Fabrique du Cinéma #0 - Il nuovo cinema italiano è adesso

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La CARTA STAMPATA del NUOVO cinema italiano

NOVEMBRE 2012

Numero

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OPERA PRIMA

Viaggio nel cuore di tenebra Là-Bas, diario spietato di un’educazione criminale

FESTIVAL DI ROMA

LA SETTIMA VOLTA

Si apre la nuova edizione sotto la guida di Marco Müller

ICONE

Incontro con Gianni Amelio

Ai giovani cineasti dico: condividete la vostra passione

IL NUOVO CINEMA ITALIANO È ADESSO GIULIA VALENTINI Ecco la nostra rivoluzione



S SoMMARIO

Fabrique du Cinéma è una pubblicazione edita dall’associazione culturale Indiepercui Via Francesco Ferraironi, 49 L7 (00172) Roma fabriqueducinema@hotmail.it

Direttore EDITORIALE Ilaria Ravarino GRAFICA E IMPAGINAZIONE Giovanni Morelli Paolo Soellner Coordinamento Redazione Elena Mazzocchi SUPERVISOR Luigi Pinto

14 OPERA PRIMA ITALIANA LA-BAS 24 “12” IL FOLGORANTE ESORDIO DI GUIDO LOMBARDI

faccia a faccia coi registi che cambieranno il cinema italiano

SONO UN RAGAZZO FORTUNATO

DIRETTORE ARTISTICO Davide Manca DIRETTORE MARKETING Marta Cavallo PRODUZIONE Consuelo Madrigali STYLIST Katia Folco FOTO Francesca Fago Matteo Vernia HANNO COLLABORATO Cristiana Raffa Federica Aliano Chiara Cucci Fabrizio De Masi Pasquale di Viccaro Aldo Iuliano Severino Iuliano IN COPERTINA Giulia Valentini Fotografia: Francesca Fago STAMPA Press Up s.r.l. Via La Spezia, 118/C 00055 Ladispoli (RM) DISTRIBUZIONE Pubblimediagroup di Luca Papi Finito di stampare nel mese di novembre 2012

Alessio Lauria

Talentuoso autore di un corto virale, “Sotto casa”, storia divertente e amara di una ossessione metropolitana

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EDITORIALE LA FABBRICA DEI GIOVANI

INTERVISTA

GIULIA VALENTINI LA RISATA RIBELLE

FESTIVAL DI ROMA SETTIMA EDIZIONE DEL FESTIVAL INTERNAZIONALE DEL FILM DI ROMA

Oggi come ieri Lettera di Stefano Rulli

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ICONE

GIANNI AMELIO Il digitale aiuta i giovani, ma servono idee

INDAGINE SU DI UN FILM AL DI SOPRA DI OGNI SOSPETTO RI-CREARE LA REALTà

I MESTIERI DEL CINEMA TUTTI I TRUCCHI DI ALESSANDRO

graphic noveL DIEGO ARMANDO CORLEONE PRIMA PUNTATA

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E EDITORIALE

Giulia Valentini. Abiti: sartoria Lia Francesca Morandini

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di ILARIA RAVARINO foto FRANCESCA FAGO

LA

Giovane, nel nostro paese, è un aggettivo mutante. Giovane è chi si trova, da vocabolario, tra la pubertà e l’adolescenza. Giovane è chi staziona, ben oltre l’adolescenza, in casa con mamma e papà.

FABBRICA DEI

Giovane è l’imprenditore maturo che dall’Italia se n’è andato dopo la pubertà, quand’era giovane per davvero. Giovane è il regista che a 40 anni fa il primo film, giovani per antonomasia

GIOVANI sono i precari, giovani gli studenti, giovani le speranze. In Italia si è giovani per esclusione: giovani quelli che non sono vecchi, giovani quelli che sono esclusi. Per definizione. Il cinema, che delle arti è la più giovane, è stato fatto dai giovani. Méliès aveva 34 anni quando vide per la prima volta il cinematografo che Auguste Lumière brevettò a 32. Martin Scorsese tentava il primo lungometraggio a 23 e sfondava a 31 con Mean Streets. Hitchcock, che fece una lunga gavetta, girò il primo film da regista a 26 anni. Spielberg, a 25, firmò Duel. In Italia, al tempo di Accattone, Pasolini non era più giovane: la sua adolescenza se l’era portata via la seconda guerra mondiale, e a 39 anni era già scrittore, saggista, poeta. Uomo. Fellini era giovane quando a 22 anni scriveva sceneggiature per Aldo Fabrizi, e lo era ancora quando a 25 inventava col 39enne Rossellini Roma città aperta. Moretti a 23 esordiva con Io sono un autarchico, Bellocchio a 26 con I pugni in tasca, Bertolucci a 29 con Il conformista. Tutti, inequivocabilmente, erano giovani. Verrebbe da pensare che oggi, nel nostro paese, i giovani si siano estinti. Gli esordi (non solo) al cinema arrivano tardi e sono stanchi.

I ventenni latitano sullo schermo, non salgono sui palchi. Anche i premi hanno i capelli bianchi. E sui giornali finiscono giovani mutanti, trentenni come bambini, quarantenni adolescenti, cinquantenni dalla carriera eternamente acerba. Noi, però, non ci crediamo. Noi crediamo che nelle nebbie della rete, nei circuiti periferici e nei corridoi delle scuole i giovani artisti si muovano ancora. Crediamo che esistano giovani che hanno voglia di rischiare e che si permettono di osare, crediamo nei nuovi Rossellini e nei loro cortometraggi diffusi su youtube, crediamo nei Fellini beta version che pubblicano col copyleft, crediamo negli attori che hanno la pazienza di imparare, crediamo nel talento dei giovani: e a loro dedichiamo ogni pagina di questo giornale. Perché l’aggettivo giovane, da vocabolario, condivide radice e natura con un’altra parola: giovare. Scommettere sui giovani significa scommettere su chi farà di tutto, anche l’impossibile, per rendere il nostro paese migliore.

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INTERVISTA

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Abito: Giovani Stilisti


GIULIA

VALENTINI LA RISATA RIBELLE

A vent’anni si dovrebbe avere il coraggio, la presunzione o almeno la speranza di fare ciò che si vuole. Di rompere le regole, di scriverne di nuove, di vivere forte. Di vivere contro. Di vivere come nessuno ha fatto prima.

di ILARIA RAVARINO foto Francesca Fago 7


Giulia Valentini, che di anni ne ha venti, non tradisce nessuna di queste aspettative. Studentessa di liceo artistico, è diventata attrice (a modo suo), finendo (a modo suo) sul tappeto rosso più prestigioso d’Italia: quello della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, in concorso con Un giorno speciale di Francesca Comencini. Allergica alle regole, in pochi mesi è riuscita a mettere in fila tutto quello che un adulto lucido e prudente non farebbe mai. Dire, per esempio, che PREFERISCE i fumetti ai libri e i cinepanettoni ai film impegnati, fregandosene della critica. Oppure ammettere, nel bel mezzo di una conferenza stampa, che tra le proposte di lavoro arrivate prima del cinema c’era pure un film porno. Ma se Giulia può permettersi di dire quel che vuole la ragione non è (solo) nei suoi vent’anni. Dalla sua parte ha una forza molto più potente della giovinezza: una risata “cinematografica” e il suo acerbo, selvatico, indomabile talento. Dal liceo al set: come è successo? «Mio cugino mi ha girato una mail con l’appuntamento per i provini. Pensavo di presentarmi come comparsa: sul set ti danno 50 euro al giorno, altro che call center». E invece… «…sono piaciuta subito. Ma non volevo sperarci troppo e così al secondo provino ci sono andata truccatissima, con tutti i miei piercing e vestita male: il contrario di quel che mi avevano consigliato. E invece ha funzionato». Nessuna raccomandazione? «No! Nessuno in famiglia ha mai fatto spettacolo. Mio cugino voleva fare il ballerino e ora mi segue come agente. A mia madre sarebbe piaciuto recitare, ma ha avuto mio fratello molto presto». La passione per l’arte la coltiva da sempre? «Mi piace dipingere, ma non lo faccio con costanza. Spesso i pennelli li prendo in mano quando sono arrabbiata».

scuola di teatro, anche più piccola, possa essere altrettanto formativa». Romanzo preferito? «Sincera? Non sono una gran lettrice. Leggo solo se non ho niente da fare e lo faccio soprattutto d’estate. Dato che non sono brava a scegliere, di solito vado ai mercatini e prendo un mucchio di libri a 50 centesimi l’uno. Preferisco i fumetti. Sono una fan di Dylan Dog». E il cinema? Cosa le piace guardare? «Mi piacciono le commedie di Alberto Sordi, ma non sono snob e anche De Sica mi fa ridere. I soliti idioti sono andata a vederli ma ci sono rimasta male. Mi aspettavo chissà cosa…». Il miglior complimento che le hanno fatto come attrice? «Che sono brava perché sul set sono me stessa». Le critiche la spaventano? «Temo il giudizio dei miei amici più di quello dei critici».

