Un tiepido sole. Fu un tiepido e inaspettato giorno di fine gennaio quando vidi per la prima volta in vita mia Cinzia. Me ne stavo tranquillamente seduto sopra uno sgabello di legno sul balcone di casa mia immerso nella lettura di un libro di Lisa See, un’autrice che adoravo terribilmente. Quel giorno sembrava la tipica giornata di primavera, c'era un sole meraviglioso e la pelle del viso mi scottava, ad un certo punto, per via di quel caldo inaspettato, dovetti togliermi il maglione perché stavo letteralmente grondando di sudore. Vivevo a Fort Greene a Brooklyn in un quartiere dove i palazzi erano disposti circolarmente e in mezzo c’era un cortile che fungeva da giardino con tanto di panchine e parco giochi per i bambini. D'estate, dalla mia stanza per via delle finestre aperte, era bello udire quel vociare così vivace che risuonava sui muri di tutti i palazzi. Quel giorno di gennaio, pochi bimbi scesero in cortile per giocare e le loro voci sembravano piccoli echi che da lontano non potevano altro che bisbigliare, faticavo a sentirli, in compenso riuscii a udire altri rumori e vedere immagini quotidiane a cui non avevo mai fatto caso prima. Adocchiai una massaia indaffarata nelle pulizie con l'aspirapolvere mentre suo marito se ne stava comodamente seduto su una sedia a dondolo a leggere un giornale. Scorsi delle donne intente nelle loro chiacchiere mentre stendevano il bucato al sole, riuscii a sentire il candido profumo di pulito emanato dal sapone di Marsiglia. In lontananza udii il suono armonioso di un pianoforte, era il figlio del professore Tigazzi che suonava un'aria vivace. Le note così leggere e armoniose mi faceva pensare ai giorni passati a Santorini, tra l’azzurro del mare e il canto dei gabbiani. Fui pervaso da un senso di buono, chiudendo gli occhi assaporai gli odori intorno a me fino a quando non la mia attenzione non fu attratta altrove.
“Ciao, cosa stai leggendo?”, mi domandò. “Ciao! Ehm, sto leggendo I sogni di mio padre di Obama, l’hai letto?”, risposi in un tipico linguaggio nerd mentre continuavo a sprofondare. “No, ma ora mi hai messo la pulce nell’orecchio e quando lo finisci se ti va, vorrei leggerlo!”, aggiunse. Invidiai profondamente la sua loquacità nel modo in cui pronunciò quelle parole, avrei voluto essere anche io così, ma raggiungevo la mia spontaneità soltanto dopo un po’ di tempo che frequentavo le stesse persone. “Ti va un po’ di caffè di Sturbucks? Ne prendo sempre due ogni mattina, tieni!”, mi chiese mentre allungò il suo braccio verso il mio balcone. Non risposi, osservai quel gesto appena compiuto da lei, mi limitai a eseguire il movimento del mio braccio nel prendere il bicchiere di carta. Ci furono pochissimi attimi in cui le sfiorai le dita della mano. Quella sensazione mi soffocò il respiro e mentre i suoi occhi nocciola non smisero di fissarmi, rivolsi il mio sguardo verso il bicchiere che strinsi tra le mani riuscendo soltanto a emettere un suono che voleva dire grazie.