(estratto da un racconto porno di nuova generazione) A causa del troppo silenzio di questa notte ho potuto sentire
"Fai ancora a pugni con
separare le mie cellule cerebrali. Mi mancano le sirene degli allarmi antifurto, le rime intonate
la padella quando cucini
di qualche barbone ubriaco e la televisione a tutto volume di
uova fritte fatte alla chi
quel finto sordo del Giuretti.
se ne fotte?"
Capii di essere morto quando smisi di fissare il culo all’infermiera dell’obitorio. Avrà avuto si e no venticinque anni e una divisa anti sesso persino per un ergastolano, ma sotto quei panni bianchi di cotone si nascondeva forse la più perversa e selvaggia ragazza per bene oggetto dei miei desideri. Sembrava volermi dire salta su bello che ti avanzano ancora un paio d’ore prima di tirare le cuoia. Quello che non riuscii a capire perché io fossi li, in una camera mortuaria e non con quell’arpia di mia moglie in qualche centro commerciale. Che stessi sognando? eppure intorno a me c’erano solo piastrelle bianche e una maledettissima luce al neon rosa che mi ricordava un love hotel di Tokyo. Per un attimo dimenticai il freddo di quell’ambiente e ripensai al viaggio in Giappone. Quel santo di mio suocero mi aveva mandato a Tokyo per la compravendita dei tessuti in pura seta. Quelli usati per creare i kimono. Non avete la benché minima idea di cosa vuol dire vedere indossato un kimono da una donna e poi sfilarglielo di dosso. Ricordo ancora il suo nome, Shizuma. Aveva i capelli neri e lunghi che rilasciavano un intenso profumo di sandalo, la sua pelle era bianchissima, pulita e i suoi modi di fare erano raffinati, i suoi movimenti sembravano una danza erotica fatta per incantare i clienti. Quando partii per il Giappone, mio suocero mi disse che sarebbe stata una bella esperienza per me e che dovevo considerarla come una sorta di vacanza premio. Sposai quello spaventapasseri della figlia semplicemente perché ambivo a fare carriera. Da commesso squattrinato diventai direttore di filiale, avevo un ufficio tutto mio e una segretaria che ogni tanto si prodigava nel farmi dei piacevoli favori in cambio di qualche dollaro extra.
Mia moglie era la responsabile del personale, a differenza di me, non aveva un ufficio ma un camerino dove poteva lavarsi e cambiarsi. Gestire un negozio di tessuti, tendaggi e abbigliamento era una cosa seria e noiosa allo stesso tempo. Ogni pomeriggio si riunivano branchi di donne avvezze ai pettegolezzi con le loro borsette di Vuitton comprate da quei succubi dei mariti. Provavo disgusto a guardarle. Tra le amiche di mia moglie c’era la Martina, l’unica zitella del gruppo che aveva optato per una vita da encefalogramma piatto. Io ironicamente la chiamavo: “La vergine di Secchionopoli” per via della sua limitata fortuna con gli uomini e non so più quante vattelapesca di lauree.
In arrivo un nuovo racconto di Fabio Conte