Come ha speso il primo stipendio da attrice? «Un fondo benzina per la famiglia. Regali. E una sola cosa per me: l’iphone».

E la popolarità? «No. La gente ti ferma, ti chiede un autografo al volo e poi se ne va. Dopo un minuto ti ha già dimenticato. Attori e spettatori in Italia sono sullo stesso piano, non è come in America: là la faccenda sfiora l’ossessione».

È vero che ha passato le selezioni per il Centro Sperimentale di Cinematografia? «Sì. Ma ho appena rinunciato».

Come si immagina fra vent’anni? «Spero di vivere in un ambiente tranquillo. Di avere un bambino, magari. E un compagno che mi voglia abbastanza bene».

Perché? «Non mi sono trovata bene con gli altri studenti. E poi credo che una

Abbastanza? «Abbastanza, sì. Almeno in amore, non chiedo l’impossibile».

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Giulia ha debuttato sul grande schermo con Un giorno speciale di Francesca Comencini, in cui interpreta Gina, borgatara romana che per fare carriera in televisione si “offre” a un potente onorevole in grado di spianarle la strada. «Gina è un po’ come sono io: quello che prova, quello che pensa, quello che dice lo sento mio», ha detto l’attrice.

«Al secondo provino sono andata truccatissima, con tutti i miei piercing e vestita male: il contrario di quel che mi avevano consigliato. E invece ha funzionato».

Maglione: Ilaria Nistri

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FESTIVAL DI ROMA

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FABRIQUE DU CINEMA DIVENTA CULTURAL PARTNER DEL FESTIVAL INTERNAZIONALE DEL FILM DI ROMA

SETTIMA EDIZIONE DEL

FESTIVAL INTERNAZIONALE DEL FILM DI ROMA «A me il cinema ha sempre fatto venire fame di mondo. Un festival non è mai completo in se stesso, ha sempre bisogno di essere completato da quello che rimane fuoricampo. Quando tu inventi un festival dei film che si sono potuti fare in determinate condizioni, devi fare anche i conti con la necessità di suscitare un festival dei film da fare, dei film che vorresti vedere esistere». Marco Müller


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FESTIVAL DI ROMA

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8 sale cinematografiche 26 paesi partecipanti 59 lungometraggi di cui 16 italiani 13 film in prima mondiale (in CONCORSO) 5 film gala in prima mondiale e 4 in prima internazionale (FUORI CONCORSO) 22 lungometraggi 8 mediometraggi 23 cortometraggi (CINEMAXXI) 7 lungometraggi 6 documentari 6 cortometraggi in concorso, 14 fuori concorso (PROSPETTIVE ITALIA)

I

l Festival internazionale del film di Roma è arrivato al suo settimo anno: quella che si apre il 9 novembre è un’edizione che presenta un programma ricchissimo di contributi da tutto il mondo, con un occhio di riguardo per le opere prime e seconde e per il cinema italiano. Sono in cartellone 59 lungometraggi in prima mondiale e molti altri medio e cortometraggi, suddivisi in quattro sezioni principali e una parallela. La selezione ufficiale comprende il Concorso internazionale, il Fuori concorso, Cinema XXI e Prospettive Italia; quest’anno ad esse si affianca per la prima volta Alice nella città, una sezione autonoma di film dedicati ai ragazzi. Nel Concorso internazionale il pubblico potrà assistere alla proiezione di 15 lungometraggi in prima assoluta, fra i quali figurano titoli di massimo rilievo come A glimpse inside the mind of Charles Swan III

di Roman Coppola, Lesson of the evil di Takashi Miike, E la chiamano estate di Paolo Franchi, Main dans la main di Valérie Donzelli, Un enfant de toi di Jacques Doillon, Il volto di un’altra di Pappi Corsicato. Al vincitore, scelto da una giuria internazionale presieduta da Jeff Nichols, andrà il Marc’Aurelio d’oro. La sezione Fuori concorso ospita proiezioni di gala, con proposte che piaceranno gli amanti dei film d’autore come a quelli dei blockbuster made in Usa: si va dal nuovo film di Marjane Satrapi The gang of the jotas, all’ultima parte della saga di Twilight, Breaking dawn part 2, dal film di animazione targato Dreamworks Le 5 leggende di Peter Ramsey, all’ultimo lavoro di Michele Placido girato in Francia, Le guetteur, con Daniel Auteuil e Mathieu Kassovitz. CinemaXXI è invece il percorso dedicato alle nuove correnti del cinema mondiale, senza distinzione di genere e durata, rivolto a opere che cercano di ridefinire i confini del cinema all’interno del continente visivo contemporaneo. Il programma si apre con una vera e propria chicca, Centro histórico di Aki Kaurismäki, Pedro Costa, Victor Erice e il pluricentenario Manoel de Oliveira. A guidare la giuria di CinemaXXI è Douglas Gordon, uno dei più importanti artisti visivi della sua generazione. Vincitore a soli 30 anni del prestigioso “Turner Prize”, è divenuto celebre per opere che si muovono tra comunicazione verbale e immagini, imponendosi per videoinstallazioni di grandi dimensioni e testi stampati sui muri degli spazi espositivi nelle collocazioni più diverse. Prospettive Italia è la sezione che mira a fare il punto sulle nuove linee di tendenza del cinema italiano. Presiede la giuria il regista e sceneggiatore Francesco Bruni, con a fianco Babak Karimi, Anna Negri, Stefano Savona, Zhao Tao – protagonista quest’ultima del film Io sono Li (regia di Andrea Segre, 2011), grazie al quale ha ottenuto il David di Donatello come migliore attrice. Prospettive Italia prevede opere in concorso e fuori concorso: fra i lungometraggi in concorso vale la pena ricordare Acqua fuori dal ring di Joel Stangle, Cosimo e Nicole di Francesco Amato, Italian movies di Matteo Pellegrini, La scoperta dell’alba di Susanna Nicchiarelli. Il film di apertura sarà Carlo! di Gianfranco Giagni e Fabio Ferzetti, sulla vita creativa e familiare di Carlo Verdone. Per volontà del suo neo direttore artistico e “demiurgo”, Marco Müller, il Festival dedicherà un’attenzione particolare alla possibilità di trascrivere lo stato del cinema italiano e i suoi futuri immaginabili: accanto alle proiezioni verrà organizzato un sistema di incontri, convegni, seminari e officine di progetti. Su tutto quest’arco di proposte il dialogo sarà continuo con le associazioni di autori, produttori, distributori ed esportatori. Due gli appuntamenti, paralleli alla rassegna, che confermano la vocazione pragmatica del Festival: nell’area di via Veneto si tiene il Mercato Internazionale del Film, mentre la Casa del Cinema a Villa Borghese è il quartier generale di New Cinema Network (NCN), un progetto prodotto dalla Fondazione Cinema per Roma e dedicato a supportare il nuovo cinema indipendente. Un mercato di coproduzione dove gli autori – selezionati tra i talenti internazionali più interessanti del panorama cinematografico – trovano la piattaforma ideale per presentare i loro nuovi progetti ed entrare in contatto con i più importanti esponenti dell’industria cinematografica europea. Quasi il 50% dei progetti selezionati da NCN nel corso delle passate edizioni, infatti, sono a oggi film completati o in fase di riprese o postproduzione.


