali germogli sterili con lavori, se necessitano, di prevenzione contro malattie e parassiti. Nel corso della vegetazione della vite prevalentemente a sistema di allevamento corto e povero, si praticano diverse operazioni di potatura verde, così come la soppressione dei succhioni del ceppo. Sono altresì importanti la scacchiatura, volta a sopprimere i germogli sterili del capo a frutto, la cimatura, l’eliminazione delle femminelle , ovvero i germogli che spuntano all’ascella delle foglie e la sfogliatura che è utile, se praticata, per evitare il marciume tipico dell’uva nelle zone che ne sono soggette. L’attività del vigneto è al culmine, i frutti stanno per arrivare a completa maturazione e tra poco inizierà il tempo della raccolta.
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Verso l’estate
mesi estivi sono fondamentali per la maturazione dell’uva e quindi il tempo deve essere sereno e caldo. “Tutto maggio si lega la vite - se maggio non è assai lungo - se ne lega anche di giugno” e pertanto: “se piove per San Barnaba - l’uva bianca se ne va; ed ancora peggio: “se piove mattina e sera, se ne va la bianca e la nera”. Tuttavia l’acqua, in giusta misura, fa ancora bene al vigneto e allora, come già precisato poc’anzi, “aprile ogni goccia un barile”, ma altrettanto: “Se per San Marco goccia lo spino, vi è abbastanza di pane e vino” e: “Acqua di maggio, vino a novembre”. “Anche il maggio più lungo, non entra in giugno” e: “Col tempo la lumaca, arriva dove vuole”, nel senso che la natura segue i suoi ritmi e ad essi il buon viticoltore si deve adeguare, anche nel saper cogliere i segnali che possono compromettere il raccolto. Nel vigneto intanto, eliminare i polloni che nascono sulla parte vecchia della pianta; continuare i trattamenti con zolfo contro la peronospora. In caso di piogge frequenti e temperature basse, intervenire ogni 7/8 giorni. In cantina controllare sempre i livelli e colmare i contenitori di legno. Dunque attenzione all’eccessiva umidità e al successivo ristagno per assenza di vento, perché: “Acqua di giugno rovina il mugnaio”, ma anche il viticoltore. Avverte un proverbio che: “Se nascono i funghi, il mese di giugno, si guasta l’uva”: infatti annate molto abbon-
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danti di funghi, sono l’inequivocabile segnale di forte umidità che favorisce le malattie della vite. Attenzione perché: “se piove il giorno di San Vito (15 giugno), il raccolto dell’uva va fallito”. A luglio: “Più secco è il tempo, più verde la speranza”, mentre “luglio caldo e bagnato, acino stento e incenerato”; al contrario: “luglio asciutto, vino e prosciutto”. Continuare i trattamenti contro la peronospora e l’iodio. In cantina controllare il vino anche con degustazioni. L’analisi organolettica del vino è indispensabile per poter identificare eventuali difetti o alterazioni; si rammenta che i parametri chimico-fisici da soli non sono sufficienti a precisare se un vino è “buono”. Terminati gli interventi al vigneto, provveduto ad ultimare i trattamenti contro peronospora, oidio e botritys, si potrà procedere all’imbottigliamento dei vini cosiddetti “fermi” che hanno completato la maturazione in vasca. Nel mese di luglio, circa 20 giorni prima dell’invaiatura, sospendere ogni forma di potatura verde. “Quando piove d’agosto, piove miele e piove mosto”, ossia la pioggia d’agosto può giovare alle viti, ma nei proverbi, purtroppo, non si fa mai un cenno preciso alla quantità delle precipitazioni. Rimanere nel vago, fa “parte del gioco” e garantisce la possibilità di interpretare le affermazioni che, proprio per questo… non sbagliano mai! Sempre per agosto troviamo in un’altra regione il solito: “N’acqua tra luii e agosto è la fonte dl’òii e del mosto e “Acqua d’agosto, olio, lardo e mosto”.
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Quindi, contraddittorio al massimo, sempre perché la quantità non è specificata, il detto: “Se piove in agosto si perde mela e mosto!” “Dice la capra: non venga il mese d’agosto: con la carne ci fanno l’arrosto, con l’otre ci trasportano il mosto”. Così con il calore estivo: “Assai mosto serba agosto” e “Se non arde luglio e agosto, troppo aspro sarà il mosto”, ovvero il caldo è fondamentale per la concentrazione degli zuccheri negli acini. Quindi non avere paura della “nuvola di montagna, perché non piove alla campagna”. Diversi i paralleli con altri prodotti: “Per Santa Maddalena, se la nocciola è piena, il fico ben maturo, il gran copioso e duro, ed il grappolo serrato, il vino è assicurato”; ”Agosto ci matura grano e mosto”. E ancora, relativi ad agosto troviamo: “Di settembre e di agosto - bevi vino vecchio e lascia stare il mosto”, “D’agosto l’uva fa il mosto” e a “San Lorenzo (10 agosto), l’uva si tinge”, mentre: “Agosto matura, e settembre vendemmia”. Per le pratiche agronomiche agostane si ricorda che: “Zappa la vigna d’agosto - se vuoi avere buon mosto” (in modo che l’acqua penetri nel terreno), un concetto altresì ribadito dal detto: “Chi vuole buon mosto, zappi la vigna d’agosto, e chi vuol l’uva grossa, zappi la proda e scavi la fossa”. Questo è il mese che la campagna richiede assistenza, impegno e lavoro; la zappatura si fa per poter rendere la terra permeabile alla pioggia che viene meglio trattenuta dalle zolle smosse in cui penetra. Ciò è particolarmente indicato nei periodi di siccità per sfruttare al massimo il beneficio dei rari temporali. Inoltre la zappatura libera la terra dalle erbacce e
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consente una miglior traspirazione del terreno. Conclude l’ultimo mese tipicamente estivo: “L’acqua del 24 agosto rovina olio e mosto” che assomiglia, in senso negativo per l’uva, assai al detto: “La pioggia d’agosto la bàgna i crùst”, ovvero la prima pioggia del mese cade su un terreno arido. Preparare le attrezzature per la vendemmia; vigilare affinché nella vigna non insorgano oidio e botritis; iniziare i prelievi di uva per verificare gli indici di maturazione e stabilire i diagrammi. L’importanza di questi controlli risulta evidente specialmente per le uve utilizzate nella preparazione di “vino base” per la produzione di spumanti con metodo classico. Non solo per le uve usate nella spumantizzazione, ma anche per le uve normali, è necessario controllare nei 15-20 giorni che precedono la vendemmia, lo zucchero presente ed il contenuto in acidità totale. Il grado zuccherino, costante nelle ultime due determinazioni, indica il raggiungimento probabile del giusto grado di maturazione.
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Finalmente la vendemmia!
inalmente a Sant’Eufemia (16 settembre), comincia la vendemmia e ovviamente si raccoglie prima l’uva bianca, perché: “Da settembre, prima la bianca che di pendere è già stanca” (riferito all’uva) e: “Se fa bello per San Gorgone, la vendemmia va benone (6 settembre), mentre al contrario: “La pioggia di settembre è veleno per l’uva”; quella in eccesso, per osmosi, fa scoppiare i chicchi traendone fuori gli zuccheri. “Se in settembre senti tonare, vini e botti puoi preparare”. Se il mese non promette di essere asciutto e soleggiato, è meglio preparare la vendemmia in modo che l’uva non debba soffrire delle intemperie sulla pianta. Non bisogna però avere fretta di raccogliere l’uva che deve maturare al punto giusto, altrimenti: “Chi vendemmia troppo presto, o svina debol vino o tutto agresto”. Così come: “Non si taglia l’uva quando c’è la guazza”. Però attenzione perché: “Pronta con molti frutti, non li matura tutti” . Altri frutti di stagione indicano che è venuto il momento di vendemmiare: “Pe’ssettembre: l’uva è fatta e lu ficu penne”; così: “Le more sulla fratta: vai alla vigna perché l’uva è fatta”. Ci sono ulteriori proverbi in parallelo con prodotti stagionali: “Nasce il riso in acquirino, ma morir vuole nel vino” e: “Acqua per i meloni, vino per i maccheroni”. “Al fico l’acqua, alla pera il vino” ma “Se vuoi gustare pesce sopraffino, fallo nuotar nell’acqua, l’olio e il vino”. “Pesche, pere e pomi, vogliono vini buoni” e se “Il sole è nel leone, buono il vino col melone”.
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Termina dunque, precisa l’enologo, la vendemmia delle uve bianche; controllare acidità totale e zuccheri del mosto per ottenere una concreta indicazione sul grado alcolico del futuro vino. Inizia anche la raccolta delle uve rosse che, dopo la pigiadiraspatura, vengono fermentate in presenza di vinacce. Con ottobre, “Il vino è nelle doghe” (cioè nelle botti) e sempre in “ottobre: vino e cantina, dalla sera alla mattina”, mentre con novembre: “Chi vuol far buon vino, zappi e poti a San Martino” con l’avvertenza però che: “Più presto se ami il legno, più tardi se ami il frutto”, ovvero è preferibile potare presto se si vuole rafforzare la pianta, più tardi se si vuole rafforzare il frutto. È fondamentale che in cantina tutto sia stato predisposto in modo appropriato e perciò: “Quando viene agosto prepara i caratelli per il mosto” e: “Prima della vendemmia acconcia le botti” che vanno opportunamente sanificate perché, precisa un altro proverbio: “Perde il vino l’aroma e il sapore / se è messo in botte che abbia malo odore”. Il sapore di secco, di legno o di muffa che designa stadi diversi di una medesima causa, sono divenuti rari per la quasi totale sostituzione dei vasi vinari di legno utilizzati durante le macerazioni, fermentazioni tumultuose e lente. Si sottolinea altresì l’importanza dell’attività del cantiniere (o, per usare un termine più alla moda, dell’enologo), perché: “La bona cantina fa bon vinu”, e se “Metti in botte vecchia vino schietto, te ne rivela presto ogni difetto”.
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Pertanto vanno seguiti con attenzione ed estrema cura tutti i processi di vinificazione ed occorre intervenire con la massima celerità nelle fasi critiche. Vanno controllate in continuazione le temperature delle masse. “Ottobre, vino e cantina da sera alla mattina”. La preparazione del vino richiede grande impegno da parte di tutti coloro che lavorano in cantina, perché le operazioni da effettuare sono tante e la sorveglianza del mosto che bolle nel tino deve essere attenta. Assai calzante è il parallelo con l’età: “La giovinezza è come il nuovo mosto, che deve ribollire ad ogni costo”, mentre per un giudizio di qualità: “Il vino dal sapore, il pane dal colore”, come se non importasse un esame anche olfattivo e visivo, e, sempre in parallelo con il pane, ne discende: “Pane d’un ora e vinu d’un annu” o: “Pane finché dura, ma il vino a misura”. Così ci si avvia verso la fine: “Fino ai morti e fino ai santi, bene o male si va avanti”. Nel vigneto non va anticipata la potatura, mentre in cantina occorre effettuare un travaso del vino bianco; svinare per le macerazioni lunghe dei vini rossi (separare il vino dalle vinacce). Il vino nuovo ottenuto è contraddistinto ancora da un certo residuo zuccherino che, nella seconda fermentazione, si evolverà ulteriormente. È il momento di effettuare anche una prova all’aria, osservando il vino posto in un bicchiere all’aperto per ventiquattro ore, per verificare se mantiene colore e limpidezza.
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Vino e salute
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Qualità intrinseche
uanto alla qualità di vino da scegliere, ecco dei consigli: “Vin che salti, pan che canti, formaggio che pianga”, alludendo a un vino frizzante, allegro, con un pane fresco, ben cotto, croccante e un formaggio stagionato, oppure: “Pan di un giorno, vino di un anno”; nel Veneto si aggiungeva: “e giudizio di un secolo”, dopo avere premesso “ova di un’ora”. Nel Trentino si diceva: “Pan col bus, formai senza bus e vin che salta ent’el mus”, nel medesimo significato di quanto asserito poc’anzi. Quanto all’età del vino, lo conferma quest’altro detto: “Amico e vino vogliono essere vecchi”, o: “Amico, oro e vin vecchio, sono buoni per tutti”. A proposito di amicizia, ecco altre due massime utili: “Amicizia di grand’uomo e vino di fiasco. La mattina è buono e la sera è guasto” e: “Per fare un amico basta un bicchiere di vino. Per conoscerlo è poca una botte”. Pregni dunque di filosofia delle cose e degli uomini spicciola, ma allo stesso tempo profonda, sono anche questi: “Anche il vino ch’ha la muffa si impara a bere” ad evidenziare che nella vita ci si adatta e: “Alle volte più vale la feccia che il vino”. “Beva la feccia chi ha bevuto il vino”. Così ne discende anche l’invito a non giudicare le passioni d’altri: “Non giudicare l’uomo nel vino, senza gustarne mattina e sera”, ovvero ci vuole esperienza personale di vita, competenza e comprensione per vizi e virtù altrui e, prima di tutto, per se stessi. Quanto alla facoltà del vino di sciogliere lo scilinguagnolo e spingere a parlare tanto, è stato coniato il proverbio : “Buon vino, favola lunga”, come del resto
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aveva già notato Orazio: “Fecundi calices quem non fecere dissertum” Gli si attribuisce pure la facoltà di poter far svelare la verità con l’antichissima sentenza che si trova in Teocrito: “In vino veritas”. Lo stesso Edmondo De Amicis aveva dissertato in alcune conferenze, come erano soliti fare gli scrittori più famosi, sugli effetti psicologici del vino. Un motto veronese raccolto nel “Folclore d’Italia” insegna a disprezzare il vinello o vin piccolo: “I tre peccati che no ne salva (da evitare assolutamente): robar (rubare) per i atri, imbriagarse de vin piccol e innamorarse de done vecie (che non necessita di traduzione!)”. In Val d’Aosta erano in uso esaltazioni del vino che è oggettivamente opportuno non seguire: “Après la polenta, in fat, una brenta” (dopo la polenta, ne occorre una brenta); “Après lo fromadzo, incò davantadzo” (dopo il formaggio, ancora di più); “Après la soupe, il faut la coupe” (dopo la minestra, occorre il bicchiere); “Après la rave, descendons in cave” (dopo la rapa, scendiamo in cantina); “Après la figue, sois an prodiga”(dopo il fico, siatene prodighi); “Après la pomme, c’est tout comme” (dopo la mela, tanto come prima); “Après la poire, il faut boire” (dopo la pera, bisogna bere); “Après la cerise de soifs ja grise” (dopo la ciliegia, muoio di sete); “Après la salade, j’en suis malate” (dopo l’insalata, ne sono malato); “Après l’eau, il faut le tonneau” (dopo l’acqua, occorre la botte); “Après le diner, ne pas lenir” (dopo il pranzo, non lesinare); “Après le super, il faut en gouter” (dopo la cena, bisogna bere). Insomma, ogni occasione è buona per ubriacarsi! Nel brindisino, quando alla domenica, artigiani e contadini si riunivano all’osteria per il consueto “tocco” (gioco del vino), un vecchio detto, accom-
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pagnato per lo più dal suono del cembalo o tamburello nei balletti, veniva ripetuto a chi ballava un po’ brillo: “U sugu da saramend u diavul tu fresce send” (il succo del sarmento, il diavolo te lo fa sentire). Così a tavola vanno osservate buone norme come sempre codificate dai proverbi, per esempio: “In cucina non metter chi lecca ed in cantina chi ha gola secca”, come: “Chi beve tutto è sempre all’asciutto”, mentre: “Chi mangia senza bere, mura a secco”, ovvero i muri di una costruzione non possono reggere se non sono uniti dalla calce, così come il corpo, senza vino, non trae giovamento da ciò che mangia. Così: “Mentre pranzi allegramente, bevi poco, ma sovente” e per gustare meglio le qualità del vino: “Se vuoi farti un buon bicchiere, mangia un po’ prima di bere” proprio perché, com’è noto da sempre, è da evitare il vino a stomaco vuoto. Ciò che impone la moderazione nel bere il vino è la presenza dell’alcol etilico. Dopo cinque minuti dall’ingestione a digiuno, l’alcol viene assorbito dallo stomaco e nella prima parte dell’intestino, mentre a stomaco pieno l’assorbimento inizia dopo quasi due ore. Giunto al fegato, l’alcol etilico viene metabolizzato e ossidato in aldeide acetica e, successivamente, in anidride carbonica ed acqua. Così “Chi magna, magna, ma le but on d’argì pere (chi mangia, mangia, ma le bevute devono andare pari). Anche la cultura conta nell’enologia: “Chi sa il latino loda l’acqua e beve il vino” che richiama più una sapienza di vita quotidiana che quella di un normale erudito. E infine: “Bonu pane, bonu vinu, bona gente, non dura gnïente”.
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Panacea di tutti i mali
ulle virtù del vino basterebbe il proverbio: “Buon vino fa buon sangue”. Esso dà, come dice Giovanni Pascoli, “aurea la gioia, e dentro le brunite coppe ogni cura in razzi d’oro scioglie”. Platone aveva detto che: “il vino infonde coraggio”, mentre una sana e più spicciola filosofia proponeva: “Bevi del vino e lascia andare l’acqua al suo mulino”, ovvero è opportuno lasciare che gli avvenimenti seguano il loro corso, mantenendo un atteggiamento distaccato e sereno, quasi un eracliteo “tutto scorre”. Poi, senza scomodare i grandi filosofi dell’antichità classica, c’è il detto bolognese: “scarpa grande come i montanari e bicchiere pieno e prendere il mondo come viene”, straordinaria sintesi di saggezza quotidiana. “Quando c’è pane e vino, va tutto bene” e quindi, come recita un adagio friulano: “Non c’è invidia verso il vicino”. “Un litro di buon vino per certi è cura, contro la noia e contro la paura”, o, senza ricorrere a pillole, “un buon bicchiere ti rallegra il cuore quando ti senti di cattivo umore”, rimedio forse efficace anche contro il male del secolo, la depressione, più di pastiglie e psicologi. Tuttavia bisogna stare molto attenti a non esagerare perché “il vino non ha timone” e se nel passato il rischio maggiore era quello di un passo malsicuro: “chi di sovente per il vin barcolla, di mali e disonori si satolla”, oggi i rischi per chi guida ebbro, sono catastrofici, per sé e, soprattutto, per gli altri, mentre nel pas-
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sato, per i più abbienti, c’era a disposizione il cavallo che… conosceva la strada di casa! Supportati da questo dato di fatto sugli effetti perniciosi dell’eccesso, moltissimi proverbi invitano dunque alla moderazione, al bere per gustare ed apprezzare, perché esagerare non va bene. Ecco dunque: “Il gioco, donne, fumo e vino, portano l’uomo al lumicino”. Oppure, in altra versione: “gioco, donne e cantina la gioventù rovina”. Sempre con il fine di raccomandare la moderazione: “Mangia poco, bevi meno, e a lussuria poni il freno” e: “diradando le bevute, si prolunga la salute”. Assodato dunque che il “troppo stroppia” e che le bevute pantagrueliche arrecano danni, resta la constatazione, ovviamente suffragata da una lunga e consolidata esperienza di empirica osservazione sanitaria che: “a sostenere un corpo mingherlino, bastano poco pane e poco vino”, quindi: “chi beve vino prima della minestra, vede il medico dalla finestra”. Perciò il classico bicchiere a tavola fa bene e la scienza lo ha riscoperto da tempo: ”Carne fa carne: vin fa sangue e pane mantene”, “carne e vino ti fan rosso, acqua sola ti scava l’osso”, “l’insalata con il vino ruba al medico un quattrino”. Il medico bolognese Baldassar Pisanelli, nel 1589, sentenziava che il vino “nutrisce molto bene, genera buon sangue, leva la sincope e fa vedere sogni grati la notte”. Altri, più “spicci”, precisano che: “il vinello a buon mercato, prima o poi ti fa malato”, ovvero che il vino deve essere buono! C’è poi il romanesco: “Mejo puzza de vino che dd’olio santo”, dissacrante, ma concreto, e, con annotazione di puericoltura assai discutibile: “Polenta, latte e vino
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fanno crescere bene il piccino”. In caso di eccesso, sempre dalle scuole mediche, arriva il consiglio (tutto da verificare e forse un po’ pericoloso): “Si tibi serotina noceat potatio, vina hora matutina rebibas, et erit medicina”, cioè il famoso detto “chiodo scaccia chiodo”, ovvero un bicchiere di vino al mattino mette a posto tutto, se alla sera si è ecceduto nelle libagioni. Sempre i medici asseriscono che: “Dal vino migliore vengono migliori umori” (gignit et humores melius vinum meliores) e che “il bere troppa acqua a tavola è nocivo” (Potus aquae sumtus fit edendi valde nocivus). È comunque vero che nell’uso del vino occorre la giusta misura perché, come scrisse Baudelaire: “L’uomo non arriva a definire fino a qual punto possa essere stimabile e fino a qual punto possa essere disprezzabile”. Ma bisogna indulgere anche a qualche lieve eccesso, ricordando che J.-J. Rousseau ha scritto che: “I bevitori sono cordiali, schietti, buoni, integri, giusti, fedeli, coraggiosi e galantuomini, salvo i difetti”. Guai a coloro che non amano il vino, con l’anatema toscano: “A chi non piace il vino, Dio gli tolga l’acqua”, mentre lo promuove un eccellente strumento di salute il proverbio: “Sciroppo di cantina, pillole di gallina e buon mantello, e manda il medico a bordello”, valido ovviamente soprattutto per i mesi invernali. Come aperitivo “due dita di vino prima della minestra, la è pel medico una tempesta” a significare che non potrà mai avere come clienti coloro che mettono in pratica questa raccomandazione. Ed è particolarmente indicato per i vecchi: “Il vino ai
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vecchi, il latte ai bambini”, tanto che “quando il vecchio non vuol bere, nell’altro mondo vallo a vedere”, ovvero è segnale che la sua dipartita è imminente. Sempre a proposito di vetustà il consiglio che , “quando il capello tira al bianchino, lascia la donna e tienti il vino”, come pare che vi siano norme da osservarsi secondo l’epoca dell’anno: “tutti i mesi che non hanno l’er, lascia la donna e prendi il bicchier”.
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Profilassi e cura
on molti anni fa, tra i sistemi di propaganda usati dai fabbricanti di birra era stata coniata l’affermazione: “Chi beve birra campa cent’anni”, cui si contrappose il detto: “Chi beve vino non muore mai”. Esagerazione per esagerazione, nell’iperbole si affermava una grande virtù riguardo all’influenza del vino sulla salute e alla longevità umana. Essa è sempre stata creduta tale dal popolo italiano che seppe resistere ai pochi detrattori del vino e continuò a far uso normale della millenaria bevanda latina senza mai dar prova di degenerazione. Pare fosse reputata come panacea anche all’estero perché, nel 1935, una signora inglese di Birmingham, festeggiando i suoi 103 anni di prospera vita, attribuì il merito di tanta longevità all’avere sempre bevuto vino italiano. Le virtù attribuite al vino per scacciare malinconie, fastidiosi pensieri, dare vivacità, estro, letizia, visione ottimistica della vita e degli uomini, sono in fondo quelli riconosciuti dai maggiori pensatori ed illustri
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letterati dell’antichità. Bisogna dire che la saggezza popolare attribuisce virtù e poteri speciali non solo al vino, ma anche alla vite e alle sue parti. Negli usi raccolti dagli studiosi in Sicilia, si riferisce ad esempio, che a Sambuca la vite serviva per cacciare il diavolo il sabato santo; in Friuli, contro l’incubo detto Vencul o Calchùt in dialetto, era sufficiente mettere una foglia di vite nella toppa per impedire che esso entrasse nelle case. Pure in Friuli un empiastro di foglie tritate di vite, applicato sulle tempie, si riteneva guarisse l’emicrania ed applicato esternamente sul polmone, giovasse contro gli sputi sanguigni. Così con grappoletti d’uva in fioritura si preparavano decotti che servivano a procurare il latte alle donne, mentre l’umore che cola dalle viti potate, si pensava fosse un eccellente sollievo e migliorasse la vista. Lavandosi poi con esso, si potevano far scomparire le lentiggini e le macchie al volto. Nel bolognese, fino ai primi del Novecento, era rinomata la cosiddetta “acqua d’la Masotta” che veniva preparata con un infuso di giovani foglie di vite e germogli verdi e succosi, fatti bollire in acqua, concentrati alquanto e fatti depositare. Essi davano un liquido che bevuto, aveva effetti depurativi sul sangue ed era molto apprezzato. In ogni caso, era perlomeno innocuo. Nel senese si credeva che il pianto delle viti potate, sparso sui capelli di una persona, avesse il potere di farli crescere e divenire belli e morbidi. Così come è curiosa l’applicazione del “pianto” di vite per i calli. In Abruzzo si diceva: “ Prendi un fascetto di viti tagliate di fresco; mettili a bruciare da uno dei capi. Quando
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dall’altra parte cominciano a cigolare e gemere, denuda il piede e fa che le gocce cadano sul callo. Con le unghie poi lo si stacca”. Anche in Calabria, come già sosteneva Plinio, la cenere di tralci di viti era usata in medicina: un impasto di zolfo, mattone cotto e cenere di vite con olio, serviva a calmare le torture della febbriciattola orticaria. Pure il mosto, prima di divenire vino, si diceva possedesse proprie, particolari, virtù. Concentrato al fuoco o cotto, dava quella che si chiama sapa, molto usata in cucina e in pasticceria. Con aggiunta di aromi, nel brindisino si utilizzava per stimolare i sudori nella cura del raffreddore. Per combattere l’anemia, in questo mosto cotto si infondeva polvere di ferro. È utile ricordare in questa occasione, che il ferro è uno dei componenti principali dell’emoglobina del sangue e che la sua presenza è indispensabile. Nei banchetti funerari o nel “cunao”, come si diceva in Puglia (il pasto della famiglia del morto), si serviva mosto condito con la sapa o vin cotto. Nel bolognese e in altre parti di Romagna, con questo concentrato di mosto, aggiungendo piccole quantità di farina, si preparavano i sughi o sugoli e, se si aggiungevano fette di cotogne e scorze di melone, si preparava il savour (sapore). Ma per riuscire bene in tutto questo, come diceva il poeta bolognese Giulio Cesare Croce nel 1500: “Vuole il mosto esser d’albana, che sia gialla e ben matura. Anco è buono fuor di misura, il magliolo e l’albanese”.
