Fabrique du Cinéma #24

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LA CARTA STAMPATA DEL NUOVO CINEMA ITALIANO PRIMAVERA

2019

Numero

24

ICONE

CAVANI, MARTONE, PALMER

Innovatori nel raccontare la storia, l’arte e la musica con il loro cinema

FUTURES

BOERI E ALBERTINI

Madri in affitto e padri social: com’è difficile essere genitori oggi

ZONA DOC

LIFE IS BUT A DREAM

La regista e i coloni: storia di un incontro “disarmato”

CAMBIA IL TUO SGUARDO

Carlotta Antonelli Guarda le cose da una diversa prospettiva e prepara il cambiamento, perché il nuovo non arriva da solo



S

MORTE ALL'EGO!

CARLOTTA ANTONELLI

SOMMARIO

CECILIA ALBERTINI

Pubblicazione edita dall’associazione culturale Indie per cui Lungotevere della Vittoria, 10 00195 Roma (RM), Italia www.fabriqueducinema.it

Registrazione tribunale di Roma n. 177 del 10 luglio 2013 DIRETTORE ARTISTICO Davide Manca DIRETTORE EDITORIALE Elena Mazzocchi SUPERVISOR Luigi Pinto STRATEGIC MANAGER Tommaso Agnese DIRETTORE RESPONSABILE Ilaria Ravarino Luca Ottocento GRAFICA E IMPAGINAZIONE Giovanni Morelli REDAZIONE Monica Vagnucci REDAZIONE WEB Gabriele Landrini AMMINISTRAZIONE E DISTRIBUZIONE Eleonora De Sica UFFICIO STAMPA b.studio http://bstudios.it in collaborazione con Sara Battelli PUBBLICITÀ redazione@fabriqueducinema.it APS Advertising srl Via Tor de Schiavi, 355 00171 Roma (RM), Italia www.apsadvertising.it STAMPA CIERRE & GRAFICA Via Alvari, 36 00155 Roma (RM), Italia

LA PARANZA DEI BAMBINI

10 FUTURES/1 GIACOMO BOERI GLI ADULTI DA SOLI NON CAPISCONO NIENTE

LA CARTA STAMPATA DEL NUOVO CINEMA ITALIANO PRIMAVERA

Numero

24

ICONE

CAVANI, MARTONE, PALMER

Innovatori nel raccontare la storia, l’arte e la musica con il loro cinema

FUTURES

BOERI E ALBERTINI

Madri in affitto e padri social: com’è difficile essere genitori oggi

ZONA DOC

LIFE IS BUT A DREAM

La regista e i coloni: storia di un incontro “disarmato”

CAMBIA IL TUO SGUARDO

Carlotta Antonelli Guarda le cose da una diversa prospettiva e prepara il cambiamento, perché il nuovo non arriva da solo

IN COPERTINA Carlotta Antonelli

LILIANA CAVANI TONY PALMER

GIACOMO BEVILACQUA

THE GRAND BUDAPEST HOTEL

LIFE IS BUT A DREAM AMERICAN MIRROR

LINO MUSELLA E PAOLO MAZZARELLI NIGHTLIFE PUPONE

Finito di stampare nel mese di marzo 2019

2019

04 COVER STORY 06 FUTURES/2 12 FESTIVAL 14 ICONE/1 18 ICONE/3 26 ARTS 28 CHICKENBROCCOLI 32 ZONA DOC/1 34 ZONA DOC/2 38 TEATRO 40 ATTORI 46 MAKING OF 54 VIDEOCLIP 56 VFX 60 DIARIO 64 DOVE 65 EDITORIALE

22 ICONE/2 MARIO MARTONE IL RIVOLUZIONARIO

ANTONIO DI MARTINO / GIORNI BUONI

ECHO

GLI EVENTI DI FABRIQUE

COME E DOVE FABRIQUE

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E EDITORIALE

foto ROBERTA KRASNIG stylist ALLEGRA PALLONI

MORTE ALL’EGO! di ILARIA RAVARINO @Ravarila_DM

Quante cose sono cambiate, da quando è nata Fabrique du Cinéma. Ieri, nel 2012, puntavamo la nostra piccola luce su una nuova generazione di autori che non riusciva a uscire dal sottobosco delle scuole, dei cortometraggi, dei “filmini” autoprodotti. Oggi, sette anni dopo, quella generazione di autori ‒ Sydney Sibilia, Laura Bispuri, Jacopo Rondinelli, Adele Tulli, Jonas Carpignano, Alice Rohrwacher, i fratelli D’Innocenzo, Valentina Bertani solo per citarne qualcuno ‒ ha trovato la sua strada. Sono i nati negli anni ’80 e ’90: non più “ragazzi”, come quando li abbiamo incrociati la prima volta, ma adulti consapevoli che stanno ricostruendo l’immaginario (e l’immagine) del cinema italiano. Ieri, nel 2012, dedicavamo le copertine a volti inconsueti, corpi d’attori acerbi mai graziati dal privilegio della vetrina di un giornale. Oggi quegli attori hanno fatto strada, sono cresciuti, sono noti, addirittura popolari. Matilda De Angelis, Lino Guanciale, Irene Vetere, Alessio Lapice, le gemelle Fontana: loro, e tanti altri transitati per queste pagine, oggi sono gli alfieri di un rinnovamento che parte anche dal casting dei film ‒ facce diverse per storie diverse di un paese che vorremmo, finalmente, diverso.

Ieri, nel 2012, Fabrique era il sogno di un gruppo di cineasti che cercava una casa, un laboratorio, uno spazio per raccontarsi. Oggi Fabrique è una rivista, un

sito, una community, un appuntamento fisso, un premio internazionale. Un giornale da sempre

in prima fila ‒ quando il #metoo non era nemmeno un hashtag ‒ nell’abbattere il “caro divario”, nel segnalare squilibri e indicare soluzioni, nella consapevolezza che i problemi vanno denunciati, sì ‒ ma poi si deve lavorare per risolverli. Oggi, come ieri, perdura un antico vizio nel paese: non riconoscere il talento dei “giovani”, e considerare normale soffocarlo nelle maglie dell’ego dei “vecchi”. Se i nostri nuovi autori hanno impiegato tanto tempo per emergere, è anche perché chi avrebbe dovuto guidarli, e fare squadra, si è rifiutato di farlo. Noi di Fabrique crediamo invece che lo scambio fra generazioni sia vitale. Crediamo sia indispensabile avvicendare i talenti. Ed è per questo che ‒ assai orgogliosa del lavoro fatto dal 2012 a oggi ‒ penso sia arrivato anche per noi il momento di cambiare. È con emozione, stima e fiducia che passo dunque, dopo sette incredibili anni, la staffetta al nuovo direttore Luca Ottocento: a lui il compito di guidare Fabrique su quelle strade “giovani” che nessuno, ancora, ha avuto il coraggio di esplorare.