È uno dei più noti e premiati sceneggiatori di cinema e televisione italiani. Spesso in coppia con Sandro Petraglia, ha scritto fra gli altri Mery per sempre, Il portaborse, Pasolini un delitto italiano, La tregua, Le chiavi di casa, Mio fratello è figlio unico, Romanzo criminale, La meglio gioventù.

STEFANO RULLI OGGI COME IERI

Riportiamo il discorso integrale che Stefano Rulli, il nuovo presidente del Centro Sperimentale di Cinematografia, ha rivolto agli allievi e ai docenti. È una lucida analisi della sconfortante miseria morale dell’Italia di oggi e un appello a coloro che possono e devono porvi rimedio, soprattutto agli artisti: è di loro, infatti, che c’è bisogno per ricostruire il paese. Il Centro Sperimentale di Cinematografia è una scuola di eccellenza. Per statuto, come tante. Per storia, come poche. La seconda scuola di cinema al mondo dopo quella di Mosca. E, all’interno di questa dimensione storica, un’eccellenza politica e culturale unica, perché proprio in queste aule più di settant’anni fa trovarono ospitalità le prime forme del pensiero critico contro il fascismo e i primi embrioni di una nuova identità della cultura italiana. La consapevolezza di questa eccellenza deve dare a tutti noi l’orgoglio di essere qui e insieme la coscienza del nostro dovere di meritare il ruolo che siamo chiamati a ricoprire, tutti: allievi e docenti, funzionari e dirigenti, così come io stesso per il periodo in cui sarò qui a presiedere il Centro. Un senso di responsabilità reso più necessario e urgente da quanto accade intorno a noi, dal paesaggio di macerie morali che ci circonda: un parlamento pieno di inquisiti, consigli regionali in mano ai corrotti, assemblee comunali dove gli eletti comprano le loro preferenze dalla ’ndrangheta, per non parlare dell’affarismo fuori controllo, di banchieri laici pronti a darsi lauti dividendi quando non c’è più niente da dividere. Compagnie clericali e cooperative rosse che intrallazzano coi politici di riferimento nel ricco hinterland milanese. Questo pone il problema di una “questione morale” che ci riguarda tutti. Un anno dopo la Liberazione Piero Calamandrei scriveva a proposito degli italiani che il disfacimento e il pericolo non era nel ritorno del fascismo ma in noi. Ecco, la stessa cosa – mutatis mutandis – potremmo dire di noi al tramonto della seconda repubblica. E in quest’ottica, oggi come ieri, Resistenza non può

più tradursi in un generico invito alla rivolta contro l’altrui barbarie ma deve essere, per dirla ancora con Calamandrei, «la ribellione di ciascuno contro la propria cieca e dissennata assenza». La ribellione dunque non tanto e soltanto contro ciò che gli altri hanno mal fatto ma contro ciò che noi avremmo dovuto fare e non abbiamo fatto. Ognuno nel proprio campo, piccolo o grande che sia. Per me, chiamato oggi a dirigere questo Centro, resistere, nell’accezione di Calamandrei, vuol dire resistere alla tentazione di decidere e agire senza saper prima ascoltare. Resistere alle mie convinzioni personali per capire meglio la realtà che ho davanti e i suoi problemi. Resistere alla rassegnazione che così vanno le cose, che se non c’è lavoro per i miei allievi non è colpa mia, che in fondo la formazione non si può misurare e dunque nessuno mi può giudicare. «Ribellarsi alla propria cieca e dissennata assenza» vuol dire per me ricordare sempre che il CSC non è una scuola come le altre ma che, in quanto sperimentale, deve innovare per statuto, deve cioè saper riflettere sulle potenzialità delle nuove tecnologie e dei nuovi linguaggi e operare per utilizzarli al meglio. E dunque è mio dovere mettere a disposizione degli allievi e docenti le risorse necessarie per essere all’altezza di una formazione al passo con queste trasformazioni. Per far questo occorre porre fine, ove si presentino, a sprechi e storture, prendere visione delle buone pratiche di altre scuole europee per migliorare il nostro modello organizzativo. Ma soprattutto coinvolgere tutti in questo processo di cambiamento che non deve essere contro nessuno ma nell’interesse

esclusivo degli allievi. Resistere per un dirigente o un funzionario è non solo pretendere un’equa retribuzione e un senso per il proprio lavoro – cioè che serva davvero, che sia parte viva di un progetto culturale vivo e davvero eccellente – ma chiedere a se stesso di viverlo non solo con passiva esecuzione di ordini ma anche come capacità di proporre innovazione, laddove se ne avverta la necessità, attraverso un confronto critico e partecipe. E per un docente cosa vuol dire resistere? Prima di tutto resistere all’idea di pensare l’allievo come un traduttore dei propri pensieri e delle proprie convinzioni estetiche, e viverlo invece come un unicum da rispettare e assecondare nella sua specificità creativa, un nuovo mondo che con la sua giovinezza ci trasmette non solo rabbie e confusioni ma anche nuovi desideri, nuovi bisogni e nuovi sguardi. L’invito di Calamandrei è tanto più forte e pressante per i giovani che abitano questa scuola. Resistere, vuol dire ad esempio per un allievo non chinare la testa davanti alle inadempienze del Centro e dei suoi docenti ma anche e soprattutto pretendere il meglio da se stesso. Frequentare con assiduità e impegno la scuola deve essere sentito come un obbligo non tanto nei confronti della legge ma di quel compagno che hai conosciuto, con cui hai lavorato fianco a fianco per settimane durante il propedeutico e che ha dovuto rinunciare ad andare avanti perché i docenti hanno ritenuto te più idoneo e meritevole. La scuola, con tutte le risorse didattiche che essa può offrire, non deve d’altra parte essere considerata un privilegio da utilizzare se e quando si vuole ma un vincolo forte, un patto non scritto che ci

lega agli altri compagni di corso perché di fatto la nostra presenza o assenza è una cosa che riguarda anche il diritto loro a confrontarsi con noi per capire meglio chi sono. Con loro bisogna imparare a lavorare, accettandone pregi e difetti, perché così vi capiterà di dover fare quando vi troverete a lavorare nell’industria dell’audiovisivo. Ma soprattutto perché è giusto. Perché un’opera collettiva – che sia cinema fiction o documentario poco cambia – richiede capacità di confronto e a volte anche di scontro ma sempre spirito di solidarietà e attenzione alla creatività dell’altro. Settant’anni fa là fuori c’era la guerra, il caos e la disperazione. Eppure qua dentro c’era qualcuno che, invece di rassegnarsi al dominio della retorica patriottarda, sentiva che la migliore forma di Resistenza era osare nuove idee, nuove parole, ma soprattutto un nuovo modo di guardare la realtà. Oggi non sono più le bombe a distruggere il nostro paese e la nostra fiducia nel futuro, non sono più case e strade a essere sventrate, ma i nostri valori e modi di pensare. Eppure, oggi come ieri, c’è bisogno che il cinema torni a interrogarsi sul suo senso e sulla capacità di raccontare un mondo che cambia, e a ricercare nuovi linguaggi e nuove utopie. Proviamoci tutti assieme, in questo nuovo dopoguerra dove molto poco dell’Italia che abbiamo conosciuto è rimasto in piedi. Con la stessa consapevolezza di chi ci provò più di mezzo secolo fa, con la stessa incertezza ma anche lo stesso entusiasmo dei Chiarini, dei Barbaro, dei Blasetti, degli Arnheim. Perché, malgrado tutto, oggi come ieri, per ricostruire il paese non c’è bisogno solo di manovre economiche ma anche di artisti.