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A Vittoria, in Sicilia, si preparava una mostarda con mosto di uve bianche bollito, neutralizzato d’ordinario con cenere stacciata, filtrato ed aggiunto di semola di frumento in ragione di un chilo ogni dieci di mosto. A Castiglione di Sicilia si produceva la sausa con uva ben matura, sgranata, schiacciata e mosto, disacidificato con cenere, fatto concentrare, si aromatizzava poi con chiodi di garofano o cannella, e si riponeva quindi in recipienti di terracotta. L’eliminazione di parte dell’acidità di un mosto o di un vino veniva effettuata utilizzando la cenere che risulta essere molto alcalina. Questa pratica era conosciuta sin dal Medioevo. Il pane vinesco di Puglia si otteneva con vino cotto messo in una pentola a bollire; indi mescolando, si aggiungevano da 200 a 300 grammi di semola per litro; poi si scaldava ancora a fuoco lento e agitando, si mettevano chiodi di garofano e altre droghe; indi raffreddato, si passava in vasi da cui si toglieva per servirlo spalmato su fette di pane o altro. Il sassamieddo, pure in Puglia, era preparato con pane, usando in luogo della farina di semola e dell’acqua, mosto cotto. Si confezionavano pezzi da uno a due ettogrammi e si fermentavano setto o otto giorni, quindi si infornavano. Che il vino faccia bene alla salute è generale convinzione popolare. Per menzione culturale merita di essere ricordato che nel carteggio tra Francesco Petrarca e il suo amico, tra i più celebri medici di allora, Giovanni Dendi, risulta che questi riuscì ad indurre
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finalmente il poeta che digiunava troppo, mangiava solo frutta e beveva solo acqua, a prendere in uso il vino perché: “Se l’acqua è una buona bevanda, non può però tenere luogo del vino bevuto con discrezione”. E aggiungeva che: “l’acqua favoriva la podagra, lo spene, l’idropisia, mortificava e spegneva il calore dei visceri”. Anche Gabriele D’Annunzio si curò con il vino. Sulla preferenza da darsi al vino bianco o rosso, ecco un vecchio consiglio di Piero Bairo: “ Il vin bianco è sottile e buono allo stomaco ed è buono usarlo et ammolisce più il ventre che non fa il rosso o il negro”. Nel grande trattato di Andrea Bacci, medico Elpidiano “De naturali vinorum istoria”, tutto il terzo libro è dedicato alle virtù alimentari e terapeutiche del vino. Vi si propongono saggi consigli sull’uso del vino per i sani, i convalescenti, la cura delle febbri putride e continue e altri malanni in particolare, fino alle cefalee, le vertigini, i mali d’orecchio, di occhi, di naso, catarri del petto e del ventre, affezioni della vescica e altri usi esterni del vino; nel capitolo XVII insegnava a preparare i vini medicati.
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Vini medicati
el corso dei secoli, soprattutto grazie alla farmacopea conventuale, frutto di amorevole osservazione dei principi attivi di tante erbe, sono nati anche i vini medicati. Uno degli aspetti caratteristici dei monasteri, in particolare i benedettini, era l’autosufficienza. San Benedetto, in particolare, stabilì che, nei limiti del possibile, il lavoro producesse tutto quello che era necessario all’indipendenza economica del monastero, ma il sistema non poteva sussistere solo per questo campo; in realtà era stato reso connaturale a tutte le attività, compresa l’assistenza agli infermi che San Benedetto, nella Regola, metteva “prima e al di sopra di ogni altra cosa”. La cura dei malati che all’inizio era stata rivolta solo ai monaci del chiostro, lentamente si estese all’esterno e nell’Alto Medioevo, la fama della medicina monastica si propagò in tutta Europa. Il monacus infirmarius, oltre a studiare i trattati medici dell’antichità salvati e commentati, copiati e miniati nei monasteri, doveva anche essere in grado di preparare le medicine da somministrare. Al tempo di San Benedetto, il prato e la selva erano ancora la fonte di rifornimento per la farmacia della gente minuta, così come avveniva da molti secoli. L’uomo primitivo conosceva già l’azione medicamentosa di alcuni vegetali. Poi le conoscenze si allargarono e le erbe indicate dalle antiche scuole mediche, vennero non solo studiate, catalogate e disegnate nei
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preziosi erbari, ma coltivate con cura nei recinti delle abbazie, negli orti monastici, negli angoli dei chiostri. Il frutto naturale dell’Hortus Simplicium che doveva essere trasformato e conservato, fece tornare in uso, nei monasteri medioevali, il classico “armarium pigmentariorum”, che può essere considerato il progenitore delle attuali farmacie. Nel deserto della Tebaide, accanto alle celle degli anacoreti, già nel III secolo, sorgevano i primi rudimentali ospizi per accogliere i visitatori e gli ammalati; ben presto, all’interno delle abbazie nacquero i primi ospedali per offrire un aiuto più valido e meno effimero ai degenti, specialmente poveri, che bussavano alle porte del monastero. “Tutti gli ospiti che arrivano” dice la regola di San Benedetto, “siano accolti come Cristo”; nel secolo XI Teofrido Abate scrisse: “Poco importa che le nostre chiese s’innalzino sontuose verso il cielo […] che le nostre pergamene rosseggino di porpora; che l’oro sia fuso nei caratteri dei nostri manoscritti […] se noi nutriamo poca o nessuna cura delle membra del Cristo e se il Cristo nudo agonizza sulle nostre soglie”. Accanto ai primi centri monastici maschili, sorsero i primi cenobi femminili ed una delle regole per monache dettata da San Cesareo per il cenobio femminile di Arles, consentì che le monache e le abbadesse divenissero famose per il loro studi medici. Per tutto il Medioevo sinodi, concili, vescovi e riformatori, tentarono di tener chiusi nei loro monasteri i monaci-medici che se ne andavano in giro per il mondo ad esercitare la loro arte. Ci furono restrizioni e limitazioni ed infine giunse il divieto ai monaci di applicare l’arte della medicina, ad eccezione di quei casi particolari in
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cui si lasciava l’abate arbitro delle decisioni. Poi con il sorgere delle università laiche, il loro campo di attività si restrinse sempre di più, ma i monaci e le monache speziali, applicandosi allo studio e alla preparazione dei farmaci, avevano imparato a distillare dalle erbe anche i liquori digestivi e medicinali e i vini medicati. Con il passare dei secoli, quando le spezierie monastiche non ebbero più ragione d’esistere, rimase l’uso di preparare rosoli, liquori e vini medicati secondo un ricettario ricco di secolari esperienze. Sempre nei monasteri, soprattutto nelle zone a vocazione vinicola, era diffusissimo l’uso dei vini medicati, una tradizione antichissima che risale alle scuole mediche greche e romane. L’uso si diffuse poi anche alle scuole mediche e da qui, alla tradizione popolare, una specie di medicina pratica che per secoli è rimasta retaggio di un vero e proprio rimedio quotidiano per affrontare le malattie, sia in mancanza di medici che, soprattutto, di medicine. La storia di questo “prezioso succo capace di curare la malinconia dell’uomo, di infondergli allegria e coraggio”, si confonde con la mitologia e ben presto il vino, con l’aggiunta di spezie ed erbe sapientemente dosate, fu trasformato in medicamento e assunse un ruolo importante nella terapia di tutti i tempi. Ippocrate sosteneva che le virtù del vino, “non sono alimenti, ma medicamenti”, Catone raccomandava in modo particolare i vini medicati con erbe. Presso i romani era noto ed apprezzato il “murrinum”, un vino profumato di mirra e tra i greci l’idromele. Plinio definiva “saluberrima et suavissima” una pozione di cento erbe che si usava aggiungere al mulsum,
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un vino mescolato con miele; ugualmente famoso era il vino ippocraticum che si otteneva mettendo in infusione, nel vino addolcito con zucchero, la cannella, le mandorle dolci, il muschio e l’ambra. Sulle proprietà e la preparazione dei vini medicinali furono scritti trattati e ricettari ad uso degli speziali e la diffusione dei vini medicati continuò ininterrotta fino a quasi ad un secolo fa, tanto che in molte farmacie erano in vendita gli ingredienti per preparare i vini medicati stessi.
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Alcune ricette
er curiosità del lettore, riportiamo alcune ricette tratte da un interessantissimo volume dedicato alla cucina dei monasteri di Sebastiana Papa (La cucina dei monasteri, Mondadori) dove si trova un capitoletto dedicato proprio a questi vini medicati di cui estrapoliamo alcuni significativi rimedi che sono poi la conferma di una cultura enoico-medicale di straordinaria suggestione, oggi completamente soppiantata dalla farmacopea scientifica, ma che tuttavia conservano una loro attrattiva perché frutto di una cultura popolare scaturita da un’attenta osservazione della natura. Per un vino stomatico aperitivo si utilizzava, per esempio, un bianco di prima qualità, asciutto, e arance in infusione. Il vino ricostituente è composto da un litro di marsala, tintura di quassio e pirofosfato di ferro, mentre contro la gotta serviva sempre marsala e calcolato di colchico.
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Il Marsala è un vino liquoroso ottenuto dalla miscela di un vino-base con mosto concentrato, acquavite o alcol e mistella (mosto invecchiato e reso infermentescibile per l’aggiunta di alcol). Il vino, uso fernet, abbisognava di marsala dove si poneva in infusione corteccia di china, radici di genziana, fiori d’assenzio, scorza di cannella, semi d’anice, zucchero e vaniglia. Il vino diuretico richiedeva quello bianco, bacche di ginepro, nitrato di potassio. Mentre per gli acidi urici, nella marsala, bisognava porre tre etti di cipolla cruda tagliata a fette. Per l’acne ci voleva estratto fluido di bardana dentro al vino vermut ovvero un vino aromatizzato ottenuto dalla miscela di un vino base dal gusto neutro, zuccherato, alcolizzato ed aromatizzato con estratti di erbe aromatiche e droghe amare. Per l’alito cattivo, occorreva marsala con semi d’anice, di finocchio e liquirizia. Se ci si sentiva deboli, niente di meglio che marsala, scorza di cannella e menta, ma come depurativo era opportuno vermut, estratto fluido di bardana da assumersi ogni anno a primavera e in autunno, tre o quattro bicchierini al giorno. In caso di febbre, vino bianco e centaurea, per l’insonnia bisognava mettere nel marsala un etto di fiori di camomilla. Per renella e dolori ai reni servivano gusci di fave seccati e pestati in polvere messi poi nel vino bianco, mentre per la stitichezza era necessario vino bianco tiepido e tre o quattro foglie di noce seccate e polverizzate. Per la dispepsia, in un litro di marsala,
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bisognava porre foglie di salvia e radici di genziana. Per il vino sacro abbisognava marsala, aloe, genziana, fili di zafferano, gomma, mirra, corteccia di arancio amaro, il tutto da bersi a bicchierini. Per i vermi intestinali: macerare in un litro di vino bianco, per sei giorni, due cipolle crude a fette, quindi bersi mezzo bicchiere ogni mattina o, in alternativa, pestare una decina di spicchi d’aglio e metterli sempre nel vino bianco; in questo caso era opportuno assumerne da cinque a otto cucchiai al giorno. Per la cistite, vescicole e pieliti, ci voleva marsala, corteccia seconda di rami di sambuco (l’inviluppo verde che sta sotto la pelle del fusto), mentre per le coliche di fegato o epatiche, ottima è la marsala con estratto fluido di boldo e tintura di arancio amaro. Per lo stomaco andava bene anche l’elisir di china ottenuta mescolando acqua, alcool estratto fluido di china e di arancio amaro. In questo straordinario ricettario di vini medicati… c’è un po’ di spazio anche per l’acqua! Serviva bollente per le gengive deboli, per gli sciacqui mescolata con foglie di salvia, per l’obesità con radici di asparagi, per la bronchite con foglie di eucalipto e per la stitichezza con radici di cicoria (radicchio) o foglie di lattuga, oppure polpa di tamarindo o susine secche. Per l’acidità di stomaco bisognava masticare bacche di ginepro o semi di prezzemolo con un dito d’acqua, per gli abbassamenti della voce, succo di carote. Vi si menzionano infine, ma questo poco interessa al nostro argomento in quanto non richiedono l’utilizzo di vino, rimedi per denti doloranti, per i calli, per le contusioni, per la forfora, per i mestrui dolorosi, per il sudore ai piedi e per il raffreddore.
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Testimonianze salutistiche
fferma Corradino che l’antica abitudine riferita da Plutarco ne Le vite di Licurgo e di Numa, delle donne spartane di lavare i propri bambini nel vino per sperimentare la loro forza, è stato in uso a lungo nelle Marche, ove si credeva che i bambini così lavati, si fortificassero specialmente nelle ginocchia. Ma ciò non era in uso solo nelle Marche, ma anche in Abruzzo dove il bambino che si voleva far crescere robusto, “furzènde”, veniva lavato nel vino appena nato. Talora vi si facevano prima bollire erbe aromatiche. Non solo ai bambini; ma anche a uomini e donne, nel Canavese, si credeva che giovasse ad irrobustire le gambe far bagni nel mosto d’uva pigiandone quanto più si potesse a gambe nude. Pure nel bolognese e in Romagna si reputava che l’immersione nella vinaccia, ancora calda per la fermentazione, giovasse ai dolori reumatici ed artritici delle gambe. Ciò che ricorda un po’ i bagni di fieno in fermentazione tutt’ora in uso in Alto Adige. A Viterbo si riteneva che contro gli spaventi bisognasse bere mezzo bicchiere di vino in cui era stato spento un pezzo di brace accesa. In Calabria si pensava che un pezzo di sughero bollito nel vino, fino a che questo si riducesse di un terzo del volume, giovasse contro il mal di denti. E un pizzico di sale in un bicchiere di vino, valeva a liberare i ragazzi dal mal di ventre per indigestione. Che il vino fosse utile contro le malattie, nel nostro paese se ne sarebbe avuta antica prova da Giulio Cesare. A detta di Plutarco, Cesare, vedendo il proprio esercito afflitto da malat-
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tie, permise ai soldati una solenne ubriacatura: “Da quel giorno”, ricorda lo storico, “i soldati mutarono la complessione dei loro corpi”. Le virtù del vino nelle malattie acute sono state messe in luce “contro il costume dei nostri tempi” da un medico viterbese, Cesare Crivellati, in un libro stampato in Roma nel 1500, anno del Giubileo: Trattato dell’uso et del modo di dare il vino nelle malattie acute. Il vino che guariva tutte le malattie si insegnava a prepararlo da oltre quattrocento anni: “A far vino mirabilissimo contra ogni infirmità, piglia lo rosmarino, fusto, foglie e fiori e sminuzzalo grossamente; poi metti del ditto libre una; poi piglia mosto nove libbre a rason di secchio; fa boglire insieme schiumando bene per una ora; poi mettilo in uno botticello e lascialo schiarire; bevuto poi a digiuno la mattina un ditto, overo doi de misura in un bicchiero”. Seguiva tutta la descrizione degli innumerevoli mali che faceva guarire; perfino dopo morto serviva, perché: “sappi che usando di continuo questo vino, dopo la morte tua, il tuo corpo non marcirà mai”. In Romagna a Lugo era garantita l’utilità di questo rimedio per le febbri malariche: “In un bicchiere di vino bianco, asciutto e generoso, un cucchiaio di polvere di genziana. Fatto l’infuso, bere a digiuno per tre giorni di seguito”. Ma contro le febbri malariche assai curioso è il rimedio calabrese: “Cacherelli di capra seccati, macinati in dose di una moneta di rame, sciolti in un quarto di vino e lasciato una notte al sereno”. Un rimedio che si commenta da sè. In Abruzzo e in molte altre regioni, per la raucedine da raffreddore si dava a bere vino e zucchero bollito;
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il vino doveva ridursi della metà; ai bambini che avevano raffreddore e asma, si facevano pediluvi con il vino. Sempre in quella regione, contro la sciatica, si riteneva valessero le bagnature e le frizioni con vino aromatico caldo. Per guarire lo scorbuto, si sciacquava la bocca con vino in cui si era bollito della coclearia. Contro la tisi polmonare seccare al sole un polmone di volpe, polverizzarlo e stemperarlo in una caraffa di vino generoso che si faceva bollire fino a ridurlo di un terzo. L’infermo ne doveva bere un bicchierino la mattina in tre volte. E buona fortuna! Per sanare ferite è antichissimo l’uso del vino e già nel Vangelo di San Luca si citava questa cura, ossia di versarvi sopra olio e vino. In Calabria si usava vino e zucchero; in Abruzzo si preparava vino ‘nciannato (vino e olio sbattuti insieme a formare quasi un unguento) che si stendeva su una pezzuola e si applicava alla ferita. Mentre chi voleva combattere l’ubriacatura da vino, ne beveva un bicchiere… con dentro un po’ di sangue di capitone! Il potere sterilizzante e detergente del vino è stato dimostrato, del resto, anche scientificamente: energetico e rapido; la sua azione attivante dei processi di riparazione è pronta, sicura e costante, tale da accrescere notevolmente il ritmo della cicatrizzazione. Questo è il risultato di prove effettuate anche in alcune cliniche chirurgiche di Palermo. Fra gli usi non del tutto “interni” del vino, va ricordato lo spumante per clistere del dott. De Margnay contro le ulcere dissenteriche del retto. In un libro del ’500 del filosofo Marsilio Ficino denominato Contro alla peste, si rac-
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comandava il vino come preventivo. E si consigliava di tagliare i vini forti come Vernaccia e Malvasia, non con acqua, bensì con vini bianchi più leggeri. Diceva Arnaldo di Villanova nello spiegare le regole della scuola salernitana che, se alla mattina ci si sveglia con il “mal ai capelli”, ci si deve chiedere perché il vino fece male la sera innanzi; se è “per mancanza di abitudine, si deve cominciare a bere dopo il risveglio, allo scopo di abituarsi al vino ed evitare l’ubriachezza”; se invece è a causa di un cattivo vino, “si deve bere incontinente per provocare un vomito liberatore”. Infine, a decantare le infinite virtù del vino ed i suoi poteri, basterebbe ripetere l’irriverente parere di Asclepiade che fu, secondo Plinio, il primo ad insegnare l’uso del vino per i malati: “Essere cioè il potere del vino superato soltanto da quello degli dei”. Per chiudere questo resoconto, citiamo ora le cure di bellezza. Va ricordato che nella profumeria medievale, nella raccolta della bellissima Caterina Sforza, si è trovata una ricetta di una composizione “atta ad abbellire”, contenente pure vino. “Pigli limoni freschi venti e tagliali minuti, et ponili in vino bianco et lassali stare otto giorni, poi tolli la chiara a venti ova fresche et mescola insieme con vino e limoni, poi tolli mollica di pane et grattala menuta ed impasta ogni cosa insieme con doi once de mace et poi che è fatta l’acqua per lambicco, mettili dentro tre grani di musco et adopera et è eccellente”.
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Tradizioni enologiche
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Paesi d’Italia
a Bacco e Noè approdarono in Italia? Secondo Pierfrancesco Giambullari nel testo Origini della lingua fiorentina (1549), Noè sarebbe venuto in Italia 108 anni dopo il diluvio; parlava l’aramaico e sarebbe andato ad abitare sul Monte Gianicolo assumendo il nome di Giano, il quale veniva raffigurato con due facce, per far intendere che Noè apparteneva a due età: quella che precede e quella che segue il diluvio. Nello stemma del Comune di Vetralla c’è un ceppo di vite con tre grappoli e anche in quello del Comune di Thiene (Vicenza) c’è una vite e si suppone che abbia derivato il nome da Bacco, già chiamato Thyoneus. Al vino si attribuiscono anche qualità arcane e recondite tali da farlo divenire un paragone o uno strumento di verità e giustizia. Tutti ricordano la coppa che svela la fedeltà delle mogli citata da Ariosto nell’Orlando Furioso: “Un bel nappo d’oro fino, di fuor di gemme e dentro pien di vino. Se vuoi sapere se la moglie sia pudica, te n’avvedrai, se in questo vaso bei […] se porti il cimier di Cornoveglia, il vin ti spargerai tutto sul petto; né gocciola sarà ch’in bocca saglia, ma s’hai moglie fedel tu berrai netto”. Alcune sono del tutto leggende, altre sono legate a spunti e fondamenti realistici che si connettevano alla storia dei paesi vinicoli. Così la leggenda di Strevi, il grazioso paese dell’Alto Monferrato celebre per il suo moscato. Vivevano in località Ossari, nell’opposta sponda del Bormida, di fronte all’attuale Strevi, dieci fratelli che
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coltivavano quelle terre. Tre erano sobri e sette devoti assai a Bacco. Poiché non vivevano in accordo, i setti fratelli emigrarono oltre Bormida a coltivar viti e poiché li chiamavano i sette ebbri (in latino septem ebrii), il paese da essi fondato si chiamò Septebrium da cui Strevi. I tre sobri si appartarono in quello che oggi è Trisobbio. Ma Strevi con il suo celebre moscato, è divenuta assai più famosa di Trisobbio. Ai cittadini di Dogliani, il comune delle Langhe assai noto per il suo dolcetto, con bolla del 1396 fu concessa la libertà dai loro signori Marchesi di Saluzzo, figli di Giovanni il Grande. La bolla acconsentiva loro di poter disporre dei beni, di essere liberi da servitù, gravami, milizia, ecc, grazie ad una gabella imposta per la vendita al minuto con cui pagare il censo ai signori di Dogliani la vigilia di Natale. Il nome di Dogliani sarebbe derivato da doglia e Iano. La leggenda presupponeva che il dio Giano fosse passato di lì per gustare il famoso vino ivi prodotto: nello stemma del comune un leone regge una doglia, specie di boccia da vino. Luigi Einaudi, secondo presidente della Repubblica Italiana, si occupò direttamente della conduzione della sua azienda agricola ubicata in questo comune, applicandovi le tecniche di coltivazione più moderne. Anche San Salvatore Monferrato secondo la storia si liberò con il vino dal peso di soldatesche rovinose. Le truppe mandate nel 1515 dal Cardinale di Sedem, svizzero, a rinforzare il presidio di Alessandria, furono distribuite tra Castelletto e San Salvatore. Ma la soldatesca compì come al solito rovine, violenze e furti tali, che la popolazione di San Salvatore, per
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sottrarsi al quel disastro, mandò al Cardinale “cento barili di vino squisitissimo”. Sua Eminenza li gradì talmente che diede ordine di distribuire altrove la non gradita guarnigione, liberando quel paese da una truppa tutt’altro che salvatrice. Anche Saluzzo si avvalse del suo buon vino per elevarsi a sede di vescovato e di città. La grande marchesa Margherita di Foix, vedova del marchese Lodovico II, cercò di ingraziarsi il pontefice Giulio II (Borgia) per questa via. Gli inviò alcune botti del famoso vino di pelaverga, specialità di Saluzzo grazie al quale, dopo poco tempo, ottenne i riconoscimenti ambiti. Leggende o particolarità storiche ed economiche sono legate ai nomi di alcuni paesi come Vignale (Alessandria), Vignanello (Roma), Monterappoli (Firenze). La stessa Soave deriverebbe il proprio nome dagli ottimi prodotti vinicoli e soprattutto dal suo bianco, soave. Secondo quanto scrisse Marin Sanuto nel 1483 sul Castrum Soavium, era questa la ragione del nome: “Oppidun soavium a voluptate, licique amaenitate sic dictum vinorum optimorum ferax”. Anche Chiomonte, piccolo paese in Val di Susa, ha nel suo stemma due grappoli d’uva. La tradizione vuole che ciò derivi dal fatto che Chiomonte fosse l’unico paese viticolo della Val di Susa e provvedeva al vino delle valli Cesana e Bardonecchia. Fra le leggende che si connettono a pratiche viticole, è curiosa quella dell’asino che fu involontaria causa della pratica di potatura delle viti. Una volta un asino si tolse la cavezza e corse per i campi. Giunto in una vigna, si mise a rodere i tralci
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più lunghi, il padrone per dispetto lo picchiò, ma di lì a poco le viti diedero getti bellissimi e l’uva che ne derivò era migliore e più copiosa del solito. Da allora il villano capì essere meglio recidere i tralci lunghi che lasciarli abbandonati a se stessi, ed anno per anno, potò la vite. Da questa leggenda deriverebbe il detto palermitano: “L’asino pota e Dio fa l’uva”.
