L’EREDITà DELLA BAUHAUS ELISA MICUCCI
L’EREDITà DELLA BAUHAUS
Moholy-Nagy
Laboratorio della New Bauhaus
Una delle esperienze più significative del Novecento nel campo dell’arte, del design e dell’architettura fu indubbiamente quella della Bauhaus, che raccolse intorno a sé una vastità di pensieri, visioni e immaginari i quali resero il XIX secolo tra i più ricchi e complessi. Nata nel 1919 per volontà di Walter Gropius, la scuola rimase attiva fino al 1935, quando le restrittive condizioni imposte dal Ministero della Cultura del regime nazista portarono studenti e insegnanti a chiuderla definitivamente. Nonostante la drammatica conclusione di questa esperienza, gli anni successivi alla guerra furono fortemente segnati dalle diverse anime di cui era composta la scuola. Già nel 1937 ci fu un primo tentativo di riproporre i principi sui quali si costruì la Bauhaus in una nuova scuola: la New Bauhaus di Chicago. Essa fu fondata da Moholy Nagy, artista e insegnante a Weimar nel 1923, sotto invito di Gropius, al quale era stata offerta questa possibilità dall’ Association of Arts and Industries ma alla quale dovette rinunciare avendo già molti impegni legati alla cattedra ad Harvard. La New Bauhaus ebbe vita breve e travagliata: già un anno dopo la sua inaugurazione fu chiusa per mancanza di fondi. La perseveranza dell’artista ungherese, però, fece sì che venne riaperta nel 1939 grazie ai soldi donati da privati. Nonostante ciò, i problemi finanziari erano sempre in agguato, aggravati da un sempre minor numero di iscritti alla scuola e dall’ entrata in guerra da parte degli Stati Uniti. Furono anni molto difficili per Moholy Nagy, il quale, consumato dagli sforzi per mantenere attivo l’istituto anche durante la guerra, morì nel Novembre del 1946. Dopo la sua morte, la scuola fu chiusa e fu fatta diventare parte dell’ Illinois Institute of Technology. L’esperienza americana condotta da Moholy Nagy, dei tanti aspetti della Bauhaus tedesca, approfondì quello legato all’ innovazione e alla fascinazione per la tecnologia. Il programma didattico, infatti, era lo stesso della Bauhaus, ma arricchito da corsi incentrati su tutte quelle arti che hanno bisogno di un supporto tecnologico: furono quindi introdotti il corso di fotografia, film, light-sculpture e arte cinetica. Inoltre furono creati dei corsi di antropologia e scienze sociali per rendere il programma più aderente ai tempi e al contesto americano: “essere un designer significa non solo manipolare le tecniche e analizzare i processi di produzione, ma anche accettare i concomitanti obblighi sociali […]
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Raoul Francè
“Plants as inventors”
La qualità del design dipende non solo dalla funzione, dalla scienza, dai processi tecnologici ma anche dalla coscienza sociale.” Inoltre fu introdotto il corso di fisica: la formula di Walter Gropius “arte e tecnologia: una nuova unità”, fu dunque modificata in “arte, scienza e tecnologia: una nuova unità”. Secondo questo nuovo enunciato, il design, doveva essere il risultato dell’unione tra scienza e arte, la quale si sarebbe rivelata attraverso l’ uso della tecnologia. Tra i nuovi corsi introdotti da Moholy Nagy, quello che più di tutti risultò essere originale fu quello di Design del Prodotto di cui si occupò in prima persona. Attraverso questo nuovo corso, egli diffuse un nuovo modo di intendere il funzionalismo: nacque il “funzionalismo organico”. Partendo dalla famosa affermazione dell’architetto di Chicago, Louis Sullivan, secondo la quale “la forma segue la funzione” Moholy Nagy arrivò a sostenere che “ dopo un milione di anni di tentativi ed errori, la natura ha prodotto forme che funzionano bene, ma la storia umana è troppo corta per poter competere con la ricchezza della natura nel creare forme funzionali. Nonostante ciò l’ingenuità dell’uomo ha portato eccellenti risultati in ogni periodo della propria storia quando egli comprese i progressi scientifici, tecnologici ed estetici del suo tempo. Questo significa che l’affermazione “la forma segue la funzione” deve essere arricchita: “la forma segue anche la funzione, oltre a seguire gli esistenti progressi scientifici, tecnici e artistici, includendo inoltre quelli sociologici ed economici”. Secondo Moholy Nagy la Natura doveva essere presa come esempio del più grande designer esistente ma avendo meno tempo per poter fare gli stessi tentativi, il progettista doveva ampliare le proprie conoscenze scientifiche, tecniche ed estetiche perché queste gli avrebbero permesso di arrivare a risultati che più si avvicinassero a quelli