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ELISA MICUCCI

iSHOP UN MODELLO PER IL NEGOZIO DEL FUTURO

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Relatore: Nicolò Carlo Riva

Politecnico di Milano FacoltĂ di Architettura - Laurea Specialistica - Architettura degli Interni Anno Accademico 2015/2016

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SOMMARIO

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Introduzione Il negozio: uno spazio tra presente e futuro 1. Il negozio: un osservatorio sulla società e un laboratorio del nuovo I Passages Il prodotto industriale e l’ uomo-macchina Negozio o galleria d’arte?

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Le invasioni barbariche

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Usi e costumi del villaggio globale

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2. Nuove strategie

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Dal web alla città

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3. Conclusioni

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iShop: un modello per il negozio del futuro 1. Cosa? iShop!

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2. Dove?

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3. Il Consumatore digitale

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4. Come?

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5. La logistica

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6. iShop: il progetto

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Le tecnologie

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Piante

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Sezioni

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Elementi in dettaglio

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Viste

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7. Ispirazioni

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Bibliografia

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Fonti delle immagini

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Ringraziamenti

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INTRODUZIONE

La recente crisi finanziaria ha messo l’uomo nella condizione di affrontare costantemente turbolenze a livello sociale, economico e ambientale, suscitando nelle popolazioni un sentimento di instabilità che ha dato origine ad una profonda trasformazione nel mondo occidentale. Si sta assistendo, infatti, alla nascita di quella che viene chiamata “società creativa”, ad un nuovo modo di concepire la tecnologia e, infine, alla riscoperta dei valori locali. Queste evoluzioni sono particolarmente evidenti se si guarda al mondo del marketing, disciplina che per la propria natura è fortemente ricettiva nei confronti dei cambiamenti della società a cui rivolge la propria attenzione. Lo scopo di questa tesi è indagare e immaginare gli sviluppi di questa nuova epoca, facendo un focus sull’architettura degli spazi commerciali, categoria che più direttamente rispetto ad altre si interfaccia con il marketing. Il lavoro complessivo si articolerà in due fasi: Nella prima, quella teorica, verrà illustrato, attraverso un excursus storico che parte della nascita della società dei consumi fino ad oggi, come l’architettura degli spazi del commercio sia particolarmente attenta alle evoluzioni della società e rappresentativa della propria epoca. Nella seconda fase, quella progettuale, applicando e concretizzando la riflessione fatta nella prima parte della tesi, verrà immaginato come potrebbe essere lo sviluppo di un nuovo spazio per il commercio che rispecchi le tendenze e le necessità della società del prossimo futuro.

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Parte Prima Il negozio: uno spazio tra presente e futuro

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IL NEGOZIO: UN OSSERVATORIO SULLA SOCIETÀ E UN LABORATORIO DEL NUOVO

La nascita della società dei consumi, conseguenza della seconda rivoluzione industriale, è il risultato di un lungo processo storico durante il quale la distinzione tra società e consumo si è fatta via via meno netta. Secondo molti sociologi, la connessione sociale è intrisa di fatti di consumo, ai quali sono delegate l’identità e la capacità di relazione degli individui. Tra i primi osservatori di questo legame tra società e consumi vi fu Walter Benjamin, che lesse nella città di Parigi, e in particolare nei suoi caratteristici passages, i segni di una nuova epoca. In questi lunghi corridoi di ferro e vetro, materiali prediletti dagli ingegneri e dagli architetti che sperimentavano, in quel periodo, le conquiste della scienza e della tecnica, “la folla è il velo attraverso il quale la città ben nota appare al flaneur come fantasmagoria. In questa fantasmagoria essa è ora paesaggio, ora stanza. Entrambi compongono il grande magazzino, che mette anche la flanerie al servizio della vendita. Il grande magazzino è l’ultimo marciapiede del flaneur”1. Dalle parole di Benjamin è chiaro come gli spazi dedicati al commercio siano stati da subito il luogo privilegiato dai flaneur, i silenti e distaccati esploratori dei paesaggi urbani e osservatori società. La ricchezza di contenuti che erano racchiusi in passages e magazzini,che spaziavano dalla moda, all’economia, alla sociologia e all’antropologia, offriva agli occhi del flaneur una visione piuttosto completa dalla modernità. Rispetto alle strutture dell’Ottocento, le successive evoluzioni degli spazi commerciali non furono da meno in quanto a complessità di significati. Edoardo Persico, parecchi anni dopo Benjamin, perpetrò la pratica della flanerie, interessandosi in modo particolare ai luoghi del commercio. Egli fu, infatti, autore di un approfondito studio sull’architettura del negozio, che pubblicò sui numeri di Casabella dei primi anni Trenta. I motivi del suo interessamento furono gli stessi che mossero il filosofo tedesco attraverso i passages e i magazzini: anch’egli, infatti, considerava le “intelligenti baracche”, espressione che utilizzò per definire le architetture per il commercio, lo specchio di un’epoca:

In una grande città, le vetrine dei negozi, sono altrettante tabelle dell’ordine pubblico: ci si può documentare esattamente su tutti i dati che concernono l’economia, la cultura, i media, la moralità della popolazione. Una passeggiata si può risolvere, così, in una lezione di sociologia,

1   W. Benjamin, Parigi capitale del XIX secolo, Einaudi, Torino 1986, p.14

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minutissima, pedante, densa di idee statistiche [...]2

L’architettura degli spazi di vendita, secondo Persico, mette il progettista nella condizione obbligata di osservare, apprendere e interiorizzare il proprio tempo:

In un negozio, meglio che in una casa o in un edificio monumentale, l’architetto può impiegare quelle risorse di stile che sono i simboli di un’ epoca, e che il pubblico preferisce nelle cose meno solenni e meno impegnate in valori tradizionali 3

Proprio perché devono necessariamente rispecchiare la contemporaneità per assolvere al meglio alla propria funzione, i negozi non possono che assumere le forme del moderno, le quali “sembrano avere la loro epifania nello spazio della merce”4. Dello stesso parere era il francese Mallet-Stevens, secondo il quale “tutto ciò che ha a che fare con la pubblicità, i manifesti, i cataloghi, i negozi, ha ottenuto il diritto di essere moderno prima di altri artefatti”.5 Egli sosteneva che uno spazio di vendita che facesse riferimento ad uno stile del passato avrebbe suscitato ilarità, perché, associato alla scintillante immagine del prodotto nuovo di fabbrica, sarebbe risultato grottesco e fittizio, oltre che inappropriato. Era dunque necessario sperimentare forme moderne all’interno di questi spazi. L’idea secondo la quale il futuro passa per tutto ciò che riguarda il commercio pervase anche l’arte: Fortunato Depero, ideatore del chiosco Campari del 1933, nel suo celebre manifesto dell’arte pubblicitaria, datato 1932, affermò che “l’arte dell’avvenire sarà potentemente pubblicitaria”6, come a voler dire che lo spirito anticipatore dell’artista non poteva ignorare quanto offerto dal mondo dei consumi. Considerato quanto scaturito qualche decennio più tardi dall’esperienza della Pop Art, questa, più che un’affermazione, risulta una vera e propria profezia. Anni dopo, infatti, furono proprio gli artisti Pop a rivolgere sistematicamente il

2   E. Persico, Un bar a Milano, Casabella, gennaio 1933 3   E. Persico, Domus, 92, agosto 1935, p.47 4   D.Scodeller, Negozi, l’architetto nello spazio della merce, Electa, Milano 2007, p. 8 5   D.Scodeller, Negozi, l’architetto nello spazio della merce, Electa, Milano 2007, p. 6 6   F. Depero, Manifesto dell’arte pubblicitaria, 1932

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proprio sguardo analitico verso il mondo del consumo, esaminandone ogni sfaccettatura. Da questa osservazione non potevano certo sottrarsi i negozi che furono designati da Andy Warhol come gli spazi dove finalmente l’ arte avrebbe ritrovato la sua connessione con la vita. Da quel periodo in poi furono sempre più numerosi coloro che, tra artisti e architetti, iniziarono a sostenere il “simbolismo dell’ordinario per mezzo dello shed decorato”7, meno statico e più adattabile ad un’ epoca in continua e rapida metamorfosi, e a utilizzare il punto vendita come occasione per sperimentare il nuovo, come dimostrano gli Epicentri Prada o i guerrilla store di Rei Kawakubo.