«Noi di Fabrique crediamo che lo scambio fra generazioni sia vitale».

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- Cover story -

Classe 1995, Carlotta Antonelli inizia giovanissima ad avvicinarsi al mestiere di attrice sudiando recitazione nel 2014 e 2015 con la compagnia teatrale Hurum Teatro.

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creative producer TOMMASO AGNESE fotografa ROBERTA KRASNIG assistenti fotografa CHIARA PRELLE / ANITA XELLA stylist ALLEGRA PALLONI assistente stylist ALICE DE STEFANO hair ADRIANO COCCIARELLI @HARUMI makeup ILARIA DI LAURO (IDL MAKE UP) abiti GINEVRA ODESCALCHI e GLASS BY BUTLER-JENNIFER HACKETT

CARLOTTA ANTONELLI

LASCIARSI ANDARE Con una serie Netflix alle spalle, Carlotta è finalmente pronta per il grande schermo. Impaurita? Certo, ma ormai ha scoperto un trucco: basta solo lasciarsi andare. di GABRIELE LANDRINI

«SONO CONVINTA CHE OGNUNO DI NOI DEBBA TROVARE L’ISPIRAZIONE IN SE STESSO».

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ue stagioni della fiction Solo, altrettante della produzione Netflix Suburra, una svolta leggera con Immaturi e una sfida importante, quella combattuta sul grande schermo, grazie all’imminente Bangla: in appena quattro anni, Carlotta Antonelli si è dimostrata un’attrice caparbia e versatile, capace di incarnare figure femminili tra loro diversissime. Se per il format Mediaset è stata una ragazza oppressa da una famiglia di malavitosi calabresi, per il colosso dello streaming ha incarnato una sensuale gitana romana, preparandosi

poi a diventare una travolgente anticonformista nel prossimo lungometraggio targato Tim Vision. Nonostante una carriera in ascesa, la giovane promessa non sembrava però destinata a esser parte di questo mondo: «La mia carriera nella televisione e nel cinema è nata per caso e inizialmente non ero davvero sicura che fosse la strada giusta per me. Oggi è tutto diverso, sono passati

quattro anni e mi sono resa conto che non vorrei fare nient’altro nella vita. Non saprei dire cosa mi abbia fatto innamorare di questo mestiere, so solo che è successo».

Un’attrice per caso che è diventata un’attrice per passione, quindi… Esatto! Quando mi sono resa conto che la recitazione sarebbe stata il mio futuro, ho deciso anche di studiare: la passione è importantissima, ma per quanto mi riguarda non credo fosse sufficiente. Ho cominciato ad affidarmi a una coach che mi aiutasse a esprimere il meglio di me. Sono convinta che ognuno di noi debba trovare l’ispirazione in se stesso, anche per riuscire a trasmettere qualcosa di diverso e di personale. La difficoltà nel fare l’attrice sta proprio in questo, tirare fuori qualche cosa di unico e soprattutto di autentico.

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da una famiglia musulmana molto tradizionalista e che quindi non ha nulla in comune con il mio personaggio. Personalmente, mi sono innamorata immediatamente di Asia e di questo progetto, è una storia importante di cui in questo momento abbiamo assolutamente bisogno.

Carlotta veste i panni della protagonista femminile in Bangla, film diretto da Phaim Bhuiyan e presentato alla Festa del Cinema di Roma del 2018 all'interno della sezione Alice nella Città.

Hai esordito in Solo, una grossa produzione Mediaset. Come è stata la tua prima esperienza sul set? Quando mi hanno comunicato che avrei interpretato Agata non ero esattamente felice, anzi… Ero terrorizzata! Più ci pensavo, più avevo paura e non volevo farlo. Quando sono arrivata sul set, mi sono tranquillizzata e la preoccupazione si è trasformata in felicità. Ero la più piccola e mi sono subito resa conto di poter far affidamento sulla troupe e su tutti i miei colleghi, che mi hanno rassicurata nei momenti di difficoltà. Solo è

un’esperienza che porto ancora oggi nel cuore, proprio perché da lì è iniziato tutto.

Il personaggio di Agata in Solo e quello di Angelica in Suburra, serie a cui hai preso parte poco dopo, sono due figure a tratti simili. Come ti sei preparata a interpretare questi personaggi? Agata e Angelica sono

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entrambe ragazze che fanno parte della criminalità, ma hanno atteggiamenti opposti a riguardo. Agata vuole fuggire della malavita e soprattutto dalle restrizioni che i suoi genitori impongono. Al contrario, Angelica è un personaggio che vuole conquistare il potere. Tra le due, ho trovato più difficoltà a interpretare la seconda: se con Agata mi sono affidata totalmente al regista, con Angelica ho fatto una preparazione emotiva e fisica non sempre facile, lavorando sulla teatralità dei gesti ma anche sul confronto con gli altri personaggi. Suburra è stata la prima serie Netflix prodotta in Italia ed è stata distribuita in circa 190 paesi. Come è stato essere parte di una realtà così internazionale? Terrificante! Io ho fatto otto provini, ma quando mi hanno detto di aver ottenuto la parte, ero di nuovo terrorizzata

all’idea! La troupe di Netflix è poi completamente diversa dalle altre, perché è formata da tantissime persone e a volte mi sono sentita piccola tra tutte loro. Passata la paura iniziale, il set si è però rivelato ancora più magico, perché ero realmente parte di qualcosa di davvero grande e importante. Certo, l’insicurezza non è mai scomparsa del tutto, quando credevo di sbagliare qualcosa mi affliggevo per giorni, ma questa esperienza mi ha insegnato a fidarmi di chi ho intorno e a non preoccuparmi troppo. E ora arriviamo invece al grande salto: Bangla, il tuo primo lungometraggio. Cosa puoi dirci del personaggio che interpreterai? Io interpreto Asia, una ragazza di circa 19 anni totalmente anticonvenzionale, senza regole, anarchica, che ama la vita e non ha paura di nulla. Il film racconta la sua storia d’amore con Phaim, che invece proviene

Phaim Bhuiyan, il regista e protagonista del film, ha appena 22 anni. Come è stato confrontarsi con un ragazzo così giovane? Inizialmente ho avuto paura perché, essendo un regista e un attore alle prime armi, non sapevo realmente cosa aspettarmi. Quando l’ho guardato per la prima volta negli occhi, mi sono tuttavia resa conto che le mie preoccupazioni erano totalmente infondate: già dal primo provino si è creato un rapporto paritario e naturale tra noi due, che ci ha permesso di aiutarci a vicenda sul set, anche se lui ha sempre avuto perfettamente chiaro cosa aspettarsi dal film. La tua strada sembra tutta in discesa, cosa consiglieresti a un giovane attore che vuole seguire le tue orme? L’unico consiglio che mi sento di dare è quello di imparare a lasciarsi andare. La determinazione è importante, ma per fare questo mestiere ci si deve veramente abbandonare, imparando a spogliarsi delle proprie paure e preoccupazioni. Tutti tendono spesso a guardarsi eccessivamente, forse anche nella convinzione che sia l’apparenza a contare davvero. Al contrario, credo che la bellezza sia solo relativamente importante, la recitazione è ben altro, è qualcosa che nasce da dentro e che deve appunto essere liberata.