ottenuti dalla Natura ma in minor tempo. Nacque così la “biotecnica”, ovvero la capacità di adattare le strutture e i processi presenti in natura agli artefatti tecnologici. Questo nuovo modo di intendere il funzionalismo fu suggerito a Moholy Nagy dalla lettura del libro “Plants as inventors” di Raoul Francè, nel quale il biologo sosteneva che per ogni funzione e ogni processo vitale, in natura esiste una forma specifica. In particolare ogni funzione vitale è riconducibile a sette forme elementari: il cristallo, la sfera, il piano, il fiocco, il cono, l’asta e la vite. Non solo, la nuova didattica sostenuta nel corso di Design del Prodotto puntava a creare nuove individualità negli studenti: mentre gli insegnamenti di Gropius miravano alla
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Inge Scholl
Max Bill
Ulmer Hocker desingned by Max Bill
creazione di un modello unico per una nuova società, secondo quelli di Moholy Nagy, invece, le uniche condizioni che lo generassero erano la multitudine di individualità e il senso di responsabilità. Chi rimase fedele agli scopi di Walter Gropius fu uno studente svizzero della Bauhaus di Dessau, l’architetto, designer, pittore, scultore e grafico Max Bill, che fu autore del secondo tentativo nel dopoguerra di riportare in vita la scuola. L’istituto fondato da Bill, con sede nella città tedesca di Ulm, nacque dalle ceneri dell’ “Istituto Fratelli Scholl”, fondato nel 1953 da Inge Scholl e da suo marito Otl Aicher in memoria dei due fratelli Hans e Sophie che furono uccisi dai soldati nazisti in quanto membri del gruppo “Rosa Bianca”, noto per la sua opposizione al regime. L’intento iniziale della scuola, infatti, era quello di eliminare per sempre i fantasmi che il Nazismo aveva creato e che le nuove forze politiche mondiali stavano creando: Scholl voleva recuperare la cultura industriale della Germania depurandola dall’ irrazionalità che caratterizzò il regime nazista, esorcizzando la paura che ad essa era legata e introducendo istanze etiche che avrebbero dovuto preservarla dal consumismo che la cultura americana stava diffondendo. A questo scopo Scholl prevedeva un tipo di educazione “universale”, cioè che non si limitasse solo allo studio della tecnica ma anche della storia e delle scienze sociali. Quando però Max Bill fu nominato direttore con lo scopo di dare maggior prestigio alla scuola l’educazione politica subordinò rispetto a quella tecnica e artistica. Egli era convinto che una genuina riforma culturale potesse scaturire non da una forzata educazione politica ma solo dalla ricostruzione delle forme dell’ambiente umano (dalla pianificazione della città, all’architettura fino al disegno degli oggetti della vita quotidiana) in quanto cariche di valori affettivi, cultura e pathos. Vedeva nella professione dell’ artista, del designer e dell’ architetto una missione etica, culturale e sociale: in un articolo che venne pubblicato su Domus intitolato “Bellezza proveniente dalla funzione e bellezza come funzione” Max Bill affermò,infatti, che “i beni di consumo per le masse saranno in futuro la misura del livello culturale di un Paese. I progettisti di tali beni hanno dunque in ultima analisi la responsabilitàdi gran parte della nostra cultura visiva, così come gli architetti debbono sobbarcarsi a quella del sano sviluppo delle nostre città e dimore.” Per educare professionisti preparati e capaci di sostenere queste responsabilità, Max Bill ritenne necessario dare loro strumenti che comprendessero abilità artigiane, conoscenze tecniche, artistiche scientifiche e spirituali: “soltanto quando la produzione dei beni di
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Walter Gropius durante il discorso di inaugurazione della Hochschule fur Gestaltung
Max Bill durante una lezione
Sede della Hochschule fur Gestaltun, progetto di Max Bill
Sede della Hochschule fur Gestaltun, progetto di Max Bill
