FUGALE

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Mi resi conto che avevo la gamba sinistra affondata completamente tra le cosce dell’amabile signora davanti a me e una delle sue nobili chiappe era incastrata nella mia cintura. La signora nonostante dei tacchi vertiginosi, alla quale mi domandavo come riuscisse a stare in equilibrio, era leggermente più bassa di me e se per caso avessi voluto inclinare la testa verso sud, avrei potuto sbirciare benissimo il suo seno che mi ricordava un tramonto sulle colline. Se una parte di me era in completo imbarazzo, l’altra porzione era pronta a girare un film porno. Effettivamente, dovevo ammettere di trovarmi accanto a una bella donna, la sua pelle profumava di vaniglia. Cominciai a sognare di trovarmi con lei in un posto sicuramente meno affollato, più fresco, magari con una mega vasca idromassaggio, ninfee e fiori di loto. Fiumi di prosecco e milioni di zozzerie fatte insieme. Fui richiamato controvoglia alla realtà e smettere di fantasticare il mio sogno proibito grazie all’attenzione provocata dal dolce sternuto con tanto di moccio spiaccicatomi sulla guancia destra da parte di un bimbetto, forse di un anno in braccio alla mamma.

Fissai un’istante il seno gigante della mamma. Era davvero enorme, mai visto prima di allora un seno così sproporzionato. Tentai di capire perché tenesse il fazzoletto proprio li in quel posto, forse per il bambino quando doveva allattarlo.


Senza riuscire a rispondere, con la salivazione a zero, mi avvicinai a lei per farle mettere i miei auricolari e premetti play. Mentre l’ascoltava, mi fissò in volto, io ero in un evidente stato confusionale: primo per averle fatto sentire un mio brano, ma soprattutto per come mi stava guardando, cercai in ogni modo di evitare di fissarle la bocca, aveva delle labbra rosa, leggermente sporgenti, morbide da baciare, tentai di allontanarmi accendendomi una sigaretta. Mentre si tolse un’auricolare delle cuffie, mi chiese: «Ti va se le tengo ancora un po’ per sentire la tua musica? Tu dammi solo la mano, seguimi mentre ci avviamo ad un bar qui vicino che io conosco». «ok!», fu l’unica cosa che riuscii a esclamare..



Alcune di queste commesse, tra l’altro dolcemente, follemente innamorate del loro Arturo, o meglio il proprio fidanzato da anni, si concedevano un’evasione a volte totale, senza il benché minimo problema. Ricordo ancora la scusa tremenda di una di loro, dopo il settimo Gin Fizz, in macchina con me, mentre andavamo verso casa mia, quando rispose al telefono al proprio fidanzato: «Tesoro scusa, mi sono scordata di avvisarti che il capo stasera ci ha obbligati a fermarci oltre l’orario di lavoro, per inventariare il magazzino… come scusa? Lo so che lo facciamo a gennaio e siamo a maggio, ma che vuoi che ti dica, è arrivata la nuova collezione estate e va fatto con una certa urgenza. Ma poi scusami Arturo, non mi credi? Pensi che io mi stia divertendo? Guarda non vedo l’ora di essere a casa, farmi una doccia e coricarmi. Ti mando un sms quando sono a casa».


Nel sentire quelle parole, feci ben fatica nel trattenermi dalle ridere, lei fu lesta come una lince mentre parlò con il suo Arturo ad allungarmi una mano sulla bocca includendo il mio naso e premendomi la testa contro lo schienale. Dopo circa due minuti di apnea e con le lacrime agli occhi, decisi che era arrivato il momento di prendere dalla mia tasca il cellulare e scriverle sulla videata: “scusa non respiroâ€?