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Stemmi con il vino
uriosi anche taluni motti adottati sugli stemmi da diverse personalità e di nobili. Il Vescovo Alemanni, il Lagromoso, aveva una vite che potata gemeva con la frase “Dulcis in autumno”. Cosimo Mineberti che fu poi Vescovo a Cortona, aveva per insegna un terreno arido pieno di viti e il motto “E ‘l pregio è vostro in tutto”. Il Cardinale Barberini, che divenne poi Papa Urbano, aveva scelto un albero attorniato da una vite sui grappoli della quale erano alcune pecche con l’enunciato, tratto da Virgilio: “Et non sua poma”. Tommaso del Nero (in Accademia detto “lo sconcio”), aveva per stemma una vite potata con la divisa “E nel tardar s’avanza”. Gianbattista Strozzi, un platano di Serse innaffiato con il vino e la massima “Reconditas elicit vires”. Carlo Rucellai un annaffiatoio che versa acqua, con la sentenza: “Ciò che a voi non piace”. Francesco Bonciani, arcivescovo di Pisa, una botte che, a causa del fervore del vino, si spezzava e il motto “Un leggiadro disdegno”. G. Antonio Popoleschi, cavaliere e senatore, una botte dove si mettevano le uve per governare il vino, con inciso “In quelle spero”. Il senatore Vincenzo Pitti aveva per impresa una pezza rossa tuffata nel vino per farne fittime, ovvero quel decotto d’aromati che scaldata e applicata alla regione del cuore, si dice arrecasse conforto; il motto era “Hinc vires”. Giovan Battista Ricasoli alludendo a una novella del Boccaccio, prese per stemma uno spinoso istrice che rivoltatosi nelle uve, aveva infilzato molti chicchi su di sé; la frase suggeriva “Espi-
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ce ut insignis”. Il principe Giovanni De Medici, figlio di Cosimo I, si era dato per impresa una botte ferrata e il motto “Non minor est virtus”. Il Balì Gio. Altoviti aveva una vite che saliva sopra una pergola e il motto: “Non per sua forza, ma di chi la spiega”. Carlo Bartoli una vite innestata con espresso: “Vertere in alterum”. Carlo Antonio Baccheria una vite con attorno alcune pecchie (nome poco comune per indicare le api) ed enunciato: “Bebit ore nectar”. Infine Vieri De Cecchi, senatore fiorentino, estinta l’Accademia degli Alterati e divenuto accademico della Crusca, adottò come sua impresa, con il nome accademico di Svanito, un fiasco di vino sturato con il turacciolo di paglia in disparte, con la scritta: “Afi che il rimedio è tardo”.
Memorie, motti e boccali incisi
L
a memoria dei gradimenti arrecati da una buona bevuta, a volte rimane in ricordo dei gaudenti una volta trapassati, come quel famoso Deuc, il cui nome è legato alla leggenda del vino Est! Est!! Est!!! di Montefiascone, riportata pure nell’epigrafe che stava nella chiesa di San Flaviano. Si dice che avesse disposto che ogni anno si versasse sulla sua tomba un barile del prelibato vino, quasi a poterne gustare anche dopo morto. E si aggiunge che la disposizione osservata fino ai tempi del Cardinale Barbarigo, fosse poi stata convertita in un’annua distribuzione di vino moscatello ai seminaristi di Montefiascone in occasione di
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in una certa solennità. Un’epigrafe latina in una stele funeraria del Museo di Aquileia avvertiva che un certo Marco Antonio Valente, figlio di un veterano, lasciò la propria casa ai colleghi della centuria a patto che, con le rendite dello stabile si facessero, ogni anno, all’anniversario della sua morte, abbondanti libagioni sulla tomba con il vino prediletto che egli beveva all’osteria di Mariano, lungo la strada provinciale. Da sempre si sono usati anche motti incisi sui boccali da vino. Per esempio a Conegliano, all’Esposizione Internazionale di Arte ispirata alla vite e al vino, venne coniato il motto sui bicchieri: “El vin de casa non imbriaga”(il vino nostrano non ubriaca), oppure: “fato o non fato, dopo il contrato, se beve al bocal” (ovvero qualsiasi esito abbia avuto una trattativa, bisogna bere). Nella collezione del vasaio Dolcetti di Venezia si leggeva anche questo consiglio: “Riempi il bicchier ch’è vuoto”. Vuota il bicchier ch’è pieno. Non lo lasciar mai vuoto. Non lo lasciar mai pieno”. Nei boccali del Bubani di Faenza si esaltavano le virtù dei vini romagnoli: “El bon sanves tesor de mi paes”(il buon Sangiovese tesoro del mio paese). In quelli di Ferruccio Marangoni di Pesaro: “Chi il naso rosso accosta a questa secchia, fa rosse anche le orecchie”. Nei boccali a sorpresa (cosiddetti perché una serie di fori attorno all’orlo rendono impossibile mescere vino ed occorre sorbirlo dal beccuccio sporgente sul davanti) di Basettoni di Bassano si leggeva: “Caro amico, varda, mira, serca dove te la tira, se te imbrochi il buso giusto, te la ciupeghi de gusto”. (Caro amico, guarda, osserva, cerca dove è indirizzato; se azzecchi il giusto buco, ne godrai di gusto).
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Canzoni e brindisi augurali
olte le canzoni o poesie goliardiche fervide di passioni e fresche di eterna giovinezza che, per molta parte, rispondono ancora alla nostra sensibilità moderna. Il vino dei goliardi è frizzante, è mattacchione, un vino sano, come fondamentalmente lo è la gioventù, anche quando eccede. “Arde e scoppietta l’anima se dentro al vin s’immerge; e dal fondo dei calici infino al ciel si aderge”. Troviamo poesie con tono caricaturale, in veste di gravità: “O come passa il dì lieto e giocondo a chi beve! Ei non ha pensiero al mondo, mentre nel suo bicchier brilla il vin biondo”. Un carme bacchico goliardico di ventiquattro strofe sul far dello Stabat Mater si deve pure ad Antonio Boccalari di Dignano d’Istria, canto che sembra un’imitazione della Lode al vino di Morando o Morandino da Padova, il “Vinum dulce gloriosus” rimasto un modello letterario. Nel carme istriano sono presenti tutti i capisaldi goliardici di esaltazione del vino, come consolatore degli animi, forgiatore di bellezza, suscitatore di poesia, stimolatore del bello e del genio: “Nam est vinum, quod calorem dona sanguini et amorem, cito pellens frigora”. Nel secolo XII uno dei più noti goliardi di Francia, Gualtiero Di Châtillon, doveva aver bevuto davvero bene in Italia se nella sua Confessione generale scritta tra il 1162 e il 1165 a Pavia afferma: “Meum est proposito in taverna mori, ut sint vina proxima morientis ori; tunc cantabunt letius angelorum chori: Sit Deus pro-
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pitius huic potatori” (Tradotto: il desiderio di morire in quella taverna, con attorno gli angeli del paradiso e Dio che comprende questo bevitore, tanto è buono il vino) . Fra i Canti carnascialeschi di Lorenzo de’ Medici che venivano cantati durante le mascherate del carnevale, predomina il Trionfo di Bacco e Arianna; vi si illustra un corteo bacchico dove, dietro ai due personaggi principali, viene anche il vecchio Sileno: “Questa soma, che vien drieto sopra l’asino, è Sileno così vecchio, è ebbro e lieto; se non può star dritto, almeno ride e gode tuttavia.” E chiude con un giocondo incitamento: “Donne e giovinetti amanti, viva Bacco e viva Amore! Ciascun suoni, balli e canti! Arda di dolcezza il core! Non fatica, non dolore! Ciò c’ha esser, convien sia: di doman non c’è certezza”. Una delle più antiche canzoni da tavola e da bevitori è stata reperita da Giosuè Carducci nella prima carta di un libro bambagino di memoriali, del tempo di Rolandini di Canossa podestà di Bologna (1282). Inizia così: “Pur bei del vin comare, e no lo temperare; che se lo vin è forte, la testa fa scaldare”… Secondo il canonico Pasquale Camassa al quale si attribuisce la responsabilità della ricerca etimologica, la parola “brindisi” deriverebbe dalla città. I parenti, i liberti, gli amici accompagnavano fino a Brindisi i giovani patrizi che partivano per Atene per erudirsi e completare la loro educazione e, prima di separarsi, libavano alla buona fortuna del viaggiatore; similmente avveniva per coloro che arrivavano nella città dopo battaglie vittoriose. Avvenne allora che in altri luoghi, volendosi propiziare con il vino, si diceva:
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“Facciamo come a Brindisi” o più brevemente “facciamo Brindisi”. È così che sarebbe nato il nome di “brindisi” come bevuta augurale per antonomasia. Fra i veneti il brindisi ha origini molto remote. Fra molti altri carmi, ha lasciato alcuni versi conviviali il poeta Fortunato, nato a Ceneda e morto vescovo a Poitiers. Ed è di un veneziano del secolo XIV uno dei più antichi brindisi che si trova trascritto in un libro di Deliberazioni del Maggior Consiglio che suona così: “Chi ben beve, ben dorme, chi ben dorme mal no pensa; chi mal no pensa, mal no fa. Chi mal no fa in Paradiso va. Ora ben bevè, che Paradiso avarè”. Fra il popolo della campagne correvano brindisi assai primordiali come questo d’Abruzzo: “Questo vino è dirige e galante; a la saluta de tutte quante!”. Anche questo raccolto a Carpaneto d’Acqui appartiene a queste semplici tipologie: “Viva la faccia di questo buon vino, che fa venir la sbornia. Al primo bicchier per un occhio, al secondo per l’altro; al terzo per il naso; se poi se ne beve quattro, si casca”. Più “elegante” un invito popolare torinese del 1660: “Sa, beivoma e fòma supa, (facciamo una zuppa) con vin neuv e vin vei (nuovo e vecchio), l’un l’è bon e l’autr (l’altro) è mei, e il bon vin l’è la mia pupa (ragazza), via coragi, ‘na copa”. Un brindisi popolare valdostano, dai risvolti biblici: “A la santè de Noè, patriarchi digne qui, le premiere a plantè l’arbre de la vigne”. In Puglia tra i canti dei mesi, v’è quello di ottobre che suona così: “Mo se ne viene ottobre che l’uve mature e bene l’agghie fatte la vennemate, agghie fatte ma
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votte de miere fresche, anche la donna tne latte frische” testo che, tradotto, significa: l’uva è salubre per le persone ed aumenta il latte alle madri. Nei canti dei mesi, nelle Marche (si andavano cantando prima della Pasquetta in comitive di tredici persone; ciascuna con qualche oggetto simboleggiante un mese, la tredicesima rappresentava l’anno): “Io sono ottobre che coglie dell’uve e fanno del vino; fra l’altri mesi, questo è il più fino”. Fra i canti di vendemmia raccolti da Salvatore Salomone Marino ve ne sono alcuni molto interessanti come questo che comincia: “Amuri, amuri, ci veni alla vigna? Ch’è ricca di racina (acini) la campagna. Lu vigneti accumenza la vinnigna, ha intra lu cori ‘n’allegrezza magna”. Interessanti anche questi motti toscani nei quali entrava la vite ed il vino: “O quanti me ne fai di questi sdegni, quanti più me ne fai e più l’ho caro. Tu pianterai la vigna co’ disegni ed io la poterò, se non m’ammalo. Tu coglierai l’uva acerba e dura ed io la coglierò dolce e matura; tu coglierai l’erba acerba e forte, ed io la coglierò dolce e matura”. Più rari gli stornelli emiliani, come questo di Cento: “Fiorin di vite, la vite la fa ad’ l’ uva molto boni, cercate, o giovinotti, d’ubriacarvi, e penserete dopo ad innamorarvi”. Eccone uno della campagna romana: “Fior di granato, la vigna non può star senza canneto, manco la donna senza innamorato.” In Piemonte sono scarse le canzoni relative al vino; solo il più antico dei poeti vernacoli, Padre Ignazio Isler, nato a Torino nel 1700 e morti ivi a 75 anni, la-
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sciò un esemplare di canson vinoira originale ed efficace: egli suppose un bevitore senza paura e senza scrupoli, di colui che beve non per vizio, ma per elezione, con gusto e con criterio. Creò il personaggio di Giacomo Tross, simbolo di perenne giovinezza che giunto alla fine dei suoi giorni, detta il suo testamento viticolo, una vera e propria canzone che così inizia: “Se muoio mi raccomando mi seppelliscano in una cantina dove siano raccolte molte botti colme di vino” e termina: “mi scrivano con il vino sul marmo questo epitaffio: “È qui disteso nella fossa quel povero Giacomo Tross, perché una sola volta, invece d’andare giù in cantina, è andato a bere al pozzo. Prendete tutti da me l’esempio a non bere mai l’acqua, perché cosa pesante, che infracida l’intestino”. Giacomo Casalegno nel Festegioma la vendemmia si figurava Bacco che cercando un bel sito per piantarvi viti, avesse scelto i colli del Piemonte: “Fra gente sincera voglio piantar la mia barbera, le più belle ragazze da marito voglio che diventino vendemmiatrici”. Nino Costa nel suo poemetto dedicato al Monferrato tributò un canto al mosto: “Cantiamo la gioia del barbere: barbere nere, vino senza confronto, che portano nei paesi stranieri la forza delle colline del Piemonte; una forza rude ma sincera, come la nostra gioventù paesana. Il mosto nella cantina gorgoglia e borbotta, racconta una storia e canta una gloria”. Sempre Costa nel finale di una canzone: “Coraggio vendemmiatrici moscatelle, tempo di vendemmia, tempo d’allegria. Tra i filari c’è sempre il posto di
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scambiarsi un bacio, cercando il grappolo si trova il damo; allegre ragazze a vendemmiar l’amore”. Piena di vivacità è la sua canzone del vino: “Chi è quel birichino che si nasconde dentro il vino, che mi stuzzica, mi solletica, che sveglia la mia fantasia, che risuona nel cuore le campane della felicità?” Ottima la vena poetica di Barani, poeta del vernacolo che nel canto della vendemmia scrisse: “I graspi i casca e i sanguina, senza dir gnanca (nemmeno) un hai! Dritti sul caro (carro), i omeni dentro la mostadora (pigiatrice) i calca, i pesta, i forcola (l’azione del pigiare) l’ua che la sboccia fora. El par che i bala (sembrano ballare), i còcola le donne del so regno; el mosto da l’ordegno, el pissa, ei sgocciola […]”. Senza dubbio però è nel Friuli che si trova grande abbondanza di vena poetica bacchica. La lode ai vini delle regione è vastissima ed antica; le prime testimonianze risalgono addirittura al 1600. E infine, citiamo Giuseppe Gioachino Belli, che scrisse alla plebe romana con l’abituale, dissacrante, anticlericalismo: “Senz’acquasanta sì, ma ssenza vino… Ma ssenza vino io?! Dio me ne guardi!” E nel sonetto a Lutucarda: “Er vino è sempre vino, Lutucarda, indove voi trovà più miejo cosa? […] È bono asciutto, dorce, tonnarello, solo e cor pane in zuppa, e, si è sincero te se confà a lo stommico e ar cervello.”
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Citazioni dotte
oeti e grandi uomini del passato, sono ricordati non solo per le opere, ma pure per citazioni inerenti il vino. Così “Il vino è lo specchio dell’uomo. (Alceo, poeta lirico greco del VII sec. a.C.), mentre: “Dove non è vino non è amore e null’altro diletto havvi ai mortali” (Euripide). “Un uomo che teme di ubriacarsi non getta il suo vino, lo mischia” (dalle Opere morali di Plutarco). C’è poi la celeberrima: “Bacchus amat colles”. (Bacco predilige i vigneti declivi), e quella universale di Orazio: “In vino veritas”, ovvero il vino fa venire fuori anche i segreti, come il prorompente: “Nunc est bibendum, gaudeamus igitur!” (ora bisogna bere, allora divertiamoci) ma anche “Et vinum laetificet cor hominis.” (E il vino rallegri il cuore dell’uomo). Ed anche l’Ecclesiaste (Antico testamento) soggiungeva: “[…] che sarebbe la vita, senza il vino? Il vino bevuto in tempi e quantità giuste, è gaiezza del cuore, gioia dell’anima […]” Per Eschilo: “e dove non è vino, non è amore, né alcun altro diletto hanno i mortali”, mentre Platone sentenziava che “Il vino per l’uomo è come l’acqua per le piante che in giusta dose le fa stare bene erette.” Pindaro invece ne fece una cura per i cattivi pensieri dicendo che: “Il vino eleva l’anima e i pensieri, e le inquietudini si allontanano dal cuore dell’uomo”. Il vino è un bene prezioso, tanto che uno dei primi provvedimenti legislativi scritti in Italia sentenziava che: “Se uno toglie da una vite non sua più di tre grap-
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poli, pagherà sei soldi. (dall’Editto di Rotari, 650 d.C. circa). Però attenzione agli effetti negativi perché “Chi s’ubriaca malamente, in tre maniere offende: nuoce al corpo, all’anima ed il vino perde. (Bonvesin della Riva, XIII sec.). Dante Alighieri è più osservatore scientifico con “[…] guarda il calor del sol che si fa vino giunto dall’umor che dalla vite cola”, mentre Aretino che, all’opposto, non era certo uno “stinco di santo”, affermava: “Chi non si mostra amico dei vizi, diventa nemico degli uomini” ed il genio universale di Leonardo da Vinci ricordava che “Et però credo che molta felicità sia agli uomini che nascono dove si trovano i vini buoni”, tanto che un anonimo che crediamo la recitasse dopo avere forse ecceduto in libagioni, chiariva che: “Aborrì l’acqua il Redentor Divino e in Cana Galilea, per non mirarla, fece un prodigio e tramutolla in vino”. W. Goethe che di tristezze se ne intendeva… ci ricordava che: “Il vino allieta il cuore dell’uomo, e la gioia è la madre di tutte le virtù”, mentre Lord Byron precisava che: “Il matrimonio viene dall’amore, come l’aceto dal vino”. Victor Hugo disse che: “Dio non ha fatto che l’acqua, ma l’uomo ha fatto il vino” ed Anatole France con garbo ed ironia precisava: “Ah, la Virtù: potessi un dì raggiungerla... Intanto, versatemi da bere!”. Charles Baudelaire che dedicò al vino meravigliose poesie, propose parecchie riflessioni tra cui “Chi beve solo acqua, ha un segreto da nascondere” ed ancora: “È l’ora di ubriacarsi! Per non essere schiavi martirizzati del tempo, ubriacatevi, ubriacatevi senza posa! Di
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vino, di poesia o di virtù, a vostro piacimento. Il vino sa vestire di un prodigioso lume la stamberga peggiore e fabbricare portici di fiaba con le spume del suo rosso vapore, come un sole cocente che splenda fra le brume”. Sentenziava poi: “Bisogna sempre essere ebbri, il vino rende l’occhio più chiaro e l’orecchio più fino!”. Ed un suo moderno emulo nel concepire vita e poesia come un binomio inscindibile, Charles Bukowski, ricordava che “l’acqua fa piangere, il vino fa cantare”. Louis Pasteur che di microbiologia ne sapeva più di tutti, ricordava che: “Il vino è la più igienica e sana delle bevande” e per rimanere in Francia citiamo due proverbi: “Lei beve? Non solo bevo: sono un ubriacone.” e: “Chi beve bianco è vicino al pianto, chi beve rosso ha la gioia indosso”. In Inghilterra, dove il linguaggio è più accurato e le espressioni sono sempre contenute, Edoardo VII precisava che “Il vino non si beve soltanto, si annusa, si osserva, si gusta, si sorseggia e... se ne parla.”
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Accademie e corporazioni
i associazioni, congreghe, confraternite, accademie, università, arti o corporazioni che abbiano avuto o come soggetto principale, o come rapporto di notevole peso il vino, ne sono esistite parecchie in Italia, qualcuna tutt’ora in funzione. Non è certo facile darne notizie precise perché per la maggior parte mancano esatte indicazioni. Circoli o congreghe di gaudenti amici della buona tavola e del buon vino ve ne sono ancora attive e numerose; per molte la loro effimera esistenza è passata inosservata, per altre la vita secolare prosegue, anche se il modo di essere e di rapportarsi alla società è cambiato di molto. Ais, Fisar, Accademia Italiana della Vite e del Vino, Accademie della Cucina: sono oltre un centinaio quelle tutt’ora operanti sul territorio italiano. Qui ne ricorderemo, tra le tante, alcune storiche del passato. Dopo il Sacco di Roma, ad esempio, prosperò nella Capitale, l’Accademia dei Vignaiuoli fondata da Umberto Strozzi nella sua casa. Ogni accademico, come si usava in tutte, prese il proprio nome da attinenze alla vigna: agresto, mosto e simili. Francesco Berni fu tra i primi di quegli accademici e ne fecero parte pure l’abate Firenzuola e Monsignor Della Casa. Un’Accademia della Vigna fu fondata dal canonico Gerolamo Baruffali a Cento ed ebbe sede nel suo palazzo. Fu inoltre autore di Baccanali e del Bacco in Giovecca descrizione delle memorabili feste carnevalesche del 1710 in Ferrara. L’Accademia degli Alterati che fiorì in Firenze nel 1570 e pare sia durata sino al
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1641, celebre nelle lettere quanto quella della Crusca, aveva per stemma un tino pieno d’uva con il motto: “Quid non designat”, preso dall’Epistola di Orazio “Quid non ebrietas designat?”, senza però l’ebrietas che si intuiva dalla figura del tino. Quanto alle società di vinattieri, osti, mercanti di vino, l’argomento si connetteva al commercio di questa bevanda e alle sue discipline. Qui si ricorderà solo che, una delle più antiche, l’Arte dei Vinattieri in Firenze, sorse nel 1282; si riunivano nella chiesa di San Martino prima, quindi nel Palazzo Bartolomei in via Lambertenghi ove si scorgeva, fino a non molti anni fa, ancora scolpito lo stemma. Anche Milano ha avuto la sua Università degli Osti. Si hanno notizie, fin dal 1303, di una Schola Tabernariorum che sorgeva presso la Pusterla della Chiusa. Nel secolo XIV agli osti fu assegnato il 17° posto nel corteo dei paratici cittadini che andavano in processione alla chiesa di Santa Margherita. Lo statuto fu approvato da Filippo II nel 1586 e durò fino a quando Giuseppe II soppresse tutte le corporazioni di mestiere. L’Università degli Osti di Milano aveva a suo protettore San Teodato. Ad essa spettava l’applicazione di buona parte delle leggi riguardanti le osterie; che gli osti fossero tenuti in considerazione, si desume dal fatto che i loro libri erano utilizzati come prova in giudizio contro qualsivoglia persona, fino alla concorrenza di 50 lire imperiali. Gli osti potevano vendere qualsiasi mercanzia, ma non acquistare nulla entro sedici miglia dalla città, distanza che, nel 1713, fu ridotta a sei. Perché il popolo potesse effettuare a miglior prezzo i propri acquisti, si issava una bandiera
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sui mercati cittadini e prima che fosse abbassata, gli osti non potevano entrare. Pure a Venezia si trovava l’arte dei venditori di vino unita in Schola per concessione del 30 dicembre 1569; ebbe un altare e due arche nella chiesa di San Bartolomeo. Pare che l’arte dei travasatori esistesse prima del 1300. I venditori di vini importati, navigati, come la Malvasia, non ne facevano parte e si raccoglievano nella chiesa di San Nicolò dei Frari; non potevano vendere vini nostrani, dare da mangiare, niente carte da gioco, né innalzare insegna. In “Corpo d’arte” figuravano invece i mercanti da vino. La loro scuola eretta con decreto del 20 novembre 1565, ebbe dapprima un altare in San Silvestro, ma nel 1609 le fu aggiunta l’arte dei venditori e travasatori di vino e la sede comune fu presso le fondamenta del Vin in Calle del Gambero. Gli osti o canevari, erano stati eretti in corpo con decreto del 15 giugno 1358: essi potevano offrire cibo, da bere e dormire a chiunque; tenevano i loro capitoli a San Matteo di Rialto, poi dal 1411 a San Cassiano; altri si trovavano ai Santi Filippo e Giacomo. Anche la storia dell’Università romana dei mercanti dei vini è piuttosto interessante. Fu fondata il 4 marzo 1730 sotto la protezione di Sant’Anna e passata in quella di San Isidoro. Essa poteva concedere licenze per aprire nuovi negozi di vino, purché vi fosse una distanza di “150 canne” dal più prossimo, e la patente di venditori ambulanti. Gestiva la disciplina delle vendite pubbliche, dei facchini addetti ai negozi di vino, della vendita degli stessi dall’uno all’altro. Nel 1744 l’Università passò a Santa Maria in Monterone; fu poi soppressa nel 1801 da Pio VII, ma ricosti-
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tuita sotto Pio IX nel 1854, sotto il nome di Collegium Vinariorum Urbis e passò alla chiesa di Santa Maria in Trivio, detta dei Crociferi, prendendo come patrono San Teodato taverniere. Il suo motto era: “Vinea nostra florit”. In Torino per oltre cinquant’anni, fino al 1930, era attivo, con rilevante numero di soci, il Circolo Enofilo Subalpino, nel quale, oltre agli studi, alle discussioni di enologia e alle iniziative in difesa di questo settore, si istituirono le “fiere enologiche” che si tenevano ogni anno a Carnevale, generalmente in Piazza San Carlo, manifestazioni che si caratterizzarono sia per esposizioni con assaggio di vini, ma anche come piacevole ritrovo per comitive, sia per il ballo, che per le degustazioni. A Conegliano, presso la celebre scuola enologica, sorse un circolo enofilo costituito principalmente dagli studenti degli ultimi corsi superiori nei quali si addestravano i giovani nella non facile arte di degustare i vini, esaminarli, discuterli, criticarli. A turno gli stessi studenti tenevano una conferenza o una comunicazione sulla quale poi si apriva un’utile discussione guidata dai professori della materia. Ancora oggi è in funzione una magnifica sala per la degustazione dei vini. A Roma dal 1882 fu costituito il Circolo Enofilo Italiano, associazione a carattere nazionale, come lo era stata la Società dei Viticoltori Italiani fondata dal De Vincenti e diretta dall’ingegner G.B. Cerletti. Anche il Circolo enofilo organizzava, a Carnevale, fiere vinicole al Politeama Adriano, eventi che accompagnavano giocondi veglioni.