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OPERA PRIMA ITALIANA

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Là -Bas di Guido Lombardi è un opera prima della forza non comune. Girata a basso costo e in un territorio difficile come quello di Castel Volturno, ha fatto incetta di premi in tutto il mondo.


Viaggio di Cristiana Raffa

nel cuore di tenebra dell’Italia Desolazione, caldo e degrado. Il mare che non si vede quasi mai. È Italia, ma potrebbe essere una città del Maghreb, con ventimila immigrati provenienti da ogni zona del Continente Nero, la metà clandestini.

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OPERA PRIMA ITALIANA

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esolazione, caldo e degrado. Il mare che non si vede quasi mai. È Italia, ma potrebbe essere una città del Maghreb, con ventimila immigrati provenienti da ogni zona del Continente Nero, la metà clandestini. Yussouf affronta “il viaggio” per incontrare lo zio che in Italia ha fatto fortuna, vuole lavorare un po’ con lui e mettersi da parte quel tanto di soldi che gli servirà per investire in una piccola impresa creativa nel suo paese. Là-Bas significa laggiù in francese. E laggiù per quelli come Yussouf c’è l’Occidente ricco di opportunità, il sogno di tanti disperati che nel Mediterraneo nuotano sempre controcorrente. Yussouf vuole rincorrere quella buona sorte che non si è mai fatta vedere in faccia, pensa di trovarla in suo zio Moses, sul litorale campano. Moses in sei anni ha messo su un business molto remunerativo e non ci pensa due volte ad assumere il nipote come braccio destro. L’incontro tra Yussouf e Moses però diventa il diario di un’educazione criminale. L’oggetto del business sono ovuli di cocaina che viaggiano nella pancia di chi ha abbastanza coraggio per ingoiarne dozzine insieme a un bicchier d’acqua, sapendo che basta niente per restarci secchi all’istante. La copertura invece sono scarpe da ginnastica di marchi contraffatti. La comunità africana rispetta e teme Moses che è diventato un piccolo boss – col suo traffico sporco dà da mangiare a molti conterranei –, ma i guai cominciano quando la camorra locale si stanca di spartirsi con lui gli affari e decide perciò di dargli una memorabile lezione. Accade così che sei africani, alcuni del tutto estranei alla partita criminale, restino uccisi da un commando camorrista. L’esigenza di raccontare la distanza da una terra e da un sogno a Lombardi era nata nel 2005, insieme ai suoi amici musicisti africani, diventati gli attori protagonisti del film. Dopo una turnée in Burkina

È accaduto la notte del 18 settembre 2008, il giorno in cui la vita vera si è intrecciata con la storia che Guido Lombardi da tempo cercava di raccontare. Stigmatizzata dai media come la strage di Castel Volturno, è diventato l’episodio chiave di Là-Bas, un film reale come un documentario, ma cinematografico quanto è bastato per farsi acclamare dalla critica di tutto il mondo. Alla Mostra di Venezia si è portato a casa l’anno scorso il Leone del Futuro e da lì ha iniziato a girare festival vicini e lontani.

Kader Alassane (a sinistra), del Benin, è Yussouf. Ha lavorato nei campi di pomodori, inseguendo l’ambizione di diventare un cantante; così ha conosciuto Lombardi, che faceva l’operatore di ripresa ai concerti di gruppi africani. Moussa Mone (a destra) è Moses: oggi gestisce un bar nel centro storico di Napoli.



OPERA PRIMA ITALIANA

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Spesso è arrivata sul set la polizia, ce la siamo sempre cavata con delle scuse e non abbiamo mai chiesto autorizzazioni, sapendo che ce le avrebbero negate. Si era sparsa la voce che giravamo un film porno...

Faso con un gruppo teatrale che rappresentava sul palcoscenico il viaggio della speranza, dopo aver letto un reportage di Fabrizio Gatti sull’«Espresso» che raccontava di come gli africani immigrati vengano spesso sfruttati dagli africani arrivati prima di loro. Lombardi ha ascoltato fiumi di aneddoti: ogni persona che parte da un villaggio diventa una leggenda, un eroe che si gioca la chance più grande della sua vita. L’aspettativa della comunità nativa è così alta che, una volta giunti a destinazione, manca il coraggio di raccontare la disperazione che invece si è trovata. Le bugie ai famigliari diventano una consuetudine e cresce in chi è rimasto la voglia di intraprendere quel grande viaggio. Là-Bas è dunque un film sulle debolezze e sulla paura, sulla vergogna del fallimento, sentimento comune a ogni uomo. È un film corale e coraggioso, un’opera prima ambiziosa senza pensare troppo alle difficoltà. Quindici copie nelle sale italiane sono poche, ma è il destino dei film complessi, con attori non professionisti, girato in lingua originale: una strada in salita. Chiunque vede il film ne resta affascinato per l’odore che emana, perché è uno spintone dentro una realtà che sta lì, uguale da anni, ignorata da un’Italia e da un’Europa voltate sempre dall’altra parte. Nel Casertano era così ieri, è così oggi e probabilmente così sarà domani. Ora Lombardi lavora al suo prossimo film, la produzione resta la stessa, una collaborazione tra la romana Eskimo e la napoletana Figli del Bronx. La dimostrazione che anche quando si è piccoli, indipendenti e con pochi soldi, si possono realizzare grandi progetti. Anche quando chi distribuisce i fondi statali non ci crede, e quando la Regione contribuisce con poco (in questo caso la Campania, con 80mila euro).

FOCUS | IL FILM

I numeri della produzione Un budget basso, una troupe di 25 persone, 6 le settimane di riprese

Un budget basso per un’opera prima, al di sotto dei 500.000 euro. «Lo standard per un esordio fino a 4-5 anni fa era intorno agli 800.000 euro, oggi ti va bene se riesci a fare tutto con la metà», spiega Guido Lombardi. «Abbiamo girato con una 5 D, volevamo un taglio cinematografico, ma ci serviva anche qualcosa che fosse maneggevole e pratico. Però quella videocamera ha un difetto, ha una messa a fuoco limitata, ho dovuto perciò fare tantissimi ciak, per un totale di 80 ore di girato!». La troupe era composta da 25 persone, tante per un’opera prima a basso costo, 6 le settimane di riprese. Molti gli esordienti, a cominciare da Francesca Amitrano, bravo direttore della fotografia. «Il sindaco di Castel Volturno ha cercato di metterci i bastoni tra le ruote, non voleva che emergesse un’immagine di degrado della sua amministrazione – continua Lombardi – Si è mostrato ipocritamente stupito della presenza di tanti immigrati nella zona. Spesso è arrivata sul set la polizia, ce la siamo sempre cavata con delle scuse e non abbiamo mai chiesto autorizzazioni sapendo che ce le avrebbero negate. Nel bar che frequentavamo durante le pause si era sparsa la voce che stessimo girando un film porno…».