Inizio sempre la mia giornata passando un dito dentro la tazzina del caffè, dopo averlo bevuto completamente amaro... È un rito a cui non so rinunciare. Al mattino, mi piace alzarmi presto, prima che spunti il sole, prima di tutti coloro che sono costretti a farlo dopo di me. sentire la pace dell’alba imminente in strada, quando ancora la città dorme e guardando dalla finestra di casa mia in strada vedo le stesse immagini di sempre. Un uomo che tira su le serrande della propria edicola e si accinge a mettere a posto le pile di quotidiani freschi di stampa. Il camion della spazzatura che ogni mattina passa puntuale alle sei a vuotare i cassonetti. Il furgone del panettiere che si ferma sotto casa mia davanti al market dell’indiano aperto notte e giorno. È piacevole da dietro il vetro della finestra di casa mia, mentre sorseggio il caffè bollente, riuscire a sentire il profumo del pane caldo appena sfornato proveniente da quel furgone in mezzo alla strada. Ogni mattina, le persone che si trovano sotto di me in strada compiono i medesimi movimenti come fosse un rito a precludere l’inizio della nuova giornata. Spostamenti e meccanismi identici fatti in un qualunque giorno di lavoro. Seppur venga da pensare che ogni mattina sia uguale all’altra, mi sento di dire, pur essendo solo in parte vera questa cosa perché potrebbe manifestarsi noiosa e ripetitiva, che l’emozione suscitata in quei momenti per me è di buon auspicio per l’intero giorno. Per concludere, dopo aver finito il mio caffè, mi piace passare il dito dentro la tazza per raccogliere la schiuma appiccicata e come un bambino goloso mi porto la mano alla bocca, assaporo quegli ultimi istanti prima di dare vita alla mia giornata.

Semplicità è la parola che più le si addice alla sua personalità. Capelli neri raccolti in una coda, niente trucco, non ne aveva bisogno, uno smalto rosa pallido sulle sue dita affusolate, look casual fatto da jeans che mostravano le sue gambe snelle e camicetta bianca nascosta dietro una felpa della Nike e paperine ai piedi. Assomigliava una di quelle donne portoricane, non troppo chiare e nemmeno scure di pelle.

Fattene una ragione, questa sera ti tocca così. Più ci pensi, più ti poni domande e meno risposte ottieni. Una volta ho sentito dire da un tizio che il tempo colmerà i vuoti che abbiamo lasciato in


giro. Questo dannato tempo ci seguirà come un’ombra e passerà dietro di noi a chiedere scusa a chi abbiamo fatto un torto. Messo a dura prova dalle nostre domande passate, quando il tempo avrà finito, con una corsa quasi affannata giungerà fino a noi per darci le risposte. «Ma guardami, quante volte ci ho provato, non credo di esserne più capace. Tu stessa mi dici che non ho fortuna e quindi cosa posso fare? Quello che faccio ora. L’egoista…», risposi annoiato e rassegnato.

Aspettai qualche istante, vittima di quel veleno appena ricevuto per risposta e per evitare che la incontrassi immediatamente magari appena svoltato l’angolo dopo il bancone del bar in quella stanza. Preso coraggio, dopo qualche minuto, rientrai per cercare tra la gente che parlava e ballava animatamente, i miei amici. Vidi nuovamente la perfida,. Mi chiesi perché ora non fosse comparso Ceto che con un solo boccone avrebbe potuto inghiottirsela, così sarebbe finita nella pancia a fare compagnia a Mastro Geppetto! Guardandola, mi resi conto che era davvero bella e non potetti fare a meno di notare il bacio volante che mi mandò in allegato al suo dito medio della sua mano destra. Eppure nonostante il mio cervello, tentasse di mandare i migliori segnali a quei pochi neuroni ancora non del tutto ubriachi, il mio cuore spavaldo nell’animo, continuava a beffeggiarsi di me in quel momento. Quella donna, in ogni caso, mi stava attraendo e nonostante il suo atteggiamento spavaldo mi irritasse, avrei voluto conoscerla. Chissà forse si sarebbe rivelata una buona persona. In fondo, in fondo era stata lei a fare il primo passo verso di me, quindi qualcosa l’aveva incuriosita e io testardo come un mulo, più istintivo che comprensivo, feci l’errore tipico di ogni uomo di sbolognarla sul presentarsi.