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Antiche consuetudini
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Usi viticoli e vitivinicoli
olte delle antiche consuetudini del nostro popolo in materia di coltivazione delle viti, di preparazione, affinamento, traffico di vini, si sono perdute negli anni. Il diffondersi dell’istruzione tecnica nel campo vitivinicolo, tesa a dare razionalità a questa attività, basata su scienza, esperienza ed economia, ha sempre più livellato le regioni del nostro paese. Numerose vicissitudini negative come la fillossera, l’oidio, la peronospora, hanno imposto nei decenni pratiche completamente nuove per la cura delle viti, mentre nel campo vinicolo, i nuovi orientamenti dei mercati, le nuove esigenze qualitative, il bisogno di sicurezza emerso dopo il nefasto scandalo del metanolo, hanno richiesto metodi e pratiche di difesa fitosanitaria prima impensati. Tra le consuetudini legate alla viticoltura, la materia più ampia è sicuramente quella relativa alla vendemmia; per fissare il giorno in cui cominciare la raccolta delle uve (ancora oggi viene emanato relativo decreto prefettizio), si usava il cosiddetto “bando della vendemmia” e cioè la fissazione, per autorità, del momento opportuno per raccogliere l’uva. Una prerogativa antichissima, che però non bastava ad impedire una pessima abitudine (certo non favorevole alla maturazione dell’uva e di tutte le sostanze nobili in essa contenuta), ovvero la raccolta anticipata effettuata per paura di avversità atmosferiche, ma soprattutto per i furti, in tempi in cui la forza dell’au-
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torità pubblica era certo insufficiente ad impedire ruberie dettate quasi sempre da miseria ed estremo pauperismo. Parecchie volte sulla fretta influiva pure il desiderio di essere i primi a presentare il vino nuovo sul mercato e soddisfare le richieste del commercio. Così negli anni, per dare il giusto tempo al prodotto di maturare, evidenziando le sue migliori prerogative organolettiche che si sviluppano proprio con l’affinamento, e soddisfare nel contempo le prime richieste del mercato, nacque, per primo in Francia il beaujolais nuoveau, quindi in Italia, in particolare negli ultimi quindici anni, il vino novello. Si è già ricordato che l’undici novembre era usanza assaggiare il vino nuovo (novello). Questo prodotto negli ultimi anni ha occupato una porzione di mercato considerevole. Con le moderne tecniche enologiche della macerazione carbonica, totale o parziale, si ottengono vini ricchi dai caratteri giovanili, fragranze floreali e fruttati, ricchi di glicerina, con riduzione considerevole di acido malico (fermentazione maloalcolica). I vini novelli non sono adatti per l’invecchiamento, ma vengono consumati entro qualche mese dalla produzione. Anche se alcune sostanze posseggono una grandissima influenza sull’aroma globale dei vini novelli, non dobbiamo dimenticare che sul patrimonio olfattivo di questi vini, influiranno anche gli aromi primari o varietali e gli aromi secondari o di fermentazione, mentre sono assenti quelli cosiddetti terziari o post-fermentativi.
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Oggi, sostanzialmente, tutti i viticoltori tendono a raccogliere l’uva nel momento più propizio per la maturazione, ossia nel momento in cui i grappoli sono in grado di esprimere le migliori qualità organolettiche. Il bando della vendemmia è comunque antichissimo: una delle testimonianze più significative proviene dal Trentino (12 aprile 1391), in particolare per Scanna, Varelli e Livo. Negli ordinamenti dei conti di Tono nel 1562 si affida a due fiduciari dei contadini di fissare la data della vendemmia. Molaro, il 16 luglio 1566, votò una regola stabile in proposito e d’abitudine si convocavano a votazione le vicinie, le regole, le ville, i grandi o piccoli consigli alla presenza delle maggiori autorità, per stabilire i giorni di vendemmia, e il notaio stendeva la relativa “grida”. Vi furono anche esempi non dettati dalla sola ragione tecnica della maturazione, come quella di Avio, il 6 settembre 1665, che ordinava di vendemmiare il 16 di quel mese perché a San Michele doveva arrivare il Vescovo di Verona per cresimare in molti paesi; pertanto le uve, incustodite, avrebbero corso seri pericoli. Nei vecchi statuti di Sinalunga (Siena) del 1553, si inibiva a chiunque di vendemmiare “innanzi la festa di Santo Matteo (21 di settembre), alla pena di soldi quaranta per ciascuno”. Il “bando delle vendemmie” ha una storia antica e certo si allaccia, come tanti, ai riti religiosi che nell’antichità fissavano l’inizio della vendemmia. Presso i Romani era il più elevato dei sacerdoti, Flamine Diale, che dava il segnale e con esso si iniziavano le caratteristiche feste vendemmiali. Ma già nelle Leggi di Platone si asseriva che la raccolta
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delle uve non poteva cominciare prima del sorgere di Arturo (cioè prima della fine di agosto), sotto pena di ammenda. E nelle XII Tavole (ovvero la prima codificazione legislativa scritta di Roma) si prescriveva di non vendemmiare che “allorquando cadean le foglie”. Massima era anche la cura per salvare le vigne dai danneggiamenti. Nel Trentino, in particolare, era forte la paura per la presenza di cani nei vigneti. Nell’art. 44 della “carta di regola” di Cloz del 6 febbraio 1550, si imponeva il guinzaglio ai cani “affinché non danneggiassero le viti”. Cembra, il 9 febbraio 1508, proibiva di condurre cani nei vigneti. Taio, nel 1523, li interdiva dal 24 agosto a vendemmia compiuta. A Dardine nel 1546, ad Isera nel 1656 ed altrettanto a Bolentino, si multavano con “12 grossi”, i cani non legati in quel periodo. Ma in molte altre regioni intensamente viticole e con prodotti particolarmente noti, si ricorreva a guardiani temporanei dei vigneti stessi in epoca di poco precedente la vendemmia.
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L’
I guardiani dei vigneti
usanza della guardia ai vigneti era assai antica. Nella “carta di regola” del 1461 di Enno (Trento), si imponevano due saltari per il controllo di campagne e vigneti, dal giorno di San Michele (29 settembre), sino al raccolto. Queste guardie presero nomi di saltari, regolani, sindaci o cavalieri. A volte erano scelti a turno fra la popolazione e svolgevano servizio gratuito. Altre volte il turno era obbligatorio solo per i proprietari di fondi vitati. Altre ancora la persona era pagata dal comune e la spesa ripartita tra i viticoltori, come si evince nello statuto di Civezzano (1370). Da quello di Pilcante si apprende invece che il saltaro era retribuito con tre stara di uva poste a carico di ogni coltivatore. Dermulo, con la regola del 30 aprile 1471, imponeva l’onerosa funzione di saltaro ai forestieri proprietari di vigneti. Un tipo di guardiano di vigneti, rimasto celebre soprattutto per il costume che indossava, è il saltner o saltaro di Merano e dell’Alto Adige. La parola “saltner” che derivava dalla voce latina “saltus” (bosco), così germanizzata, venne adoperata a designare una guardia campestre la cui origine risaliva a molti secoli fa in Alto Adige, come attestano scrittori e novellieri. Il suo abbigliamento stravagante era reso più eccentrico dall’enorme copricapo, sormontato da una gran massa di piume variopinte, disposte a ventaglio e da code di volpi e scoiattoli; portava una piccola giacca, scarsi gambali, larghe bretelle ai brevissimi pantaloni, con un arabescato cinturone e maniche mozze. Il
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suo abbigliamento era interamente di pelle. Andava anche adorno di una serie di ampie collane, ricche di ciondoli e catenelle, di ninnoli e denti di cinghiale, calzato di pesanti scarpe chiodate ed armato di alabarda e pistola. Un abbigliamento teso a spaventare gli incauti visitatori. Dalle testimonianze scritte si desume che i giovani che aspiravano a tale carica, dovevano presentarsi il 10 agosto, giorno di San Lorenzo, ai proprietari delle vigne in costume completo, copricapo piumato ed alabarda. La vigilia dell’Assunzione, essi prendevano servizio tra spari di mortaretti e subito iniziavano la loro guardia, legando cespugli di spine ai cancelli delle vigne in segno di iniziata vigilanza. A questo impiego venivano prescelti solo i giovani più probi ed onesti, per la durata di tre anni; ma talvolta venivano riconfermati nell’incarico fino alla tarda vecchiaia, venerati e rispettati da tutti. Il rigore al quale erano assoggettati però era tale che veniva loro perfino vietato di accedere in chiesa e di intervenire alle relative funzioni religiose. Dovevano vivere continuamente, giorno e notte, nelle vigne e solo in caso di temporali, potevano ricoverarsi in piccole capanne ricoperte di paglia. Ogni giorno i contadini si incaricavano di consegnare loro da mangiare e bere, poiché non era consentito loro allontanarsi nemmeno all’ora dei pasti. I saltner venivano ispezionati dal borgomastro e da due consiglieri comunali, i quali, a sorpresa, nottetempo, si recavano nei vigneti, battevano tre colpi di roncola al cancello della vigna e se il segnale non era avvertito, andavano alla capanna del custode e ne aprivano la porta: questo era il segno di perduta fiducia e di mancata riassunzione per l’anno succes-
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sivo. Se invece il saltner avvertiva il segnale e veniva trovato al proprio posto, gli sequestravano momentaneamente la pistola affinché non potesse avvertire i compagni circonvicini del pericolo dell’ispezione. Così disarmato veniva condotto all’osteria dove gli si offriva carne e vino generoso. Queste guardie, istituite per spaventare e mettere in fuga i saccheggiatori delle vigne, avevano il diritto di arrestare i ladri d’uva poi condannati ad una pena pecuniaria; in caso di bisogno, potevano chiedere manforte ai compagni limitrofi con spari di pistola. Una funzione rimasta in vigore per secoli.
S
La vendemmia, grande festa!
ono assai numerose le descrizioni della vendemmia nelle raccolte di studi folcloristici ed in particolare molte provengono dalla Sicilia, regione che in questi ultimi anni ha espresso una viticoltura di qualità che si è posta al centro dell’attenzione della realtà enologica italiana. In particolare riferiamo di questa antica testimonianza: “Nella vendemmia che richiede d’essere fornita (conclusa) in ristretto spazio di tempo, tutti trovano lavoro, villici ed artigiani, mulattieri e carrettieri, vecchi e giovanetti e fino ai facchini e fannulloni di piazza. Ed anche le donne vi piglian parte, le donne che in Sicilia non vanno quasi mai a nessun lavoro campestre eccetto che alla vendemmia ed, in minor proporzione, all’altro raccolto, quello delle olive. Anche le artigiane trovano che non
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è disdoro (disdicevole) d’andarvi, ma beneficio pur delle loro famiglie. E tutti a vendemmia finita, si trovano un discreto gruzzoletto tra le mani, per quanto scarsa la mercede che si suol dare per la giornata della vendemmia”. Lo scritto prosegue spiegando che di solito vanno le famiglie insieme, cui si aggiungono vicini o amici che poi eseguono il lavoro uniti. I contadini provenivano dalle regioni a valenza cerealicola in quelle più vocate all’uva. Chi aveva con sé una bestia da soma o un carretto, portava bigonce e bigoncini. Chi non aveva nulla, veniva a piedi e con i soli arnesi necessari, una cesta ed un coltello. Giunti al comune designato, si fermavano sulla piazza dove trovavano subito, a tutte le ore, chi li reclutava. All’inizio del giorno tutti i vendemmiatori si trovavano sul posto davanti ai filari da vendemmiare. Il proprietario, o il castaldo, o il soprastante, assegnava un filare a ciascun vendemmiatore, ponendo ad ognuna delle due estremità un capofilare ed alternando nel mezzo i più pratici e adulti, con quelli meno esperti e con i giovani. La chiurma (numero dei vendemmiatori), era maggiore o minore secondo l’estensione del vigneto per l’urgenza di raccogliere uva; per ogni otto che vendemmiavano, c’era un trasportatore a spalla (caricaturi) il quale raccoglieva l’uva vendemmiata in un gran corbello e correva a deporla nel tino o nel parmentu che era collocato in un posto centrale e a vista, da cui i mulattieri o carrettieri la trasportavano alla fattoria o al borgo. La vendemmia è, è stata, e sarà sempre un baccanale. Appena il capofilaru (capofila) aveva pronunciata la
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immancabile formula iniziale di preghiera rivolta alla divinità, ecco che “iniziava uno scoppiettio di vivaci parole, un’allegria ridanciana, un’onda di canzoni ed ariette profane; i versi allusivi, le frasi ambigue, i motti a doppio senso o sboccati, erano addirittura permessi, anzi quasi voluti, come di rito. Le ardite insolenze, le ingiurie, passavano tra le risate e l’applauso […]” Nella piana di Mascali in provincia di Catania “i lavori della vendemmia procedevano con una disciplina quasi militare, ma poi, al tramonto del sole, tra danze e canti cominciava la baldoria”. Poi le “truppe”, conclusa la vendemmia in un podere dove il padrone saldava subito, com’era d’uso, il salario dovuto, si spostavano in altri vigneti e così di seguito per il corso di due mesi che era il tempo di durata della vendemmia. In certi vasti possessi della piana di Girgenti, prima della raccolta dell’uva, si davano da mangiare fichi d’India alle vendemmiatrici fino a sazietà, per impedire che esse mangiassero dell’uva nel corso della giornata. Così sempre alla mattina e fin che durava la raccolta. Grande importanza a questa scadenza si dava anche nel foggiano dove le vendemmiatrici si recavano dalla città alla campagna con la colazione sotto il braccio. Imbracciato il panàro (paniere), durante il taglio delle uve, lo accompagnavano con canti, intonati dalla “capuràl”, generalmente la più giovane e briosa della comitiva. “Uva rosa, tonda bianca e dolce, come l’uva rosa è Mariuccia la figlia di Rosa” oppure “quant’è bella l’uva
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fresca, ch’è cresciuta nella conchetta, a quattro palmi di profondità, dai maglioli del canal”. A fine vendemmia, al banchetto con galline arrostite sulle fiamme dei tralci di vite e con abbondanti boccali di vin vecchio e di mosto fresco, si effettuava la benedizione dell’uva tra canti, spari ed osanna. Ogni convitato doveva consumare quel tanto d’uva e di pane che aveva davanti, perché pane e vino rappresentavano il Signore. Terminato il banchetto si teneva la cavalcata e un corteo giungeva fino all’ingresso del paese. Il carro principale era montato dai vignaioli e tirato dai buoi ed al centro sedeva, su una botte, il proprietario delle viti. Anche nel brindisino il giorno dedicato alla vendemmia era di gaudio ed allegrezza per il padrone che vendemmiava. Invitava amici e parenti e conoscenti alla raccolta delle uve e preparava per loro un banchetto all’aperto con minestra di fave cotte con un miscuglio di cicorie selvatiche e con frittura di peperoni (graziata), un piatto tradizionale. La sera riempiva ad ognuno un paniere d’uva. Colui che era preposto al trasporto del tino dell’uva al palmento, doveva indossare un abito militare con berretto ed ogni volta che il tino, nella vigna, veniva colmato di grappoli, ripeteva: “Tocca il tino”. I recipienti per la vendemmia erano di tre specie: “ i pozzi” per le grandi partite, le “botti” ed i “capasoni” (grossi vasi di creta) chiamati anche “zirri”, secondo la denominazione napoletana. Durante la pigiatura, nei vecchi palmenti, per lo più senza porte e all’aperto, la gente accorreva per vedere il mosto colare. Alla torchiatura era usanza che i lavoratori accompagnassero i loro sforzi con il grido: “Oè, Oè”.
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Il mosto o mosto d’uva è il prodotto liquido che si ricava dall’uva fresca o ammostata (uva fresca pigiata con o senza raspi) mediante pigiatura e sgrondatura o torchiatura, avente una gradazione complessiva naturale (gradazione alcolica che il prodotto presenta prima di subire qualsiasi correzione o mescolanza) non inferiore a 8% vol. per la trasformazione in vino a mezzo di fermentazione. Per il mosto d’uva è ammesso un Titolo Alcolometrico Volumico (T.A.V.) effettivo pari o inferiore all’1% (per TAV effettivo si deve intendere la gradazione di alcool etilico svolta, espressa in volume). Il mosto è costituito dalla polpa d’uva (80-85%), dalla buccia (10-15%), dai semi o vinaccioli (5%). Il graspo corrisponde al 5-7% e gli acini al 95-93% del peso totale. Il mosto viene utilizzato per la trasformazione in vino a mezzo della fermentazione operata dai lieviti o blastomiceti (funghi unicellulari appartenenti alle classi Ascomiceti e Deuteromiceti) presenti in natura nella pruina (sostanza cerosa ricoprente la buccia con finalità di protezione). Nell’industria enologica si ricorre invece a lieviti selezionati prodotti da centri specializzati al fine di avere una maggior resa in alcol, maggiore acidità e una fermentazione più regolare. Di norma i lieviti vengono versati assieme a un attivante in una predeterminata quantità di mosto previamente sterilizzata e lievemente scaldata (un eccessivo calore inibirebbe i lieviti), e lasciati riprodurre per dare così origine al mosto lievito che verrà innestato (versato) nella massa da fermentare. Nella vinificazione in rosso (produzione di vini rossi) terminata la necessità (praticata tramite il procedimento detto di rimontaggio) di tenere immerse le bucce (vinacce) nella massa fermentante per favorirne l’estrazione dei flavoni e degli antociani che daranno colorazione al prodotto finale, esse verranno allontanate dal mosto e utilizzate sia in campo agroalimentare (come mangime), che per produzioni quali la grappa.
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Il padrone delle uve contava le quarte o quartarole (capacità di undici litri) e ripeteva per ognuna il detto: “San Martino le faccia crescere”. In quasi tutte le maggiori regioni vinicole, la vendemmia era sempre stata caratterizzata da grande festosità ed in parecchie si usava appunto chiuderla con una festicciola speciale. In Monferrato e nelle Langhe questa era denominata curmà (colmata). I proprietari offrivano un’abbondante e varia refezione alla quale, con tutta la famiglia del padrone, partecipavano tutti i vendemmiatori, i brentatori (la brenta era un grosso recipiente) che avevano trasportato l’uva nelle bigonce ed i bovari che avevano eseguito il trasporto alla cantina. Il simposio, rallegrato e chiuso da canzoni, era seguito da una ballata sull’aia al suono di una fisarmonica. Le vendemmiatrici monferrine nel loro tradizionale costume ebbero l’onore di partecipare alla festa data a Rivoli il 10 febbraio 1645 per Madama Reale, ideata dal conte Filippo D’Agliè e fatta rappresentare dal Principe Carlo Emanuele III per la Duchessa reggente Maria Cristina. Della vendemmia in Alto Adige si ricorda che essa si chiudeva con una festa rumorosa e imponente: in un lungo corteo si portavano in trionfo, su carri infiorati e ricoperti di tralci e festoni, fanciulle inghirlandate di pampini e fiori, con saltner (i guardiani) imponenti, mentre nel seguito, intorno a colossali botti trainate da buoi, alcuni robusti bottai battevano il tempo della banda locale sui cerchioni di ferro. Questa festa terminava in danze sfrenate e senza posa, in ampissime cantine dove salamini e castagne
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venivano innaffiate da abbondanti libagioni di vino; il saltner teneva sempre il primo posto ed era la figura emergente, sebbene seguitasse a controllare l’autentica uva appesa ad un pergolato (un segnale emblematico che il suo lavoro non veniva mai meno), ove le coppie danzanti per burla venivano a trafugare i bei grappoli custoditi.
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La vinificazione
n Sicilia si usava un tipo di vinificazione detta pestainbotte. La vinificazione può essere eseguita in assenza o in presenza di vinacce. Il primo sistema viene usato per la produzione di vini bianchi scarichi di sostanze polifenoliche, mentre per la produzione di vini rossi, si attua la fermentazione con macerazione sulle vinacce. È noto che l’uva veniva pigiata coi piedi scalzi o talora con scarponi con grossi bulloni o coi piedi nudi. Dal pigiatoio il mosto colava in un altro recipiente ove si lasciava fermentare da mezza giornata a due giorni. Dalla maniera come si pigiava l’uva deriva la frase: “pestare in base all’acino”. La fermentazione è la prima fase del processo di vinificazione, un complesso fenomeno biochimico che comporta la trasformazione degli zuccheri (glucosio e fruttosio) in alcol etilico (o etanolo), anidride carbonica e numerosi prodotti che vengono detti secondari poiché sono quantitativamente scarsi. Gli agenti di questo processo sono i lieviti presenti nell’uva, che si “cibano” degli zuccheri trasformandoli. Così il dialetto e i proverbi hanno efficacemente sintetizzato la necessità che il mosto non resti troppo a contatto con bucce e graspi per ottenere un vino meno colorito ed aspro: “la vigna accanto al palmento” o: “pianta la vigna dove tieni le botti”. I contadini che pestavano l’uva, erano soliti bere un po’ di mosto e
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prima di farlo dicevano: “domani l’altro farà tre giorni e diverrà vino vecchio”. La gaiezza della vendemmia, se non si diffondeva tale e quale nelle città, aveva però simpatici riflessi perché in molte di esse, dalla campagna, giungevano i carri con l’uva da ammostare che poi i cittadini ponevano a fermentare nelle anguste cantine per farne vino e mezzo vino per la famiglia. Ma così facevano anche tutte le osterie con quantitativi rilevanti. Nell’Emilia-Romagna l’arrivo delle castellate e delle mezze (la castellata era di otto quintali) o delle bigonce, attirava frotte di ragazzi che accorrevano per spiluccare qualche chicco imbrattandosi poi bene mani e faccia con il mosto, tra un ronzare insistente di vespe. A Milano, intorno al 1300, negli anni di abbondanza, in città si imbottavano fino a 600.000 carri di vino. Settembre era una festa per tutti: aria di letizia si diffondeva ovunque; uomini e ragazzi a gambe nude ammostavano; le donne rotolavano botti o correvano con i mastelli tra il mugghio dei buoi annoiati e gli scherzi degli spettatori ai quali però non si negava una scodella di torborin. Molti borghesi ed artigiani compravano il vino nuovo in Piazza Castello dai contadini che vi facevano sosta; vendevano anche al minuto, a pinte, a boccali, ma anche a fiaa (fiato), ovvero si beveva tutto quello che si poteva, senza staccare la bocca dalla spina; alcuni riuscivano ad ingurgitare, dicono le cronache, anche un litro senza staccare la bocca. Anche molte nobili case vendevano al dettaglio i prodotti delle loro vigne come i Dal Verme, Casa Castiglioni. Lo stesso Arcivescovo apriva le sue cantine ai buongustai tra cui abbondavano ortolani e pescivendoli del vicino Verziere (allora in Piazza Fontana).