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GIANNI

AMELIO

Il digitale aiuta i giovani, ma servono idee

Fabrique incontra Gianni Amelio, uno degli autori più importanti del cinema italiano di oggi: regista, intellettuale e direttore del Torino Film Festival, prezioso “incubatore” di nuovi talenti.

di Cristiana Raffa foto Francesca Fago


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«Nel film il bambino chiede alla mamma “chi sono i poveri” e lei risponde “i poveri siamo noi”. Il bambino si tranquillizza: “allora va tutto bene”». Cita il

suo ultimo lavoro Gianni Amelio per spiegare che una volta, quando non si aveva un soldo, ci si sentiva uguali agli altri membri della comunità. Ne Il primo uomo, ispirato al romanzo di Albert Camus, e uscito nelle sale quest’anno, quel protagonista bambino coltiva i propri sogni in un contesto di miseria in cui non c’era spazio per altro. Un romanzo autobiografico per l’autore algerino, e un film in qualche modo autobiografico anche per lo stesso Amelio. «La distanza tra l’infanzia in Algeria di Camus e la mia in Calabria, sebbene lui fosse nato trent’anni prima di me, non è poi così grande. Entrambi abbiamo avuto la “fortuna” di essere poveri. I poveri imparano prima a parare i colpi, a trasformare gli ostacoli in opportunità e ad attrezzarsi per realizzare i sogni. Lui sognava di scrivere, io sognavo di fare il cinema. Non distinguevo neanche bene i ruoli, pensavo che fossero gli attori stessi a inventarsi le scene dei film. Poi la fascinazione è diventata passione, studio e gavetta». Negli anni Duemila, come allora, i giovani non hanno mezzi per iniziare e farsi strada. «Oggi la fame l’abbiamo placata. Mezzo secolo fa ci mancava anche il pane, però ci sentivamo tutti sulla stessa barca ed eravamo più felici. La società ora è estremamente più crudele e traditrice, induce ad abbandonarsi alla rassegnazione». Se lei avesse vent’anni e sognasse ancora il cinema? «Per prima cosa cercherei di non isolarmi, vorrei trovare compagni di strada con cui condividere la mia passione e unirmi a loro in un percorso. Manca la solidarietà in questa società estremamente competitiva. Emergere singolarmente dovrebbe essere una speranza per trainare gli altri, non per affossarli. Siamo costantemente esposti a frecce avvelenate e mai a frecce di cupido». Lei in questi quattro anni ha diretto il Torino Film Festival, un ruolo di responsabilità per dare opportunità ai giovani. Come ci si sente? «Amo questo ruolo e lo ricoprirò finché me ne daranno la possibilità. Io immagino un festival come l’innesco di un passaparola, l’inizio

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di quella che poi sarà la fortuna o meno di un film. La missione di un evento come questo non è far sfilare autori e attori su un tappeto rosso, ma dare il via a un circolo virtuoso di divulgazione delle opere». Recentemente lei ha detto che per le giovani produzioni indipendenti o con bassi budget ci sono festival ad hoc, non sono adatte alle grandi kermesse come Cannes o Venezia. Perché? «Penso che i grandi festival siano delle trappole per i giovani, che rischiano di essere totalmente oscurati dalle star. I film minori sono confinati a sale piccole e a orari sfortunati. A Torino invece diamo a tutti la stessa dignità, le opere prime vanno tutte in ottimi orari e nella sala più grande. Per esempio La bocca del lupo di Pietro Marcello [vincitore a Torino nel 2009, ndr], sono convinto che se fosse andato a Venezia non avrebbe avuto lo stesso successo. All’estero per i giovani ci sono festival validissimi, penso a Tribeca, Sundance, Berlino, Rotterdam, quelle sono vetrine utili». E questo quando un film è fatto. Ma ancora prima, quando invece un giovane ha un’idea forte, ma deve trovare i soldi, come fa? «Intanto l’idea forte è una condizione necessaria e per averne una


FOCUS | GIANNI AMELIO Nato a S. Pietro Magisano, un paesino sulla Sila, il 20 gennaio 1945, Gianni Amelio comincia la sua carriera cinematografica come assistente di Vittorio de Seta. Dopo alcuni lavori per la televisione negli anni Settanta, fra cui un film su Tommaso Campanella interpretato da Giulio Brogi, esordisce sul grande schermo nel 1983 con Colpire al cuore, sul tema del terrorismo. Ma è con Porte aperte (1990), tratto da Leonardo Sciascia, che s’impone a livello internazionale e si aggiudica una nomination all’Oscar. Verranno poi Il ladro di bambini (1992), che inaugura il lungo sodalizio con Enrico Lo Verso, Lamerica (1994), Così ridevano (1998), Le chiavi di casa (2004) con Kim Rossi-Stuart, La stella che non c’è (2006) con Sergio Castellitto, Il primo uomo (2012) con Jacques Gamblin.

occorre studiare molto. L’intuizione non basta. Oggi il mezzo tecnico è alla portata di chiunque. Io da ragazzo dovevo conquistarmi con fatica la 16 mm, poi la 35 mm, la pellicola e tutto l’apparato di persone che serviva. Era tutto più costoso. Il digitale adesso ha falciato una serie di spese. Però la troppa facilità può essere un’arma a doppio taglio, può spingere a non pensarci troppo. Invece bisogna leggere tanto, approfondire, vedere i film del passato, pensare esattamente a cosa si vuole raccontare e con quale scopo». Dunque per questo è un po’ diffidente rispetto ai nuovi mezzi? «Sì, ma non in senso apocalittico. Il problema non è fare un film, ma che film fare. Lavorare senza un obiettivo molto preciso può essere addirittura dannoso». È anche vero che non ci sono più scuse per non provarci. «Più che altro si devono avere motivi buoni per provarci. Prima ancora di cercare un produttore bisogna essere certi di avere qualcosa di valido da proporre. Oggi puoi essere più facilmente produttore di te stesso, ma come ho detto devi essere sufficientemente attrezzato per raccontare».

Quali sono i difetti più ricorrenti nei giovani autori? «Vedo a volte storie deboli, senza un lavoro di approfondimento. Non che in passato non fosse così, gli stessi errori si fanno in ogni epoca. Però oggi sembra tutto più spietato: si può arrivare prima, ma anche cadere prima». Cosa non si deve fare? «Non bisogna crearsi alibi e pensare che sia sempre e solo colpa del sistema. Il sistema va affrontato con la consapevolezza del proprio ruolo professionale». Lei è stato anche redattore di una rivista di cinema da giovane. Ha un consiglio da dare a Fabrique du Cinéma che è al suo esordio con questo numero? «I lettori devono essere agganciati con contenuti utili. Questo può accadere quando si ha qualcosa d’importante da dire. È necessario stimolare con riflessioni che rompano una tradizione statica e invitino al cambiamento, che propongano delle soluzioni nuove. Una volta ci si formava con le riviste, erano circoli di pensiero. Mi auguro e vi auguro di poterlo essere. Ne avremmo tutti bisogno».

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SONO UN RAGAZZO di Federica Aliano foto Francesca Fago

FORTUNATO Alessio Lauria: 31 anni e un corto vincente che ha spopolato per mesi sul web. Abbiamo incontrato l’autore di Sotto casa, storia di un’ordinaria ossessione quotidiana.


Tornare a casa dopo una giornata di lavoro uguale a tutte le altre, con un vestito

grigio simile a quello dei colleghi, su un’automobile anonima... e trovare libero il parcheggio proprio di fronte al portone di casa. Sono le piccole gioie, le soddisfazioni dell’uomo comune, quei colpi di fortuna che ti fanno PENSARE che il mondo in fondo non è poi così male. È quello che accade al protagonista di “Sotto casa”, il cortometraggio vincitore di “Talenti in Corto” nel 2011 scritto e diretto da Alessio Lauria. Un ragazzo dallo sguardo limpido e diretto, che ci ha accolti in casa sua per raccontarci il suo lavoro quotidiano. «La classica frase “è iniziato tutto per caso” è perfetta per me», ci rivela, spiegandoci come lui, che al cinema non aveva mai pensato, è finito a fare il regista e vuole continuare. «Ho iniziato molto tardi rispetto agli altri registi. Non AVEVO la passione del cinema, mi è sempre piaciuto scrivere, ma lo consideravo un hobby. Poi due anni fa una mia amica mi ha parlato delle selezioni per il corso di sceneggiatura della Rai; da lì ho iniziato a pensare alla scrittura come a un lavoro. Appena finito il corso, ho partecipato a “Talenti in corto” e IL MIO SCRIPT ha vinto». 25