Tu hai mai provato in piena notte ad aprire gli occhi e di colpo scoprire che nel buio più totale di quell'ambiente in cui dormi e che normalmente vedi in pieno giorno è completamente diverso? Sembra magico, vero? Ti sembro matto? Ora hai due strade davanti a te: scartarmi a priori e avere la sensazione di essere perseguitato da un folle oppure rimanere affascinata da quanto ho scritto e domandarti perché un vecchio come me, la notte la passa su un libro aperto e un computer acceso a consumare ore di sonno per creare musica e parole fino all'alba? Forse perché la mia dote migliore o la mia peggiore sventura sta nella mia sensibilità? Ho freddo sai, e tu? Il buio è come il silenzio. Infinito. Ascolti l'aria che respiri, resti immobile, ti lasci trasportare in una dimensione surreale, dipingi immagini che si animano e danzano davanti ai tuoi occhi, vorresti sentirle, toccarle e inseguirle ma non puoi, sono come un cinema muto. Un' insieme di emozioni che palpitano nel tuo cuore e ti fanno intravedere ciò che la tua mente più desidera.


«Figliolo… apprezzo il tuo coraggio e stimo il modo per come svolgi il tuo patetico lavoro, credimi io non lo farei mai il tuo mestiere, soltanto un’idiota magro come un chiodo deciderebbe nella sua misera vita di optare per un lavoro del genere e stamparsi sulla faccia quel sorrisino da ebete che il tuo capo ha preteso che tenessi quanto ti ha assunto! Ma svegliati perché la guerra è finita da un pezzo!», lui mi guardò con la faccia di uno che non era sicuro di aver udito quelle terribili parole. Probabilmente in vita sua non subì mai un umiliazione del genere e se anche avesse voluto spaccarmi in testa il suo vassoio, non l’avrebbe mai fatto rischiando di perdere il suo lavoro prendendosela con un perfetto ubriacone.

«Quindi fammi un favore quando parli con me, adotta un linguaggio meno cameratesco! Non ci troviamo all’interno di una caserma anche se qualche dubbio tu e tutti quelli qui intorno me l’avete messo!», aggiunsi spazientito.



Era il mese di ottobre e io stavo facendo la mia solita passeggiata mattutina a Battery Park. Stamane decisi di uscire di casa più presto del solito, ero certo che a quell’ora non avrei incrociato ancora nessuno al parco a fare jogging. Nonostante avessi le cuffiette alle orecchie e stessi ascoltando a volume basso “The Rising” di Bruce Springsteen riuscii a udire perfettamente i miei passi soffici e scricchiolanti fatti sopra un tappeto di foglie cadute. Il parco in questo periodo veniva invaso dalle foglie cadute dagli alberi di querce tanto da formare un tappeto di colori che vanno dall’ocra al rubino. Ogni giorno ripercorrevo lo stesso tragitto includendo nel tragitto la mia solita pausa alla panchina posta di fronte a Liberty Island dove svetta imponente alta quasi cento metri e visibile a quasi quaranta chilometri di distanza una donna con la toga mentre sorregge con la mano destra una fiaccola e nell'altra stringe un libro recante la data del «JULY IV MDCCLXXVI»,4 luglio 1776, giorno dell'Indipendenza americana. Questa è la Statua della Libertà di New York.

È passato poco più di un anno, sono stati mesi lunghissimi ma allo stesso tempo non posso negare che siano volati. A casa c’era ancora il letto disfatto come l’avevi lasciato tu quell’ultima volta di una umida mattina di settembre. Oggi, a distanza di un anno, senza che avessi mai potuto immaginarlo, passavo le mie giornate vagando solitario come un falco giorno e notte per le strade di New York, alternando giornate intere fatte a piedi ad altre in bici e quando rientravo a casa ero talmente stanco che mi lasciavo cadere sul divano.


«Mi manchi Keiko…», non riuscivo ad aggiungere altro.



A volte mi piace pensare che tu sia viva, che quel giorno anziché trovarti in quell’edificio fossi altrove, magari dovuta partire per un viaggio di lavoro o per volere affrontare una vita migliore, una nuova identità a cui non hai saputo rinunciare e hai preferito lasciarmi qui, rinchiuso nel mistero, torturato dal dubbio, forse per punirmi più di quello che il fato stesso già mi avesse riservato, o cosa ancor più incredibile, ritrovarti una mattina, di un qualunque giorno, di un qualsiasi anno a casa nostra dopo il mi solito giro ritorno da Battery Park…

Fugale di Fabio Conte, in arrivo…


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