7   R. Venturi, Imparando da Las Vegas,il simbolismo dimenticato della forma architettonica, Quodlibet, Macerata, 2010, p.169

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1. Fortunato Depero, I fari dell’avvenire Bitter e Cordial Campari,1931, Archivio Campari, Milano

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I PASSAGE

Il sistema di scambio commerciale, centrale nella vita delle città fin dalle origini, subì un grande cambiamento nell’era della rivoluzione industriale. Precedentemente a questo evento storico, infatti, il prodotto non aveva alcuna autonomia rispetto al proprio artefice, il quale non solo doveva essere un bravo artigiano, ma anche un abile comunicatore poiché era egli stesso a dover convincere della qualità della merce: “posto dalla tradizione classica sotto il simbolo di Mercurio, il commercio ha sempre operato in sintonia con la parola: la comunicazione è un agevolatore di scambio”8 La parola del mercante iniziò a non essere più sufficiente nel momento in cui la produzione in serie segnò la scissione tra produttore e venditore e mise sul mercato un maggiore numero di oggetti. Si presentò, allora, la necessità di affidare questo compito all’immagine degli spazi commerciali, che, dunque, dovevano assolvere il doppio ruolo di esposizione e comunicazione del valore della merce. Questa modalità di intendere lo scambio commerciale portò all’ideazione di nuove tipologie architettoniche, quali i passages e, successivamente, i grandi magazzini. Nuove cattedrali innalzate al commercio, i passages si presentavano come “invenzione del lusso industriale”9, caratterizzati da un lungo corridoio vetrato, dove passeggiare, e due navate laterali, che ospitavano i negozi. In queste strade coperte il ruolo di protagonista era affidato alla merce: “poiché in questa strada le linfe vitali ristagnano, le merci proliferano ai suoi bordi, intrecciandosi in relazioni fantastiche come i tessuti di una ferita che non si rimargina”10. Essa veniva esibita attraverso una grande ridondanza di segni, in una gara a chi cattura più efficacemente l’attenzione del passante. Materiali, insegne e decorazioni, infatti, erano applicati nello spazio in modo tale da sedurre visivamente il visitatore, che difficilmente riusciva a non subire tale potere attrattivo. Il carattere della merce che meglio emergeva in questi spazi era, dunque, quello “circense”, come lo definì Walter Benjamin. Secondo il noto intellettuale, infatti, “le esposizioni universali trasfigurano il valore di scambio di merci; creano un ambito in cui il loro valore d’uso passa in secondo piano; inaugurano una fantasmagoria in cui l’uomo entra per lasciarsi distrarre. L’industria dei divertimenti gli facilita

8   D.Scodeller, Negozi, l’ architetto nello spazio della merce, Electa, Milano 2007, p. 9 9   W. Benjamin, Parigi capitale del XIX secolo, Einaudi, Torino 1986, p.77 10  Ibidem, p. 87

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questo compito, sollevandolo all’altezza della merce”11. Come attestano le parole di Benjamin, il consumo era incoraggiato da servizi relativi al tempo libero, quali ristoranti, sale da concerto, spazi per la lettura, ecc. Questo aspetto era ancora più enfatizzato all’interno dei grandi magazzini, evoluzione naturale dei passages, che furono la testimonianza della nascita della società dei consumi di massa. Essi, infatti, furono la conseguenza della sempre più diffusa offerta di prodotti economicamente accessibili alla classe media di consumatori, il cui tempo libero difficilmente sfuggiva, e sfugge tutt’oggi, alle dinamiche di consumo. Lo spazio commerciale, dunque, fin dall’epoca della rivoluzione industriale, si pone come un luogo in cui la società di massa esprime i suoi valori, le sue abitudini e i suoi immaginari, e in cui la capacità del flaneur di distaccarsene criticamente, è utilizzata per oliare la macchina del consumo: colui che in passato era flaneur oggi è social media manager.

11   Ibidem, p.10

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2. Francoise Mazois, Passage Choiseul,1825-1827, Parigi 3. Léon et Lévy Grands magasins du Printemps,1889, BNF, Parigi

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IL PRODOTTO INDUSTRIALE E L’ UOMO-MACCHINA

Lo sviluppo e la diffusione delle tecniche industriali in Europa furono la causa di una sempre maggiore competizione, a livello economico, tra i vari Paesi del continente. Come ben intuirono gli inglesi nella seconda metà dell’Ottocento, affinché una produzione abbia successo commerciale, bisogna creare “una cultura del popolo per il popolo”12. Fu così che prese piede l’idea di applicare l’arte all’artigianato e, successivamente, al prodotto industriale. La comunione tra arte e industria avvenne in Germania, dove industriali e artisti si incontravano per la prima volta nel 1907 a Monaco, uniti in una commissione, la Deutcher Werkbund, nella quale si discuteva su come raggiungere l’ obiettivo che avrebbe portato il Paese ad ottenere il primato sui mercati europei: il prodotto di qualità. Il conseguimento di tale fine non si limitava solo all’ideazione di nuovi oggetti di consumo, ma si estendeva anche alla loro comunicazione pubblicitaria e alla loro distribuzione. Walter Gropius, architetto dalla notevole capacità di capire e anticipare il proprio tempo, in “Proposte per la fondazione di un istituto scolastico come centro di consulenza artistica per l’ industria, il commercio e l’ artigianato”, segnò tra i temi fondamentali da affrontare, in vista di un progetto di trasformazione della società, il commercio. Tra i tanti campi di sperimentazione che si presentarono in quel periodo, dunque, ebbe un ruolo piuttosto importante quello legato agli spazi commerciali. Molti furono, infatti, gli architetti che iniziarono ad interessarsi ai negozi per la loro particolare vocazione alla novità. Gli spazi per il commercio,dunque, rappresentavano per molti architetti dell’epoca, il volano per l’ architettura moderna e “la nuova immagine urbana della congiunzione tra arte e popolo, attraverso le merci prodotte industrialmente”13. Insegne e vetrine, ovvero gli elementi che meglio di altri sono in grado di comunicare alla città il contenuto di un interno, furono investiti, così, di un vero e proprio interesse progettuale. Memorabili furono le invenzioni architettoniche di Erich Mendelsohn, che riuscì ad integrare la tipografia e l’ architettura, evitando risultati posticci. Un esempio

13   D.Scodeller, Negozi, l’ architetto nello spazio della merce, Electa, Milano 2007, p. 50

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di questa riuscita integrazione furono i grandi magazzini Schocken a Stoccarda del 1927, per i quali Mendelsohn progettò una gigantesca insegna dai caratteri luminosi, pensata per rientrare nel gioco di pieni e di vuoti della facciata dell’edificio. L’ architettura degli interni di questo e altri magazzini rifletteva quello che è il marketing tradizionale, ovvero di un modo di concepire il cliente come un essere che agisce secondo precisi schemi razionali. L’ obiettivo della progettazione era dunque quello di mettere in mostra la merce nel modo più efficace, in modo tale che il consumatore potesse valutarne le caratteristiche:

Lo scopo di ogni negozio è la merce. Quindi la merce è il fattore principale e ogni accorgimento commerciale e architettonico deve avere come scopo la sua esaltazione. In particolare l’ edificio [...] deve essere elaborato in funzione delle necessità commerciali in ogni fase della progettazione e della realizzazione. Luce e circolazione sono gli elementi in base ai quali verificarne la qualità. La luce, ossia una sufficiente illuminazione naturale dei saloni di vendita e della merce tramite finestre e cortili, e un’ illuminazione artificiale che inviti all’acquisto. La circolazione, ossia sale di vendita coerenti, una chiara sistemazione della merce esposta, un’ adeguata disposizione di scale e ascensori, ingressi e uscite di facile accesso. In poche parole: facilità di orientamento per l’ acquirente.14

L’ idea di uomo come essere razionale, tipica di quel periodo storico, fu portata all’estremo nei negozi che Le Corbusier progettò nel 1936 per la nota azienda Bat’à. L’ unica cosa che interessava all’industriale francese, che commissionò la progettazione di questi spazi, era avere la certezza matematica che i suoi prodotti venissero venduti ai propri clienti. Non vi erano servizi di supporto alla vendita nelle disposizioni di Jean Bat’à, le cui strategie di business si erano adattate alla sempre più incalzante velocità dei consumi di massa. Nacque così, nella mente di Le Corbusier, l’idea di concepire il negozio come una perfetta macchina per catturare i flussi metropolitani per mezzo della vetrina e vendere i prodotti, garantendo un servizio veloce ed efficiente ai clienti Bat’à. Poiché si trattava di progettare un meccanismo, le variazioni sul tema si basavano esclusivamente sul modulo base, componibile in base alle necessità e adattabile a qualsiasi luogo.

14   E.Mendelshon, cit. in D.Scodeller, Negozi, l’ architetto nello spazio della merce, Electa, Milano 2007, p. 50

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4. Erich Mendelshon, Schocken Department Store,1926-1928, Stoccarda 5. Le Corbusier, Progetto per i negozi Bat’a,1935

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“ Facevamo le vetrine in Galleria. Quelli erano degli happenings: ogni due settimane veniva la gente a vedere le vetrine come in una mostra. Costantino Nivola

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NEGOZIO O GALLERIA D’ARTE?

Mentre in Francia Le Corbusier sperimentava la standardizzazione, in Italia Olivetti chiamò a sé creativi di diversa estrazione (architetti, scultori, pittori, grafici, ecc...) per dare origine ad un diverso modo di intendere il prodotto industriale. La questione, per Olivetti, andava ben oltre l’ esigenza di mantenere le vendite. Egli, infatti, voleva rivestire i propri prodotti di un’ aurea tutta particolare che ne esaltasse la qualità e l’ originalità. Per far questo fu necessario scomodare il mondo dell’arte, al quale furono associati gli oggetti usciti dalle fabbriche Olivetti, suggerendo l’ idea che questi potessero essere considerati al pari di opere artistiche. Si trattava, dunque, di un vero e proprio progetto d’ identità d’impresa, abilmente comunicato attraverso i negozi, la cui progettazione fu affidata ai migliori architetti e artisti dell’epoca. L’ analogia alle dinamiche del mondo dell’arte era tale che Costantino Nivola, scultore che lavorò frequentemente per l’imprenditore piemontese, arrivò ad affermare che l’allestimento di una vetrina Olivetti poteva tranquillamente essere considerato un happening: “facevamo le vetrine in Galleria. Quelli erano degli happenings: ogni due settimane veniva la gente a vedere le vetrine come in una mostra”15. La ricerca di una similitudine con il mondo dell’arte portò l’ imprenditore a commissionare, nel 1958, a Carlo Scarpa un “negozio non negozio” in Piazza San Marco a Venezia. In questo spazio la funzione commerciale era volutamente secondaria rispetto a quella allestitiva, in quanto doveva essere più un “biglietto da visita” dell’azienda che un luogo dove vendere i prodotti. L’ incontro tra una grande mente imprenditoriale con una grande mente creativa produsse uno dei più preziosi gioielli architettonici che il Novecento regalò all’Italia. Nonostante l’altissima qualità della sua forma architettonica, il negozio presentava delle criticità di fondo: esso infatti rispecchiava un modello sociale, quello dell’elegante e colto borghese, che proprio in quel periodo stava perdendo di mordente. Erano, quelli, anni in cui il benessere diffusosi dalla crescita economica aveva dato agli strati più bassi della società la possibilità di avviare la propria scalata sociale.