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Volevo raccontare la vita di giovani, non giovanissimi, che non sono precari, ma che in fondo sono infelici e insoddisfatti della routine quotidiana. Due immagini tratte da Sotto casa, vincitore del concorso “Talenti in Corto” 2011, promosso da Gratta e Vinci e Premio Solinas. Perfetta l’interpretazione di Riccardo De Filippis nei panni del protagonista. Il corto Sotto casa è ciò che ne è uscito… «Il film è venuto abbastanza bene, è nazionalpopolare: la metafora che ho scelto è qualcosa in cui la gente si identifica facilmente. Grazie a questo e alla breve durata, le persone hanno iniziato a condividerlo sui loro profili facebook. Ciò ha fatto sì che il numero di visualizzazioni su youtube salisse e alcune testate giornalistiche se ne sono interessate, lo hanno linkato, dandogli grande visibilità. Ho vinto molti premi e i contatti lavorativi che ho ora derivano tutti da “Talenti in Corto”». Possiamo dire che il tuo è diventato un corto social? «Sì, e ribadisco che la breve durata è stata la cosa fondamentale. Che poi è stata la difficoltà maggiore, ma anche un grande esercizio, perché essere brevi pur dando un senso a quel che stai raccontando è fondamentale per chi vuole imparare a scrivere una sceneggiatura. All’epoca mi lamentavo, cinque minuti mi sembravano pochi, ma serve a rinunciare alle cose inutili». Che macchina da presa hai utilizzato per le riprese? «Una Canon 5D e una 7D. Ma non ho toccato nulla perché non sono capace di fare l’operatore. Era una produzione molto professionale, con una figura specializzata per ciascun ruolo, e mi rendo conto che questa è stata una gran fortuna». In alcune interviste hai mostrato i disegni dello storyboard: hai avuto un buon autore... «L’autore si chiama Matteo Gherardi e insegna in una scuola di fumetto. Io ero molto ferrato sulla scrittura, quindi sia il direttore della fotografia Stefano Palombi che l’autore dello storyboard sono stati fondamentali. Matteo mi ha dato anche diversi spunti per le inquadrature. I disegni sono belli, in rete si trova anche una versione animatik di Sotto casa, cioè un’animazione realizzata con i disegni dello storyboard».

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Sotto casa è anche un po’ grottesco, con quella metafora della vita e della speranza... «Volevo raccontare la vita di giovani, non giovanissimi, che non sono precari, ma che in fondo sono infelici e insoddisfatti della routine quotidiana. Ho immaginato una persona che riceve coraggio da una piccola cosa; allo stesso tempo però non riesce a godersi il momento e pensa già al giorno dopo, a quando tutto finirà». Ora stai scrivendo qualcos’altro? «Ho vinto insieme a Manuela Binetti il Premio Solinas Experimenta per lungometraggi low budget, quindi stiamo scrivendo lo script. Sto lavorando al pilota di una sitcom e ad altri soggetti, che però non dico un po’ per scaramanzia, un po’ per riservatezza. Se il lungometraggio si farà, firmerò io la regia». Sei fortunato: la maggior parte dei giovani registi in Italia incontra molte difficoltà. «Sono sicuramente fortunato, ma il concorso è stato anche meritocratico. I tutor che dopo hai a disposizione ti insegnano davvero. Ho un mio gusto personale, ma loro mi consigliavano, in maniera discreta e mai invasiva. Sotto casa è stato proiettato in novanta sale in tutta Italia, anche prima di Harry Potter: so che un giovane autore italiano, nella maggior parte dei casi, è costretto a realizzare il suo film con gli amici, senza nessuno che gli dica dove sta sbagliando. E soprattutto quasi mai lo vedrà in sala». Quanto aiuta vincere un premio per chiedere poi un finanziamento per il lavoro successivo? «A dire la verità poco. I premi mi hanno regalato sensazioni incredibili: qualcuno che applaude il tuo lavoro dà una sensazione fantastica, ma i corti, non trovando distribuzione, non hanno poi molta eco, anche se vincono i festival. Il web per me è stato molto più determinante». Quindi non sei contro il web... «Tutt’altro. Alcuni non sanno se mettere il proprio corto in rete, non vogliono “prostituirlo”. Posso dire che in determinati casi invece può essere un vantaggio. Non subito, perché altrimenti alcuni festival non lo accettano, ma poi sì, è utile per avere nuovi contatti».


La breve durata è stata la difficoltà maggiore, ma anche un grande esercizio, perché essere brevi pur dando un senso a quel che stai raccontando è fondamentale per chi vuole imparare a scrivere una sceneggiatura. 27


indagine su un film

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RI-creare

la realtà «Qualunque cosa tu possa fare, qualunque sogno tu possa sognare, comincia. L’audacia reca in sé genialità, magia e forza». Johann Wolfgang Goethe

di Pasquale di Viccaro foto METAPHYX Pasquale di Viccaro è visual effects supervisor di Metaphyx, società italiana leader nella realizzazione di effetti visivi digitali, animazioni in computer grafica e progetti multimediali. Fra i lavori di Metaphyx ricordiamo: Cesare Mori, Cose dell’altro mondo, Mozzarella Stories, La donna della domenica, 20 sigarette.


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roprio quest’anno Martin Scorsese ha deciso di dedicare un film (vincitore di cinque Oscar) a uno dei più grandi innovatori della storia del cinema: Georges Méliès, il visionario che ha anticipato i tempi attraverso un’alchimia di scienza e sapere artigianale per creare una dimensione nuova, onirica e spettacolare. Con la figura di Méliès si può dire che nascono anche gli effetti speciali, appena qualche anno dopo la nascita del cinema stesso. Siamo intorno al 1896, e il grande regista francese pone le basi per le tecniche di doppia esposizione, dissolvenza, immagini composite e colorazione della pellicola a mano. Tecniche che con il progressivo consolidamento dell’industria cinematografica diventarono i pilastri degli effetti ottici. Fino agli anni Ottanta del secolo scorso queste metodologie sono state l’unico strumento per far sognare autori e spettatori. Grazie al talento di grandi artisti, abituati a lavorare direttamente sui fotogrammi con pazienza e dedizione, sono nate immagini fantastiche: inquadrature che hanno rivoluzionato il cinema e la cultura, creando un immaginario a cui siamo tutti devoti. Tanto per fare degli esempi, posso citarvi 2001 Odissea nello spazio, in cui Douglas Trumbull curò la realizzazione degli effetti ottici, come anche in Star Trek, Incontri ravvicinati del terzo tipo e Blade Runner. Oppure John Dykstra e il team della ILM (Industrial Light and Magic), che hanno “materializzato” l’universo immaginato da George Lucas. Sempre in tema di effetti ottici in molti abbiamo amato i film di Tim Burton in stop-motion; ebbene, sappiate che il genio indiscusso di tale tecnica fu Ray Harryhausen. Un perfezionista assoluto, che raccolse l’eredità del primo King Kong del 1933 e diventò un maestro di questo particolare genere di animazione, mettendo a punto molti dei procedimenti che costituirono la base del cinema fantastico e di fantascienza degli anni Sessanta e Settanta. Hollywood (e non solo) ha sempre fatto uso di effetti ottici anche nelle produzioni più datate, creando suggestioni talmente radicate nella cultura comune che raramente ci soffermiamo a pensare come in anni tanto lontani si potessero realizzare certe scene. Un capitolo a parte merita poi l’animazione, anche se in alcuni casi le tecniche di produzione hanno una radice comune. Dagli anni Ottanta in poi entra in gioco la computer grafica, che con il progressivo avanzare tecnologico rivoluzionerà tutta l’industria cinematografica. Il resto è storia. Questa è una sintesi estrema che non rende giustizia a un’arte che nasce con l’obiettivo di essere “invisibile” come un’illusione ed è alimentata dall’esigenza arcaica di trasportare lo spettatore oltre l’ordinario, in una superficie metafisica che ha il duplice compito di rafforzare la narrazione e plasmare lo spettacolo. Il deus ex machina del teatro greco ne è già la prova lampante, e la mechanè può essere senza dubbio considerata un effetto speciale dell’antichità. Quando parliamo di effetti è doveroso fare una classificazione. Il termine “effetti speciali” indica infatti un insieme generico, a volte usato anche in maniera impropria per descrivere tutte le sottocategorie di questa componente cinematografica. Più propriamente le immagini generate al computer vengono chiamate “effetti visivi”, e raccolgono l’eredità dei vecchi effetti ottici (truke, per i più nostalgici). Ma cosa sono in realtà gli effetti visivi? In sintesi possiamo definirli come