artistiche scientifiche e spirituali: “soltanto quando la produzione dei beni di consumo per le masse passerà nelle mani di gente così preparata possiamo essere sicuri che avrà inizio la fase culturale dell’epoca delle macchine”. Tali propositi furono incoraggiati dallo stesso Walter Gropius che fu invitato all’inaugurazione della scuola, durante la quale fece un discorso in cui sosteneva fortemente la componente artistica del programma educativo di Bill in quanto lo riteneva l’ unico modo per garantire la “funzione psicologica” degli oggetti d’uso e degli edifici: “è compito dell’ingegnere arrivare ad una costruzione tecnicamente funzionante; l’architetto, l’artista, cercherà l’espressione. Egli si servirà della costruzione ma è soltanto al di là della tecnica e della logica che si rivelerà l’aspetto magico e metafisico dell’ arte sua, quando egli possieda il dono della poesia. [...] L’artista è il prototipo dell’uomo universale. Le sue doti intuitive ci salvano dal pericolo della supermeccanizzazione che, se fosse fine a se stessa, e impoverirebbe la vita e ridurrebbe gli uomini ad automi”. Un aspetto importante ma non particolarmente sottolineato dal discorso di Gropius è il ruolo che la scienza aveva nel sistema di principi sui quali era stata fondata la Hochschule fur Gestaltung (come fu chiamata la scuola di Scholl dopo che Bill ne divenne direttore). L’insistenza sulle discipline scientifiche era fortemente legata all’obiettivo iniziale dell’istituto: esorcizzare i fantasmi del recente regime nazista. Esse, infatti, avrebbero garantito un metodo razionale, da contrapporre all’ irrazionalità, all’ emozionalismo e al pathos monumentalista di cui il Nazismo si nutriva. Nonostante questi nobili propositi, la scienza e la tecnica durante gli anni del dopoguerra non erano guardati di buon occhio da molti intellettuali della Germania occidentale, che perseveravano nel ritenerle la causa della “catastrofe della Germania”. La Hochschule fur Gestaltung rimase dunque, isolata nel suo tentativo di redimere la scienza e la tecnica dagli orrori della guerra. Il suo stesso fondatore, nel 1957 abbandonò la scuola perchè venne a mancare quell’equilibrio tra arte, scienza e tecnica che avrebbe dovuto nobilitare la produzione industriale. Alcune voci all’interno della Hochschule fur Gestaltung risultarono essere contrarie a quella che consideravano “commercializzazione dell’ arte” e spostarono l’interesse della scuola verso gli aspetti tecnico-scientifici della produzione industriale, tralasciando quella artistica. Tra queste voci emersero soprattutto quelle di Tomas Maldonado e di Max Bense.
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Max Bense
Tomas Maldonado
Tomas Maldonado durante una lezione
Tomas Maldonado era un artista argentino e fu il primo ad opporsi all’idea di introdurre l’arte negli oggetti di uso quotidiano e a favorire, dunque, un modello educativo “scientizzato”. Egli, infatti, riteneva che il modello della Bauhaus non fosse più attuale perchè l’ “imparare facendo” promosso da Bill trascurava molti aspetti di una realtà che dopo la seconda guerra mondiale divenne sempre più complessa e articolata, alla quale i futuri progettisti usciti dalla Hochschule fur Gestaltung non sarebbero stati preparati. Max Bense, invece, era un filosofo che si occupava di filosofia delle matematiche. Egli fu incaricato da Bill di occuparsi del dipartimento “integrazione Culturale” della scuola, nel quale sosteneva lezioni di teorie matematiche e analisi semiotica. Sempre interessato alle discipline scintifiche, acuì il suo interesse per il rapporto tra estetica e tecnologia nel 1945, quando iniziò a sostenere la teoria secondo la quale natura e cultura non fossero altro che modelli interpretativi per comprendere il nascere di ciò che usava chiamare “civilizzazione tecnica”. In un discorso del 1956 affermò che l’idea che l’estetica fosse custodita esclusivamente dalla figura dell’artista non fosse più sostenibile in quanto obsoleta e anacronistica. Egli era per una calma accettazione del presente, caratterizzato dalla presenza di strumenti tecnologici dalle alte prestazioni, progressi scientifici sempre più rapidi e produzione di massa. Tutti questi aspetti, nella visione di Bense, minavano l’esclusività e l’unicità dell’ oggetto poichè permettevano di copiarlo e distribuirlo alle grandi masse: la modernità industriale ha liberato l’estetica dall’oggetto in sè e dal dominio della “Kultur” rendendola proprietà esclusiva della “Zivilization”. Il pensiero di Bense ebbe delle importanti implicazioni nella storia della Hochschule fur Gestaltung perchè minò uno dei due scopi principali della scuola, ovvero preservare il prodotto di design dal consumismo e dalle mere logiche di mercato che ne avrebbero compromesso la qualità. Tra le tante discipline scientifiche da egli promosse vi era, infatti, Statistica, la quale avrebbe dovuto rendere il progettista capace di sondare e controllare l’andamento del mercato, facendo in modo da intervenire sul gusto e sulla produzione dei beni. Era inoltre prevista una strategia a livello di comportamento per un migliore controllo del rapporto tra domanda e offerta. Fu sempre più difficile per gli Ulmers produrre oggetti che non venissero corrotte dal capitalismo.