15   C.Nivola, cit. in D.Scodeller, Negozi, l’ architetto nello spazio della merce, Electa, Milano 2007, p. 109

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Questo conferì un nuovo lustro alla cultura popolare verso il quale l’interesse dei creativi cresceva sempre di più. La conferma di ciò la si può trovare nelle metamorfosi che si stavano verificando nel mondo dell’arte. Gli artisti, infatti, si stavano ribellando all’espressionismo astratto, che, una volta entrato nei musei, era diventato esclusiva dell’alta borghesia, di cui Peggy Guggenheim rappresentava una brillante esponente. La nuova generazione di artisti si proponeva di distogliere lo sguardo dalla propria interiorità per rivolgerlo, invece, verso quel mondo che stava cambiando così rapidamente, dando vita alla Pop Art. Nonostante ciò, i negozi Olivetti lasciarono un’importante eredità al mondo del lusso, presso cui si continuò la ricerca di una relazione tra prodotto di consumo e prodotto artistico. Un risultato tra i più estremi di questa ricerca furono le architetture minimaliste di John Powson, che negli anni Novanta fu artefice di una serie di boutique di alta moda, il cui aspetto rimandava a quello della white box. Le creazioni dell’architetto britannico fecero scuola, tant’è che ancora oggi, a quasi trent’anni di distanza, molti negozi assumono l’estetica minimalista per manifestare un’idea di lusso ed esclusività: “il minimalismo è diventato lo stile preferito nella moda [...] perchè è sembrato contenere un altro messaggio: il negozio di moda come galleria d’arte”16.

16   Dejan Sudijc, cit. in D.Scodeller, Negozi, l’ architetto nello spazio della merce, Electa, Milano 2007, p. 222

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“ Il minimalismo è diventato lo stile preferito nella moda [...] perchè è sembrato contenere un altro messaggio: il negozio di moda come galleria d’arte Dejan Sudijic

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6. Costantino Nivola, Scultura su sabbia bagnata per showroom Olivetti,1953-1954, New York 7. John Pawson, Negozio Christophere Kane,2015, Londra

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LE INVASIONI BARBARICHE

La nascita della Pop Art cambiò radicalmente il modo di concepire il mondo da parte dei creativi, che fino a quel momento operavano secondo una visione astratta dell’uomo: “il grande sforzo di realismo della Pop Art fu molto utile per aprire gli occhi dell’Occidente sul fatto che, fuori dai canoni puristi della modernità, esisteva uno smisurato regno del mercato, della merce, dei linguaggi commerciali, della comunicazione di massa”.17 Questa corrente artistica mise sotto la lente d’ingrandimento la società del boom economico, caratterizzata da una sempre più importante presenza dei mass media e da un sempre più esasperato consumismo, che aveva iniziato a coinvolgere anche le fasce media e medio-bassa. Il benessere economico aveva esteso il concetto di consumo al tempo libero, che divenne la nuova frontiera del business. Il compito del marketing rimaneva sempre quello di “vendere i prodotti usciti dalle fabbriche a chiunque fosse disposto ad acquistarli”18, ma qualcosa era cambiato nell’atteggiamento dei consumatori. Gli anni Sessanta, infatti, furono il periodo di una forte rinnovazione sociale, di cui i giovani, desiderosi di tagliare con il passato costruito dai padri, detenevano i vessilli. Essi sognavano una società più libera e democratica, dimentica delle rigide convenzioni sociali che caratterizzarono gli anni precedenti. Questo, ovviamente, influenzò molto le abitudini legate allo shopping. I nuovi consumatori, infatti, non più sottomessi alle regole di bon ton che, nel passato, regolavano il comportamento all’interno degli spazi commerciali, ricercavano nel negozio un luogo dove poter godere delle libertà faticosamente conquistate e dove potersi identificare con i simboli di una società rinnovata. Da boutique e magazzini iniziarono a scomparire i banconi, presso i quali, sostavano gli inservienti in attesa che qualche cliente chiedesse loro il permesso di testare il prodotto. Ora, la disposizione delle merci permetteva ai nuovi consumatori di toccare e provare autonomamente quanto esposto, in un atto di evasione ludica, tipica della nascente cultura del tempo libero.

17   A. Branzi, Una generazione esagerata, dai radical italiani alla crisi della globalizzazione, Baldini & Castoldi, Milano, 2014, p. 31 18   P.Kotler, H. Kartajaya, I. Setiawan, Marketing 3.0, dal prodotto, al cliente, all’ anima, Gruppo24Ore, Milano 2010, p. 3

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Tra gli ambienti che meglio incarnavano l’ emergente cultura popolare vi fu lo store che Elio Fiorucci fece aprire a New York nel 1967. Progettato da Ettore Sottsass, Andrea Branzi e Franco Marabelli, questo spazio incarnava così efficacemente lo spirito di quegli anni, che il padre della Pop Art, Andy Warhol, ne fu subito attirato, scegliendolo come luogo ideale per lanciare Interview. Ancora una volta l’ arte si insinuò nello spazio delle merci. A differenza di quanto avveniva nei negozi Olivetti, però, questa volta era l’oggetto d’ arte ad inseguire quello industriale. Essendo il prodotto di consumo a maggior contatto con la vita quotidiana, solo attraverso di esso si poteva veicolare un messaggio artistico. Fu così che Andy Warhol maturò l’ idea secondo la quale “tutti i grandi magazzini diventeranno musei e tutti i musei diventeranno grandi magazzini“. La concretizzazione massima di questa intuizione fu il Pop­Shop di Keith Hering, aperto, su suggerimento del mentore Warhol, nel 1986 al 292 di Lafayette Street, New York. In questo spazio, interamente ricoperto dai graffiti del giovane artista, erano messi in vendita gadget con riproduzioni dei suoi disegni e opere originali, che il pubblico/consumatore poteva vedere e toccare liberamente, senza essere inibito dall’aulicità dell’ambiente tipico di musei e gallerie. Parallelamente a questa mimesi della società dei consumi di massa, ci fu un altro aspetto che caratterizzò il lavoro degli architetti che si occuparono, in quel periodo, della progettazione di spazi commerciali. Il mondo dell’architettura, infatti, a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, era stato investito da questa fascinazione per la corsa verso il futuro che il boom economico aveva scatenato. Ogni architetto, in quel periodo, elaborava la propria utopia. Coloro a cui fu affidata la progettazione di negozi, approfittarono del carattere effimero (e dunque più indulgente) di queste particolari commesse per realizzare i prototipi delle loro visioni urbane perché “a differenza degli interni domestici, il negozio si mostra alla città: è un progetto ‘manifesto’. è la città sognata a rispecchiarsi in questi spazi “19. Un esempio molto esplicativo di queste tendenze, in cui fascinazione per la tecnologia e cultura del tempo libero si incontrano, è il progetto per la boutique Altre Cose di Ugo LaPietra, inaugurata nell’estate del 1968. Collegata alla discoteca Bang-Bang ospitata al piano sottostante, il negozio si pre-

19   D.Scodeller, Negozi, l’ architetto nello spazio della merce, Electa, Milano 2007, p. 149

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sentava come “Uno straordinario ambiente programmato, un ambiente-strumento, in cui gli affetti ottici, e sonori, e i movimenti elettronici delle pareti, trasformano il funzionamento in gioco, un gioco in cui il visitatore stesso partecipa e contribuisce”.20 La tendenza, da parte degli architetti, a sfruttare il progetto di un punto vendita come occasione per inscenare le proprie visioni urbane non si esaurì negli anni Settanta. Ne è una prova l’ Epicentro Prada di New York, firmato Rem Koolhaas. In questo negozio rientrano tutte le riflessioni che l’ architetto olandese fa sulle metropoli contemporanee, i cui elementi hanno preso sempre più i connotati dello shopping ­mall: se le città si trasformano in un gigantesco centro commerciale, quale sarà il futuro dei negozi? Secondo il pensiero di Rem Koolhaas, anche lo spazio commerciale è destinato ad ibridarsi con le altre tipologie. è con questa convinzione che decise, agli inizi degli anni Duemila, di inserire un palcoscenico per letture, concerti e performance all’interno dell’Epicentro di New York. La mixitè funzionale e l’ ossessiva attenzione rispetto ai materiali da costruzione mettono in luce come nella mente dell’architetto mostrare i prodotti della nota casa di moda fosse secondario rispetto alla consapevolezza che l’ architettura volutamente autoreferenziale di un archistar, nuova categoria di celebrità, avrebbe fatto da cassa di risonanza all’operazione mediatica di Prada. Il progetto combinato di Rem Koolhaas e Miuccia Prada divenne modello per una serie di spazi commerciali commissionati ad architetti di fama mondiale, ormai diventati testimonial al pari dei vip hollywoodiani, il cui obiettivo non era più l’ esaltazione del prodotto, come nei progetti di Mendelshon, ma di qualcosa di più impalpabile: la marca.