«L’Italia è sempre stata e continua a essere una fucina di creatività, e nell’ambiente della computer grafica questa è una caratteristica fondamentale». 29


Fotogrammi tratti da alcuni film che mostrano la scena prima e dopo l’intervento degli effetti visuali, con l’aggiunta del riflesso sul parabrezza, dei tavoli luminosi al casinò, del pubblico ai piedi del ring (nelle pagine precedenti).

uno strumento tecnologicamente avanzato utile alla creazione di immagini che altrimenti nella realtà sarebbero troppo costose o irrealizzabili; sono spesso utilizzati anche per correggere errori e trasformare il frame nella perfetta visione dell’autore. Sebbene ci sia un certo “conservatorismo” radicato nella mentalità produttiva e autoriale del nostro paese, non bisogna sottovalutare il fatto che il cinema è nutrito dal progresso tecnologico, ne trae la linfa vitale. L’evoluzione crea l’industria e vi inietta energia creativa. Ne è la prova la storia della settima arte; bianco e nero, sonoro, colore, animazione, digitale, performance capture, 3D e tutte le mille sottocategorie di progressi e brevetti che non starò qui a elencare. Tutto ciò non deve mai essere fine a se stesso, ma sempre a favore della narrazione e per aiutare lo spettatore a provare emozioni; tengo a sottolinearlo, perché spesso capita di leggere recensioni negative su alcuni blockbuster in cui viene addossata la colpa agli effetti visivi. Invece, come in ogni cosa, la colpa non è dello strumento ma dell’uso che se ne fa. La computer grafica nasce dal desiderio umano di rappresentare la realtà, cercare di arrivare all’essenza delle cose attraverso la loro ricostruzione. Non è un caso che alcune generazioni di motori di rendering (termine usato per identificare un processo di calcolo che trasforma una serie di operazioni in immagini finali) siano basate proprio su algoritmi di dinamiche fisiche reali. Si lavora per decodificare la natura in strutture matematiche, ad esempio la reazione della luce su alcuni

«La computer grafica nasce dal desiderio umano di rappresentare la realtà, cercare di arrivare all’essenza delle cose attraverso la loro ricostruzione». 30

materiali, l’animazione di animali, dinamiche di distruzione e così via. Ma tutto ciò non è un freddo calcolo, una rigida e controversa aggregazione di pixel; magari all’esterno può apparire così, ma dall’interno vi assicuro che è tutt’altro. Si parte dall’ambizione per un lavoro difficile e complesso, c’è bisogno di metodo, intelligenza e sacrifici. E poi c’è la passione, chiunque inizi in questo settore ha un film nel cuore e aspetta di lavorare nel capolavoro che farà la storia delle prossime generazioni di cineasti. L’impegno umano è il principio attivo di questo processo, è assurdo pensare che si spinga un tasto e il software risolva tutto. Creare la magia richiede sacrificio e dedizione. Gli artisti che lavorano sono dei veri e propri artigiani, certo con competenze e tecniche diverse, ma la metodologia è analoga. E noi italiani siamo molto competenti in questo settore, basti pensare a tutte le persone che ogni anno emigrano all’estero per lavorare nelle big factory dei vfx, Londra in primis. L’Italia è sempre stata e continua a essere una fucina di creatività, e nell’ambiente della computer grafica questa è una caratteristica fondamentale. Io personalmente conosco circa trenta persone sparse un po’ in tutto il mondo che hanno lavorato a grandi film. Persone che attraverso le loro scelte hanno creato immagini ora impresse indelebilmente nell’immaginario collettivo. La tradizione italiana dei grandi tecnici che lavorano dietro le quinte di un film internazionale si può senza dubbio estendere


anche agli effetti visivi. In Italia questo settore si apre al mercato intorno la metà degli anni Novanta, crescendo di anno in anno fino a oggi. Il lavoro nella nostra cinematografia è composto essenzialmente da “effetti invisibili”, che consistono in rimozioni di oggetti, set extension, correzioni errori sul set e matte painting. Negli ultimi anni si è capito anche il potenziale delle sequenze d’apertura con titoli animati, e molti registi e produttori hanno intrapreso questa strada. Tuttavia, in questo momento l’impiego degli effetti visivi è visto più come uno strumento per risparmiare che come strumento creativo. La pubblicità è molto più dinamica sotto quest’aspetto rispetto al cinema e alla televisione; certamente influisce anche il fatto che ha dei budget maggiori, ma non si tratta solo di questo, per quanto di primaria importanza. L’industria degli effetti visivi necessita di personale qualificato, software a volte molto costosi e hardware di elevate prestazioni. I budget delle società vengono calcolati in base alle ore di lavoro che ogni artista dedica al progetto, si può perciò ben immaginare che il capitale umano è l’elemento fondamentale per la riuscita di un buon lavoro. Come in ogni disciplina il talento deve essere incoraggiato, e la concorrenza deve battersi su valori sani. Attualmente in Italia questo tipo d’industria è in evoluzione, seppure senza alcun aiuto da parte della politica (diversamente ad esempio a quanto accade in Inghilterra e in Canada, dove i governi hanno preso misure concrete per favorire lo sviluppo del settore e la creazione di

un numero sempre crescente di nuovi posti di lavoro): alcune nuove piccole società si affacciano sul mercato in aggiunta ad altre solide realtà che operano da anni. Sempre più produzioni cominciano a capire l’importanza della qualità, e sempre più frequentemente è richiesta la figura di un supervisore sul set. La tecnologia si evolve, e cose che ancora cinque anni fa richiedevano enormi sforzi anche economici adesso sono molto più accessibili. Tuttavia agli addetti ai lavori, in primis ai registi, mancano ancora le conoscenze tecniche di base, le nozioni fondamentali per poter pianificare già in fase di stesura della sceneggiatura scene complesse e costruzioni creative. Nozioni fondamentali anche per i produttori perché, come si è già detto, il fattore budget è di estrema importanza e la conoscenza diretta di tecniche di lavorazione permetterebbe di affrontare un preventivo senza attacchi di tachicardia o spiacevoli sorprese sulla qualità finale del lavoro. Nei prossimi numeri esaminerò più a fondo la questione degli effetti visuali e del loro impiego nel cinema italiano di oggi. Il digitale sta trasformando il mondo, internet e le nuove tecnologie sono i mezzi per esprimersi nel linguaggio attuale; un nuovo alfabeto che si propone di abbattere le barriere, esplorare e influenzare nuove idee. Questo è il motivo per cui ho deciso di aprire l’articolo con una citazione di Goethe, perché per portare avanti una piccola rivoluzione servono sempre due componenti fondamentali, amore e coraggio.

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I MESTIERI DEL CINEMA

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TUTTI I TRUCCHI Di di CHIARA CUCCI foto MATTEO VERNIA

ALESSANDRO Incontro con un astro nascente del trucco per il cinema. E dire che per il make up artist Alessandro D’Anna tutto è cominciato in gita con la scuola..


Per il film Milo di Berend e Roel Boorsma, premiato quest’anno al Giffoni Film Festival, Alessandro ha inventato un trucco speciale per il protagonista, un ragazzino di dieci anni colpito da una rara malattia chiamata ipertricosi congenita, che provoca una crescita abnorme di peli sul volto e sul corpo. Per abbreviare le sedute di trucco è stato scelto del tulle finissimo, trattato e applicato sul volto del giovane attore.

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Alessandro trucca Gassman in Natale per due.