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Copertina della rivista del gruppo Arte Concreto Invencion
Davanti a questa incapacità ci furono due reazioni: lo sviluppo di una semiotica critica basata su principi etici e il rinchiudersi da parte dei progettisti nel mondo della speculazione teorica, che produsse teorie sul design sempre più rarefatte e inconsistenti. Il ritiro nel campo della sperimentazione teorica fece sì che il flusso di fondi con i quali veniva mantenuta la scuola fosse interrotto e la scientizzazione del programma scolastico iniziò a creare polemiche tra gli studenti, per i quali il binomio tra scienza/ tecnica e guerra era ancora un incubo che faceva paura. Tutto ciò determinò la crisi e la definitiva chiusura della Hochschule fur Gestaltung nel 1968. Se la fine degli anni ‘60 fu un susseguirsi di situazioni di crisi all’ interno della scuola di Ulm, ambienti più favorevoli per la nascita di esperienze analoghe erano quelli dei paesi Latino Americani, in cui fu esportato il modello sperimentato in Germania. Il Sud America in quegli anni godeva di vari fattori favorevoli alla diffusione delle scuole di design. Primo tra questi c’era la volontà da parte dei governi latini di rendersi indipendenti dal Nord America e per far questo furono lanciate politiche industriali che vedevano di buon occhio esperienze come quelle della Hochschule fur Gestaltung. Inoltre negli anni ‘50 si era creato un vivace ambiente culturale che si mostrò molto interessato ai nuovi orizzonti proposti da studenti e insegnati di Ulm, molti dei quali avevano proprio origine sudamericana. Il primo contatto tra l’ambiente latino americano e quello di Ulm fu proprio attraverso il fondatore della scuola tedesca Max Bill, che fu invitato da Lina Bo Bardi. Bill fece un secondo viaggio in Brazile nel 1953 in occasione della Seconda Biennale di San Paolo, durante la quale tenne un discorso nel quale parlò dell’ idea di creare una nuova scuola di desing a Ulm e invitò Lina Bo Bardi ad inviargli i suoi studenti migliori per farli diventare pionieri della futura scuola. Iniziò così un costante via vai di personaggi tra Ulm e Sud America che deteminò l’apertura di diverse scuole in vari paesi latini. Il caso più importante fu quello del Centro di Ricerca di Design Industriale e l’Istituto Nazionale di Tecnologia Industriale in Argentina nel 1962. Il personaggio chiave che lavorò per l’apertura del centro di ricerca e dell’ istituto fu Tomas Maldonado, che già prima dell’esperienza di Ulm contribuì a diffondere la poetica di Max Bill e dell’ arte concreta attraverso la pubblicazione di due riviste, “Arturo” nel 1944 e “Nueva Vision” nel 1951, articoli sul design industriale sulla rivista Cea2, e attività di insegnamento. Nel 1962 il governo argentino decise di inviare un gruppo di progettisti a Ulm per iniziare una colla-
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Asger Jorn
Nel 1962 il governo argentino decise di inviare un gruppo di progettisti a Ulm per iniziare una collaborazione con la Hochschule fur Gestaltung, che si rivelò ricca e dinamica: Maldonado fu collaboratore fisso e Gui Bonsiepe ottenne la cattedra di packaging design. Inoltre il direttore del Centro di Ricerca di Design Industriale, Basilio Uribe, si impegnò molto ad organizzare frequenti esposizioni, seminari e concorsi ai quali faceva partecipare illustri ospiti internazionali. Questa vivacità culturale fu interrotta dai governi statunitensi che, con l’aiuto della C.I.A, delle milizie locali e dei politici più conservatori, intevenirono boicottando i politici sudamericani che sostenevano lo sviluppo di una propria produzione industriale. Questi furono sostituiti da leaders che appoggiavano la privatizzazione delle imprese e incoraggivano il consumo di beni importati facendo sprofondare nuovamente il Sud America nella sua dipendenza dagli Stati Uniti. Negli stessi anni in cui la Hochschule fur Gestaltung