20   T. Trini, Un architetto per vestire la moda. La boutique Altre Cose a Milano, Domus, 460, 1968

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8. Andy Warhol, Inteview-Debbie Harry,1979 9. Ettore Sottsass, Michele De Lucchi, Componenti d’arredo per Showroom Fiorucci, 1980, Amsterdam 10. Ettore Sottsass, Michele De Lucchi, Showroom Fiorucci, 1980, Amsterdam

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“ Tutti i grandi magazzini diventeranno musei e tutti i musei diventeranno grandi magazzini. Andy Warhol

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11. Keith Haring, Popshop, Tokio,1988 12. Keith Haring, Popshop, Tokio,1988

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13. Ugo La Pietra, Negozio Altrecose, Milano, 1969

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14. Rem Koolhaas, Epicentro Prada, New York, 2000-2001 15. Rem Koolhaas, Epicentro Prada, New York, 2000-2001

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USI E COSTUMI DEL VILLAGGIO GLOBALE

Gli Epicentri Prada e tutti gli edifici commissionati dalle grandi firme della moda alle grandi firme dell’architettura sono l’ immagine del compimento di un passaggio epocale, ovvero quello che va dall’era industriale all’era dell’informazione. Non più costruite con la funzione di mettere in mostra la merce, queste architetture patinate si presentano come veri e propri manifesti pubblicitari, il cui obiettivo è quello di comunicare alla città che le ospita il potere e l’ identità di brand la cui qualità dei prodotti è ormai ben conosciuta. Questo modo di concepire i luoghi di consumo deriva dalla complessità che i mercati hanno raggiunto nel corso del XX secolo, durante il quale l’ offerta, da essenziale, si è fatta sempre più diversificata per rispondere alle nuove esigenze dei clienti. Già dalla fine degli Sessanta, questi iniziarono ad interessarsi non più solamente ai singoli prodotti, che il boom economico aveva reso dei semplici commodity, ma, piuttosto, al sistema complesso di significati a cui essi appartengono: frequentare un negozio piuttosto che un altro significava aderire a ideali e lifestyles ben precisi. Poco tempo più tardi subentrarono delle incertezze. La crisi petrolifera del 1973, infatti, generò una stagnazione dell’economia e l’ aumento dei prezzi, e, di conseguenza, la diminuzione della domanda, che, affinché si mantenesse costante, fu segmentata attraverso il lancio sul mercato di prodotti simili, ma indirizzati a fasce di consumatori diverse. Qualche anno dopo,a tutto ciò si aggiunse una maggiore accessibilità delle informazioni, facilitata dalla sempre più capillare diffusione dei personal computers e di Internet, che rese gli individui più informati e consapevoli, dunque più difficili da conquistare. Le evoluzioni del web, inoltre, hanno dato vita alle e-Commerce, che hanno dato la possibilità ai singoli di poter fare acquisti comodamente da casa. Questo fattore ha liberato il negozio dalla sua funzione originale facendolo diventare altro. I nuovi significati attribuiti alle merci, la segmentazione dei mercati, la maggiore accessibilità alle informazioni e, infine, la possibilità di fare acquisti on-line, hanno creato, durante gli ultimi trent’anni del Novecento, una nuova generazione di consumatori. Non più atomi di una singola massa, essi rivendicano la propria individualità e un ruolo più attivo all’interno del sistema. Catturare l’ attenzione di questi nuovi consumatori, per gli operatori del marketing è diventato più difficile, poiché “per generare domanda non era più sufficiente raggiungere la mente del cliente con il classico modello del posizionamento: oc-

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Nella mia progettazione c’è un elemento antico di osservazione del cambiamento e dunque di instabilità percettiva, ma il dato più forte è quello della realtà odierna dove la velocità delle comunicazioni non ha paragone con il passato. Infine c’è una rivoluzione rispetto alla storica immutabilità alla quale l’ architetto legava la sua identità. Questa immutabilità era lo specchio di una società ferma, mentre noi oggi sappiamo che la società si muove molto velocemente. L’ architettura deve rappresentarla, e dunque pensare a se stessa diversamente. E la sua nuova scorrevolezza va percepita da chi guarda e da chi la progetta.

Toyo Ito

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correva mirare anche al suo cuore”21. è questo il principio su cui si basa il Marketing 2.0: non più concentrata nell’esaltazione del prodotto, questa rinnovata disciplina, germogliata nei primi anni Settanta e giunta a maturazione nel 1989, considerato dal guru del makerting Philip Kotler come anno di svolta, ha come oggetto principale d’interesse il cliente, inteso come essere emozionale. Lo scopo di questa seconda fase era quello di creare una relazione tra il brand e i clienti. In questo modo essi, una volta riconosciutosi e affezionatosi all’immaginario legato alla marca, avrebbero continuato ad acquistare i prodotti di questa. Una strategia che molte grandi aziende hanno utilizzato è stata quella di “monumentalizzare” la propria immagine, facendo leva sul fascino che la novità e la grandezza hanno sull’uomo da sempre. Uno strumento per raggiungere questo obiettivo sono i flagship store, edifici dall’immagine immediatamente riconoscibile e dagli spazi interni molto ampi, spesso racchiusi in involucri di vetro. Questo materiale, infatti, dall’espressionismo in poi, è simbolo di sincerità comunicativa e immagine della città del futuro: “ La luce vuole il cristallo”, “Il vetro porta con sé una nuova epoca”, “Siamo rattristati dalla cultura del mattone”, “Il vetro colorato elimina l’odio”, “L’edificio di mattoni ci danneggia”, recitavano le grafiche applicate al Glaspavillon di Bruno Taut. All’interno di questi cristallini monumenti è esposta l’ offerta in tutte le sue linee, ma l’ obiettivo di questi spazi non è far fare fatturato all’azienda. Solitamente collocati nelle capitali e nelle grandi città, infatti, essi rappresentano per il brand un importante apparato di rappresentanza: innalzando questi “monumenti” l’ azienda mostra al pubblico la sua originalità e spinta innovatrice. Non è un caso, infatti, che le architetture dei flagship store più importanti siano frutto di un’approfondita ricerca sulle tecnologie e sui materiali di costruzione. Un esempio molto noto è il flagship store Prada progettato dagli svizzeri Herzog&Demeuron, il cui involucro è stato modellato affinché il vetro assumesse un’immagine ben diversa da quella di leggerezza e trasparenza a cui solitamente è associato. Le lastre di vetro che compongono la pelle dell’edificio, infatti, sono di sezione variabile: l’ insieme di questi rombi concavi, piatti e convessi, crea una tridimensionalità che dà al vetro un effetto di pesantezza, dando così all’intero edificio, un carattere di originalità. Un altro esempio di questa raffinata ricerca su materiali e tecnologie è il già citato

21   P.Kotler, H. Kartajaya, I. Setiawan, Marketing 3.0, dal prodotto, al cliente, all’ anima, Gruppo24Ore, Milano 2010, p. 38

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16. Herzog&DeMeuron, Epicentro Prada, Tokyo, 2003 17. Keiichi Matsuda, Domestic Robocop, 2010 18. Keiichi Matsuda, Domestic Robocop, 2010

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Epicentro Prada di New York, per il quale Koolhaas ha sperimentato schiume metalliche, sistemi di supporto elettronico per il servizio one-to-one ai clienti, il vetro elettrocromico e sistemi misti tra telecamere e specchi per i camerini. Parallelamente ai flagship store, sul finire degli anni Ottanta nacquero i concept store. Essi hanno un carattere meno monumentale e più mimetico rispetto alla città che li ospita perché l’ obiettivo di questi spazi non è sedurre il cliente attraverso un’imponente e futuristica immagine architettonica ma, piuttosto, proponendogli un ambiente in cui poter vivere un momento unico ed irripetibile. Questi spazi seguono le logiche della società del tempo libero, sbocciata negli anni ‘60, e sviluppatasi in anni più recenti. Secondo il noto economista Jeremy Rifkin, infatti, l’ avvento del nuovo millennio ha segnato un passaggio fondamentale per l’ Occidente: il passaggio dal capitalismo industriale al capitalismo culturale “nel quale elementi fondamentali e necessari dell’esperienza umana come la parola,il gesto, la danza, la musica, le arti visive e plastiche sono irregimentate dalle leggi del marketing e distolte dal loro intento creativo per essere economicamente sfruttate”22. Questa svolta, secondo l’ economista statunitense, è stata causata dalla diffusione delle tecnologie digitali che hanno fatto sì che la comunicazione diventasse elemento centrale nelle società occidentali. La cultura, allora, cuore pulsante della comunicazione, diventa più attraente del prodotto industriale in sé. Ciò per cui il consumatore medio è pronto a spendere non è più, dunque, il prodotto uscito dalle fabbriche, di cui ormai il consumatore medio è saturo, ma, piuttosto, un’esperienza, considerata da Bernd H. Schimdt il “farsi corpo della cultura”23. L’ evento e l’ atmosfera divennero così, dalla fine degli anni Ottanta, il punto centrale per la progettazione dei nuovi spazi di vendita. Ralph Lauren, ad esempio, con il primo concept store della storia, aperto a New York nel 1986, proponeva al cliente un’ immersione nell’immaginario tipico americano. In tempi più recenti, nel 2012, invece, Marc Jacobs, direttore artistico di Louis Vuitton, coinvolse l’ artista Yayoi Kusama per la progettazione del concept store di Selfridge. Di natura effimera (rimase aperto pochi mesi), questo spazio aveva alla base l’ idea

22   M. Ferraresi, B. H: Schmitt, Marketing esperienziale, come sviluppare l’ esperienza di consumo, Franco Angeli, Milano 2006, p. 9 23   M. Ferraresi, B. H: Schmitt, Marketing esperienziale, come sviluppare l’ esperienza di consumo, Franco Angeli, Milano 2006, p. 11