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Il vino nuovo e la pubblicità
n molte città, per potere vendere il vino nuovo, occorreva l’ordine dell’autorità, la quale pubblicava la data in cui questa vendita poteva avere inizio. Probabilmente ciò era determinato dal fatto che il vino, non ancora completamente fermentato, poteva causare disturbi intestinali. In parecchie regioni questa disciplina era determinata anche dall’abuso di zolfature alle uve nei primi anni di lotta all’oidio, zolfo in eccesso che determinava nel vino nuovo dosi non piacevoli di acido solfidrico. Lo zolfo elementare, proveniente dai trattamenti contro l’oidio, può portare alla formazione di idrogeno solforato o acido solfidrico nel corso della fermentazione alcolica. Il meccanismo di questa formazione sarebbe principalmente di tipo chimico, ma esiste anche un intervento dei lieviti. L’idrogeno solforato si aggiunge alle altre possibili fonti di formazione di derivati solforati, particolarmente dannosi per il vino (odore di riduzione). La soglia di percezione dell’acido solfidrico è molto bassa (0,8 microgrammi/litro): questa soglia può essere raggiunta a partire da una concentrazione di zolfo nel mosto pari a 1 mg/L. L’idrogeno solforato può essere eliminato grazie alla sua volatilità, con arieggiamenti e travasi tempestivi e anche per precipitazione dei solfuri con il rame. Per completezza è bene ricordare che lo zolfo elementare usato nella difesa biologica non è l’unico fitofarmaco che può apportare zolfo al vino. Molti altri pesticidi, ovviamente non ammessi nel
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biologico, come i ditiocarboammati, possono dare luogo a composti solforati in grado di contaminare i vini. È da ribadire il consiglio di seguire con la massima attenzione la difesa del vigneto nelle ultime settimane prima della vendemmia per limitare la presenza di zolfo nelle uve. Si può utilizzare, come antioidico alternativo allo zolfo, il fungo antagonista Ampelomycesis quisqualis a partire dalla chiusura del grappolo. Nel Veneto il permesso di vendere vino nuovo era consentito a San Martino (11 novembre) ai tempi della Serenissima e rimase in vigore fino ai primi decenni del ‘900. “Da San Martin se spina la bote del bon vin; da San Martin ciapa la bala el grande ed il picenìn”. Messo in vendita il vino nuovo di una cantina, in parecchi paesi lo si annunciava con forme di pubblicità sui generis, ponendo alla porta della cantina una bandiera o una frasca d’albero. A San Severo in Puglia i banditori di vino, detti brentatori, possedevano una straordinaria abilità nel presentare il prodotto di questa o quella cantina che si apriva alla vendita al minuto. In una mano recavano il boccale con il vino, nell’altra il bicchiere con cui offrivano l’assaggio. Ma era veramente una degustazione assai breve perché si affrettavano poi a ritirare il calice dalle mani di colui che vi aveva appena appoggiato la bocca e inghiottito un sorso. Per pubblicizzare “l’articolo”, gridavano con rapidità il nome del produttore e sciamavano tra la folla con una lode al vino: “L’è ambra, la verità” e simili seguita dal prezzo (1,20-1,30 al litro). Anche alla fiera di Sant’Arcangelo di Romagna era presente la tipica figura del banditore di vino o imbonito-
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re del Sangiovese. Vi furono personaggi notissimi fra il popolo perché celeberrimi banditori delle qualità del vino e dei prezzi popolari: “Ha messo la canella (spina) adess; cinque soldi al litro nella cantina d’la Buràtela e l’è Sanzoves (sangiovese) propri bòn”. Anche in Sicilia vennero coniati annunci caratteristici per i venditori di uva (racina) e vino. Per lo zibibbo (varietà di uva moscato bianco aromatica che produce il Moscato di Pantelleria), si proclamava: “Ed è biondo come l’oro il zibibbo; come l’oro a 12 grani”. Per l’uva duracina: “Uva duracina come susine di cuore”. Per la “muscatella: “Com’è bella questa muscatella. Che la portò Pulcinella”. Per il vino: ” Assaggia ch’è di Carini, vieni ad assaggiare. Vino di Castelvetrano”. Per la festa della Madonna degli Ammalati, in Sicilia si annunciava: “il vino di Siculiana è giunto a Raffadi. È arrivato il vino, venite a mangiare”. Nel Napoletano i venditori ambulanti di uva annunciavano ad esempio il moscato così: “È oro, non uva chesta; ha razziato con il sole ‘a muscarella”. Per far conoscere il vino nuovo di una cantina che si apriva alla vendita dell’annata, veniva scritturato “o’ pazzariello” vestito con abito di foggia e colori originali (pantaloni rossi, strisce verdi, taglio a frac, rosa di carta all’occhiello, panciotto giallognolo, cravatta svolazzante e feluca adorna di pennacchio), che gridava : “Uommene e femmene, zitelle e maritali, grosse e piccierielle, nobile e snobiste, ricche e puverielle, o vino d’a cantina… nova. A una lira ’o litro. Currite”. Nel brindisino, per portare mosti in paese, si usavano otri di montone o barili tappati con frasche di fichi; il trainante e il garzone addetti al trasporto vestivano
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vecchie divise militari e portavano un corno dal quale emettevano di continuo rauchi suoni schiamazzando e ridendo. In molte città i portatori di vino, brentatori e simili, avevano la loro organizzazione e talora speciali divise. A Mantova vi operavano da moltissimo tempo. In un decreto emanato da Francesco Gonzaga il 23 maggio 1548, già venivano citati, cercando anche di porre freno ad ingordigie che si erano rilevate. I soci non dovevano superare il numero di settanta, avere alla direzione un massaro, essere di costituzione fisica robusta, senza baffi… e pagare tre ducati per farne parte. Tutti dovevano andare al lavoro con una cravatta o un fazzoletto al collo, la traversa (grembiule) e calzoni corti, scarpe e stivali puliti. Era fissata una tariffa di trasporto di certa misura detta “voglia”, “brenta” o “bigoncia” che i portatori recavano, colma di vino in portantina sulle spalle, aiutati da un bastone. Il posto di socio era ereditario in famiglia. Oltre al pagamento dei tributi in denaro, i portatori dovevano offrire quattro bacili d’olio per la lampada del Purissimo Sangue di Cristo, recare tutto il vino occorrente alla Corte per solo tre soldi il soglio, innaffiare le strade, spegnere incendi ecc. Erano anche obbligati a maritare tutte le figliole dei portatori poveri. A Trento la corporazione dei bottai denominati “pintesi” possedeva l’esclusiva e l’obbligo di fornire le botti alla città e solo in caso di sovrapproduzione, come nel 1584, o di gran necessità, poteva vendere agli altri trentini del Principato. Anche i portatori di vino erano riuniti in Corporazio-
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ne che aveva il proprio altare in Santa Maria Maggiore: erano esenti da tributo e dal montare la guardia in tempo di pace. Un’organizzazione del genere era quella dei torcolotti di cui si trovavano tracce a Borgo e Rovereto. Al principio del 1400 comparvero i mezzetti o sensali che dovevano giurare onestà davanti ai Consoli ed erano incorporati all’usanza romana antica in “Scola” con statuti, privilegi ed esenzioni. Dai due iniziali, salirono a trentasette verso il 1589 e nel 1630 furono tollerati anche due tedeschi. Ogni comunità del Trentino si opponeva all’introduzione di vino forestiero; a Borgo si impediva che entrassero vini veneti. Quelli di Val di Lendro, nel 1610, esigevano di poter comprare liberamente vini a Riva. I Solandri si opponevano al dazio sul vino fino a giungere ad uccidere il gabelliere di Flavon. Il vino serviva anche a pagare i saltari o “guardie di campagna” con “due staia ogni loco fumante”. Più graziose portatrici e dispensatrici di vino erano le cantiniere o vivandiere dei reggimenti; la loro presenza fu notevole negli eserciti sardi; l’uso derivava da quelli napoleonici. Erano donne che seguivano gli eserciti, cucinando e vendendo vino. Generalmente erano vedove o mogli di militari ed erano di solito vestite con bizzarre gamurre corte, pantaloni lunghi, cappellini incerati, con colori e mostrine del reggimento che seguivano; il numero delle donne era fissato e non poteva variare.
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Diversi e curiosi modi di bere
e abitudini al bere furono molto diverse nei secoli e così le particolari circostanze. Un classico: il bicchierino di vino bianco la mattina. “La mattina si praticava sino al principio del 1700 di prender del vino greco, Moscato o Malvasia, alle botteghe dei grecaioli e alle osterie che lo vendevano a minuto dando insieme pane e polpette a chi ne volesse. L’acquavite, bevanda settentrionale, successe al vino greco ed a questo poi l’uso delle bevande calde”. I veneziani davano nome di “garba” a questo vino di malvasia secca ovvero Malvasia di Candia aromatica lasciata fermentare fino ad ottenere un vino quasi privo di zuccheri residui chiamato Grechetto. Al mattino nobili, mercanti, operai e gondolieri si trovavano insieme confusi a prendere il bicchierino di garba in certe botteghe che, per graziosa figura retorica, si chiamavano malvasie per il fatto che vi si vendeva Malvasia dell’Epiro, ma anche Cipro, aleatico, scopulo e samas. Per gli usi religiosi il vino deve ancor oggi essere soltanto di pura uva, ma nel passato non doveva quasi essere stato toccato dall’uomo, tanto che in Puglia si usava per la Messa il vino raccolto nel palmento dallo sgocciolio del mosto sprigionato dalla massa d’uva e non ancora pestata con i piedi e con le pigiatrici. La Casa Florio spediva annualmente parecchie centinaia di ettolitri di Marsala Vergine al Canada per la
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celebrazione delle messe. Un Monsignore incaricato dall’Arcivescovo veniva a Marsala e sorvegliava il riempimento dei fusti redigendo apposito certificato in latino. I recipienti erano di un ettolitro, mezzo ed un quarto e portavano impresso a fuoco il calice e le parole Wine calice. Fino al II secolo era dovunque in uso la Comunione, sotto le due specie di vino e pane. E forse durò parecchio se il Concilio di Costanza nel 1413 minacciò pene severissime al prete che comunicasse i fedeli solo con il pane consacrato. Fino a non molti decenni fa, nelle Valli Ladine in Alto Adige, agli sposi si offriva l’ostia consacrata con del vino che essi dovevano bere dallo stesso bicchiere. L’offerta dei due bariletti di vino che il Vescovo consacrato recava al Vescovo consacrante, ricorda l’uso antichissime delle offerte che i fedeli fino all’XI secolo portavano all’altare (pane, vino, candele), perché servissero alla Comunione e al mantenimento del clero. Erano due i bariletti a significare la generosità dei fedeli e la molteplicità delle antiche oblazioni. Erano ornati uno in oro, l’altro in argento, per rispetto della dignità pontificale e dell’augusta cerimonia. Portavano gli stemmi dei due prelati, il nuovo ed il Vescovo consacrante. A Cola e a Ramandolo in Friuli, il giorno della sagra, si vendeva il vino del Santo protettore del paese. Ogni produttore offriva in precedenza una certa quantità d’uva, proporzionata al proprio reddito, con la quale si produceva questo vino da vendere il giorno della sagra; le fabbricerie così realizzavano discrete somme che venivano devolute ai bisogni della chiesa.
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Nella “Regula” benedettina di San Benedetto da Norcia al capo XI Della misura del bere si legge: “Crediamo che un’emina di vino basti a ciascuno ogni giorno […] se però la condizione del luogo e la fatica, ovvero l’ardore dell’estate, ne richiedessero di più, resti in facoltà del superiore, il quale consideri in tutti i casi che non si introduca sazietà ed ebbrezza”. E che San Benedetto stesso bevesse, risulta da uno dei miracoli che gli sono stati attribuiti nella vita. Alcuni monaci malvagi a Subbiaco volevano sbarazzarsi di lui e gli propinarono del veleno nel calice. Ma questo, alla sua benedizione, si infranse. Il calice non era quello della messa, perché San Benedetto non ascese al sacerdozio, ma rimase sempre diacono. Incerta è l’origine della benedizione augurale alle navi con il vino al momento del varo. Dalla relazione di un viaggio in Asia Minore di Peyssonel, si leggeva che a Smirne nel 1768, dovendosi varare un battello, il costruttore, prima che le altre cerimonie in uso si compissero, si fece portare una coppa di vino e dopo averne spruzzata la poppa del naviglio, bevette il rimanente ed altrettanto fecero i presenti. Oggi, alla cerimonia del varo, si usa far infrangere dalla madrina una bottiglia di spumante sulla prora della nave e i marinai traggono un lieto presagio quando la bottiglia si frantuma e il vino si sparge ampiamente sulla fiancata della nave. In occasione della Pasqua i preti vanno a benedire le case ed era in uso offrirgli, come al sacrestano che lo accompagnava, vino di casa. Il vino appare molte volte anche nelle sentenze giudiziarie. Raccontava Chino Ermacora che in Friuli i pa-
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tres conscripti si radunavano all’ombra del noce o del tiglio: stantes et sub frasca. Da un verbale della vicinia di Vendoglio si apprende come: “Quegli huomini dei Conseii giudicassero (23 maggio 1760) un certo Antonio Colunno perché aveva sprezzato il Comun intero ordinando che, in riparazione dell’offesa, facci celebrare una messa cantata et tre ordinarie et di pagare soldi due di pane et una boze di vino per cadauna agli uomini di Comun”. Notizia, soggiunge Ermacora, non ignorata forse dal Carducci che, con tanta potenza ha rievocato il “comune rustico” tra un bicchier di vino e uno di acqua solforosa, in quel di Arta. A questo proposito va aggiunto un ilare particolare: il poeta ligio alle abitudini del posto, metteva un sassolino in tasca per ogni bicchiere vuotato, tanto per conoscerne il numero sugli effetti della progressione della cura. Se non che faceva altrettanto per ogni bicchiere di vino, ponendo in altra tasca i sassolini. Poi alla sera, tra la cerchia degli ammiratori convenuti all’albergo, si divertiva a compiere un bilancio del duplice peso e rideva di cuore nel constatare che il vino aveva sempre il sopravvento sull’acqua. Altro uso molto curioso del vino va menzionato per la costruzione di una casa. A Foggia esisteva una casa detta “ubriaca”, un piccolo edificio a due piani sorto in una sola notte attorno al 1850, epilogo di una lotta tra un ricco proprietario Delegato, capo di Capitanata, che non voleva quella casa sorgesse al piano delle fosse perché toglieva la vista al suo palazzo. Operò tutte le possibili forme di ostruzionismo e l’unico stratagemma adottato dal Buzzi, ricco vinaio, fu quello di far sorgere la casa prima che egli se ne accorges-
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se. Infatti utilizzò i suoi undici figli per il lavoro murario, ma all’ultimo minuto il Delegato fece chiudere tutti i pozzi perché mancasse l’acqua per impastare la calcina. Buzzi ricorse al vino: la calcina rossastra si impastò con i mattoni ed al mattino le quattro mura alte della “casa ubriaca” erano sorte. Molto vi sarebbe poi da narrare su calici e bicchieri ed altri recipienti con cui popoli e signori hanno bevuto vino. Uno tra i più curiosi vasi potatori è la grolla che si usa ancora in Val d’Aosta: è un vaso semisferico in legno duro, foggiato al tornio; la sua capacità può raggiungere fino a due litri. Si usa solo nelle solenni circostanze della vita familiare: feste di nozze, battesimi, addio al celibato ecc. La notevole capacità deriva dal fatto che in Val d’Aosta è ancora uso bere in comune, “a la ronde”, di bocca in bocca, allo stesso vaso, accompagnandosi con motti augurali. Il nome pare derivi dall’antico francese Grasal, Graal, che proviene dal basso latino “gradalis”, “cratalis”, a loro volta dal greco “krater”. Sulle grolle spesso è incisa una data o una scritta espressiva ed arguta. In Sicilia, in molti paesi, durante la mietitura, si dava il vino agli operai dentro piccoli barili detti, come a Noto, “passaturi” e nell’Etna, “santu”; gli operai se lo facevano passare dall’uno altro e perciò si diceva “passare lu santu”. Al sorgere del sole i mietitori si allineavano nella vasta pianura con il capo o proprietario in testa che faceva loro distribuire “lu mazzicuni” (il boccone) e dopo veniva passato “lu primu santu”.
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Allora il Capo citava un Santo, beveva e consegnava il barile a chi gli stava a fianco e così via. I garzoni quando il barile era vuoto, ne porgevano uno pieno agli avidi bevitori che poi, ingagliarditi dal vino, iniziavano il lavoro. Stessa cerimonia a mezzogiorno, merenda e cena. Il Santo aveva le sue leggi: chi taceva, ripeteva o incespicava sulle parole era salutato a fischi. Se per caso qualcuno recitava poesie oscene, il Capo faceva fermare il barile, i precedenti recitavano un nuovo canto sacro in espiazione del compagno e coloro che seguivano proseguivano la libagione. Resta infine da citare l’influenza del vino nelle battaglie della Grande Guerra. In una bicchierata offerta ai soldati del 16° Corpo d’Armata francese di ritorno dai campi di battaglia, il loro generale Deville disse tra l’altro: “Sono sicuro che la storia imparziale classificherà il succo della vite tra gli artefici della vittoria. Nessuno potrà negare gli eccellenti effetti dell’amabile e confortante liquore la mattina di un’offensiva o dopo una notte di vigile attesa nella trincea”. È stato del resto dimostrato che nella vittoria della Marna, che cambiò le sorti del conflitto, i francesi combatterono in parecchi tratti del fronte con soldati tedeschi che avevano abusato delle enormi riserve di champagne dei paesi invasi, fattore del resto riconosciuto successivamente dagli stessi sconfitti. Così sul fronte italiano, nell’invasione di parte del Veneto, dopo Caporetto, i soldati austriaci ed i loro alleati fecero man bassa delle ricche provviste di vino delle grandi cantine del trevigiano ed i conseguenti effetti furono vantaggiosi per l’esercito italiano.
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Con il nome champagne si intende una denominazione di origine, associata ad un’area geografica posta intorno al 49º parallelo e quindi tra le più settentrionali della Francia. La zona, la sola in Francia ad avere una singola “appellation”, ha i propri specifici “terroir” e “cru” classificati. Lo champagne è un vino che presenta varie caratteristiche particolari rispetto agli altri grandi vini: la vendemmia viene effettuata manualmente (il disciplinare vieta l’uso delle macchine vendemmiatrici) in quanto è essenziale che l’uva arrivi al corretto grado di maturazione e perfettamente integra alla pigiatura. Lo champagne è un vino bianco ottenuto anche da uve a bacca nera - il Pinot Noir ed il Pinot Meunier - vinificate in bianco; quasi sempre viene effettuato l’”assemblaggio” tra vini di provenienza e di “millesimi” (annate) differenti, al fine di assicurare una continuità delle caratteristiche qualitative ed organolettiche. L’indicazione del millesimo, facoltativa, è possibile solo quando vengono assemblati vini della stessa annata; ciò è generalmente indice di un’elevata qualità. È un vino spumante mantenuto in pressione nella bottiglia per mezzo di un tappo a forma di fungo (contrariamente alla forma cilindrica dei tappi normalmente utilizzati), coperto da una capsula metallica e trattenuto da una gabbietta in filo di ferro. All’apertura, il tappo tenderà saltare e lo champagne a fuoriuscire rapidamente producendo molta schiuma, il che ne rende il servizio leggermente complesso. Una volta versato nel bicchiere, si ha la produzione più o meno persistente di bollicine (perlage) che tendono a salire verso la superficie del liquido.
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Per la produzione è autorizzato l’uso di cinque vitigni, di cui tre principali: Chardonnay (uva a bacca bianca, 26 % della superficie piantata), Pinot Noir (uva a bacca nera, 37 % della superficie piantata), Pinot Meunier (uva a bacca nera, caratterizzata da una maturazione leggermente più tardiva rispetto al “noir”, 37 % della superficie piantata), Il vino champagne viene prodotto secondo il metodo champenoise: questa definizione è utilizzabile solo per i vini spumanti prodotti nella regione della Champagne; in Italia tale procedura è denominata metodo classico.
Eduard von Grützner - Cantina dei monaci domenicani.
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Non c’è festa senza vino!
on è possibile nelle nostre tradizioni e nei costumi popolari, concepire una festa senza che ne faccia parte il vino. Molto probabilmente perché queste festosità di massa si ricollegavano, attraverso millenni, non solo a quelle dionisiache greche, ma più anticamente, a quelle commemorative fenicie ed egizie. Senza entrare specificatamente nell’esame delle antiche celebrazioni in onore di Bacco o Libero, il Carnevale stesso se ne riallacciava, tanto che il suo nome originario era Baccanalia. Non vi è dubbio quindi che esso discenda dai baccanali greci e romani. La maschera ricorda molto probabilmente la tintura del viso con feccia di vino rosso a ricordo delle antichissime feste e dei cortei commemorativi dei primi uomini vissuti sulla terra, in lotta con le belve per difendere l’attività agricola, il che risale ancora all’antico Egitto e ai Fenici. La feccia è il sedimento più o meno abbondante, depositato dai mosti e dai vini giovani nelle botti o nei vari recipienti usati per la vinificazione prima del loro travaso. Essa risulta formata principalmente da frammenti di parti solide dell’acino: buccia, succo, lieviti, batteri, sali minerali precipitati come il bitartrato di potassio. In Grecia, tra febbraio e marzo, nel mese di Anthesterion, che segnava il passaggio dall’inverno alla primavera, ad Atene si celebravano le Antesterie, una festa di tre giorni che aveva come protagonista Dioniso i cui caratteri trascoloravano dalla tristezza alla gioia.