- Futures/1 -

GIACOMO BOERI

GLI ADULTI DA SOLI NON CAPISCONO NIENTE (ANTOINE DE SAINT-EXUPERY)

Le storie di Giacomo Boeri spaziano dal ritratto di un borghese di mezz’età che paga cara l’incursione nei social del figlio, ai giardinieri volanti del Bosco Verticale, a una donna solitaria con la passione per la tassidermia. di STEFANIA COVELLA

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a sua forza creativa trova l’equilibro nel perfetto incastro tra un’estetica curatissima e una narrazione mai scontata. Classe 1986, Giacomo Boeri studia Cinema alla New York Film Academy e alla London Film School e nel 2012 fonda The Blink Fish per cui scrive e dirige corti, documentari e spot per brand famosi. Con il suo divertente e tragico Pater familias ha vinto il premio RAI Channel al Festival del Cinema di Roma: un cortometraggio dramedy che racconta i social network da un punto di vista differente e si prende gioco delle ipocrisie di un padre di famiglia apparentemente irreprensibile.

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Dopo aver studiato a New York e a Londra, sei tornato a Milano e hai fondato la Blink Fish, che si occupa sia di pubblicità che di cinema. Come gestisci le due anime del progetto? Ho deciso di fondare la società perché, stando su Milano, l’ambito pubblicitario è quello più immediato, mentre il cinema va meno ed è difficile lavorare su aspetti narrativi, da autore indipendente venivo sballottato tra le case di produzione. Inoltre, mi è sempre piaciuta tutta la parte creativa precedente mentre, come regista, si arriva sempre quando è finita. Volevo, insomma, entrare in gioco da prima. Facciamo cose di vario genere (come ADV, fashion film e video,


Oltre che di cinema - ha all'attivo tre corti (Agata, Pater familias e The Flying Gardeners) - Giacomo Boeri si occupa di pubblicità con spot girati, fra gli altri, per Netflix, Sky, Armani, Bulgari, Valentino.

musicali), ma abbiamo tutti la passione del cinema. Il nostro obiettivo è quello di autoprodurre ogni anno un documentario o un cortometraggio, qualcosa di più personale; per ora ci stiamo riuscendo ed è la cosa che più ci dà soddisfazione. Il pater familias che descrivi è grottesco, si veste con le t-shirt del figlio e nasconde le rughe dietro una maschera da wrestler per chattare con una ragazzina. Augusto incarna le ipocrisie di un borghese inappuntabile solo in apparenza. Perché hai scelto proprio questa storia?

Volevo raccontare i social network e il virtuale attraverso una prospettiva particolare, quella di un uomo di cinquant’anni. Mi interessava mostrare come la sua generazione, che non è nata con i social e che in un certo senso li ha subiti, a volte si ritrovi a usarli in modo ingenuo o improprio. In ogni caso scelgo spesso di lavorare a storie molto diverse tra loro: inizialmente mi preoccupava, poiché in pubblicità occuparsi di generi diversi è considerato poco fruttuoso. Molti mi dicevano di sceglierne uno e specializzarmi in quello, ma per me non funziona affatto. Ho capito che mi piace variare e lo trovo vantaggioso, cambiando continuamente ti porti dietro temi e strumenti che gli altri non hanno e riesci a creare cose nuove, dando vita a commistioni positive. Parlami della realizzazione di questo corto dramedy. Hai degli aneddoti dal set da raccontare? La realizzazione è stata molto bella, nonostante le ristrettezze del budget: abbiamo girato tutto in un giorno e non è stato facile. Il

povero Mauro Negri [il protagonista, ndr] si è dovuto lanciare più volte all’interno della vasca da bagno. Nonostante cuscini e precauzioni, il rischio di farsi male era altissimo! Inoltre, una settimana prima di girare, era stabilito di fare le foto alla ragazza coprotagonista, quelle di nudo che lei manda ad Augusto nel corto. Abbiamo chiamato l’attrice in studio ma è stato imbarazzante, io ero impacciato e le foto non venivano bene. A un certo punto, mi ha chiesto di lasciarla da sola, così poteva scattarle con il cellulare, e in cinque minuti si è fatta duecento foto perfette. Questo ti fa capire che, anche se la differenza d’età non è enorme, lei aveva un rapporto diverso con il cellulare, sapeva come fotografarsi, le sue foto la rendevano bellissima, mentre io avevo provato ogni angolazione senza successo. Film nel cassetto? Ho due-tre sceneggiature di lungo che sono convinto possano funzionare. Una che parte da Pater familias, ma ne prende solo ispirazione e poi segue un’altra dinamica, molto più ampia. Mentre una seconda idea che mi piace riguarda una storia che si svolge tra una sessantina d’anni, quando la situazione non sarà più sostenibile, la popolazione sarà aumentata in maniera vertiginosa, non ci saranno più le pensioni per sostenere gli anziani (non è poi così lontano dalla realtà...). Serve una soluzione: tutte le persone sopra gli ottanta anni devono morire. Per permettere loro di abbandonare la vita in maniera più dolce, si decide di regalare loro un’ultima lunga crociera durante la quale possono fare tutto quello che vogliono. Un film truce e surreale, una distopia (ancora!) grottesca.

«HO CAPITO CHE MI PIACE VARIARE PER DARE VITA A COMMISTIONI POSITIVE».

Optatem. Il grottesco Itaprotagonista voluptatem re, delquos corto, etur interpretato magnihilitda mi,Mauro tem accatius Negri, èestion un pater cullanis familias verem 2.0 rehent. alla costante ed esasperata ricerca della foto perfetta.