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di creare un evento: non si trattava di entrare in un negozio a fare acquisti ma, piuttosto, di visitare un’installazione ambientale di una nota artista giapponese. L’ immediata accessibilità ad Internet, raggiunta negli ultimi anni, ha favorito la nascita di questi particolari luoghi progettati per ospitare eventi, sempre più spesso comunicati attraverso un tamtam di inviti e annunci, resi veloci e facilmente diffondibili dalla rete. Un noto esempio di questo tipo di spazi temporanei sono i guerrilla store di Comme des Garcons, frutto della mente di Rei Kawakubo. Circa dieci anni fa, la stilista giapponese capì che per raggiungere il cuore del target di riferimento della sua azienda, composto da persone giovani, anticonformiste e ostentatamente eccentriche, non erano abbastanza sufficienti le ricercate architetture delle altre case di moda. Per attirare questo tipo di consumatori, infatti, bisognava coglierli di sorpresa, occupando quei piccoli magazzini abbandonati che esistono in ogni periferia di ogni città, utilizzati dalle tribù metropolitane per rave, concerti e performance. Questi piccoli punti vendita irrompevano nelle città, solitamente lontane dalle grandi capitali della moda, senza un preavviso ufficiale e scomparivano nel giro di un anno. In questo modo si faceva leva sulla curiosità e sulla consapevolezza che, se non si fosse acquistato un capo di Comme des Garcones in quei pochi mesi, sarebbe stato sicuramente più difficile ottenerlo in altri modi e che l’esperienza con il brand sarebbe stata sicuramente più fredda, se mediata da un’ e-commerce. Altra intuizione avuta da Rei Kawakubo fu quella di commissionare la sistemazione di questi spazi abbandonati a giovani architetti locali. Solo questi, infatti, essendo maggiormente a contatto con le realtà socio-culturali della città, sarebbero stati capaci di intervenire sul costruito senza alterarne l’ atmosfera e i significati. In questo modo si garantiva al brand una relazione empatica con i clienti, i quali avrebbero percepito la marca come qualcosa facente parte del loro ambiente e non come qualcosa che vi si impone. Lo stesso carattere di temporaneità caratterizza i pop-up store, piccoli spazi apparsi per la prima volta nel 2004. Leggere e facilmente trasportabili in queste strutture vengono venduti i prodotti di punta o le special edition di una collezione. A differenza dei guerrilla store, il cui allestimento rappresenta già in sé l’ evento, i pop-up store solitamente vengono eretti in merito a qualche manifestazione aggregativa estranea alla vendita.

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I consumatori attuali definiscono certi oggetti o esperienze di consumo come rappresentanti di qualcosa di più degli oggetti ordinari che sembrano essere [...]. Esprimendo questi valori attraverso il loro consumo, essi prendono parte ad una celebrazione del loro legame con la società nel complesso e con alcuni individui in particolare. Per una società definire come sacri certi artefatti che sono portatori di valore, fornisce coesione e integrazione sociale.

Per l’ individuo partecipare a queste espressioni attribuisce significato alla vita e fornisce un meccanismo per sperimentare stabilità, gioia e occasionalmente estasi.

Belk, Wallendorf and Sherry

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19. Yayoi Kusama, Performance per Louis Vuitton, Londra, 2012 20. Yayoi Kusama, Allestimento per Louis Vuitton, Londra, 2012

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La crisi scoppiata nel 2008 ha fatto sì che la carte in tavola cambiassero nuovamente, mettendo sotto la lente di ingrandimento problemi fino ad allora ignorati. L’umanità, infatti, dal quel fatidico anno, è costretta ad affrontare una sempre più diffusa povertà, l’ingiustizia sociale, la distruzione dell’ecosistema e la questione delle risorse energetiche. A livello sociale questo ha scatenato delle ansie nella mente dei singoli, ormai ben consapevoli di non poter più seguire i modelli di vita di qualche decennio prima ma, allo stesso tempo, non disposti a rinunciare alle conquiste dell’epoca contemporanea. A questo sentimento di inquietudine si affianca il fatto che, poiché i mercati sono saturi, i consumatori iniziano a considerare ugualmente banali i prodotti e i servizi offerti da aziende differenti. Nemmeno quanto dettato dai principi del Marketing 2.0 è più sufficiente per sedurre il pubblico, poiché considerato ormai scontato. In questi tempi turbolenti un’azienda, per conquistare o mantenere il proprio successo deve, dunque, proporre qualcosa di meno effimero di un’esperienza, qualcosa che abbia, nella vita quotidiana dei propri clienti un impatto incisivo e duraturo:

“ [...] le ansie e i desideri dei consumatori hanno a che fare con la volontà di fare del loro contesto sociale un posto migliore, forse anche ideale in cui vivere. Le imprese che aspirano a diventare icone dei consumatori devono, dunque, condividere con loro lo stesso sogno e mostrare di fare qualcosa per realizzarlo.”24

La nuova fase del marketing, il Marketing 3.0, ha un nuovo obiettivo: lo spirito del consumatore. Per raggiungerlo è necessario vendere dei valori, non più solo merci ed esperienze. I consumatori di terza generazione, infatti, sono molto più propensi a spendere per i prodotti e i servizi di un’ azienda che si impegna nelle questioni sociali, ambientali e culturali, contribuendo alla costruzione di un mondo più equo ed ospitale. Secondo Philip Kotler, che ha teorizzato il Marketing 3.0, le principali forze che danno forma all’ ambiente di business sono la partecipazione, la creatività sociale e il paradosso della globalizzazione. Il primo fattore è strettamente legato alle tecnologie digitali, il cui sviluppo ha

24   P.Kotler, H. Kartajaya, I. Setiawan, Marketing 3.0, dal prodotto, al cliente, all’ anima, Gruppo24Ore, Milano 2010, p. 55

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permesso agli utenti della rete non solo di attingere a un vasto database di contenuti, ma di contribuire a costruirlo. Attraverso le nuove piattaforme web, infatti, è possibile creare e diffondere notizie, scambiarsi pareri su prodotti e servizi, interagire con le aziende. Chi naviga nella rete, oggi, non è più soggetto passivo, pronto a subire quanto gli viene offerto, ma, anzi, riveste importanti ruoli decisionali e relazionali. Le aziende più attente non hanno potuto ignorare questa nuova veste dell’internauta, dunque hanno iniziato a coinvolgere i propri clienti nel miglioramento e nella creazione di nuovi prodotti. Tra i nuovi utenti del web, inoltre, è emersa una categoria che, poiché sempre impegnata ad immaginare mondi alternativi, si esprime e collabora con maggiore costanza di altre: i creativi. Questi, secondo le analisi di Kotler, dato che non si fanno remore nell’esprimere i propri punti di vista “rappresentano i nodi della rete di connessioni tra i consumatori, e per questa via influenzano con i propri stili di vita e atteggiamenti l’ intera società”25. Trattandosi di persone dotate di spirito innovatore e di una visione lucida del presente e lungimirante del futuro (in pratica i flaneur del nuovo millennio), queste vengono rivestite di un ruolo sempre più rilevante all’interno della società contemporanea. La creatività, infatti, risulta una caratteristica umana fondamentale per trovare la soluzione ai grandi problemi che affliggono quest’epoca. Inoltre, caratteristica dei creativi è la loro ricerca di autorealizzazione personale, che spesso è prioritaria rispetto al raggiungimento del benessere economico. Questo modo di agire denota in questi in idividui una spiccata spiritualità. L’ ascesa di questa categoria, che fornisce una notevole spinta motrice alla società contemporanea, e il fatto che per buona parte della popolazione occidentale i bisogni primari sono facilmente soddisfacibili, hanno cambiato le necessità dei consumatori. Non più alla ricerca di un prodotto, di simboli legati a mode passeggere e di un’ emozione temporanea, essi ricercano una missione in cui credere, in modo tale da poter dare il loro contributo al benessere dell’umanità. Pertanto il potere mediatico legato alla costruzione di un nuovo negozio, per le aziende presenti da molto tempo nelle città e quindi ben note al pubblico, si sta esaurendo. La conseguenza è che gli investimenti di questi brand si stanno spostando verso altre forme di autorappresentazione.

25   P.Kotler, H. Kartajaya, I. Setiawan, Marketing 3.0, dal prodotto, al cliente, all’ anima, Gruppo24Ore, Milano 2010, p. 25

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è in questo discorso che rientrano i grandi interventi su monumenti e aree degradate finanziati dalle più grandi aziende del globo. In Italia, ad esempio, hanno destato molto entusiasmo le recenti operazioni di Fendi e Prada. La maison romana è stata nel 2013 protagonista del restauro della fontana di Trevi, intervento costato 2 milioni 180 mila euro. Il successivo restauro e la riapertura del Palazzo della Civiltà, di cui Fendi si è fatta carico, rendono evidente come nella mente dei manager a capo di quest’azienda ci sia una precisa missione: salvare Roma dal degrado in cui negli ultimi anni è stata lasciata e che in molti, anche stranieri, hanno iniziato a denunciare a gran voce. Da queste due costose operazioni Fendi ha ottenuto un notevole miglioramento della propria immagine, percepita dall’ opinione pubblica, come un’ azienda profondamente interessata a dare il proprio contributo alla rinascita culturale romana e capace di creare un sano connubio tra pubblico e privato. Un atteggiamento più provocatorio ha invece caratterizzato la recentissima Fondazione Prada, cha ha trovato sede in una ex-distilleria risalente ai primissimi anni del Novecento. L’ area in cui sorge il complesso edilizio voluto da Miuccia Prada e progettato da OMA, caratterizzato da una riuscita alternanza di nuovo e antico, ha tutte le caratteristiche della periferia milanese: muta, anonima, desolata e desolante. In una zona di questo tipo, la forza di questo intervento è l’ offerta di spazi pubblici, accessibili gratuitamente. Questa scelta progettuale ha un alto valore strategico in un periodo in cui uno dei più rinomati architetti italiani, quale è Renzo Piano, utilizza il suo potere di senatore a vita per portare avanti l’ ambizioso progetto di rammendo e riqualifica delle periferie urbane, considerate il futuro delle città. Anche in questo caso, dunque, l’ intervento di Prada sull’ ex-distilleria non è solo una questione di immagine, ma una vera e propria missione. Questi due esempi introducono un terzo fattore caratterizzante il Marketing 3.0: il recupero delle proprie radici. La globalizzazione, infatti, come spiega Kotler, ha generato una serie di paradossi, che hanno contribuito ad aumentare l’ inquietudine negli individui. Tra quelli che hanno un impatto maggiore nella vita quotidiana vi è quello descritto da Thomas Friedman come “sfida tra la Lexus e l’ ulivo”, uno simbolo della globalizzazione, l’ altro simbolo delle radici culturali che ogni essere umano, volente o nolente, conserva in sé. La globalizzazione, secondo il pensiero di Friedman, ha avuto due effetti opposti. Infatti, grazie alle tecnologie digitali, si è creata una cultura universale, che ha ridotto le distanze tra persone provenienti da culture e punti geografici diversi.