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Nel primo giorno si aprivano i vasi di argilla nei quali veniva conservato il vino novello e si portavano al santuario di Dioniso alle Paludi dove si gustava il divino succo d’uva fermentato. L’ebbrezza e l’euforia delle bevute alludevano all’aldilà di prosperità e gioia che il Liberatore offriva a chi entrava in comunione con lui. Nel secondo giorno si formava una processione che raffigurava l’arrivo del dio; poiché si riteneva che Dioniso provenisse dal mare, il corteo comprendeva una barca trasportata su quattro ruote di carro, dove troneggiava il dio con un grappolo d’uva in mano e due satiri nudi che suonavano il flauto. Tra gli astanti vi erano diversi personaggi mascherati e un toro sacrificale preceduto da un suonatore di flauto e da portatori di ghirlande. In moltissime feste carnevalesche appariva, fra le mascherate nei cortei, il trionfo di Bacco, con il gaudente dio inghirlandato di pampini, raffigurato, generalmente, a cavalcioni di una botte e circondato da baccanti e satirelli. Va ricordato inoltre che a Bacco venne pure attribuita la scoperta di nuovi paesi come quello felicissimo di Cuccagna celebrato in versi da Quirico Rossi nel poema La cuccagna, paese dove scorrevano fiumi di burro, nascevano maccheroni al posto dell’erba, si adoperava lardo per concimar la vigna e dove “d’un ventolino al caldo fiato, tutto cotto ivi nasce e stagionato”. Nel Trionfo di Carnevale del paese di Cuccagna, stampa di Ferrante Bertelli attorno al 1569, si raffigurava il Carnevale che, dopo aver vinto il paese di Cuccagna, lo offriva a Bacco. Il mare di vin greco era asciugato
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dai tedeschi in un’ora e Panigada (il re di Cuccagna) era condannato ad essere affogato in una botte di Malvasia (Museo delle stampe a Milano). Dopo il periodo di feroce ascetismo dell’Alto Medio Evo, gli uomini furono di nuovo attratti, specialmente dopo il Mille, dalle gioie terrene e il godimento della vita, molte furono le feste in cui il vino entrava a fiotti. Fra queste, Corrado Corradino, nella conferenza Il vino nel costume dei popoli, ricordava quella dei Pazzi e degli Innocenti che era una parodia dell’ufficio divino e quella dell’asino dinanzi al quale, vestito dei sacri paramenti, si celebrava una messa per “ingenua empietà singolarissima”. Il lusso delle mense ecclesiastiche era tale che, verso il 1070, San Pier Damiani, celeberrimo fustigatore di costumi (e gran “bacchettone”), circa i preti del suo tempo affermava: “bramano di arricchire perché nei bicchieri cristallini biondeggino mille vini artefatti”. Nei banchetti dei signori il vino entrava a profusione. Né erano solo le mense ecclesiastiche a brillare per questi eccessi. In tutte le principali corti si svolgevano banchetti fantastici e così presso i più potenti signori… mentre il popolo soffriva la fame ed era quasi in schiavitù, dilagavano epidemie e pestilenze. Quasi una rimozione semiorgiastica della miseria attorno a loro. Alle nozze di Bonifacio, padre della contessa Matilde di Canossa, si tenne corte bandita per tre mesi consecutivi. Racconta il benedettino della chiesa di Sant’Apollonio, che vi accorrevano duchi e conti
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d’ogni parte, “con cavalli ferrati d’argento” e che “il vino si attingeva dai pozzi con secchi d’oro legati a catene d’oro”. L’ideale del tempo, attorno al 1490, era riassunto in due versi famosi di Lorenzo de’ Medici nel Trionfo di Bacco e Arianna: “chi vuol essere lieto, sia; di doman non v’è certezza”. Il canto che accompagnava la celebre mascherata, dal titolo appunto di “Trionfo di Bacco e Arianna”, illustrava scene ed episodi vivaci e grotteschi della vita di Bacco. Prima erano rappresentati Bacco ed Arianna “belli e l’un dell’altro ardenti”, poi i satiri, riscaldati dal vino, che tendevano agguati alle ninfe, felici di essere ingannate; infine il vecchio Sileno, “così vecchio ed ebbro e lieto, già di carne e d’anni pieno”. Questa del Trionfo di Bacco, fu anche una delle scene favorite della pittura e della poesia del Quattrocento. Anche il Poliziano, elegantissimo poeta che alla vecchia erudizione infuse tutta la grazia e la freschezza della gioventù descrisse la scena in due splendide ottave e ne L’Orfeo riprese il mito bacchico scrivendo il ditirambo più efficace della nostra poesia, proprio nel coro delle Baccanti. Ogni tanto, sporadicamente, le autorità tentavano di intervenire per moderare gli eccessi delle libagioni, almeno in pubblico. A Firenze, nel 1300, era proibita la vendita di vino in certi giorni di festa e il venerdì, prima della predica del Vangelo e il Venerdì Santo per tutto il giorno. Nella festa di San Martino, vescovo protettore dell’arte dei vinattieri, si poteva vendere vino solo quando fosse stata fatta l’offerta al Santo. Però il vino appariva frequentemente anche nelle
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sacre rappresentazioni che si usavano (ed ancora in parte lo furono) in molti luoghi. Fra quelle che specialmente fiorirono in Toscana per tutto il Quattrocento, si ricordava quella del figliol prodigo che invitava la compagnia di scrocconi che gli si era accodata presso un oste che aveva: “Trebbian, razzese, malvagia e greco, che oste al mondo miglior non gli tiene”. Qui è citato, oltre ai vini più noti, quel Razzese che pare fosse di origine ligure. Nella rappresentazione di Sant’Antonio, appare il Chianti che poi doveva assurgere a celebrità mondiale: “Io n’ho di Chianti e vin di San Losino, trebbian dolci, vernaccia e malvagia”. Numerose erano, presso le antiche celebrazioni, le fontane che versavano vino, evento che poi si ripeteva in occasione di feste di paese per sagre o feste dell’uva (a Marino, a Soave, ecc). Era questa una generosità consueta agli ambasciatori di Francia e Spagna, quando compivano il loro primo ingresso a Roma. A sera, mentre a palazzo si svolgeva il ricevimento ufficiale e nella piazza si dava il via ai fuochi artificiali, le fontane cominciavano a gorgogliare vino, fra i pigia pigia, i clamori e le grida del popolo. Anche qualche Papa concesse questa gioia, ma gli esempi sono piuttosto rari. Per l’incoronazione di Papa Innocenzo X, il 3 novembre 1644, i due vecchi leoni di basalto numidico, allora ai piedi della scala del Campidoglio (poi posti nei musei capitolini), gettarono dalla bocca tanto vino da inebriare il popolo. La stessa scena si ripeté con l’incoronazione di Clemente X, Altieri. Il diarista Fulvio Servanzio scrisse: “Sub clivo Capitolino duo leones in fontes erecti, ac-
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quarum vice pretiosum vinum emettebant ad populi commodum et saturitatem”. Del resto anche in tempi non troppo lontani, ad Avezzano, Sulmona, Bugnara, Raiani, Pratola, Peligna ecc, mentre nelle strade transitava la processione del Corpus Domini, in mezzo ad una piazza, o innanzi agli altari improvvisati lungo la strada, spuntavano fontane di vino. Il vino veniva versato in un imbuto che faceva capo a condotte di latta o di canne da un terzo o quarto piano di casa ed usciva a zampilli. Chi voleva bere poteva farlo a sazietà. Il superfluo veniva raccolto in un bacino. La stessa cosa avveniva a Raiano per la festa di San Giovanni. Sia a Carnevale che a Capodanno o in altre festività, il vino era motivo di questua amena di casa in casa, insieme ad altre ghiottonerie, pressappoco quello che oggi i ragazzi fanno per la festa di Halloween. A Capodanno, in Calabria, gruppetti di giovani andavano di casa in casa portando auguri in canto e in versacci tradizionali. Per esempio: “Quanto ne consuma Cutro e Catanzaro, tanto tu possa fare di olio e di vino”. Ma se le porte non si aprivano: “A chi ti dona un barile di mosto, ricambia con una soma di vino chiaro, ma a chi ti dà un piccolo disgusto, cerca di fargliene un migliaio”. Nella carnevalata dei “pulcinelli” in Palermo, varie maschere di Pulcinella giravano in città nelle ore pomeridiane con il colascione, il cembalo, le nacchere, ballando e cantando. Andavano dal pastaio, dal macellaio, dall’ostessa e si facevano regalare pasta, carne, vino ecc, eseguendo ballate e canti. Dall’ostessa
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imploravano un po’ di vino e ottenutolo, cantavano insieme: “Mia principessa, quanto sei dolce. Chi più di questo vino piace alla bocca. Mi ha portato nel petto una grande luce”. Fra le maschere, uno dei più celebri bevitori, è il famoso Gianduia di Torino; la maschera piemontese ha per vero nome “Giandoja”, che deriverebbe da Gioan d’la dòja. È sempre raffigurato con il boccale (doja) di vino in mano. La leggenda lo vorrebbe originario di Callianetto (Asti), uomo festevole e gran bevitore. Ma non è solo il Carnevale che offriva l’opportunità di attaccarsi più del solito al vino. In Pusteria ogni anno, il giorno di San Michele (29 settembre), si esumava un fantoccio di stoffa vestito alla tirolese; veniva prima depositato in Municipio, lo si legava ad un palo altissimo e gli si dava in mano una bottiglia di vino. Nel pomeriggio il palo era circondato da zappe e scuri e abbattuto al suolo Michele veniva portato in festa di osteria in osteria. Il fantoccio presiedeva ad ogni tavolo, passava dall’uno all’altro e chi toccava Michele doveva bere. Si beveva e si danzava attorno a Michele e alla fine della serata non era solo il pupazzo ad avere le gambe ciondolanti… Poi Michele ritornava nel ripostiglio del Municipio per l’anno successivo. Altre occasioni per esaltare, ricordare e celebrare il valore simbolico del vino e renderne grazie alla divinità erano i falò che si usano ancora oggi in taluni comuni italiani in occasione di feste fisse o festività locali, per esempio per l’addio all’inverno. I “Panevin” erano falò tipici della Marca trevigiana, alla sera, nella vigilia dell’Epifania. Venivano ammonticchiate cataste di legna attorno a
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un palo centrale, i ragazzi, avviandosi alla cerimonia, recavano su un bastone forcuto un manipolo di steli di mais che accesi, trasferivano il fuoco al Panevin. I contadini giravano in catena attorno al fuoco, cantando e osannando il pane e il vino e traendo auspici sull’andamento dell’annata agricola dalla direzione del fumo, dalla durata delle fiamme e dalla resistenza della brace sotto la cenere. A rogo terminato, i più svelti attraversavano il braciere sollevando un turbinio di faville, tra l’allegria generale. Nelle case coloniche il focolare attendeva la brace del falò perché la pinza (focaccia) dell’Epifania si doveva cuocere con il fuoco del Panevin. Sono sempre le invocazioni al pane e al vino, i due maggiori doni della Provvidenza all’umanità. Vale la pena di ricordare, prima di esaurire l’argomento del vino nelle feste, che in quella grandiosa svoltasi a Parigi il 12 luglio 1921, per il monumento al Genio latino, fu cantato il celebre poema della razza latina di Federico Mistral il cui refrain ricordava che il vino sempre era associato al Genio latino: “rélève toi, race latine sous la chape du soleil, le raisin noir bout dans la cuve le vin de Dieu va jallir”. E per risollevare nel popolo italiano tutta la poesia e la bellezza che c’era nella vite e nel vino, a ricordarne l’importanza economica, ad incitare un maggior consumo di quel magnifico e salutare frutto che è l’uva, se ne riprese in Italia la festa. Si iniziò su idea di Arturo Marescalchi con la sagra vendemmiale del settembre 1924 a Casale Monferrato, seguita subito dalla sagra dell’uva a Marino ai Castelli romani che fu elevata, per volere e disposizione
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di Benito Mussolini, a festa nazionale dell’uva a partire dal settembre 1930. Nei primi tre anni si svolse in data fissa in tutte le regioni italiane, mentre in quelli successivi, veniva stabilita dalle autorità locali (sempre però di domenica) in base allo stato di maturazione dell’uva e all’opportunità locale. Le organizzazioni degli agricoltori, dei commercianti, degli artigiani, i Dopolavoro, aiutati dalle istituzioni agrarie, gareggiavano nel predisporla e presentarla nel modo migliore. La parte principale era caratterizzata da cortei figurativi, simbolici, spesso preparati in maniera artistica, a cui prendevano parte carri rusticani, cittadini e contadini, giovani e ragazze di città in costumi sgargianti o tradizionali o simbolici, gruppi corali e musiche, sempre in un trionfo di tralci e con grande dovizia di grappoli d’uva che venivano poi distribuiti. Intanto venivano indette gare per le migliori rappresentazioni di botteghe ove si vendeva uva, concorsi e mostre fisse di qualità di uve; si istallavano banchi festosamente adorni di pampini per la vendita di uva a cestini o carretti per la vendita ambulante. Queste feste incontrarono sempre il favore popolare perché forse facevano parte del suo atavico humus. Da questi momenti di gioia nacquero canti, musiche e rappresentazioni in lode dell’uva e del suo prodotto, il vino. Gli artigiani fecero in modo di produrre ceste, cestini per la spedizione dell’uva e gli artisti trovarono nuova linfa per creare festose e liete composizioni a motivi viticoli e bacchici.
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Brindisi e burle
e la commissatio dei Romani era il simposio o la bevuta in compagnia, il brindisi fu riportato dal cristianesimo ad una forma più contenuta ed affettuosa. Sant’Ambrogio ricordava le offerte amichevoli che si scambiavano coloro che bevevano insieme e il Santo stesso riferiva una formula augurale d’invito a bere: “beviamo alla salute dell’Imperatore e sia riguardato come poco affezionato al suo principe, colui che non beve”. Ma non è sempre per mostrare affezione al principe che si beveva; era, ed è, un bisogno di festa e di espansione che accompagna da sempre l’uomo in compagnia ed esalta l’espansività. In Emilia-Romagna l’uomo che sapeva bere bene e con saggezza, senza ubriacarsi, diventava allegro e nel contempo lirico. Allora a Ravenna si declamavano i versi della Divina Commedia; a Lugo, Faenza, Forlì, Cesena e soprattutto a Reggio, Parma e Piacenza, si cantavano le più belle romanze e i cori più caratteristici del glorioso ottocento. Celeste Aida. “Eri tu che macchiavi quell’anima…”. “Va pensiero sull’ali dorate” e simili. Le liete adunate e le festosità aumentavano scherzi e burle. Addirittura una è illustrata in un quadro del Volterrano alla Galleria degli Uffizi: si tratta di una burla del Pievano Arlotto. Invitato con alcuni suoi amici a desinare e venuto a mancare il vino, si lasciò alla sorte per sapere chi dovesse scomodarsi per andare in cantina a riempire il boccale; i “compagnoni” si misero d’accordo per far cadere sul Pievano la scelta. Lui, compreso lo scherzo, andò senza nulla dire
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ad adempiere all’incarico ma al ritorno, posando il boccale, disse: “Facciamo ora al tocco per sapere chi dovrà correre a chiudere lo zipolo che io ho lasciato aperto”.
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La sbornia: allegria e disagio sociale
a sbornia di vino è più leggera di quella dovuta a birra o sidro: secondo il chimico Nicolò Lemery in un libro stampato a Napoli nel 1695 ciò deriverebbe dal fatto che “il sonno cagionato dagli eccessi del vino dura ordinariamente fino a tanto che gli spiriti animali habbiano rarificato questa pituità e si siano aperti il passaggio libero”. E a questo proposito sono fioccati anche i proverbi. Per esempio: “’Na bona sborniatura tutt’al più tre giorni dura” ed: “I liquori spiritosi fanno scherzi assai penosi”. “Il vino santo è buono e bello, ma fa presto girare il cervello”. “L’acqua rovina il ponte e il vino grava la fonte”. Oppure: “A trincar senza misura, molto tempo non dura. / Molto vino e poco freno, son dell’uomo un gran veleno” e “L’abuso di caffè, liquori e vino anche un sapiente renderà cretino” mentre, per celia, si sentenziava che: “L’urdimu (ultimo) goccitto è quillu che fa male”. Queste divertenti elencazioni non possono però farci trascurare una riflessione di carattere più strettamente sociale, legata soprattutto agli anni appena seguenti la Prima guerra mondiale,
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caratterizzati da una forte disoccupazione, in seguito ulteriormente accentuata nell’epoca in cui si cominciavano ad avvertire le prime avvisaglie della grande depressione economica causata in tutti i paesi occidentali dal crollo della Borsa valori americana di Wall Street nel ’29. Questo crollo ebbe gravissime ripercussioni anche in Italia, provocando una svalutazione media dei titoli azionari del 39%, invano “tamponata” dalle velleitarie misure economiche adottate dal “regime”. Un accadimento che anche recentemente, con il crollo di alcune banche americane, è stato adottato come spettro per definire una situazione economica assai compromessa. In Italia ne pagarono il catastrofico costo i piccoli e medi risparmiatori i quali videro sfumare i loro sudati risparmi con il fallimento di numerose banche cittadine nel ’32; furono colpiti in varia misura i settori portanti della nostra economia industriale: meccanico, tessile e chimico e, in misura inferiore l’agricoltura. Le borgate più popolari, nate e cresciute nella miseria, furono costrette ad arrangiarsi ulteriormente e la maggior parte della gente, nei momenti di ozio forzato, trascorreva il tempo all’osteria, un po’ per scaldarsi, un po’ per annegare le preoccupazioni nel bere, quando c’era a disposizione qualche centesimo. Il vino divenne in quei casi, come fu definito, la “droga dei poveri”. Costava poco, era sincero e la sua gradazione, se tracannato a litri, integrava il misero sostentamento calorico che lo scarso cibo apportava. In quelle occasioni valevano questi proverbi: “Riso
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in bocca e fiasco in mano” e: “Anche il vino che ha la muffa, s’impara a bere”. Il fuoco dell’alcol bruciava le viscere e la mente, ma faceva sentire aerei, leggeri, permetteva di obnubilare la squallida realtà. Charles Baudelaire in una delle sue composizioni dedicate al vino, scrisse che: “Per spegnere la rabbia, per cullare il torpore di tanti vecchi che muoiono in silenzio, dannati, il Signore pentito aveva fatto il sonno; l’Uomo vi aggiunse il Vino, sacro figlio del Sole”. Giosuè Carducci che apprezzava oltremodo il vino, gli dedicò questi versi a sottolineare la sua funzione di conforto: “Evoe, Lieo: tu gli animi apri, e la speme accendi. Evoe, Lieo: ne’ calici fuma, gorgoglia e splendi. Tenti le noie assidue co’ vin d’ogni terreno e l’irrompente nausea freni con l’acre Reno. Chi ne le cene pallide cambia le genti e merca e da i traditi popoli oro ed infamia cerca: a noi conforti l’anime pur contro a’ fati pronte, il vin dè colli italici ove regnò Tarconte.” Insomma un viatico a tutti gli effetti, e perciò, se vuoi “parar via la malinconia, bevi vin qualunque sia”, così come: “della vita presto s’amareggia, chi il vino solo sorseggia”, cioè beve moderatamente. In questo modo, “contra i pinsir un gran rimedi l’e’ e’ bichir” (contro i pensieri molesti, un gran rimedio è il bicchiere) e: “Vino non è buono che non rallegra l’uomo”. In conclusione “il vino è il dolce raggio che dà forza e coraggio” e per spronare al “bacchico combattimento”, si puntava anche sull’onore, tanto che, si affermava per paradosso, che “il vino è nemico dell’uomo” e pertanto “chi fugge davanti al nemico, è un vigliacco”. “Panta rei, tutto scorre, l’attimo fugge, ogni secondo è
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prezioso, tanto che “la vita è troppo breve per bere del vino cattivo” e, a livello nutrizionale, si sottolineava che “un pasto senza vino, è come un giardino senza fior”. Ma a ben riflettere occorre un po’ di misura: intanto attenzione alla qualità, perché “chi beve vino poco sincero, torna a casa d’umore nero”, e per capire chi ti stava vicino, si avvertiva che: “L’uomo si riconosce in tre maniere: in collera, alla borsa ed al bicchiere” oppure: “Vino e sdegno fan palese ogni disegno”. Così, se si eccedeva, attenzione a chi vi stava vicino (ricordate Renzo Tramaglino a Milano?) perché “quando il vino rende lieti, se ne fuggono i segreti”. Oppure: “quando tutti vedono brillo, non volerti mostrar troppo arzillo”. Quindi nel mezzo, la virtù: “Come dal troppo vin vien l’ubriachezza, dall’eccesso di gioia vien la tristezza” e: “Ciò che il sobrio tiene in cuore, è stilla bocca del bevitore”. Intanto se uno cercasse la quiete o la possibilità di meditare, non dovrebbe certo andare in una osteria perché: “Dove regna il vino, non regna il silenzio” ed inoltre perché, spesso, “dopo bere, ognuno vuole dire il suo parere”.
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Le osterie
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Un palcoscenico di vita quotidiana
ino a pochi decenni fa tutto ciò che aveva nomea di popolare era assai trascurato, tutt’al più oggetto di articoli di “colore”, tranche de vie da osservare da parte dei rari cronisti interessati a questo particolare “palcoscenico”, con il tipico e distaccato occhio dell’intellettuale che, dall’alto della sua saccenteria, contemplava il tutto con sguardo di non velata superiorità. Eppure anche queste realtà apparentemente “meschine”, possono fornire utili indicazioni sui costumi legati al vino e diventano quasi un riconoscimento a una società reietta che ha saputo esprimere valori e modi di vita che formano ancor oggi l’ossatura stessa del nostro vivere quotidiano e che i sacrifici, le privazioni, la decorosa povertà, come pure le grandi e corali manifestazioni di giubilo, erano il frutto di una serena e disincantata accettazione della realtà quale essa fosse, virtù che travalicano il succedersi delle epoche e delle istituzioni. Di questa vita, la locanda, la trattoria, ma soprattutto l’osteria, erano il fulcro, il palcoscenico fondamentale su cui si snodavano gli atti, le parole, i comportamenti, l’ideologia dei nostri progenitori. Il numero spesso esorbitante rispetto alla popolazione, la forte concentrazione in zone ristrette, ne sancirono il ruolo e l’importanza umana e sociale. Per questo risulta interessante una disamina del tipico ambiente di Bacco: i cibi, l’arredamento (se così si può bonariamente definire quanto di più spartano esistesse), i riti dei bevitori, il lessico, le discussioni, i tipi
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ecc. Le osterie dunque, specialmente in certi periodi, furono lo specchio della miseria, accettata però sempre con storica sopportazione: al “gamellino” di minestra e fagioli distribuito dagli enti di assistenza (o agli avanzi del rancio fuori dalle caserme) per alleviare le sofferenze di tanti indigenti, si aggiungeva il “bacchico liquore” come viatico (spesso dispensato a credito e non sempre riscosso dagli osti) per continuare, nonostante tutto, il tortuoso cammino della vita. Al di là comunque di questi umani eventi, l’osteria rimase sempre soprattutto luogo di allegrezza e di divertimento, il punto dove ritrovarsi con sicurezza. Di brindisi in brindisi, di litro in litro, ecco poi le conseguenze, come sempre affidate a proverbi calzanti e terminologie di sicura osservazione: “Da savio le pensi e da ubriaco le dici” o: “Non è mai troppo saggio il parere, preso al fondo di più di un bicchiere”. “Con troppo vino e sdegno non cogli più nel segno”, “Vino e sdegno fan palese ogni disegno”, mentre: “Discorso d’ubriaco non si sente, e seppur s’ode non rimane a mente”. E ancora: “Visto più volte il fondo d’un bicchiere, anche chi non sa nulla, dà un parere” e, lapidario: “Ome (uomo) de vinu non vale un quatrinu”. Quindi per evitare effetti deleteri “mangia da sano e bevi da malato”.
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Entriamo all’osteria
I
l numero esorbitante di questi locali rispetto agli abitanti è esplicativo di due situazioni: erano frequentatissimi, i prezzi erano praticamente alla portata di tutte le borse; ogni aspetto, dalle necessità degli avventori fino all’arredo, era essenziale, spartano. Questi locali di solito, almeno nelle città, si aprivano in strade modeste e violetti nascosti, ma non mancavano neppure nel centro, spesso a fianco di alberghi e locande, soprattutto nelle vie dove più intenso era il traffico e dove maggiormente palpitava la vita cittadina. In tutte erano presenti “accessori” esterni ed interni: l’insegna era di solito dipinta sull’entrata, con talvolta nel mezzo la sagoma, in ferro battuto, di un animale che dava il nome alla locanda stessa: Cervo, Giraffa, Cavalletto ecc. Oppure l’osteria prendeva il nome dal titolare della licenza o da un nomignolo o un epiteto affibbiato a qualche suo familiare. L’ingresso era di solito ampio e luminoso, ma vi si accedeva anche da entrate minuscole o pertugi, a volte addirittura da dentro il vano di un ampio portone: chi vi si introduceva, era sicuramente un frequentatore assiduo! L’ubicazione interna era proporzionale all’avviamento: le più modeste esaurivano la disponibilità dei locali in una sola stanza, mentre le altre possedevano più vani intercomunicanti. La cucina era il Sancta Sanctorum degli esercizi maggiori, quelli che servivano anche i pasti e nella quale solo i componenti della famiglia avevano libero ac-
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cesso, assieme a qualche cliente privilegiato considerato uno di casa. Qualche osteria dava anche alloggio, qualcun’altra aveva disponibile al primo piano un vano che, all’occorrenza, diventava una discreta alcova. Molte osterie delle città avevano a disposizione anche un cortile con i tavoli e le sedie per l’estate, corredate da uno o più giochi per le bocce, passatempo molto in voga ovunque, dai primi del ’900. L’ampia e fresca cantina con le volte a mattoni ed il pavimento in terra battuta, con allineate vecchie e ampie botti e file interminabili di bottiglie (il regno dell’oste), completavano la struttura del locale.
L’
Arredi spartani
arredamento era dunque quanto di più semplice si possa supporre: un bancone per lavare i bicchieri e per contenere le bottiglie e le rare gassose mai consumate, sovrastato da una scaffalatura su cui stavano allineati gli “scodellini” di bianca maiolica per il vino rosso e i bicchieri per il bianco. “Litroni” (due litri), litri, mezzi, quartini con il bollo a piombo del regio dazio completavano gli “strumenti” dell’oste. Il mobilio era di quello rustico, tavoli di legno forte tinteggiati e ritinteggiati immancabilmente di marrone scuro, tappeti verdi con macchie di ogni colore ed età, su cui si giocava alle carte, sedie per lo più impagliate. Appese alle pareti, oltre alla licenza, una serie di pessime oleografie, quasi sempre ispirate al repertorio operistico (ogni osteria era un “covo” di
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cantori) di Giuseppe Verdi; non mancavano ritratti di Garibaldi e di Mazzini in quelle dove il gerente aveva fama di sovversivo o perlomeno di laico. Quelle con maggior pretesa di eleganza esibivano un enorme specchio su cui era stampigliata la pubblicitĂ di una ditta di liquori e chinati.
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Il lessico di Bacco
a particolare considerazione in cui era tenuto il vino ben bevuto, ha avuto riflessi persino nel linguaggio. Il milanese, se aveva il consueto verbo “bev” per bere, ne aveva anche uno inconfondibile per affermare che, bere vino sul serio è “cannà”, che significa bere alla canna con felicità quasi ingorda. Dal verbo viene il sostantivo “cannada”, per bevuta solenne, che quasi fa epoca! Orgogliosamente uno del popolo poteva asserire: “G’ho piccà una cannada! Tracannat è l’ost e baccanitt l’osteria”, l’osteria è vista come luogo ove può farsi baccano, forse perché vi impera Bacco. Da “ciocca”, verbo onomatopeico che ricorda l’allegro suono del bicchiere toccato nel brindisi, viene “cioccòn”, amante del “ciocc” (l’ubriaco). Tutto questo aveva particolare ragione e sapore quando a Milano c’era, come diceva il Porta: “El vin nostran de trincaa, col coeur largh e a memoria”. Un lessico dunque quasi criptico, ben compreso solo dai frequentatori, ma molto efficace e che potrebbe rappresentare la felicità di un filologo. I bevitori, ad esempio, facendosi prestare una parola di devozione religiosa, dicevano, accedendo all’osteria, che andavano a prendere la “pardunansa”, ovvero il perdono, perché l’osteria, in gergo, era denominata anche “chiesa”. Poiché il vino era a buon mercato e le gole più che capaci, come sempre, alla richiesta dell’oste per il consumo, alcuni smargiassi, per celia, quasi che fossero provvisti di copiosa moneta, dicevano: “Portane una baga” (un otre), una “brenta” (75,7 litri),
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una “brintina” (50 litri). Più seriamente e più…moderati, gli avventori chiedevano anche un “boccale”, ovvero un vaso panciuto, dalla bocca larga, con manico, piede e labbro rovesciato, una “pinta”(due boccali), un “bottiglione”, o un “pistone” (circa due litri), un “litrone”, ovvero un litro, ma enfatizzato dall’accrescitivo. Le parole riferite erano usate quando la compagnia era di quattro o più persone. Se di meno, l’individuo o i due, ordinavano un “mezzo”, ma se uno era solo e a corto di quattrini, chiedeva “un quarto”, difficilmente “un quinto”, perché questo faceva capire, senza ombra di dubbio, che il poveraccio stava male a danari o perlomeno era tirchio, più che parsimonioso; in realtà la misura era atta più a stimolare la voglia di bere, che in qualche modo a calmarla e molto meno a soddisfarla. Era noto anche il termine “bottiglia” (da imbottigliare) che si usava specialmente nei giorni di festa o per distinguerlo dagli altri. Tutti, quasi sempre, nella richiesta aggiungevano che il vino fosse “d’la ciavòta” (come se il vino buono fosse messo o stesse sotto chiave) o che fosse “galantuomo”, parafrasando il celebre detto di Lorenzo Tramaglino ne I Promessi Sposi. Altri termini sono: “un fiasco”, una “scalfòta” (da excale facere, ossia riscaldare), una “caraffa” (dall’arabo Kera), un “calice” (termine preso a prestito da quello d’oro e d’argento usato dai sacerdoti nella messa), un “bicchiere” (da bacar, tazza). Anche i modi di dire, come i proverbi, erano efficacissimi nel rendere l’eccesso di vino. Per esempio, per chi aveva bevuto in modo ancora accettabile, si diceva a “mezza lama”, oppure “che è brillo, chiarito”, volendo alludere, con
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questo ultimo detto, che gli occhi si facevano più lucidi, chiari, luminosi, oppure che è “in cimbali” (parola presa a prestito da un salmo ebraico: in cimbalis bene sonantibus), e cioè se canta, è più allegro del solito. Anche per l’ubriacatura completa, non mancavano i giusti e lapidari riferimenti: “sbornia” (dal latino volgare “ebrionia”), “sbronza” (da un’arcaica voce italiana, cioè bronza, ossia calore intenso); poi si utilizzava “scimmia” perché gli atteggiamenti erano ridicoli, bertucceschi. Ed ancora “gaina”(dal provenzale “gai”, per gaiezza smodata), “scuffia” (latino volgare “cofea”), quasi che una reale cuffia celasse la personalità dell’ubriaco. Va ricordato poi “ciucca” (da cioncare, dal tedesco “Schenke”, osteria o succhiare), quindi “cotta” (dal latino “coctus”, cuocere) ed infine (ci si perdoni il termine) “cagona”, per gli effetti a volte lassativi conseguenti ad un eccesso di vino.