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- Futures/2 -

CECILIA ALBERTINI

LA SCELTA DI VERONICA

La sua è la storia di una passione per il cinema che comincia, come da copione, da bambina. Cecilia Albertini inizia a lavorare giovanissima prima come attrice e poi scopre la sceneggiatura e la regia. di STEFANIA COVELLA

Il dilemma della protagonista inizia durante un'ecografia di routine: i medici scoprono che il bambino rischia di avere una malattia genetica e la madre biologica non vuole farlo nascere.

«CAPIRE GLI ATTORI MI AIUTA A NON TRATTARLI COME BURATTINI». 12


C

ecilia Albertini studia a Milano e poi in America tra New York e Los Angeles. Sperimenta esplorando in vari corti figure femminili mai banali e dirige Francis Ford Coppola’s Live Cinema. Labor, selezionato in vari festival in giro per il mondo (riportando già un paio di premi, all’Afrodite Shorts Festival e al Moscow Shorts Award), è un cortometraggio controverso perché tocca i

temi dei diritti della donna, il suo rapporto con il corpo e il dibattito sulla GPA (gestazione per altri). Labor racconta la storia di una madre surrogata che si trova ad affrontare una decisione difficile: le viene chiesto di abortire il bambino che porta dentro di sé per conto di un’altra donna. Perché hai scelto gli Stati Uniti? Amo l’Italia ma, com’è noto, negli USA ci sono più scuole di cinema e più opportunità. E poi là mi sentivo più libera di essere me stessa e di esprimermi creativamente, forse perché non mi conosceva nessuno e non avevo paura dei pregiudizi. Mi sono iscritta alla Columbia University, dove ho studiato Film Studies, un percorso incentrato sulla storia e la critica del cinema. Poi, dopo due anni di lavoro come assistente in varie case di produzione, mi sono iscritta alla UCLA di Los Angeles, dove ho portato a termine un master in regia. Così ho avuto modo di scrivere e girare diversi corti. Giri, scrivi e editi ma sei anche un’attrice: quando hai deciso di passare dietro la macchina da presa? Quando mi sono accorta che recitare e basta non mi stimolava abbastanza. Mi piaceva molto, ma c’era qualcosa che mi mancava. Era l’inventare storie, personaggi, e forse anche per il senso di controllo che la scrittura e la regia mi danno. Avere recitato in passato ha influenzato tantissimo il mio lavoro con gli attori, perché sono stata al loro posto. So cosa si prova a essere vulnerabili davanti alla telecamera e a dover tirare fuori le emozioni, ripetendo la stessa scena all’infinito. Capire gli attori mi aiuta a non trattarli come alieni o peggio ancora come burattini. Il tuo corto, Labor, è tratto da una storia vera. Come sei entrata in contatto con la vicenda di Veronica? Ho letto un articolo mentre stavo facendo delle ricerche per un altro progetto sull’inseminazione artificiale. Il mondo della surrogazione mi ha sempre colpita e questa storia vera mi ha affascinato per la sua complessità di punti di vista. Parlami della scelta di accostare le immagini crude del pollaio e

della macellazione con la vita di Veronica. Come è stato accolto Labor nei festival? Nella scena del pollaio con cui si apre il film domina un senso di inevitabilità. I polli sono destinati a morire, sono in trappola. Anche Veronica in un certo senso è in trappola quando viene forzata a interrompere la gravidanza. Credo che una scelta simile possa prenderla solo la donna e imporla dall’esterno mi sembra un atto invasivo e violento. Naturalmente però non voglio condannare il personaggio della madre biologica, anche lei ha le sue ragioni. In questa storia non viene fornita una soluzione al dilemma che attanaglia Veronica. Labor è stato accolto bene nei festival, nonostante il tema difficile e controverso: ciò dimostra che le persone vogliono vedere anche questo tipo di film. Hai diretto un documentario su Francis Ford Coppola e il live cinema, un esperimento a metà tra un set e un palcoscenico teatrale che consiste nel girare un film, montarlo e mostrarlo al pubblico in tempo reale. Ma Distant Vision è anche e soprattutto la storia di una famiglia di immigrati italiani in America, negli anni Venti. Proprio così. Nell’estate del 2016 Francis Ford Coppola è tornato nella sua Alma Mater, la UCLA, per mettere in piedi un progetto di live cinema. È stato bellissimo osservarlo per un mese, lo seguivo ovunque sul set e lo intervistavo quasi ogni giorno: una persona incredibilmente umile, generosa e disponibile. A volte ammetteva apertamente di non sapere cosa stesse facendo e di essere lì per imparare lui stesso. Sul set cantava, si divertiva, ogni tanto si arrabbiava, scherzava, rideva con tutti. Ha l’anima di un bambino ed è una vera ispirazione. Gli piaceva molto parlare in italiano con me e con gli altri italiani sul set (c’era anche Marta Savina ‒ intervistata sul numero 23 di Fabrique). Mi diceva sempre di sentirsi molto più italiano che americano. Quali sono i tuoi progetti per il futuro, ti senti pronta per un lungometraggio? Sì, credo di essere pronta per un lungo. Sto lavorando a dei soggetti da girare qui in Italia e ad altri per l’America. Non so ancora cosa finirò per fare, nel frattempo mi dedicherò a un altro corto. L’importante è continuare a creare. Di certo mi piacerebbe

un film qui in Italia, nella mia lingua, con la mia gente e in una cultura che amo. Vivendo all’estero per quasi dieci

anni mi sono, paradossalmente, innamorata di più dell’Italia. Sarà banale, ma ho scoperto tutte le cose meravigliose che abbiamo e che vivendo qui davo per scontato.

Optatem. Labor ha vinto Ita voluptatem il premio come re, quos Miglior etur Corto magnihilit del 2018, mi,fra tem venti accatius titoli inestion gara, cullanis alla terzaverem edizione rehent. di Afrodite Shorts, con Nancy Brilli come Presidente di Giuria.