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Questa stessa cultura universale, però, è anche avvertita come un pericolo che minaccia di far scomparire l’ identità dei singoli popoli, che, per difendersi dal rischio di un appiattimento culturale, si stanno impegnando sempre più spesso nel riscoprire i luoghi e le tradizioni che hanno generato il loro DNA. Non è una coincidenza se, allora, Fendi e Prada, brand che hanno ramificazioni in tutto il mondo, scelgono le città in cui la loro storia ebbe inizio come sedi dove concentrare le loro operazioni di marketing culturale. La riscoperta del proprio codice genetico culturale ha diffuso un certo interesse per le realtà locali, a cui si partecipa più attivamente, cercando di ricostruire il senso di comunità, intesa secondo l’ originario significato del termine, ovvero come “molteplicità di persone considerate come entità organica sotto il profilo sociale, politico, culturale”26. Ne consegue che nella mente e nel cuore degli individui di oggi si sta accrescendo il desiderio di contatto umano, senza il quale è difficile sentirsi appartenenti ad una comunità. La prova di questo fenomeno è l’ enorme successo che stanno avendo le app per smart-phone il cui scopo è quello di agevolare l’ incontro tra persone che vogliono condividere la passione per videogiochi e boardgames, una cena o semplicemente favori con gli abitanti dello stesso quartiere, altrimenti sconosciuti e irraggiungibili. L’ immagine del futuro si sta decisamente trasformando. Quella veicolata dai film cyberpunk di inizi Duemila, dove le persone vivevano nella solitudine e anonimia di grandi metropoli iper-antropizzate sta lasciando il posto ad un immaginario in cui l’ uomo ha finalmente stabilito un rapporto sano e armonico con il suo ambiente naturale, sociale e culturale. Si può allora affermare che l’ era in cui i bit sembravano voler sostituire gli atomi, come profetizzato dall’informatico Nicholas Negroponte in “Essere Digitali”, si è definitivamente conclusa e che se ne sta aprendo una nuova, in cui la tecnologia verrà utilizzata per agevolare l’ esistenza dell’uomo, nel rispetto dell’ambiente e del suo essere un animale sociale. Questa visione del futuro, però, lascia un grande interrogativo: come si comporteranno tutte quelle entità fatte di bit che fino a poco tempo fa potevano vivere solo nello spazio virtuale?

26   P.Kotler, H. Kartajaya, I. Setiawan, Marketing 3.0, dal prodotto, al cliente, all’ anima, Gruppo24Ore, Milano 2010, p. 25

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DAL WEB ALLA CITTÀ

Il tre fattori che hanno portato alla nascita del Marketing 3.0, in particolare quello relativo al paradosso della globalizzazione, che, come già descritto, ha contribuito a delineare una visione più “social” del futuro, hanno imposto delle nuove problematiche a quelle aziende nate e cresciute nel web. Negli ultimi due anni questi si sono ritrovati ad affrontare la spinosa questione del rapporto tra realtà virtuale e realtà fisica, da cui è emersa la necessità di integrare l’interfaccia web con un’interfaccia tangibile. Tra le aziende del web che maggiormente sentono questa necessità vi sono le e-Commerce, il cui rapporto con i clienti è diventato sempre più articolati e difficili da gestire. I comportamenti dei consumatori di oggi, infatti, sono diventati molto complessi e variegati: c’è, chi accede ai siti di e-Commerce per consultare le informazioni sul prodotto e i commenti degli utenti ma poi preferisce acquistare in negozio, chi, si informa on-line, testa nel punto vendita, e ritorna on-line per concludere l’acquisto, e chi, invece, compra direttamente on-line ma ritira off-line. La combinazione tra negozio virtuale e negozio fisico, dunque, risulterebbe essere molto vantaggiosa, poiché maggiormente capace di rispondere alle abitudini e ai bisogni dei consumatori multicanale, che secondo le statistiche spendono fino a tre volte e mezzo rispetto a quelli tradizionali. Il negozio fisico, infatti, garantirebbe agli appartenenti alla prima categoria di clienti multicanale la possibilità di interloquire con personale umano, le cui informazioni, attraverso un processo empatico, verrebbero rivestite di maggiore autorevolezza rispetto a quelle presenti sul sito web. Inoltre avere a che fare con un volto umano darebbe al consumatore un maggiore senso di fiducia. Per quanto riguarda coloro che si recano nel punto vendita solo per provare il prodotto, l’ estensione delle e-commerce nella realtà fisica rappresenterebbe non solo un maggiore senso di solidità dell’azienda, ma anche l’ opportunità di favorire l’ acquisto di impulso, comportamento che non si verifica durante un atto d’acquisto on-line, e dunque di aumentare i fatturati. Infine, attraverso lo store fisico, si darebbe la possibilità a chi compra oggetti costosi o fragili di ritirarli personalmente, diminuendo, così, le probabilità di incidenti di trasporto, che minano notevolmente la fiducia del cliente. Le prime sperimentazioni di integrazione tra virtuale e fisico sono state svolte nel 2011, quando Google chiese degli spazi all’interno dei negozi Dixon&Curry PC Worlds dove piazzare degli stand, presso i quali sostava del personale incaricato di mostrare il funzionamento dei Chromebooks e di rispondere alle domande degli interessati. Qualche anno più tardi fu il turno di Amazon, che nel Dicembre 2014 annunciò di voler aprire uno store sulla trentaquattresima strada di Manhattan. Obiettivo di

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quest’operazione non era solo quello di venire incontro ai fruitori del servizio web, ma anche quello di costruire una grande vetrina per i prodotti marchiati Amazon, come i Kindle e Tablet-Fire. In tempi recentissimi questi esperimenti, che a quanto pare sono andati a buon fine, sono stati portati ad un livello superiore. Gli stand del noto motore di ricerca, infatti, si sono evoluti in un vero e proprio store, aperto nel cuore di Londra lo scorso 11 Marzo 2015. In questo spazio è possibile provare i prodotti Google, che ancora fanno fatica a prendere il volo proprio a causa del fatto che possibili acquirenti fin’ ora non potevano testarli e questa limitazione, per oggetti così tecnologicamente avanzati come ad esempio i Google Glasses, è un grande svantaggio. Oltre a questo, all’interno del primo Google Store è possibile partecipare alla creazione di nuovi Doodle attraverso una lavagna interattiva su cui disegnare la propria idea, vedere video attraverso il Chromecast Pod ed esplorare il globo utilizzando Google Earth. Google ha anche annunciato di voler utilizzare questo spazio per ospitare corsi finalizzati ad introdurre i bambini al mondo dei linguaggi di programmazione e ad istruire il pubblico adulto su temi non a tutti noti ma ormai fondamentali nella nostra quotidianità, come ad esempio quello della sicurezza informatica. Più recente ancora è l’ apertura della prima libreria Amazon, inaugurata a Seattle il 3 Novembre 2015. Volutamente privo di partizioni interne, eliminate per ricreare la fluidità con cui si passa da un prodotto all’altro durante la navigazione del sito web, in questo store è possibile acquistare libri e i devices prodotti da Amazon, i quali, anche qui, potranno essere testati dal pubblico. Un aspetto interessante riguarda la scelta dei volumi esposti, selezionati in base al numero di acquisti registrato sul sito e al livello di gradimento dimostrato dagli utenti attraverso commenti e recensioni, i più convincenti dei quali sono riportati su targhette disposte sugli scaffali del negozio. Come dimostrato da questi due casi, le sperimentazioni riguardanti gli spazi commerciali, sono oggi in mano ai colossi del web.

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21. Keiichi Matsuda, Hyper-Reality, 2016 22. Fred Sebastian, Marshal McLuhan, 2011

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“ Su un pianeta ridotto dai nuovi media alla dimensione di un villaggio globale persino le città appaiono strane ed eccentriche, forme arcaiche già ricoperte da nuovi modelli di cultura. Marshal McLuhan

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23. Zalando Pop-up Store, Vienna, 2015

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24. Negozio Google, Londra, 2015 25. Libreria Amazon, Seattle, 2015

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CONCLUSIONI

Durante la storia del Novecento i luoghi del commercio sono stati oggetto delle più svariate osservazioni da parte di flaneurs, sociologi, artisti e marketing managers, poiché la loro ricchezza di significati poteva dare le chiavi di lettura di intere epoche. La terza fase del marketing, però, sembra aver posto questioni ancora più impegnative alle aziende, molte delle quali non possono più trovare spazio solo all’interno dei luoghi di commercio. L’ attenzione dei molti brand che hanno commissionato progetti che hanno fatto la storia dell’architettura, ora, si è in gran parte spostata verso altre tipologie di costruito, come dimostrato dagli esempi di Prada e Fendi. I principi del nuovo marketing, se per certe aziende hanno dichiarato l’ arresto degli esperimenti architettonici all’interno dei negozi,che continuano comunque a svolgere il proprio ruolo efficientemente, per altre, quelle generate dai click, hanno dato inizio ad una nuova sfida che vede l’ approdo del virtuale nella realtà fisica. Sfida, questa, che si sta affrontando all’interno degli spazi del commercio.