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iovane (27 anni) make up artist e special effects, Alessandro D’Anna è una promessa ormai affermata del cinema e della televisione italiana. Una formazione fatta di impegno, volontà, passione e capacità di mettersi in gioco e saper cogliere l’occasione di imparare anche solo guardando. Lo raggiungo nel suo laboratorio un sabato mattina. Sono tutti al lavoro già dalle 8: c’è da sistemare, classificare, pulire, organizzare il materiale e rimettersi in moto per una nuova produzione. Come nasce l’amore per questo mestiere? «Alle medie i professori mi portarono in gita a un evento organizzato dalla Banca di Roma. Tra gli stand ce n’era uno dove un ragazzo preparava delle finte ferite con della cera da modellatura: rimasi folgorato, e mi feci spiegare come farle anch’io a casa. Saponetta e rossetto: nulla di più semplice. A 17 anni cominciai a lavorare con un truccatore: ero sempre attento a quello che succedeva intorno a me, sempre in piedi, scattante. Così sono arrivate le agenzie di moda, i servizi fotografici e i videoclip. Ma dopo un po’ la moda non mi è bastata più, volevo provare con il teatro. Così ho conosciuto il mio attuale socio, Roberto Paglialunga, con il quale ho lavorato a Caracalla, al Teatro dell’Opera e al Teatro Nazionale». Come sei arrivato agli effetti speciali? «Era un aspetto del mestiere che mi ha sempre interessato: un giorno sono stato invitato a visitare il laboratorio di Vittorio Sodano, fra i migliori nel settore [due nomination all’Oscar, per Apocalypto di Mel Gibson e per Il Divo di Paolo Sorrentino, ndr]. Non dimenticherò mai il momento in cui entrai nel regno di Vittorio: il paese delle meraviglie! C’era chi preparava sangue finto, chi protesi, chi scolpiva – mostri, teste, mani e piedi mozzati. Ero al settimo cielo. Vittorio rimase colpito dal mio entusiasmo e mi offrì di frequentare il laboratorio. In quel periodo stavano preparando Il capo dei capi; imparai moltissimo, ero diventato la sua ombra: mettevo in ordine, pulivo e rubavo con gli occhi i trucchi del mestiere».

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Quindi è Vittorio Sodano il tuo maestro … «Ogni giorno dovevo conquistarmi un posto accanto a lui. Lo seguivo passo passo e osservavo ciò che realizzava e sperimentava. Da lui ho imparato tutto, anche a fare le domande giuste per capire cosa si aspetta il committente, a trovare la soluzione migliore per le richieste del regista. Inoltre Vittorio si è sempre circondato di ottimi collaboratori (in tutti i settori: barbe a pelo, protesi, scultura, calchi, beauty), così da darmi la possibilità di assorbire il meglio da ognuno di loro». Il ricordo più emozionante? «Non dimenticherò mai la fila infinita di camion fuori dal Parlamento: Vittorio mi aveva portato sul set de Il Divo di Sorrentino. Finalmente il cinema! Arrivavo mezz’ora prima della convocazione, rimanevo sempre in piedi, mai seduto o appoggiato, con il sorriso sulle labbra. Nel backstage c’erano i grandi: Paolo Sorrentino, Vittorio Sodano, Aldo Signoretti e attori come Toni Servillo e Carlo Buccirosso trasformati in Andreotti e Pomicino». La tua società con Roberto Paglialunga è una realtà ormai consolidata nel panorama cinematografico e televisivo. «Dopo aver lavorato a Noi credevamo di Mario Martone avevo preso più confidenza con il mestiere; ho capito che potevo unire le mie forze con quelle di Roberto, così gli ho proposto di collaborare. Lui si occupa delle parrucche e dei posticci, io gestisco il reparto del make up e degli effetti speciali. Da noi è possibile comprare o affittare tutti i materiali per il trucco: prodotti professionali, parrucche, protesi, calchi». Sono tempi duri, soprattutto in Italia: molti faticano a portare avanti la propria impresa. «Sembrerà assurdo in tempi di crisi, ma a dire il vero noi non facciamo fatica. Studiamo con cura ogni dettaglio, ci siamo inseriti nel mercato e siamo diventati competitivi. Oggi seguiamo molte committenze e lavoriamo con passione e impegno: ad esempio sta per partire un


La qualità delle materie prime è fondamentale: torno ora da un viaggio in Cina in cui abbiamo acquistato grandi quantità di capelli per le parrucche e di peli di yak, i più adatti per riprodurre barbe e baffi.

grosso progetto internazionale a Londra. In questo mestiere bisogna essere pronti a dedicarsi totalmente, a far vedere che la passione ti spinge ad andare sempre avanti, a superare tutti gli ostacoli». A parte gli ovvi cipria, spugnette, rimmel e rossetto, quali sono gli strumenti e i materiali del tuo mestiere? «Silicone al platino, poliuretani, gel, resine per i calchi, paglia di vetro, elastomeri e gomme. È importante conoscere i materiali che si impiegano e saperli miscelare bene per rendere naturali ed elastiche le consistenze delle protesi, fare in modo che siano adattabili al corpo dell’attore. La qualità delle materie prime è fondamentale: torno ora da un viaggio in Cina in cui abbiamo acquistato grandi quantità di capelli per le parrucche e di peli di yak, i più adatti per riprodurre barbe e baffi». Quali dritte daresti a un make up artist alle prime armi? «Come dicevo, si possono ottenere dei tagli con una semplice saponetta tritata e del rossetto rosso, aggiungendo poca acqua alle scaglie di sapone. Raggiunta una consistenza malleabile si crea uno spessore sulla pelle, stendendolo sulla parte interessata. Poi lo si incide e si riempie la fessura con del rossetto, che sembrerà sangue. Se invece si vuole ottenere un’epidermide invecchiata, consiglio di usare il lattice (si può trovare in qualsiasi negozio di belle arti). Dopo averlo applicato sulla pelle ben tesa bisogna lasciarlo asciugare bene, eventualmente stendendovi sopra un leggero strato di borotalco. Una volta rilasciata la pelle, ecco che si avrà l’effetto raggrinzito. Il lattice funziona bene anche per fare le “zampe di gallina” intorno agli occhi, o le rughe vicino alle labbra. La stessa tecnica può essere usata per simulare una pelle disidratata, aggiungendo dei sottili strati di carta igienica quando il lattice è ancora liquido. Se invece si vogliono ricreare piercing e orecchini, i fili di stagno, che si trovano in qualsiasi ferramenta, sono l’ideale. Si tratta infatti di un materiale molto malleabile, che con il calore si ammorbidisce facilmente».

F O C U S | A lessan d r o D ’A nna Il curriculum di AIessandro è molto nutrito, nonostante la giovane età. Oltre al Capo dei capi e a Il Divo, fra le sue collaborazioni a film tv e per il cinema ricordiamo Romanzo criminale di Stefano Sollima; Shutter Island di Martin Scorsese; Io, don Giovanni di Carlos Saura; Noi credevamo di Mario Martone; I delitti del cuoco di Alessandro Capone con Bud Spencer; Baciato dalla fortuna di Paolo Costella con Asia Argento, Alessandro Gassman e Vincenzo Salemme; Cuore di Clown di Paolo Zucca con Vinicio Marchioni; Natale per due di Gianbattista Avellino con Alessandro Gassman e Enrico Brignano; Il delitto di via Poma di Roberto Faenza; Io e te di Bernardo Bertolucci.

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Diego Armando Corleone è la storia di un tragicomico viaggio alla ricerca delle proprie origini mafiose da parte di un ragazzone italoamericano desideroso di diventare boss a tutti i costi. Nasce come soggetto cinematografico dalla penna di Severino Iuliano (sceneggiatore) ed è diventato graphic novel grazie alle matite di Aldo Iuliano (regista e disegnatore) e Fabrizio De Masi (colorist). I tre si radunano spesso nella crew “Freak Factory” per sviluppare progetti indipendenti e sperimentali, a partire dal fumetto per arrivare al cinema (e viceversa).




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