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- Festival -

LA PARANZA DEI BAMBINI

KIDS WITH GUNS

Otto adolescenti tentano di conquistare il Rione Sanità sfruttando il vuoto di potere che si è creato dopo la cattura di un boss. Claudio Giovannesi ci immerge senza stereotipi e spettacolarizzazioni in un mondo criminale da cui, una volta entrati, è impossibile uscire.

di LUCA OTTOCENTO

A

Come nasce il progetto e come ti sei avvicinato alla scrittura del film insieme a Roberto Saviano e Maurizio Braucci? Il film mi è stato offerto proprio da Roberto, che mi ha contattato insieme al produttore perché mi voleva come regista. Subito è apparso chiaro come tutti e tre avessimo un punto di vista comune sulla modalità di realizzazione del film a partire dal romanzo. Per me era fondamentale lavorare sul tema della perdita dell’innocenza e costruire un percorso sentimentale ed emotivo dei personaggi. Ci siamo focalizzati su cosa accade a degli adolescenti nel momento in cui fanno una scelta criminale dalla quale poi non è più possibile tornare indietro, in che modo i sentimenti propri dell’adolescenza

©Simone Florena

quasi tre anni di distanza da Fiore, il ritorno dietro la macchina da presa di Claudio Giovannesi era molto atteso. Dal racconto di una storia d’amore sui generis ambientata in un carcere minorile a quello di un gruppo di giovanissimi che intraprendono la carriera criminale, il filo conduttore è la poetica del quarantunenne regista romano: l’osservazione del mondo adolescenziale senza pregiudizi, privilegiando con sensibilità e umanità l’indagine dei sentimenti. Abbiamo parlato con Claudio de La paranza dei bambini raggiungendolo telefonicamente durante il Festival di Berlino, dove il giorno successivo avrebbe conquistato l’Orso d'Argento per la migliore sceneggiatura.

Optatem. La paranza Itadei voluptatem bambini ère, prodotto quos etur da Palomar con Vision magnihilit mi, tem accatius Distribution, in estion cullanis collaborazione verem rehent. con Sky Cinema e TIMVISION.

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«PER ME FARE UN FILM SIGNIFICA STARE VICINO A DEI PERSONAGGI E CONOSCERE LA LORO UMANITÀ». Tratto dall’omonimo libro di Roberto Saviano, il film vede nel cast principale giovani ragazzi dei quartieri di Napoli che non hanno mai recitato prima: Francesco Di Napoli (Nicola), Ar Tem (Tyson), Alfredo Turitto (Biscottino), Ciro Vecchione (O’Russ), Ciro Pellecchia (Lollipop), Mattia Piano Del Balzo (Briatò).

a New York, dove si trovava in quel momento Roberto. Più avanti mi sono trasferito a Napoli nei quartieri in cui sarebbe stato ambientato il film, vicino casa di Maurizio, e a quel punto il percorso di scrittura è continuato andando di pari passo con il lungo processo di casting.

Come già nei tuoi precedenti lavori Alì ha gli occhi azzurri e Fiore, La paranza dei bambini si incentra su adolescenti che vivono situazioni di grande difficoltà, limitandosi a raccontarli nella loro quotidianità senza giudicarli, con una totale assenza di retorica. I personaggi del mio cinema non li considero ragazzi ai margini, camorristi, criminali o spacciatori, perché questo vorrebbe dire assumere già in partenza una posizione di giudizio. Prima di tutto sono degli adolescenti che vivono dei sentimenti analoghi a tutti gli adolescenti del mondo, al di là della classe sociale e della città di provenienza. Per me fare un film significa stare vicino a dei personaggi e conoscere la loro umanità. Questa è la cosa che più mi interessa e spero che il pubblico si riconosca nel percorso di conoscenza umana dei personaggi sviluppato nel film, possibile solo nell’assenza di giudizio. Se giudichi qualcuno non puoi amarlo, non puoi condividere quello che ha dentro.

Come hai lavorato con i giovani protagonisti, non professionisti alla loro prima esperienza cinematografica? Tutto ha avuto inizio con il casting. I ragazzi del film li abbiamo cercati nei luoghi dei quartieri popolari di Napoli, ne abbiamo visti più di quattromila in sei mesi. Volevamo dei volti lontani dall’iconografia criminale classica, che riflettessero l’innocenza dei protagonisti, ma al contempo era fondamentale che i ragazzi avessero una conoscenza diretta delle realtà mostrate nel film e un talento innato per la recitazione. Prima dell’inizio delle riprese, abbiamo creato tra loro una dinamica di gruppo in modo che il sentimento di amicizia sul set fosse reale e non dovesse essere recitato. Le riprese poi si sono svolte seguendo la cronologica degli eventi narrati, così che i giovani potessero immergersi nell’esperienza dei protagonisti vivendola giorno per giorno. Senza

neppure sapere in anticipo dove questo percorso li avrebbe portati, visto che non abbiamo mai dato loro il romanzo o la sceneggiatura.

Del film colpiscono la volontà di evitare gli stereotipi legati al genere camorristico e la tendenza di fondo verso un’antispettacolarizzazione della violenza. La cosa più difficile è stata trovare la misura nella messa in scena della violenza. Ovviamente nella parola scritta del romanzo c’è una mediazione e noi nel film non avevamo alcuna intenzione di spettacolarizzare né di proporre scene ricattatorie, realizzate in funzione estetica o dell’emozione dello spettatore. Allo stesso tempo volevamo fare qualcosa di diverso rispetto a Gomorra - La serie, di cui tra l’altro sono stato anche regista di due episodi, che è un racconto di genere in cui i personaggi lottano per il potere. Qui l’obiettivo era narrare la storia dal punto di vista dei sentimenti.

©Angelo Turetta

Non è un caso, per quanto riguarda lo stile, che la macchina da presa sia sempre a stretto contatto con i personaggi, stando loro addosso in ogni momento. Quanto ho appena detto, per emergere dal film e non rimanere un discorso astratto, ha bisogno proprio di questo tipo di messinscena. La scelta è molto semplice: giro con una macchina da presa che segue il protagonista e ne mostra il volto, perché è il volto il mezzo attraverso il quale si possono rappresentare i sentimenti del personaggio. L’obiettivo è restituire sul piano visivo la vicinanza al personaggio, che è sempre empatica. In più, cerco di ricorrere spesso al piano-sequenza

non per velleità formali, a cui non sono minimamente interessato, ma allo scopo di evitare di interrompere le emozioni della scena, rimanendo dentro di essa il più a lungo possibile.

©Simone Florena

come l’amore, l’amicizia e la fratellanza vengano compromessi in un contesto di questo tipo. La prima fase del lavoro è iniziata

Optatem. Ita Attraverso il furto voluptatem di una re, pistola, quos Nicola etur magnihilit e i suoi amici mi, tem pensano accatius di poter estionripristinare cullanis verem giustizia rehent. e legalità nel loro mondo.