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26. Keiichi Matsuda, Hyper-Reality, 2010 27. Keiichi Matsuda, Hyper-Reality, 2010

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Parte Seconda iShop: un modello per il negozio del futuro

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COSA? I-SHOP!

In questa seconda parte della tesi verrà illustrato il progetto per un ipotetico negozio del futuro, all’interno del quale prendono forma le considerazioni fatte durante la prima fase del lavoro. Il progetto in questione è stato steso esulando da uno specifico brand poiché si è voluto creare un nuovo modello di spazio, mettendo in luce i sistemi di relazione che lo governano, i quali potrebbero essere validi per qualsiasi e-Commerce che decidesse di aprire un negozio fisico. Il nome “iShop” richiama volutamente quelli scelti da Steve Jobs per i oggetti da egli creati in quanto si vuole associare al progetto la stessa immagine di novità che generalmente si lega a iPhone, iPod e iPad, la cui “i” sta per “Internet”. iStore, dunque, come i prodotti Apple, è uno spazio che dialoga continuamente con e attraverso la rete.

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28. Matteo Calanchi, Nothing to see here

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DOVE?

Il luogo stabilito per la creazione dell’ iShop è il Cinema Maestoso di Milano, che sorge in Piazzale Lodi. La scelta è ricaduta su questo fabbricato per gli ovvi motivi di accessibilità (esso è facilmente raggiungibile poiché Piazzale Lodi è servito dalla metropolitana M3, dalle linee 62, 90 e 91 del tram, dal Passante Ferroviario e da Bike Sharing), ma anche e soprattutto per ragioni strategiche e concettuali. Il riutilizzo di un edificio dismesso, infatti, risponde meglio ai principi del Marketing 3.0 rispetto alla costruzione ex novo, in particolar modo in un territorio come quello della Lombardia, il cui consumo di suolo è il più alto d’Italia, e in una città come Milano, in cui non sono mancate, negli ultimi anni, manifestazioni a favore del recupero dei numerosissimi luoghi dismessi. L’ altra motivazione che sta dietro alla scelta del Cinema Maestoso come sede dell’ iShop, invece, ha un carattere meno pragmatico e decisamente più visionario. Nell’ormai lontano 1989, infatti, Marshall McLuan, influente sociologo, filosofo e critico canadese, scrisse che “su un pianeta ridotto dai nuovi media alla dimensione di un villaggio globale persino le città appaiono strane ed eccentriche, forme arcaiche già ricoperte da nuovi modelli di cultura”.27 La decisione di utilizzare un edificio un tempo utilizzato per ospitare un cinema, luogo ormai obsoleto e destinato ad essere soppiantato dai più comodi multisala ai margini della città o da un abbonamento a Netflix, è dunque sembrata coerente con la visione del mondo, pienamente condivisa, di McLuan.

27   M.McLuan, Villaggio Globale, XXI secolo: trasformazioni nella vita e nei media, Sugarco Edizioni, 1998, Milano, p. 114

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IL CONSUMATORE DIGITALE

Molte delle idee di progetto che stanno alla base di iShop derivano da un’analisi sui comportamenti degli individui dell’era digitale. Come si è detto, infatti, al giorno d’oggi il consumatore medio, grazie alla diffusione di Internet, risulta essere piuttosto informato sui prodotti in circolazione e dunque più selettivo e difficile da convincere. Allo stesso tempo però, anche le aziende possono facilmente informarsi sui propri clienti. Ormai chiunque, infatti, più o meno consapevolmente, tende a lasciare in rete delle tracce che raccontano ogni sfumatura dell’esistenza che si sta conducendo. Attraverso queste tracce si può venire a sapere dove si è stati in vacanza, a quali eventi si è partecipato, se si è single o in coppia, cosa si è mangiato a pranzo, quali problemi si sta cercando di affrontare, ecc...Insomma, attraverso queste impronte lasciate nel mondo virtuale, è facile tracciare profili piuttosto verosimili delle identità che lo vivono. Ovviamente tutto ciò, al di là di speculazioni fantascientifiche che tanto affascinano registi e scrittori, viene utilizzato dalle aziende per promuovere prodotti e servizi. Questo è facilmente osservabile se si presta attenzione ai dettagli delle pagine web che si scrollano durante una giornata tipo: praticamente per ogni ricerca che si fa su un motore di ricerca, sulle home dei social o intorno a qualche articolo di una qualche webzine compariranno pubblicità e annunci inerenti a quanto si è ricercato qualche minuto prima. Riassumendo, i consumatori non sono più solo un bersaglio verso cui indirizzare messaggi e nemmeno solo dei silenti scrutatori del web, ma sono diventati essi stessi parte integrante del mare di contenuti che caratterizza questa epoca. Da questa riflessione deriva il sistema di relazioni che prendono luogo all’interno di iShop, il quale vuole essere la messa in scena di questo grande flusso di informazioni che nel commercio ha trovato la sua forma più chiara e cristallina.

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COME?

Che cosa spinge ad affrontare il traffico auto, imbattersi nella fila alla cassa o ai camerini, immergersi nella folla per fare un acquisto quando questo si può fare comodamente e velocemente da casa in pochi secondi? La risposta principale è una: non si è convinti dell’oggetto che si sta per comprare on-line e si preferirebbe vedere dal vivo se è davvero il caso di spendere soldi per quell’articolo o piuttosto che per un altro. Inoltre, perché un’e-Commerce, o un motore di ricerca nel caso di Google, dovrebbe aprirsi un negozio, considerato quanto è comodo e quanto tempo fa risparmiare fare acquisti on-line? Innanzitutto, avere un negozio fisico per un’e-Commerce significa avere una vetrina ben visibile per i propri prodotti. Amazon, Google, Zalando, e altre aziende che lavorano nel web, infatti, non si limitano ad essere un servizio per la ricerca di prodotti, ma esse stesse producono le proprie linee (Amazon, per esempio, ha Kindle, vestiario di vario tipo, accessori per fotografi; Zalando ha la sua linea basic, Google i suoi tablet, ecc...). Questi prodotti però, contrariamente a molti altri offerti dagli stessi siti ma facilmente reperibili nei negozi fisici del brand a cui appartengono, non possono essere in alcun modo essere testati dal vivo dai possibili acquirenti e questo diminuisce la possibilità di guadagno su questi prodotti. Inoltre il negozio rappresenterebbe un’interfaccia fisica attraverso la quale i vari brand del web possono ricreare atmosfere e mettere a disposizione del cliente dei commessi specializzati che lo guidino all’acquisto. Questo renderebbe l’esperienza con il brand più umana rispetto a quella che si fa on-line, dove le relazioni con esso sono decisamente più meccaniche e fredde, e dunque aumenterebbe la probabilità di fidelizzare gli utenti. Infine, all’interno di un negozio spesso e volentieri si fanno acquisti d’impulso, comportamento che durante l’analitico e razionale acquisto on-line non si genera. Avere un negozio fisico, dunque significa aumentare i fatturati, poiché parte di questi deriverebbero dagli acquisti di impulso. Stabilito ciò, si è provato ad immaginare come possa essere organizzato un negozio nato da un’ e-Commerce/motore di ricerca. Sicuramente le funzioni più tradizionali, come ad esempio l’area assistenza, lo spazio per eventi o il bar, finalizzate al miglioramento del rapporto tra brand e cliente, rientrano nel progetto. A queste, però,ne viene affiancata un’altra che, invece, rispecchi maggiormente quel continuo entrare e uscire dal mondo virtuale che caratterizza l’ uomo contemporaneo. Si è pensato, infatti, di predisporre delle wunderkammer, all’interno delle quali, per mezzo di strumenti tecnologici come proiettori olografici, verrà allestita l’”offerta personalizzata”.

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Queste “stanze delle meraviglie” si possono prenotare attraverso il sito o l’ app del negozio, il quale fornirà un codice d’accesso. Una volta ottenuto l’ accesso, sarà possibile maneggiare e provare i prodotti precedentemente richiesti on-line, il quale invierà la richiesta al magazzino, che a sua volta invierà la merce al negozio. Questi spazi sono connessi al mondo on-line, il quale, come è noto, è capace di offrire un panorama più o meno dettagliato dei nostri interessi, dei nostri desideri e delle nostre necessità. L’ allestimento delle wunderkammer, che sono dotate di dispositivi tecnologici, risponde alle informazioni relative all’utente raccolte attraverso il web, dando la possibilità al brand di offrire non solo quanto esplicitamente richiesto, ma anche tutta quella serie di gadget che solitamente sono oggetto di acquisti d’impulso. Infine, se l’utente è interessato ad acquistare anche questi gadget, potrà customizzarli e produrli attraverso stampanti 3d.

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LA LOGISTICA

Da un recente studio condotto da Amazon, è emerso che l’ 86% dei suoi clienti fa acquisti che non superano i 2,25 kg di peso. Considerando questo dato valido anche per un modello generico quale è iShop, si è pensato di organizzare il sistema logistico su due poli: uno più piccolo e continuovo al negozio, dove riporre le merci più pesanti e un altro più grande ai margini della città. Per quest’ ultimo si è ipotizzato di assegnargli la stessa posizione del magazzino Amazon Prime, attualmente collocato in zona Affori. Successivamente, utilizzando i dati di un drone da consegna di Amazon, si è proceduto a verificare che tale ubicazione permettesse di far arrivare i prodotti in negozio in non più di dieci minuti dall’arrivo del cliente.