Bacco - Casa del Centenario - Pompei.
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Come una seconda abitazione
itorniamo con il pensiero a circa un secolo fa, in una qualunque via all’interno delle mura cittadine, nelle città dei nostri bisnonni, città e paesi poveri, dove però emergeva con forza il profondo senso di solidarietà sociale che univa gli abitanti delle singole borgate, in una povertà quasi stoica, ma sempre dignitosa, sovente sopportando la fame perennemente in agguato. Ci si doveva arrangiare in ogni modo: i padri al lavoro, le donne in casa, non solo per accudire ai lavori domestici, ma per arrotondare le entrate con piccoli lavori artigianali e i bambini in giro per le strade (lo immaginate adesso…?), nei campi, sul fiume (le loro fucine di vita), tutti presi nell’abbagliante incanto della giovinezza che faceva apparire bella ed avventurosa anche un’esistenza di stenti. I vestiti erano quelli raccattati, i pantaloni già indossati da due o tre fratelli maggiori e rammendati con certosina pazienza dalle madri. Le scarpe si serbavano per le feste. Già dalla mattina presto le strade risuonavano delle ruote dei carri che trasportavano merci, di grida di venditori ambulanti, dei chiacchierii delle comari che “tagliavano i panni addosso” a qualche marito rientrato sbronzo la sera precedente, a qualche coppia di cui avevano udito le urla di un litigio provenire dalle finestre non tempestivamente richiuse, a qualche ragazza che era stata vista amoreggiare con un soldatino dietro l’angolo.
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Dal crepuscolo, nelle profumate serate estive, le donne stavano sedute fuori dalla porta a conversare o a giocare alla tombola, i bambini immancabilmente per la strada erano occupati a rincorrersi e gli uomini puntualmente all’osteria. Questa gente di fiera, proba moralità umana e sociale, di proverbiale possanza fisica, di profonda bontà d’animo, rude, dai tratti magari aspri, plebei, un po’ selvatici, aveva eletto come domicilio l’osteria.
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Vita dura per gente dura
ispetto a questi uomini del passato, noi siamo troppo diversi. Siamo generazioni cresciute nell’ottica del successo a tutti i costi, chiusi nel nostro gretto egoismo e unico metro di misura e giudizio l’esteriorità. I nostri bar, le nostre degustazioni, sono lo specchio di questo tipo di vita: un rapido saluto, una consumazione inghiottita velocemente, chiacchiere futili, attenti sempre a misurare le parole. Forse in provincia questo si avverte meno, ma è un processo inarrestabile. Solo ultimamente si è rivalutato il gusto di certi locali, di quattro chiacchiere tranquille, di un ambiente a misura d’uomo dove trascorrere un po’ di tempo dopo il lavoro. Forse è perché ci siamo accorti che abbiamo bisogno anche degli altri, abbiamo intuito che i valori a lungo perseguiti sono effimeri, vacui, vuoti e che nella vita conta anche l’amicizia, il rispetto, la dignità di se stessi, l’onestà verso gli altri. Gli uomini delle borgate, la gente del nostro passa-
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to, erano tutto ciò. Certo non bisogna mitizzarli eccessivamente: erano persone rudi, sboccate, pronte ad infiammarsi e ad eccitarsi per un nonnulla, con il mito della forza fisica come primo metro di giudizio, ma altrettanto rapido era il riappacificarsi, il sopire gli asti e perdonare bevendo insieme, senza sospetto, un bicchiere subito dopo una lite. Così come era sempre sollecito accorrere ed arrecare collaborazione, se qualcuno ne aveva bisogno. Era una sorta di diffuso filantropismo sociale che cementava l’unione degli abitanti della stessa contrada, mentre magari tra i vari rioni era rivalità forte, quasi sfida e guerra, antico retaggio di nobiltà inurbata che dalle svettanti torri lanciava sfide agli altri nobili e alle corporazioni cittadine. Per questo le osterie, luogo di incontro collettivo, quasi seconda abitazione per quei tempi, erano lo specchio, la cartina di tornasole delle caratteristiche etnico-sociali e comportamentali delle borgate cittadine.
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Vino buono, genuino e a buon mercato
rano rare le osterie nella quali il vino non fosse buono. Era tanta l’attenzione che gli avventori ponevano alla qualità del prodotto, che la nomea di quelle poche dove il vino era cattivo, correva veloce e vi entravano solo gli avventori più squattrinati, quelli proprio “all’ultima spiaggia”. Dunque buon vino ovunque e pigiato direttamente. In ottobre un viavai sterminato di carri recava uve bianche (poche) e soprattutto rosse dalle colline limitrofe (ovviamente in base all’ubicazione geografica delle città e dei paesi) alle porte degli esercizi, e lì, in ampie e capaci bigonce, venivano pestate con i piedi dall’oste e da occasionali aiutanti. Il proprietario teneva così a dimostrare direttamente la qualità e la genuinità del prodotto e dal numero delle “grandi navi” in arrivo, si poteva calcolare approssimativamente la quantità di vino a disposizione dei clienti. In quel periodo l’aria di quasi tutte le città e dei borghi si riempiva del gradevolissimo odore del mosto che ribolliva nei tini posti nelle cantine e quando avveniva la svinatura, tutti i clienti volevano essere informati se si trattasse di una buona annata. Ci si trovava allora tutti insieme alla sera, nelle umide e nebbiose serate padane, a mangiar castagne cotte sul camino in cui bruciavano le racchie residue della
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pigiatura con qualche buon pezzo di tronco, e si scacciava il freddo accumulato nelle ossa degustando il vino nuovo di cui l’oste distribuiva assaggi per ottenere il giudizio di coloro che poi l’avrebbero consumato a pagamento. Dunque “trincare” bene e genuino era un dato di fatto inconfutabile; esisteva a questo proposito tutto un rituale, una gestualità e un gergo a cui non si sottraeva nessun cliente. Il rosso andava necessariamente bevuto nello scodellino di bianca maiolica che faceva godere, a chi lo gustava, il gioco dei cerchi concentrici della sua tinta quando si scuoteva il tondo recipiente. E dal numero dei cerchi si ricavava l’alcolicità del vino. Era un metodo empirico, ma inconsapevolmente basato su un preciso supporto scientifico: la concentrazione più o meno numerosa delle “colonne” deriva infatti dalla presenza della glicerina. Si tratta di un alcol trivalente, principale componente dell’estratto che influenza le caratteristiche organolettiche del vino conferendogli una certa morbidezza; più elevata è la gradazione, più numerose sono le colonne che si formano. Il vino bianco andava sorseggiato (ma era consumato poco e solo in estate) nel bicchiere di vetro per ammirarne la trasparenza e sentirne il profumo. Ma i bianchi erano sempre piuttosto “carichi di colore”. Erano in effetti molto torbidi per la presenza di numerose sostanze in sospensione perché le tecniche di vinificazione si limitavano a filtrazioni molto approssimative e grossolane.
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Colazioni frugali e pasti a tutte le ore
ià dal primo mattino non mancavano mai gli avventori che venivano a consumare il primo pasto, la colazione. Si sedevano a un tavolo, ordinavano un quartino e imbandivano il loro angolo con un pezzo di pane (ne più ne meno, l’antica colazione medievale dei poveri, ma al posto del pane c’erano gallette e scarsi avanzi della cena), mentre per companatico (altro che Mulino Bianco!) scartavano un po’ di gorgonzola, salumi di poco prezzo (ciccioli, mortadella o pancetta) o una fetta di merluzzo fritto, miracolosamente scampato alla famelica cena della sera.Questi erano pauperistici spuntini consumati per lo più in misere taverne. Diverso è il discorso per la maggior parte delle osterie ubicate nelle vie principali o situate in luoghi che fin dall’alba erano caratterizzate da pieno fermento lavorativo: mercati della frutta, Consorzi, stazioni ferroviarie, vie limitrofe ai fiumi dove si caricava sabbia e ghiaia sulle barre (carri). Dalle cucine si sfornavano piatti ben differenti per gli affamati avventori: uova sode con insalata, polenta con ciccioli, cotechini fumanti, salsiccia in padella o carne in umido. Nel piacentino e in altre rare zone d’Italia, era molto apprezzata la trita di cavallo in umido, servita nel suo sugo rosso al pomodoro, con gli appetitosi pezzetti di peperone che aggiungevano alla carne dolciastra dell’equino quel tocco di profumo e un sapore particolare. Alla fine stracchini più o meno
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piccanti, robiole compatte e dal sapore deciso. Su tutto vino in abbondanza, sempre rosso, perché il bianco, assicuravano i bevitori, andava tutt’al più bene per le donne. Naturalmente colazioni così pantagrueliche e poderose si potevano spiegare solo con il tipo di vita e di attività che questi uomini conducevano: d’inverno, all’alba, coperti solo da un ampio tabarro e dal cappello, cominciavano a scaricare sacchi e sacchi di merci o avevano già compiuto chilometri con i loro carri dopo averli precedentemente riempiti di merci. Era dunque un’esistenza che richiedeva un apporto calorico di gran lunga superiore a quello necessario alle nostre generazioni, abituate a spostarsi in automobile, a vivere in ambienti riscaldati e a compiere lavori assolutamente sedentari.
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Il mercato e l’osteria
l massimo affollamento si registrava nei giorni di mercato: tutto il mondo agricolo e commerciale in materia di bestiame bovino ed equino, cerealicolo, vitivinicolo o altro, in pratica tutto il contado, si riversava in città già dal primo mattino e allora osterie, locande, alberghi (in base al censo e al volume degli affari) attorno alla piazza o situati nelle vie di maggior transito, lavoravano a pieno ritmo. I clienti appartenevano a varie classi sociali, dagli allevatori ai coltivatori, dai negozianti ai mediatori, tutta gente che aveva bisogno di “bagnarsi il becco” per i lunghi e concitati colloqui nelle impegnative contrattazioni e nelle varie attivi-
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tà intermediarie, senza trascurare poi certi affari che proprio a un tavolo venivano conclusi, non prima che i contraenti, senza tante “carte bollate”, si fossero levati in piedi per darsi reciprocamente una pacca sulle spalle, quindi una stretta di mano e la mescita di un calice di vino a suggellare l’accordo raggiunto. Molti si intrattenevano per la colazione, che poi significava consumare un pasto completo; si esordiva con brodo di “terza”, vale a dire con il bollito fatto con vecchie galline, manzo e salame fresco di suino in cui sbocconcellare pane secco. “Aperto” lo stomaco, si proseguiva con i tradizionali piatti locali e alla fine, ripreso il cavallo che sostava negli stallazzi, si riprendeva la strada di casa, spesso un po’ brilli, a causa, sostenevano, dell’ultimo scodellino di rosso in più, bevuto per festeggiare l’affare concluso o per consolarsi di una mancata vendita. Tanto poi era il quadrupede ad imprimere il ritmo di marcia e, anche con una guida disattenta, proseguiva lui stesso verso le note strade che conducevano a casa. Nelle osterie quindi, nei giorni di mercato, pulsava il cuore commerciale della città, con ritmi e riti che rimasero inalterati per quasi un secolo. Ne si può esaurire qui il prelibato elenco mangereccio. Non bisogna dimenticare che gran parte della pianura padana stava al Po come Roma al Papa e che diverse borgate entro le mura vissero all’unisono con il grande fiume. Numerosissime quindi le osterie e le trattorie ubicate lungo i corsi d’acqua: in questi locali abbondavano i piatti di pesce: croccanti fritture di piccoli pesci, carpe e tinche arrosto, lucci e prelibate e delicatissime anguille con spinaci o piselli. E poiché attorno ai fiumi abbondavano stagni e canali, non mancavano fritture
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di gamberi e le tradizionali rane. Allora i corsi d’acqua erano abbondanti e puliti, i pesci di una sovrabbondanza inconcepibile ai giorni nostri: i pescatori dopo aver venduto parte della loro pesca al mercato, recavano il rimanente (meno pregiato, ma non per questo meno sapido) ad amici e conoscenti, accontentandosi di ottenere il vino pagato. Una buona pesca era già di per sé motivo d’allegria; figuriamoci quale simpatica baraonda attorno ai tavoli del locale prescelto: c’era vino a fiumi e pesce per tutti e gratis. Tempi lontani, periodi diversi, abitudini alimentari differenti: nomi che si perdono nella notte dei tempi o denominazioni di cui si è perduto del tutto il ricordo, eppure quanta gente le ha frequentate, di quanti avvenimenti sono state testimoni. La patina del tempo ha completamente offuscato i loro nomi, anche se sono state per anni il punto d’incontro di intere generazioni.
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I giochi e i divertimenti
elle ricorrenze festive l’osteria si affollava in modo incredibile di avventori, anzi si cominciava dal sabato, verso sera; poi, smaltita la prima “sbornia” (con varie gradazioni), si tornava a casa, per riprendere la strada dell’osteria di primo mattino ed uscirne di nuovo a notte fonda, ritemprati nello spirito e nel corpo, pronti a riprendere il lavoro il lunedì. Una specie di bonario “sballo”, con la fondamentale differenza, rispetto ad oggi, che le uniche sostanze “dopanti” erano vino e sigari “toscani”, i tragitti erano compiuti rigorosamente a piedi, con il calesse per chi proveniva da più lontano o, in tempi più vicini a noi, con le biciclette. Le donne si rassegnavano perché tutti i mariti si comportavano così; anzi se capitava che qualche moglie un po’ insofferente (e, ad onor del vero, anche sprovveduta), inviasse un figlio a recuperare il marito per il desinare, dopo qualche ora, lo vedeva ritornare senza il consorte e pure un po’ brillo, perché il padre o i suoi compari gli avevano offerto un poco di vino! Se la stagione non consentiva di stare all’aperto nei cortili, le stanze del locale diventavano stracolme, anche se l’elevato numero di esercizi in attività, consentiva un’equa distribuzione degli avventori. I guai cominciavano quando intere compagnie si trasferivano, tutte in “cimbali”, da una parte all’altra delle strade del rione o della borgata in “gita sociale”. Quando faceva freddo si ordinava da bere e si giocava a briscola e tresette o a scopa su quasi tutti i tavoli.
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Se la partita era interessante per la concomitante abilità dei protagonisti, una cerchia di spettatori faceva corona attorno ai giocatori, fin quasi ad assediarli; non sfuggiva loro nemmeno una giocata, facilitati dal fatto che potevano seguire la contesa guardando dal retro le carte di due o più contendenti. Durante il gioco gli spettatori mantenevano un rigoroso silenzio, ma appena terminata “la mano”, tutti intervenivano a lodare o criticare le giocate effettuate in precedenza, con una baraonda tale dove, alla fine, nessuno si raccapezzava più. Ad alzare ancora di più il frastuono in certi locali provvedevano ulteriormente gli appassionati della “morra”, un gioco d’azzardo che scomparve attorno agli anni Cinquanta, sia perché proibito dalle autorità, sia perché era foriero di liti furibonde tra i contendenti. Con il ritorno della bella stagione le osterie si trasformavano, almeno quelle che potevano disporre di ampie aree all’aperto. A parte le gite fuori porta (ma sempre, alla fine, in una osteria), ci si sistemava nei cortili, all’ombra sotto agli ampi pergolati, a sorseggiare del buon vino e a giocare alle carte. Ma erano le bocce a farla da padrone: con le camicie linde di bucato, le maniche rimboccate, gli occhi assorti per la grande concentrazione, gli scodellini ben vicini per le pause, i contendenti si sfidavano a colpi di bocciate, contornati da un pubblico numeroso e attento che sottolineava, con mormorii di ammirazione, i lanci o i “segni” meglio riusciti.
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Covi di sovversivi
uttavia all’osteria il tempo non sempre trascorreva in amene facezie; ci fu un periodo in cui anch’esse ebbero una funzione di amalgama sotto il profilo sociale, unendo, nel nome di comuni interessi, la classe di chi lavorava sodo, quel proletariato che aveva a disposizione la sola ricchezza delle braccia. Fu quello il primo luogo di raduno, in un’atmosfera dapprima quasi carbonara, per divenire sempre più libera, nel nome di una democrazia che si affacciava con prepotenza all’orizzonte nazionale. Per questo, durante il “ventennio”, molti esercizi, soprattutto le cooperative di consumo, furono devastate dagli assalti delle squadre fasciste che ritenevano questi locali, covi di sovversivi. Solo qualche “socialista in camicia nera”, ovvero quei fascisti della “prima ora”, dei fasci di combattimento per intenderci, che rappresentarono nel fascismo quella componente populistica che non abbandonò mai neppure Mussolini, considerarono sempre l’osteria importante luogo di incontro con il popolo per meglio comprenderne le esigenze e le necessità. L’osteria quindi non era frequentata solo per mangiare, bere e divertirsi, ma anche per discutere di politica, tra un litro e l’altro, avendo come argomento i problemi del momento che andavano risolti nel rispetto della libertà di tutti. Spesso per molti la presa di consapevolezza nacque in questi locali, nei lunghi e freddi mesi invernali quando, con la disoccupazione stagionale che durava più a
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lungo del solito, si sostava per ore a discutere, senza quasi accorgersi del tempo che trascorreva. Nell’intervallo tra un bicchiere e l’altro, nella foga della discussione, a volte ci si accapigliava, a parole, s’intende; alla fine i due contendenti pagavano da bere a tutti, rappacificati all’insegna del partito di Bacco!
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Osterie storiche
Non solo vino
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osteria in passato non era, o non sempre è stata, il locale ove si vendeva solo vino, ma quasi sempre era locanda o addirittura albergo. Così all’osteria di Grottarossa, fuori Porta del Popolo a Roma, sulla via Flaminia, che addirittura esisteva ai tempi di Cicerone, vi albergò Marco Antonio e nei suoi pressi si accampò Vespasiano mosso contro Vitellio. Questa osteria fu testimone delle imprese dei Fabi, della battaglia tra Costantino e Massenzio, del concordato tra Pasquale II ed Enrico V e finalmente della ritirata di Garibaldi nel 1849. Altra osteria antichissima fu quella della Storta, sulla via Cassia, a nove miglia da Roma. Nel IV secolo era già osteria postale e il prefetto del Pretorio Valerio Antidio vi fece costruire uno stabulum per la posta. Quivi si fermò Sant’Ignazio di Lojola e vi avrebbe avuto la visione in cui Cristo gli promise assistenza. In Calabria, sulla riva di un lago presso Santa Eufemia, vi era l’osteria di Cicerone. Ricordava il grande oratore che, perseguitato da Clodio, riparò dove a quei tempi v’era la splendida villa di Ipponio ed il podere di Sicca. L’osteria prese il nome dal soggiorno del celeberrimo filosofo, avvocato, scrittore e uomo politico dell’ultimo periodo della Repubblica romana. A Milano, più antica ancora dell’Osteria dei Tre Re (fondata nel 1300 da un tedesco, Bernardo da Norimberga), vi era l’Ospizio della Balla in contrada San Giorgio a Porta Ticinese.
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Un’ordinanza di Giovanni Luchino Visconti imponeva che tutti i mercanti venuti da fuori vi dovessero soggiornare con le loro mercanzie. Nel “Registro dei dazi e degli uffici del comune di Piacenza del 1380 si attestava la presenza di ben otto alberghi, senza calcolare le osterie. Nell’epoca delle Signorie, le esigenze della pubblica finanza si dilatavano a vista d’occhio per soddisfare i “bisogni” sempre crescenti della corte e delle costosissime guerre. L’imposizione indiretta (dazi e gabelle) era nettamente preferita rispetto a quella diretta che colpiva redditi e patrimoni. Così era soprattutto la povera gente a pagare le tasse perché esse gravavano su tutti i consumi, anche quelli più indispensabili come i generi alimentari: pane, vino, pesce, carne, sale ecc.
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Leggi e decreti
ell’ambito del dazio del vino venduto al minuto ci si preoccupava anche di stabilire che gli albergatori potessero tenere nelle loro cantine “solo il quantitativo di vino per soddisfare i consumi domestici e dar da bere agli ospiti durante i pasti”. Se venivano sorpresi a vendere vino al minuto, erano assoggettati alla multa di cento soldi, moneta allora corrente a Piacenza. Così si possono ancora conoscere i nomi di questi alberghi della fine del XIV secolo: delle Chiavi, della Spada, del Montone, del Leone, dell’Agnello, della Campana, della Mula (probabilmente ubicato nella
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piazza del comune e di proprietà di Filippino Rossi) e del Cavalletto. Di quest’ultimo si parla in un documento del 1338 che ricorda come “le suore Consolate di San Domenico venissero introdotte in Piacenza ed abitassero il sito vicino a Santa Maria Ceriola e probabilmente quello dove sorgeva l’Osteria del Cavalletto”. In altri documenti del 1512 è ricordato l’albergo dell’Angelo dove il 24 gennaio alloggiò la compagnia del Duca di Nemours: Gastone di Foix, governatore di Milano che liberò dall’assedio Bologna difesa dai piacentini, i conti Nicolò e Paride Scotti con Rubino e Antonio Seccamelica. Il Foix era diretto a Ravenna dove l’11 aprile sbaragliò le truppe pontificie e spagnole, perdendo però la vita. La sua salma, nel tragitto verso Milano, si fermò nella cattedrale di Piacenza dove ricevette gli onori. Nel Settecento, sempre in Piacenza, era noto l’Albergo Tre Ganasce (probabile maggiorazione dialettale quantitativa dell’italiano “mangiare a due palmenti”) denominato in molti documenti ancora Osteria. Nel 1746 tale albergo ospitava il cavallerizzo del Marchese di Castellar e molti ufficiali del suo seguito. Un’altra antica fonte ricorda che nel 1768 vi giungesse in incognito l’imperatore Giuseppe II, fratello della duchessa Maria Amalia e cognato del Duca don Ferdinando. Si può infine citare una Grida del Governatore datata 29 maggio 1786 in cui sono prescritte le tariffe degli alberghi per ogni singolo servizio, dal tipo di stanza, di biancheria, al tipo di pasto e persino al tipo di trattamento per il cavallo. Il Paratico degli osti, a Piacen-
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za, figura soltanto dal 1720, ma non contiene norme interessanti di carattere tecnico. Più importanti in proposito erano le norme delle “gride” ducali. Risulta che allora gli iscritti all’arte erano 28. Il Paratico dedicato alla Vergine dei Sette Dolori, era retto da due consoli, da un camerario e da tre sindaci. La sua giurisdizione si estendeva agli osti abitanti nel suburbio e nel territorio fino a tre miglia nelle mura. Per esercitare l’arte dell’oste, occorreva iscriversi alla matricola e ciò comportava un certo controllo. Che la classe dei locandieri ed albergatori fosse concorde e organizzata con omogenea compattezza, lo si può dedurre anche dall’acquisto di una comune cappella al cimitero urbano dove era possibile ancora leggere alcuni iscrizioni datate alla metà dell’800. Nell’analisi del documento si rilevano circa venti osterie, tutte con cucina, che certamente si potevano qualificare con il nome di alberghi per l’indicazione delle camere di alloggio e il supporto delle stalle. È da notare che esse risultavano sempre condotte da gestori (affittuari) che non erano mai proprietari della casa. Tra essi non mancava qualche donna. L’ubicazione era di solito sulle strade principali di accesso alla città, ma in prevalenza erano collocate nei dintorni della piazza. Secondo le tradizioni, in piccola parte sopravvissute, l’albergo dava spesso il nome alla strada e non viceversa. Sarebbe interessante conoscere la varietà, la fantasia del nome e delle strutture, purtroppo poi scomparse. A Piacenza il traffico dei passeggeri in transito doveva essere piuttosto notevole anche a causa delle varie fiere, dei cambi e delle mercanzie che periodicamente si svolgevano in città. Ciò spiega il numero delle
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osterie relativamente elevato e proporzionato alla frequenza dei clienti. Com’è noto, il transito dei forestieri a Piacenza, alcuni dei quali lasciarono tracce di interessanti descrizioni nel secolo XVIII, diede modo di farla conoscere anche in ambienti internazionali. Un’ultima annotazione: sulla via del Guasto (attuale Garibaldi) di fronte alla chiesa di Sant’Ilario, nel 1700 venne aperto, a spese di un sacerdote, un ospizio per pellegrini. Nell’Ottocento, in un anno imprecisato, fu sostituito dal lussuoso “Albergo d’Italia”, famoso per avere ospitato per due volte il condottiero Giuseppe Garibaldi; la prima in pieno Risorgimento (luglio 1848), la seconda ad Unità raggiunta (30 settembre 1862). Una lapide sulla facciata della vecchia sede ricorda questi due eventi. L’albergo fu sempre denso di avvenimenti mondani, fu ritrovo galante della “società bene” della Piacenza anni Venti e Trenta e vi si allestì, tra l’altro, un pranzo futurista (nel 2009 ricorreva il sessantesimo del Manifesto) con l’intervento di Marinetti e soci movimentalisti e menù di gastronomia “floreale”. Anfitrione, il pittore piacentino Osvaldo Bot. Anche a Venezia, osteria significava quello che ancora oggi si denomina albergo-ristorante insieme, mentre quelle che fino a pochi decenni fa si chiamarono osterie, avevano altri nomi. Le taverne servivano alla vendita del vino all’ingrosso, le càneve alla mescita al minuto, le malvasie vendevano solo vino greco e i magazzini e i bastioni erano cantine d’infima classe.