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Elio di Pace - L’alleato

FABRIQUE DU CINÉMA APRE LE PAGINE DIGITALI DEL PROPRIO SITO WEB A TUTTI I GIOVANI REGISTI INTERESSATI AL MONDO DEL CINEMA

Da sempre attenta ai cineasti di nuova generazione e alle piccole opere indipendenti, Fabrique du Cinéma ha deciso di dare maggior spazio alle promesse del cinema italiano anche sulla sua piattaforma online, inaugurando una rubrica settimanale esclusivamente incentrata sui film realizzati dai lettori. Continuando una tradizione già felicemente avviata dalla rivista cartacea, il sito internet offre un nuovo spazio dedicato non solo alle pellicole che quotidianamente debuttano sul grande schermo, ma anche a progetti nati

dal basso, che trovano maggiori difficoltà a raggiungere le vaste fasce di pubblico. Ogni martedì è dunque promossa una sezione chiamata “Making of”, che mira alla valorizzazione di un corto, medio o lungometraggio di un giovane regista italiano. Gli articoli, che naturalmente raccontano di settimana in settimana un progetto diverso, si compongono di un breve testo descrittivo sull’opera in questione accompagnato da una serie di immagini del dietro le quinte, di scatti dal set e di fotografie di scena.

Josh Heisenberg - Divina mortis

Cristian Patanè - Amore panico

Hai realizzato un cortometraggio e vuoi pubblicizzarlo? Sei un giovane regista e desideri trovare uno spazio adatto al tuo lavoro? Fabrique du Cinéma fa per te! Manda la tua proposta – corredata dalle informazioni tecniche, da una sinossi e da alcune immagini del backstage – all’indirizzo e-mail ufficiale redazione@fabriqueducinema.it e preparati a vedere il tuo film sul nostro sito!



- Icone/1 -

LILIANA CAVANI

NOTTE PROFONDA IN EUROPA

Restaurato nell’estate del 2018 dal Centro Sperimentale di CinematografiaCineteca Nazionale e dall’Istituto Luce-Cinecittà, Il portiere di notte rimane, a più di 45 anni di distanza, un film potente e “disturbante”. di ALBERTO CRESPI Responsabile ufficio stampa e comunicazione del CSC, che ringraziamo per la collaborazione

Optatem. Dalla Mostra Ita voluptatem di Venezia alla re, quos Berlinale, etur magnihilit gloriosa è mi, la vita temdel accatius restauro estion del Portiere cullanisdi verem notterehent. : presentato alla Biennale 2018 nella sezione Venezia Classici, il film di Liliana Cavani è stato scelto da Charlotte Rampling per la serata durante la quale ha ricevuto l’Orso d’Oro alla carriera al festival di Berlino.

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ll’epoca, chi c’era lo ricorda bene, fu uno scandalo che probabilmente Liliana Cavani non si aspettava in quelle proporzioni, anche se erano fresche le polemiche su Ultimo tango a Parigi di Bertolucci (altro restauro del CSC nel corso del 2018) e dopo poco più di un anno sarebbe esploso il caso-Salò subito dopo l’omicidio di Pier Paolo Pasolini. Erano anni in cui la censura colpiva duramente e il cinema italiano aveva una rilevanza artistica, politica e culturale che andava ben oltre i nostri confini. Tanto che Il portiere di notte – film a tutti gli effetti internazionale, ambientato a Vienna e interpretato da due sommi attori britannici, la Rampling appunto e il grande Dirk Bogarde – uscì in tutto il mondo e soprattutto in Francia ebbe recensioni entusiaste. Lo ricorda la stessa Liliana Cavani, alla quale diamo la parola. Il portiere di notte è uscito prima in Francia che in Italia, per precisa scelta dei produttori stranieri, ed è andato molto bene. Ho subito avuto la sensazione che i Francesi l’avessero capito meglio degli Italiani. Le Nouvel Observateur gli dedicò due pagine intere con un titolo che aiutò anche me a capire meglio che film avevo fatto: diceva “il portiere della notte”, non “di notte”, ed è quello che effettivamente era Max: non uno che semplicemente lavora di notte in un albergo, ma il custode della notte profonda nella quale l’Europa era ancora immersa, quell’irrazionalità che avevano causato il Nazismo e il Fascismo e dalla quale non eravamo ancora usciti. In Italia invece il film fece “scandalo”. Non era ciò che volevo. Ebbe problemi con la censura. Ricordo ancora un colloquio con un membro della commissione di censura, al quale chiesi perché avessero dato il divieto ai minori di 18 anni, e non di 14. Mi rispose: perché c’è una scena di sesso in cui la donna sta sopra l’uomo. Rimasi di stucco. Riuscii solo a dirgli: “Beh, ma può capitare!”.

Ti eri già occupata del Nazismo in una serie TV per la RAI… Tra il 1963 e il 1964 avevo realizzato per la RAI una Storia del Terzo Reich in quattro puntate di un’ora l’una. Ma anche quella serie, documentaria, ebbe problemi di censura. Fu mandata in onda nel canale culturale appena nato, con circa un milione di utenti. Qualcuno voleva trasmetterla sul primo canale, dove l’avrebbero vista milioni e milioni di persone, ma l’ambasciata tedesca a Roma fece sapere di non gradire e la RAI accettò la “protesta” dei Tedeschi… Dieci anni dopo, con Il portiere di notte, lo stesso problema: il senso di colpa, il rifiuto. Il vero tema del film è l’accusa per il fatto che nessuno avesse davvero pagato le colpe del Nazismo. La colpa è stata nascosta, in primis dai Tedeschi, e questo è un danno terribile: le nuove generazioni possono essere indotte a non credere che sia successo, addirittura a negare. Nessuno insegna la storia, è una mia ossessione: né a scuola, né in TV si insegna la storia in modo adeguato. La televisione potrebbe fare cose meravigliose, invece anche i programmi costruiti sulla memoria come Techetechetè sono fatti solo di canzonette e di barzellette. Posso capire che a quell’ora gli Italiani non debbano essere turbati, ma rimuovere completamente le cose serie non va bene… siamo un paese di barzellettari. Per fortuna il film, in altri paesi, ha suscitato un dibattito serio. E anche in Italia, nonostante la patente di film “erotico”, ha contribuito a risvegliare le coscienze. In parte sì, però poco tempo dopo mi chiamarono per offrirmi la regia di Salon Kitty, come se fossi diventata un’esperta di nazi-porno. Ovviamente rifiutai, e in malo modo. In Francia, sì, ci furono reazioni molto serie. Fu il produttore a voler andare a Parigi, rifiutando anche di mostrare il film a Cannes; e il primo giorno, in un cinema degli Champs-Elysées, c’era una coda interminabile. Poi andò benissimo

Nel cast, oltre Optatem. Ita voluptatem ai protagonisti re, quos Charlotte etur magnihilit Ramplingmi, e Dirk temBogarde, accatius estion di cui ilcullanis pubblicoverem italiano rehent. ha ascoltato per la prima volta nella versione restaurata le voci originali, anche Isa Miranda, Philippe Leroy, Gabriele Ferzetti e il ballerino Amedeo Amodio.