portava avanti la ricerca di una metodologia progettuale e produttiva nel campo del design industriale, il danese Asger Jorn divenne protagonista e autore di esperienze diametralmente opposte. La sua attività era in aperta polemica con il lavoro di Max Bill a Ulm: mentre quest’ultimo cercava di imbrigliare l’arte in un sistema industriale nel tentativo di estetizzare la vita quotidiana, Jorn ne ricercava la libertà e il puro valore espressivo. Si può affermare che l’ opera di Jorn incarnasse l’anima espressionista dei primissimi anni della Bauhaus di Weimar, quando ancora non esistevano le cattedre di architettura e disegno industriale e si credeva nel sogno di una società basata sui principi del socialismo corporativo. Come il giovane Gropius nel 1919, Jorn sosteneva fermamente l’immersione da parte dell’ artista nel suo contesto sociale e politico: egli doveva conoscere profondamente le problematiche del suo tempo. Proprio da questa sua convinzione nacque l’opposizione ideologica verso il lavoro di Max Bill. Espressa dapprima in un espistolario del ‘53 che si concluse con la fondazione del Movimento per una Bauhaus Immaginista, ed esplosa poi nel ‘54 in occasione della X Triennale di Arte Industriale a Milano, essa poneva la questione dei rischi legati dell’estetica neo-funzionalista. Jorn, infatti, la considerava fine a se stessa e anacronistica: se durante il periodo tra le due guerre, quel tipo di estetica risultò essere carica di significati e rivoluzionaria, negli anni più recenti era stata addomesticata e privata di tutta la sua forza rinno-
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Sessione di lavoro al I Congresso Mondiale degli Artisti Liberi, Alba, 1956
Constant, modello per The New Babylon
Guy Debord, mappa psicogeografica
vatrice. Riproporla sarebbe stato dunque inutile e ridondante. Ciò che Jorn riteneva necessario era invece recuperare il dato sensoriale dell’esistenza attraverso un’ estetica libera da dogmi. Il terreno nel quale fece le prime sperimentazioni in questo senso fu quello di Albisola, dove organizzò un laboratorio per la produzione di oggetti in ceramica attraverso il quale egli cercò di far riconoscre il ruolo dell’artista sperimentale come pari a quello del ricercatore scientifico. A questa manifestazione parteciparono alcuni artisti italiani tra cui i Nucleari, Pinot Gallizio, Piero Simondo e alcuni membri del gruppo Cobra, un circolo di artisti che aveva precedentemente riunito attorno a sè con lo scopo di indagare gli aspetti simbolici e immaginativi della cultura popolare. A questo seguirono altri incontri: “Incontro internazionale ad Albisola” nel ‘54 e ad Alba nel ‘55, anno in cui insieme a Gallizio e Simondo fondò il Laboratorio Sperimentale il cui scopo era quello di creare un luogo in cui gli artisti potessero lavorare fuori dalle logiche di mercato seguendo la pura espressione. Di questi ultimi incontri Jorn affermò; “ Il Movimento per un Bauhaus Immaginista è stato fondato in Svizzera nel 1953 allo scopo di costruire un’organizzazione unitaria per promuovere un’azione culturale rivoluzionaria integrale. Nel 1954 l’esperienza dell’ incontro di Albisola ha dimostrato che l’artista sperimentale deve impadronirsi dell’industrial per sottometterla ai suoi scopi non utilitari”. La seconda esperienza del Movimento per un Bauhaus Immaginista fu l’occasione per introdurre la tematica della ludicità, che fu poi una nuova chiave di lettura della città proposta da questi artisti: la città non più come insieme di oggetti funzionali da programmare e sistemare ma come un insieme di percorsi e luoghi che offrissero esperienze sensoriali e percettive all’ Homo Ludens, un uomo libero dal lavoro e dedito soltanto all’attività creativa. La concezione di pianificazione come la intendevano i razionalisti venne completamente scardinata in favore di una pianificazione che tenesse conto non delle funzioni (zoning) ma delle sensazioni che ogni parte della città poteva offrire. Le teorie sull’ architettura e sull’ urbanistica si intensificarono nel ‘56, quando gli Immaginisti entrarono in contatto con i Lettristi, tra i quali spiccò Guy Debord, il quale proponeva la “derive” e il “detournement”. La prima era una pratica che consisteva nello spostarsi all’interno della città senza una ragione specifica se non quella di sperimentare le solleci tazioni che derivano dall’ architettura della città e gli tazioni che derivano dall’ architettura della città e gli