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I-SHOP: IL PROGETTO

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I-SHOP: IL PROGETTO

LE TECNOLOGIE

L’ interno e l’esterno di iShop sono dotati di diversi dispositivi tecnologici: 1-Palm scanner: entrando nel negozio il cliente può decidere di fare il log-in avvicinando la mano alle pareti-scanner. In questo modo attiverà i servizi personalizzati. 2-Wunderkammer Tecnologiche: l’esterno delle wunderkammer tecnologiche, così come la wunderkammer mobile, sono rivestite da schermi ultrasottili dotati di tecnologia e-ink. Tale involucro si decora con le grafiche create dal cliente durante la fase on-line in modo tale da essere riconoscibili dallo spazio centrale. 3-Stampante 3d: l’ edificio ha al suo interno delle stampanti 3d per la produzione di piccoli oggetti. 4-Sistema per la realtà aumentata: il sistema per la realtà aumentata consta di una serie di bracci meccanici capaci di disegnare sugli appositi tavoli i marker dei prodotti che la rete ha valutato come migliori. Tale giudizio viene monitorato ora per ora, dunque gli oggetti virtualmente esposti sono sempre diversi. Inoltre il sistema è collegato alle pareti-scanner, le quali, calcolando medie e statistiche sulla base dei log-in, suggeriscono una serie di prodotti da proiettare. Ai bracci meccanici e ai tavoli sono stati abbinati degli schermi mobili per dare la possibilità a tutti di vedere gli oggetti virtuali generati dai marker, ma soprattutto per incuriosire il cliente che passeggia all’interno della struttura. 5-Wunderkammer Mobile: la wunderkammer mobile, visibile dall’esterno, è rivestita da pannelli dotati di tecnologia e-ink in modo tale da cambiare sempre il suo aspetto. 6-Vetrine interattive: le vetrine interattive caratterizzano lo spazio vuoto che la forma dell’edificio originale ha generato. Esso è stato utilizzato come piazza pubblica in cui mettere in scena le operazioni di guerrilla marketing, offrendo ai cittadini occasione di divertimento.

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I-SHOP: IL PROGETTO

PIANTE

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PIANTA PIANO -1

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PIANTA PIANO 1

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PIANTA PIANO 2

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PIANTA PIANO 3

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I-SHOP: IL PROGETTO

SEZIONI

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I-SHOP: IL PROGETTO

ELEMENTI IN DETTAGLIO

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I-SHOP: IL PROGETTO

WUNDERKAMMER

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I-SHOP: IL PROGETTO

INGRESSO

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I-SHOP: IL PROGETTO

SISTEMA PER LA REALTÀ AUMENTATA

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VISTE

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ISPIRAZIONI

Nelle pagine seguenti sono riportate delle immagini che fanno capo alle mie esperienze personali, al mio bagaglio culturale e ai miei interessi e che inevitabilmente hanno influenzato il progetto. L’ immagine 29 si riferisce ad un argomento che spesso ho incontrato nel mio percorso universitario e che mi ha sempre affascinato, ovvero quello dell’oggetto in relazione al suo ambiente circostante. Le 30 e 31, invece, sono frame tratti da un cortometraggio intitolato “15 milioni di celebrità” e aprono ad un’altra tematica che mi è capitata di affrontare durante gli anni di specialistica: gli ambienti interattivi. Le due figure, infatti, mostrano uno spazio che dialoga in modo talmente costante e trasparente con chi lo abita da essere capace di riprodurre attimo per attimo sulle proprie superfici immagini che fanno riferimento alla personalità e allo stato d’animo di questi. La visione di questo filmato è stata d’ispirazione per l’ideazione del sistema per l’offerta personalizzata all’interno di iShop. Entrambi questi temi si incontrano nel lavoro di Studio Azzurro, ritratto nelle immagini 32 e 33, che consiste nel creare ambienti in cui l’oggetto reale e il mondo virtuale interagiscono tra loro, abbattendo la classica contrapposizioni che si usa attribuire ai due. Un contributo particolare al progetto è stato dato dall’opera “Luci di inganni”, dove oggetti di vita quotidiana sono messi in relazione con la loro estensione virtuale, dando vita ad uno spazio dominato da un dialogo continuo tra il dentro e il fuori dello schermo. Altro apporto importante per l’elaborazione del tema di tesi è stato dato dalla Pop Art, in particolare dall’opera “Prada Marfa” di Michael Elmgreen e Ingar Dragset, che consiste in una piccola boutique Prada al cui interno sono ospitati prodotti autentici. Inserito in un contesto ad esso totalmente inusuale, ovvero il deserto degli Stati Uniti, questo piccolo edificio era stato pensato per deteriorarsi sotto l’azione degli agenti atmosferici e voleva essere un elemento di critica da parte degli artisti nei confronti della gentrification e del consumismo, il quale ne ha divorato completamente il significato. Essendoci all’interno dei prodotti firmati Prada, infatti, l’installazione è stata oggetto di vandalismo e furti, obbligando all’introduzione

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di telecamere di videosorveglianza e alla manutenzione periodica. La paradossale storia di quest’opera di land art dimostra quanto la società dei consumi sia pervasiva e fagocitante. Infine, le ultime due immagini, le 35 e 36, rappresentano due esempi di edifici industriali che ho visitato e che hanno ispirato gli elementi architettonici del progetto.

29. Ferrante Imperato, Dell’Historia Naturale, Napoli, 1599

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30. Charlie Brooker, 15 milioni di celebritĂ 31. Charlie Brooker, 15 milioni di celebritĂ

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31. Studio Azzurro,Immagini Sensibili, Milano, 2016 32. Studio Azzurro, Orchestra Celeste, Roma, 2008

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34. Michael Elmgreen e Ingar Dragset, Prada Marfa, Texas, 2005

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35. Johannes Brinkman e Leendert Van der Vlugt,Van Nellefabriek, 1925-1931 36. Fritz Shupp e Martin Kremmer, Zollverein Zeche, Essen, 1927-1932

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BIBLIOGRAFIA

BAUDRILLARDA Jean, Violenza del virtuale e realtà integrale, Edumond Le Monnier, Milano, 2005 BENJAMIN Walter, “Parigi capitale del XIX secolo”, Einaudi, Torino 1986 BRANZI Andrea, Una generazione esagerata, dai radical italiani alla crisi della globalizzazione, Baldini & Castoldi, Milano, 2014 CODELUPPI Vanni, Lo spettacolo della merce, i luoghi del consumo dai passages a Disney World, Bompiani, Milano, 2000 CODELUPPI Vanni,” Metropoli e luoghi del consumo”, Mimesis Edizioni,Milano, 2014 VENTURI Robert, “Imparando da Las Vegas,il simbolismo dimenticato della forma architettonica”, Quodlibet, Macerata, 2010 DROSTE Magdalena, Bauhaus archiv 1919-1933, Taschen, Berlino, 2006 SCODELLER Davide,” Negozi, l’architetto nello spazio della merce”, Electa, Milano, 2007 FERRARESI Mauro, SCHMITT Bernd, “Marketing esperienziale, come sviluppare l’ esperienza di consumo”, Franco Angeli, Milano 2006 KOTLER Philip, KARTAJAYA Hermawan, SETIAWAN Iwan,” Marketing 3.0, dal prodotto, al cliente, all’anima”, Gruppo24Ore, Milano 2010 MCLUHAN Marshal, “Villaggio Globale, XXI secolo: trasformazioni nella vita e nei media”, Sugarco Edizioni, Milano,1998

PEGORARO Massimo, TREVISAN Michele, “Retail Design, progettare la shopping experience”, Franco Angeli, Milano, 2007 PERSICO Edoardo, “Un bar a Milano”, in Casabella, gennaio 1933 QUALIZZA Gabriele, “Oltre lo shopping, i nuovi luoghi del consumo: percorsi, esplorazioni, progetti”, Edizioni Goliardiche,Trieste, 2006 TRINI Tommaso, “Un architetto per vestire la moda. La boutique Altre Cose a Milano”, Domus, 460, 1968

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FONTI DELLE IMMAGINI

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RINGRAZIAMENTI

Desidero ringraziare tutti coloro che con il loro supporto, i loro suggerimenti e anche le loro critiche mi hanno accompagnata verso la fine di questo percorso. Innanzitutto rivolgo la mia più profonda gratitudine ai miei genitori, che mi hanno dato non solo il supporto economico, ma anche e soprattutto quello morale necessario per affrontare i momenti più impegnativi. Un sentito ringraziamento va alla professoressa Letizia Caruzzo, che ho avuto la fortuna di conoscere al primo anno, per avermi trasmesso la sua grande passione per la disciplina attraverso le lezioni di laboratorio e i numerosi viaggi da lei organizzati, durante i quali ho potuto vivere e apprezzare le architetture studiate sui libri. Ringrazio il professore Nicolò Carlo Riva per la sua apertura al dialogo, il suo entusiasmo e la disponibilità con i quali mi ha accompagnata verso questo traguardo, ma soprattutto per i suoi preziosi consigli sul lavoro di tesi. Proseguo ringraziando la professoressa Jacqueline Ceresoli per aver creduto nelle mie capacità e per avermi convinta che nella vita bisogna osare, il professore Matteo Pirola, che mi ha stimolata ad assumere nuovi punti di vista sull’architettura di interni e il professore Oliviero Godi, per avermi dato l’occasione, per me molto importante, di fare un’esperienza in ambiente internazionale. Infine vorrei esprimere la mia riconoscenza nei confronti del mio partner, che ha condiviso con me la sua cultura personale, contribuendo ad accrescere la mia; i miei compagni di corso Micol, Paola, Marco e Ludovica per avermi regalato esperienze di lavoro di squadra davvero positive e costruttive; le mie nonne, mio fratello e i miei amici, grazie ai quali ho potuto raggiungere questa meta con serenità.

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