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«NESSUNO INSEGNA LA STORIA, È UNA MIA OSSESSIONE». anche a New York, in Giappone, in Inghilterra. A Parigi successe una cosa che, con il senno di poi, è buffissima. Bussarono alla mia stanza d’albergo, aprii e c’era un ragazzo con un gran mazzo di fiori. Io ero arrabbiata, non ricordo perché ma c’è sempre qualcosa che mi va di traverso, per cui ho preso il mazzo scambiandolo per un fattorino, non l’ho nemmeno ringraziato e gli ho chiuso la porta in faccia. Era

Lars von Trier! Fatti due conti, doveva avere 17-18 anni. E ovviamente non era “ancora” Lars von Trier… Me l’ha ricordato lui, tanti anni dopo.

Cosa puoi dirci dell’apporto di Piero Tosi, il grande costumista, al film? Che è stato fondamentale. Tosi è un filologo del costume, quando deve ricostruire un’epoca precisa la studia e la approfondisce in maniera incredibile. Tra l’altro, qualche anno prima aveva fatto La caduta degli dei con Visconti, quindi era preparatissimo. La scena che tutti ricordano del film, quella che poi è diventata un’icona – Charlotte Rampling che

canta fra le SS indossando solo un paio di bretelle e un berretto da militare tedesco –, l’ha ideata lui e io ero ovviamente, totalmente d’accordo. Ripensando alla battuta del censore… quanto contava, nella ricezione del film, il fatto che una simile storia fosse raccontata da una donna? Non lo so, davvero. Io non ho mai pensato a me stessa come “regista donna che racconta storie di donne”. E infatti ho girato film su Nietzsche, su San Francesco… dirò di più: non mi è mai successo che mi negassero un lavoro, un film, perché ero donna. Al massimo non si aprivano certe porte, ma me le aprivo io, da sola. Da quando il film è passato a Venezia mi chiedono continuamente del MeToo, di tutto quello che sta accadendo. Il problema non è il MeToo, che pure è una cosa seria, ma la differenza di potere fra uomini e donne. Che però va risolta alle radici, nelle possibilità che si offrono alle persone di entrambi i sessi. Decidere che metà dei film in un festival deve essere diretta da donne, o che metà dei

Vienna, 1957. Optatem. Ita voluptatem Il portiere Max, re, quos ex-ufficiale etur magnihilit nazistami, chetem ancora accatius tieneestion contatti cullanis con i compagni verem rehent. di un tempo che cercano di far sparire le tracce del loro scomodo passato, si è nascosto conducendo un'oscura esistenza in un hotel di lusso vicino al Teatro dell’Opera.

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Nell'hotel arriva per caso Lucia, ex-deportata con cui Max aveva intrecciato una relazione incentrata su paura e sadismo nel lager, e con cui si riaccende la passione.

posti in Parlamento deve andare alle donne non ha alcun senso se non si creano le condizioni perché le cineaste possano realizzare i loro progetti e perché le donne che entrano in politica non siano discriminate. Le quote rosa le trovo avvilenti. È però vero che ci sono donne di talento condannate a rimanere indietro rispetto agli uomini. Su questo bisogna lavorare, a partire dalla famiglia, dai genitori. Pensiamo all’infanzia. La bambina è un’intellettuale possibile come il bambino. E a scuola le bambine hanno le stesse opportunità dei bambini. Il portiere di notte è stato realizzato con il contributo del Centro Sperimentale, dove tu ti sei diplomata tanti anni fa. Ci regali qualche ricordo della tua esperienza in quella scuola? Il Centro Sperimentale di Cinematografia è stata una scuola utilissima della quale ho solo ricordi belli. Mi sono trovata benissimo. Ricordo che venivano gli ex studenti a far colazione con noi allievi, perché costava pochissimo e la mensa rimaneva un luogo di raduno, di ritrovo. Un giorno venne a pranzo uno che si era diplomato l’anno prima e stava andando a fare il secondo aiuto

di Luigi Comencini, per non so quale film: lo guardavamo come fosse una bestia rara, quasi volevamo toccarlo perché speravamo portasse fortuna. Non ci si filava nessuno! E pensare che una legge prevedeva che un minimo di diplomati del CSC ci fosse in ogni set. Ma non ci volevano. Allora i giovani non interessavano. Oggi sì, per fortuna. Con il corto di diploma ho vinto il Ciak d’Oro: no, non è il premio della rivista Ciak, quello di oggi… era un premio che veniva dato al miglior corto di diploma di ogni anno. Subito dopo mi è successa una cosa strana: ho partecipato senza alcuna speranza, né ambizione, a un concorso per entrare in RAI e ho vinto! C’erano 30 assunti su 11.000 partecipanti. “Assunti”, ripeto: posto sicuro, come in banca. Ho rifiutato e tutti mi dicevano che ero matta. Ma io non volevo fare il funzionario RAI, volevo fare il cinema! Insomma, vinsi questo concorso e rifiutai il posto. Però, cosa incredibile, invece di mandarmi a quel paese mi fecero subito delle proposte per fare comunque delle cose, per cui realizzai la Storia del Terzo Reich, La donna nella Resistenza, L’età di Stalin. Poi, sempre in RAI, feci

il mio primo Francesco d’Assisi e il Galileo, che non uscì mai: e cominciò il mio rapporto problematico con la censura…

Optatem. Ita Immagini dal voluptatem film Al di là re, mi, tem accatius estion cullanis verem rehent. Nietzsche, la scrittrice e psicoanalista Lou von delquos beneetur e delmagnihilit male (1977), ispirato al "triangolo amoroso" tra Friedrich Salomé e il filosofo Paul Reé. Protagonisti: Dominque Sanda, Erland Josephson, Robert Powell.