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Antiche osterie milanesi: il problema della giusta misura
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ulle antiche vere osterie di Milano vennero scritte sul Corriere della Sera (ad opera di Otto Cima) pagine assai gustose. Dovevano stare chiuse durante le funzioni sacre, non potevano vendere vino che a orari prefissati e dovevano comperarlo a una minima distanza dalla cittĂ . Questi osti per un nonnulla correvano il rischio di tratti di corda o il carcere. Una grida del 1591 imponeva persino che le misure da adoperarsi (il boccale, il mezzo boccale e il quarto di boccale), venissero acquistate solo dal “fornasaro de vedroâ€? Antonio Ferrari, che le produceva in base al campione depositato presso il vicario di Provvisione, pena una multa o quanti tratti di corda fossero sembrati sufficienti a chi di ragione. Ma non era facile imporre le misure agli osti: se la misura del vetro era legale, chi impediva che il vino fosse scarso? Fu allora che al collo del boccale, al punto giusto della misura, venne infisso un chiodo (successivamente una linea circolare evidenziata), che impediva qualunque frode. Quanto al prezzo, il vino rosso migliore non poteva eccedere gli otto soldi al boccale, quello scadente costava in proporzione. Sempre nelle osterie milanesi, il poeta Maggi nel 1600 raccomandava i Tre Re per il moscato, il Gambero per il Pondestura, il Gallo per il Monterobbio, mentre Carlo Porta parlava dell’Antongina per il Roccagrimalda. In una grida del 1613 si citano parecchie osterie fra cui Laghetto, Noce, Sole, Fontana,
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Foppa, Tre Scranne, Corona, Popolo, Due Spade ecc. Alcune finirono per dare il nome alle proprie strade come Cappello, Falcone, Aquila, Tenaglie, Osti, Cerva, Cervetta, Croce Grossa, Ribecchino, Pesce, Quaglie, Verze. A Piacenza, una piccolissima città rispetto a Milano, le guide commerciali dei primi del ’900 ne citano addirittura circa un centinaio. Fuori Milano, in campagna, c’era Morivione, la Cascina dei pomi, i Tre merli, la Melgasciata presso la Bovisa, la Simonetta dove l’eco ripeteva cinquanta volte il rumore della bottiglia sturata. Chi passava a tarda ora davanti a queste osterie popolose, a questi “baccanit”, a questi “raccanatt”, udiva un lento coro: erano i “bagoloni” che cantavano vecchie canzoni rimaste vive, malgrado la morte delle tradizioni del passato, tramandate di padre in figlio con gelosa cura: “Semper cioch, semper cioch, garibolda: tutti i dì l’è semper inscì; semper cioch, semper cioch garibolda: l’è el mestée che femm nun tutti i dì”. (che tradotto fa: sempre perennemente ubriachi tutti i giorni dell’anno; è il nostro lavoro!). La storica campana del Podestà Zavatario regolante dalla strada la vita di Milano del 1200, suonava tre volte: mattina, mezzogiorno e sera. Gli osti potevano vendere vino soltanto dal primo al secondo tocco; al terzo tutte le bettole dovevano essere chiuse… teoricamente! Intorno all’Olona, vicino all’Ippodromo, le osterie cinquecentesche resistettero a lungo. La Cascina Bolla era ritta sulle sue mura decrepite come a custodire, gelosamente, le memorie che il tempo disperde; è qui che, sovente, veniva Leonardo Da Vinci, allorché abitava fuori Porta Vercellina, per
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riposarsi dal tormentoso lavoro attorno al Cenacolo e inseguendo il libero volo dei balestrucci nel cielo sereno, sognare il prodigio delle ali offerte all’uomo per dimenticare la terra. Come non ricordare l’Osteria della Luna Piena ove sostò Renzo per chiedere al vino un po’ d’allegria e alle scranne un po’ di riposo; è scomparsa da tempo, perché nei secoli il centro si è assai modificato attorno al Duomo. Ma la Cascina di pomm che sorse dove il Naviglio compie una brusca svolta, scomparve solo recentemente: cordiale ed ospitale, con il suo cortiletto tutto verde, con il suo cancello ottocentesco. È qui che spesso giungeva Carlo Porta, con le tasche gonfie delle sue preziose scartoffie. Anche il Pesce d’oro, al Vigentino, rimase a lungo, esattamente come “La nòs” nel borgo ticinese, cara al cuore di Stendhal.
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Osterie a Venezia
e osterie di Venezia nei secoli XV e XVI erano perlopiù a San Marco e a Rialto; erano più di venti e in tutte c’era posto (a quel tempo) per stalla e cavalli. In San Marco vi era quella del Cappello, la cui insegna appesa alle Procuratie si nota nel quadro La processione di Gentile Bellini (1493) e quella del Salvadego. Presso il molo vi erano quelle del Leone, del Pellegrino, del Cavalletto e della Luna. Tre erano al Ponte della Paglia: la Serpe, la Stella e la Corona.
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In Corte dell’Orso c’era quella del Leone bianco e presso il gran ponte di Rialto, quella della Campana di cui era comproprietario Marin Sanudo. Della osteria dello Sturion che fu chiusa nel 1511, il Carpaccio ritrasse l’insegna nel quadro che rappresenta Il patriarca di Grado che libera un’indemoniata. Il popolo aveva luoghi di convegno nelle taverne che si chiamavano “magazzini”, “bastioni”, “faratole” e nelle “malvasie” dove, tra l’altro, si vendeva il vino di Malvasia dell’Epiro. Quella denominata “grechetto” era di due tipi: dolce e amara. Quest’ultima, molto usata dai veneziani, si chiamava “garba”. A lungo a Venezia vi furono ponti e strade denominate “della malvasia”, mentre alcune contrade presero il nome dal vino, come “riva del vin”, “campiello del vin”. Alla prima approdavano le barche che portavano il vino dalla terraferma.
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Canti e cori
ra gli indiscussi pregi che caratterizzarono le nostre osterie va ascritto senza dubbio anche quello di essere state fucine di bel canto e luogo di pubblica esibizione per i più popolari strumenti concertistici del tempo (primi del Novecento), chitarre e mandolini e, più tardi e in misura assai più ridotta, le fisarmoniche. Essendo per esempio l’Emilia, soprattutto Piacenza, Parma e Reggio, sedi di tradizioni liriche radicate e patria di ottimi cantanti,
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era ovvio che tra il popolo germinasse la passione per il bel canto. Bastava che un’opera andasse in scena alla sera nei teatri di queste città, che subito dopo la primière, il mattino seguente, si sentivano lattivendoli e operai che andavano al lavoro fischiettando i passi più melodiosi: costume e “controllo” che confermava subito l’infallibile giudizio popolare sull’opera, riportato dall’inflessibile loggione. Se si zufolavano per la strada, queste romanze si ripetevano nelle osterie e si mescolavano, quasi “sacro e profano”, con altri repertori cantati, sfruttati nelle locande, dai canti più carnascialeschi e sboccati, ad altri più noti: dalla Cavalleria rusticana che “gareggiava” con il “brindisi” della Traviata, Libiam ne’ lieti calici”; seguiva, o precedeva, il mascaniano coro “Viva il vino spumeggiante”. Questo era tra quelli più graditi e in voga, perché consentiva a qualche voce tenorile di popolano (ed erano molte), più o meno rinforzata o debilitata dal vino, di esibirsi. Così Mascagni, come Verdi e altri operisti, passò dal palcoscenico all’osteria ed è interessante per la psicologia musicale notare i trasporti, gli adattamenti, le alterazioni, gli “insulti” cui erano sottoposte le arie musicali. Ogni parte in origine scritta per soprano, contralto, tenore, baritono e basso, era, con molta disinvoltura, adattata all’estensione di voce dell’individuo. Questo quanto agli assolo, perché verso i cori, si era generalmente più rispettosi eseguendo solo quelli maschili. (Impossibile che una donna entrasse all’osteria!). C’era quindi una naturale distribuzione delle parti, sia pure sopprimendo qua e là le partiture trop-
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po impegnative; ma anche qui uno solo, come regola, svolgeva il ruolo del tenore e tutti gli altri completavano il coro. Difficile che in una prima esecuzione si giungesse alla fine del brano perché intonando senza direttore del coro, accadeva che si arrivasse a un punto in cui il tenore esibiva una maledetta “stecca” perché impossibilitato ad azzeccare l’acuto. E allora si riprendeva dall’inizio e si riprovava varie volte, con la mano accostata vicino all’orecchio per accordare lo “strumento”, finché trovata l’inclinazione giusta in rapporto alle capacità, con le gole che, tra una prova e l’altra, avevano trincato per darsi forza, si giungeva alla fine e allora l’aria era ripetuto fino alla nausea, con “corone” finali senza termine. Quanto s’è accennato dei costumi canori dell’“osteria operistica” accadeva finché, diciamo per celia, il livello del vino era basso, perché se la “temperatura” saliva, le voci diventavano un coacervo informe di cui non si riusciva più a distinguere neppure una sillaba. A questo punto anche gli stonati potevano dire la loro… E così, tra gli scambi di parole dei giocatori di carte, la voce volutamente aggressiva di chi si misurava nella morra e i cori degli amanti del bel canto, il diapason dell’osteria saliva a livelli quasi insopportabili, ma il vino, che scorreva sempre in abbondanza, perché oltretutto a buon mercato, rendeva tutti tranquilli e felici. È sempre l’uomo dionisiaco che, fatto poeta, rallegrava i giocondi simposi e le merende in campagna come, ad esempio, i trebbi dei celebri canterini romagnoli. La poesia in vernacolo sorgeva spontanea, fluente,
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ridanciana, ricca di sfumature, sentimentale e “grassoccia”: “Avanti, sempre avanti, vini di Romagna; andate per tutto il mondo e portate il vostro conforto a tutti i buongustai e a quelli che… bevono giusto”.
Una scena del famoso brindisi “Libiamo ne’ lieti calici” dall’opera verdiana “La traviata”
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Osterie nel Trentino
el Trentino le osterie avevano grande rilievo nella vita pubblica e perciò per l’esercizio della professione di oste erano richieste qualità speciali, mentre la vendita al minuto fu sempre tutelata da regole particolari. Nello statuto di Berentono e Mugazzone, nel 1560, si imposero le misure giuste e si voleva che l’oste tenesse “tute le sorte de vin”(tutti i tipi di vino). In quello dei quattro vicariati di Ala, Avio, Brentonico, e Mori, l’oste era tenuto a dare e vendere vino “per li suoi denari e per lo prezzo che sarà stimato dal Consiglio o dai suoi deputati”. Lo statuto di Cles interdiva agli osti di ricevere pegni o pagamenti in natura da minorenni, figli di famiglie e coniugate; così pure i consigli statuti del 1425 di Val Ledro, Rovereto e altri. L’oste di Tione doveva far credito fino a tre mesi e quello di Roncone fino a San Michele, però era creduto sulla parola e il credito era privilegiato. La maggior parte delle comunità vietava la vendita del vino nelle osterie durante le sacre funzioni e imponevano la chiusura al passaggio della processione. L’oste di Tione doveva provvedere alla pubblica carità e quello della Val di Non, pagare i birri sorveglianti le fiere e le sagre. V’erano anche osterie di proprietà dei comuni (in vigore a lungo a Bolzano e in altri centri della regione), gestite in regia dalla stessa comunità. Classica quella di Roncone istituita il 20 marzo 1443
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che funzionò fino a metà del XVIII secolo. Se ne metteva all’asta la gestione il giorno di San Rocco e si deliberava il giorno di San Martino l’assegnazione a persona bene accetta. Pinzolo la istituì nel 1347, Tione nel 1536, Tirano nel 1565. La più antica osteria di Bolzano era forse la Batzenhäusl, poi Ca’ de Bezzi. Era già attiva nel primissimo Medio Evo e apparteneva all’Ordine dei cavalieri tedeschi. Il vino proveniva dalle provvidenze dell’Ordine e lo spaccio era gestito da un fittavolo, come testimonia un’annotazione del 1404 nel libro dei forestieri della stessa casa. Pare che nel 1556, quando il magistrato di Bolzano fu costretto a gravi imposizioni sulla vendita del vino, quasi tutte le locande vennero chiuse, meno le Batzenhäusl dove si poteva bere il vecchio maass di vino per un “batzen” (nel latino di mezzo significava bacio), moneta allora usata in Germania e Svizzera e che valeva 4 o 3 Kreuzer pesanti, circa 10 centesimi di corona. In questa antica taverna, sempre molto frequentata, erano scolpiti sul legno delle sedie i nomi di ospiti illustri ed erano conservati in un armadio circa centocinquanta bicchieri con scritto a smeriglio il nome dei personaggi che in quei calici bevettero. Un album conservava firme e motti di visitatori che assaggiarono gli ottimi vini qui serviti. Vi erano anche autografi di uomini celebri ed anche di principi come il Duca d’Aosta e Duchessa di Pistoia.
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Osterie a Firenze e in Toscana
iverse sono le testimonianze. Una delle più antiche era quella delle Bertucce che esisteva già nel 1400 e Lorenzo il Magnifico la frequentava con assiduità e a essa si riferisce l’aneddoto di maestro Manente di cui alla novella X della III cena di Anton Francesco Grazzini. Altre osterie antiche e notissime erano quelle del Porco, del Fico, della Malvagia, di Venezia, dei Pentolini, da un’insegna che esibiva una frasca con attaccato dei pentolini per indicare che vi si vendeva anche una certa mostarda inventata dall’oste, il Chiassoso del Buco; e ancora gli Allori, la Gatta, l’Agnolo, la Coroncina. Rinomatissima quella di Frascati già citata in documenti del 1497. Nel Diario fiorentino di Luca Landucci cui il Mazzoni accenna nel poemetto Liber libro, libertà!, si affermava: “[…] si trovarono al Frascato, l’osteria di più promesse che Firenze avesse; Piazza de’ Suchiellinai, luogo bello e fresco assai”. Nell’osteria di Gigio (Luigi Bonati), a La Spezia, si trovavano Severino Ferrari che insegnava in quel liceo e Carducci e Pascoli che vi arrivavano di frequente a visitare l’amico, che fra l’altro Pascoli cita nella poesia Romagna. Erano tutti e tre innamorati del vino alla maniera latina: prepotente e sanguigno questo desiderio del bere in Carducci; gaietto e sostenuto in Ferrari; calmo, placido e un po’ triste in Pascoli, benché, a detta del Gigio, quest’ultimo fosse, tra i tre
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poeti, quello più devoto a Lieo. Una sera si racconta che i tre, accalorati, minacciavano di venire alle mani; risolvette la querelle il Gigio, portando una meravigliosa bottiglia di “rinforzato” delle Cinque Terre. Alla bontà di questo vino in seguito fece appello il Pascoli scrivendo a Gigio una lettera in cui si chiedeva: “Mandamelo, in nome della letteratura italiana” ed avendo Gigio ottemperato a quell’invito con cinque bottiglie di quel formidabile vino, Pascoli lo ringraziò commosso scrivendo tra l’altro: “Credevo di avere trovato un amico; ho trovato un Dio; quando tu voglia la mia vita, chiedimela: è tua!” Per la fiaschetteria del Nòccioli in Livorno, Pascoli scrisse in latino un epigramma poi tradotto dal Micheli che doveva essere inciso in una lapide da porre nella stanza dove Giosuè Carducci aveva recitato alcune sue poesie: “Qui, ospite, Enotrio sedeva, cantando agli amici ed egli tre volte si ricordò delle Muse dal crine di viola; ed essi in silenzio bevevano il dolce vino, allietati dal vino e dal canto. Grande fu la letizia del dolce vino, ma l’altra fu migliore, perché quella ha vita breve, questa dura in perpetuo”. Per la fiaschetteria di Pilade Cipriani in via Maggi 5 a Livorno, ove fu Carducci e si recava ogni sera Pascoli (spesso erano loro compagni Toci, Bevilacqua, Marrani, Pietro Micheli, Rocca), l’avvocato Giovanni Pergolotti dettò questa iscrizione: “Giosuè Carducci, Giovanni Pascoli, questi sommi della rinascente Italia, l’uno audace e sublime nel ritmo di Orazio, l’altro virgiglianamente ispirato e mite, qui, tra gli anni 1890-1897, trovarono spesso la invocata ora tranquilla, nell’ospitale brio di gente livornese e, l’ispirazione per i loro carmi, nel rubino frizzante del bicchiere toscano”.
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Osterie a Roma e dintorni
ulle osterie di Roma sono disponibili note sparse. Papa Zosimo nel 417 proibì agli ecclesiastici l’ingresso nelle bettole. Pio V nel 1569 sancì rigorosamente ai romani che avevano una propria abitazione, di non recarsi nelle osterie che dovevano essere riservate ai forestieri. Sisto V per permettere al popolo di bere senza ubriacarsi, creò la piccola misura detta della “foglietta”, pari a mezzo litro. Il predecessore di Gregorio XVI impose i cancelletti alle porte delle osterie consentendo la vendita del vino solo sulla porta. Contro i cancelletti protestò il Belli: “Ma chi diavolo, Cristo! l’ha tentato ‘sto pontefice nostro benedetto, d’annacce a sequestrà cor cancelletto, quella grazia de Dio, chi iddio cià dato?”. Spesso il nome dell’osteria ne ricorda l’origine. In Roma, verso il 1500, v’era, ad esempio, in via Arcione, l’osteria della Bella presenza perché la padrona era donna avvenente che trattava bene gli avventori. All’Arco di San Callisto v’era quella della vedovella perché, morto il marito, l’ostessa giovane e graziosa, si lasciava corteggiare. Al vicolo dei Balestrari v’era quella del Cameo perché il titolare, geloso della moglie, la teneva rinserrata in casa dicendo a tutti che la riguardava come un cammeo. In tempi più moderni l’osteria Melafumo a Ponte Milvio doveva il nome al fatto che il proprietario, pur vedendo avvicinarsi Pio IX, era rimasto a sedere fumando la pipa e rispondendo a chi gli chiedeva: ma che fai? Me la fumo”.
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Nell’osteria la Stanza di Raffaello in Roma gestita da Raffaele Anglada, vi si recò con regolarità per vent’anni, dal 1805 al 1825, il principe Ludovico di Baviera. Un quadro di Franz Catel alla Galleria di Monaco riproduce l’oste che ha in mano due bottiglie. Nell’antichissima osteria dell’Orso a Roma andarono prima Dante e poi Montaigne nel 1580.
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Le insegne
olto interessante appare anche lo studio delle insegne delle osterie, alcune delle quali, nella loro raffigurazione pittorica o scultorea, sono opere d’arte. Si dice che il Caravaggio stesso, mancando un giorno del danaro necessario per pagare il pranzo ad un oste, se la cavasse dipingendogli l’insegna. Nel nome, e di frequente anche nella figurazione, tra i colori, dominavano il rosso e il verde (Cappello rosso, Croce rossa, Bue rosso, Croce verde, Albero verde), il giallo era più spesso in figurazione dell’oro (Leon d’oro, Croce d’oro, Sole, Cannon d’oro, Angelo d’oro). Abbastanza diffuso pure il bianco (Croce bianca, Cavallo bianco, Orso bianco), poco usato invece il nero (Leone nero, Moro o I mori). Di tutte la più utilizzata in Europa era il Leon d’oro. La cavalleria, la mitologia, l’arte militare, la caccia, la pesca, la navigazione ecc, hanno rappresentato spesso soggetti per le insegne. Valgano come esempio: Corona, Croce, Angelo, Torre, Spada. Quando si ripeteva il simbolo, era quasi sempre il tre che dominava
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(Tre corone, Tre mori). Spesso si usava l’appellativo di grande (Gran cervo, Gran mogol) e di piccolo (Al cavallino, Piccolo moro). L’angelo, di buon augurio, fu scelto forse come insegna dai primi osti cristiani. Il bue era insegna comune e risaliva al Medio Evo; spesso si ricorreva al toro. Alcune di queste denominazioni erano collegate alle potenti corporazioni dei macellai. L’insegna “Tre re” ricordava probabilmente i tre magi. La botte e la bottiglia sono ben spiegabili per un’insegna di vendita di vino e talune si promuovevano a botte d’oro! Braccio di ferro e simili ricordavano le armature medievali. Il Cavallo bianco era ritenuto portafortuna e altrettanto, per ovvi motivi, la Cicogna. Diffusi anche la Chiave o la Chiave d’argento e d’oro. Il Gallo era un’insegna che risaliva all’epoca romana classica. A Narbonne ve n’era una di epoca romana. La Croce bianca forse ebbe origine da quella apparsa a Costantino, ma ricorda anche Casa Savoia. L’Aquila rammentava non solo il maestoso rapace, ma anche l’impero napoleonico quando aveva radici in Italia. Così lo Scudo non richiamava la moneta, ma quello dell’araldica: Scudo di Francia, Scudo di Casa Savoia. Dall’astronomia erano presi di frequente i nomi di: Sole, Stella, Luna, Quattro venti. La corona, o il fascio d’edera o la frasca di abete, di quercia, di vischio e anche di paglia, che serviva d’insegna alle osterie e che forse ricordava la corona trionfale di cui Bacco si ornava e l’edera a lui sacra, proveniva dall’antica Roma e il proverbio “Il buon vino non ha bisogno di frasca” rispondeva al motto latino: “Vino vendibili suspensa hedera non opus est”.
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In Sicilia e in particolare a Palermo, alle taverne non mancava mai un ramoscello, per lo piÚ di alloro. Questa antichissima usanza degenerò talora in abusi a danno degli alberi, tanto che i Capitoli a Castronovo approvati da Martino II e le Assise di Corleone, le vietarono severamente.
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Pive, zufoli e tamburelli
proposito della denominazione “frasca”, se ne può evincere un approfondimento da un documento del 1796 con l’elenco delle “licenze per li giochi minuti per la città per osti e caffettieri”. La frasca o rametto fronzuto di albero, indicava simbolicamente l’Hostaria che, oltre ad occasionali “pasageri e pelegrini”, ospitava pure, per motivo di lucro, anche “femine” di facili costumi che, nei dialetti padani, erano denominate “fraschette”, vocabolo largamente in uso fino a fine Ottocento proprio ad indicare donna di facili costumi. Nel Settecento, per esempio, come anche nei secoli successivi, l’osteria ospitava un variegato microcosmo e in quanto luogo di continuo passaggio, offriva alle prostitute l’occasione per svolgere appieno la loro attività; bastava un oste compiacente cui offrire una percentuale e un paio di stanze, di solito al primo piano della locanda e diventavano un’accogliente e discreta alcova. Sono stati scoperti, a questo proposito, interessanti documenti di polizia, soprattutto dell’Ottocento, che confermavano questo mercimonio. Pure i suonatori girovaghi erano di casa; ma al posto delle chitarre, fisarmoniche e mandolini (citati in precedenza), nel secolo dei lumi erano in auge altri strumenti: pive, zufoli e tamburelli.
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V
Scritte sagaci
ariegate, salaci, spiritose e curiose, erano le scritte che si trovavano all’esterno e, più spesso, all’interno delle osterie. In quella del Meloncello a Bologna v’era questa: “Il sole risplende, bon vino si vende; allegri entrate, di politica non parlate; non bestemmiate e prima di uscire, pagate”. E un’altra, nel bolognese: “sia benedetta la tua entrata, se hai sete; e la tua uscita, se hai pagato”. Una in latino asseriva: “pax intrantibus (pace a chi entra); salus exeuntibus (salute a chi esce); beneditio habitantibus (benedizione a chi vi abita). Frequenti i motti che ammonivano a pagare subito: “Qui domani si berrà per niente”. Oppure: “Credito è morto; i cattivi pagatori l’uccisero”. E ancora: “Credito si farà, quando questo gallo canterà”, con riferimento, naturalmente, a un gallo dipinto! Merita inoltre di essere ricordata, benché non italiana, l’iscrizione per osteria coniata da un grande letterato scozzese. Un oste, si era recato da Walter Scott per ottenere un motto da trascrivere all’ingresso dell’osteria; gli propose questo: “Bevi o stanco viandante; bevi e prega”. Ma l’oste avendogli fatto notare che all’osteria nessuno pregava, e se lo avessero fatto, non avrebbero bevuto, Scott tolse una r al pray (“prega” in inglese) finale che divenne, al posto di prega, paga!”
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Il riscatto dell’osteria
l tema dell’osteria è spesso soggiaciuto, nei secoli, a lode o diffamazione: emblema di spontanea e corale giocosità popolare, luogo di vituperio e crassa ubriacatura, veicolo per diffondere il consumo del buon vino ecc. Pareri spesso discordi, con giudizi prevalentemente negativi; tetri locali pieni di fumo e di odori vinosi, frequentato da gente di animo basso, stimolo alla cattiva educazione e talora, al reato. Occorreva invece ridare all’osteria la sua funzione di luogo gaio e luminoso, ove tutti, nessuno escluso, potessero andare liberamente per gustare, in un ambiente genuino, i tesori enologici dell’Italia, che i normali bar non potranno mai offrire. Così, pur con esaltazioni e abbandoni, le osterie, almeno le poche che sono rimaste, hanno ritrovato una loro ragion d’essere di carattere eno-gastronomico, luogo di culto, a volte un po’ snob, della cultura popolare, quell’ humus che “gratta gratta” c’è in ognuno di noi, anche se qualcuno, reputa più dignitoso nasconderlo. Così l’osteria ha riscattato la propria immagine e in molte città è tornata a essere un importante luogo di aggregazione dove trascorrere, in serenità, qualche ora al termine di una lunga giornata di lavoro. E senza computer…
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