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incontri casuali che si possono fare, in modo tale da analizzare gli effetti psicogeografici che l’ambiente urbano ha sull’ uomo. Il detournement consisteva invece nello slegare l’oggetto architettonico dal suo contesto urbano per poi inserirlo in uno nuovo, Così facendo, secondo Debord, si sarebbe potuta fare una riflessione critica sull’architettura e sulle altre discipline alle quali proponeva di applicare il metodo del detournement. Altri due personaggi che contribuirono alla riflessione sull’ ambiente architettonico furono Constant Nieuwenhuys e Ettore Sottsass. Il primo si occupò della creazione di una cittadella studiata per ospitare le popolazioni nomadi, prototipo di come questo gruppo di artisti si immaginava la società del futuro. Produsse una serie di maquette ma verso la fine degli anni ‘70 abbandonò questo lavoro perchè si stava allontando sempre di più dalle istanze architettoniche da cui era partito sfociando in istanze di natura puramente artistica. Ettore Sottsass, che partecipò all’esperienza della Bauhaus Immaginista solo per un breve periodo, sosteneva un tipo di architettura in cui il colore fosse l’elemento generatore. La struttura avrebbe dovuto essere “cromatica” e non colorata e particolare importanza era data dalla luce: nella sua concezione architettonica questa doveva essere organizzata in aperture, filtri e schermi che tenessero conto della luce diretta, delle diffusioni e dei riflessi. Il ‘56 portò, per la Bauhaus Immaginista, da una parte una multitudine di contributi artistici e teorici, dall’ altro dissapori e un disordine tale che ne esaurì gli intenti, gli obiettivi e la vivacità: Debord concluse questa breve ma intensa esperienza descrivendola come “il passaggio di alcune persone (e alcune idee) attraverso un’unità di tempo piuttosto breve”. Tutte le esperienze fin qui raccontate sono una possibile chiave di lettura dei decenni successivi alla seconda guerra mondiale, che furono caratterizzti da una perpetua e decennale tensione tra chi si proponeva di portare avanti le sperimentazioni sul rapporto tra architettura e tecnologia (Neo Brutalisti, Metabolisti, architetti high tech...) per la prima volta sperimentato da Walter Gropius, e chi, invece, sosteneva una dimensione più artigianale, sensoriale e artistica (Barragan, Coderch, Niemeyer...), come insegnarono maestri della Bauhaus quali, per esempio, Johannes Itten. Elisa Micucci
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BIBLIOGRAFIA: - Alan Findeli, “Moholy Nagy’s Design Pedagogy in Chicago (1937-46) - “Laszlo Moholy-Nagy”, catalogo del Centre de Crè a tion Industrielle Centre Georges Pompidou - 2G, n° 29/30 - “Discorso di Walter Gropius per l’ inaugurazione della Scuola di Ulm”, Domus - Max Bill, “Bellezza proveniente dalla funzione e bellezza come funzione”, Domus - “Minimal Tradition”, catalogo XIX Triennale di Milano - Paul Betts, “Science, Semiotics and Society: The Ulm Hochschule fur Gestaltung in Retrospect” - Silvia Fernàndez, “The Origins od Design Education in Latin America: From the hfg in Ulm to Globalization” - Sandro Ricardone, “Una mostra: Jorn in Italia. Gli anni del Bauhaus Immaginista” - Joseph Maria Montaner, “Dopo il Movimento Moderno. L’architettura della seconda metà del Novecento” - David Watkin, “Storia dell’architettura occidentale”
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