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MARIO MARTONE

Con una carriera di film dal taglio letterario ma sempre legati saldamente a temi attuali, Mario Martone ha raccontato storie di personaggi e personalità straordinari sia in teatro che al cinema. di FRANCESCO DI BRIGIDA

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opo Capri-Revolution, ambientato nella Capri del 1914 e interpretato da Marianna Fontana, siamo in attesa del nuovo lavoro su Eduardo Scarpetta. Nel frattempo, abbiamo rivisto con Mario Martone alcune tappe del suo percorso artistico e alcuni suoi ricordi personali. Come ha incontrato il cinema? Il rapporto col cinema risale ai miei primissimi incontri con il teatro. Ho iniziato a 17 anni con performance e installazioni. Ero affascinato dal teatro d’avanguardia, così nelle mie sperimentazioni era molto presente il cinema, tanto che il primo gruppo che ho fondato, nel ’79, si chiamava Falso Movimento, come il film di Wim Wenders. Impiegavo spezzoni di pellicole Super8 e citazioni cinematografiche, volevo dare un’idea di montaggio sulla scena. Insomma, una sorta di cinema selvaggio: non avendo né videocamere né telefonini, esprimevo il mio desiderio di cinema attraverso il teatro. Col tempo questi due elementi si sono diversificati, restando però sempre in comunicazione. Come spettatore ricordo quando da bambino, a giugno, dopo la fine della scuola, guardavo i film in televisione. I miei genitori erano al lavoro e le serrande abbassate filtravano i raggi del sole. Mi colpì molto un film dei Beatles… Conservo un ricordo

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intimo di quell’atmosfera di penombra nella stanza chiusa mentre guardavo la TV. Nel suo cammino ha fondato anche il gruppo Teatri Uniti con Toni Servillo e ha diretto artisticamente importanti teatri a Roma, Napoli, Torino. Come affronta la differenza dei linguaggi tra set e palcoscenico? Da decenni il mio lavoro è una sorta di laboratorio permanente. Di recente c’è stata una mia mostra al Museo Madre di Napoli [catalogo Contrasto ndr]. Quando il Museo mi ha chiesto di progettarla, io ho scelto di non usare le solite fotografie e manifesti ma, prendendo tutti i “pezzi” del mio lavoro, ho montato una sequenza di oltre nove ore. Ho messo insieme cinema, teatro e lirica a partire dai Super8 degli anni ’70 fino al digitale dei film più recenti, costruendo una sequenza non cronologica che si poteva vedere su quattro schermi. Un flusso? È la parola esatta. Proprio riguardo all’arte contemporanea, Fluxus è un riferimento per me, intendendo l’arte come processo. Non avrei mai potuto mettere in scena Le operette morali se prima non avessi portato al cinema Noi credevamo, perché è da lì che ho iniziato a


I quaranta anni di attività di Mario Martone sono stati celebrati al Museo Madre di Napoli con un film-flusso che rielabora la messa in scena di un suo famoso spettacolo, Ritorno ad Alphaville, ispirato all’omonimo film di J.L.Godard, caratterizzato da un andamento circolare e dalla visione simultanea da parte del pubblico.

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Il film è ispirato alla storia del pittore e utopista tedesco Karl Diefenbach, che stabilì sull'isola una comunità "pre-hippie", improntata a un rapporto stretto con la natura e al rifiuto della violenza.

sentire la voce di Leopardi. Dopo Le operette morali è nata anche l’idea del Giovane favoloso. Non c’è un disegno programmato, ma un flusso dove da un’opera ne scaturisce un’altra. Le suggestioni che un lavoro porta con sé contengono già il germe per un progetto successivo e tutto scorre tra cinema e teatro. Oggi nel percorso di crescita di un autore conta di più una preparazione scolastica, quindi tecnica, o la pratica e quindi la vita sul set respirando cinema? Credo di essere la persona meno indicata per rispondere perché ho fatto i miei primi lavori da giovanissimo. Un totale autodidatta. Iniziai in seconda liceo, senza aver frequentato nessuna scuola di cinema, né aver fatto l’assistente. Di una cosa sono però certo: l’importanza del confronto e della dimensione collettiva. Puoi trovare te stesso, come regista o come attore, solo attraverso il lavoro con gli altri, perciò una scuola è importante per quello che t’insegneranno i docenti, ma più di tutto saranno importanti i compagni con cui dovrai relazionarti. Ultimamente, vedendo Notti magiche di Paolo Virzì, mi è tornato alla mente l’inizio degli anni ’90, in cui eravamo in tanti a fare cinema a Roma, venendo da città diverse. Ricordo i dibattiti con Paolo. Lui era legato al cinema italiano, alla sceneggiatura e alla commedia, io invece avevo

un’idea di cinema diversa. A distanza di anni quelle idee si sono via via metabolizzate nei nostri film, ma è stato fondamentale quel confronto iniziale, anche attraverso le discussioni. Invece dalle sue esperienze di spettatore in gioventù, ci sono dei generi, dei film o delle storie che le sono rimasti dentro? Da adolescente a Napoli frequentavo la cineteca Altro. Il nuovo cinema tedesco è stato capitale per me: Fassbinder, Wenders, Herzog. Ma d’altro lato è stato fondamentale anche il cinema americano di Scorsese, Coppola e degli indipendenti come Cassavetes. Due modi diversi e innovativi di guardare alla storia del cinema e di rapportarsi al presente. In Capri-Revolution Marianna Fontana interpreta una pastorella che scopre il mondo. La sua crescita di donna passa attraverso un percorso di maturità cronologica naturale e la scoperta dell’indipendenza. Quanto è “politico” il suo cinema? Non ho niente contro il termine “politico”, che viene dal greco polis. E io sono un regista di teatro che ha portato in scena molte tragedie greche. Per me l’idea di politica è il pensiero sul vivere insieme, sulla comunità. Siamo in un tempo dove la parola politica ha assunto un’accezione sporca, bisognerebbe sapere invece che ha anche un

Optatem. Ita voluptatem Capri-Revolution è l’ultimo re,capitolo quos etur della magnihilit trilogia mi, chetem Mario accatius Martone estion ha dedicato cullanis verem ai ribelli, rehent. un film corale incentrato su Lucia, giovane allevatrice di capre interpretata da Marianna Fontana.

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«IL MIO CINEMA VIVE DI UN'INTERROGAZIONE CONTINUA TRA DUBBI E POSSIBILITÀ».

valore estremamente importante. Il teatro, ad esempio, che si tratti di tragedia greca o di Shakespeare, è politica in quanto racconta vicende di uomini in relazione alle loro comunità. È questo il valore che condivido. Il mio cinema non vuole lanciare messaggi o dare lezioni, si limita a porre delle domande. Ai miei personaggi, a me stesso e alle persone che lavorano con me sul set. Vive di un’interrogazione continua tra dubbi e possibilità e Capri-Revolution ne è una sintesi molto chiara perché mette molte idee in campo. Nessuna presentata come vincente, ma si racconta il confronto tra idee diverse. Certamente c’è l’amore per un personaggio femminile che è il perno del film, attraversando un flusso di idee anche contrastanti. Lucia è affascinata mentre impara a padroneggiare temi complessi per scoprire la sua propria identità. Penso sia questa la chiave di lettura. Soprattutto in un tempo di grande alienazione come quello che stiamo vivendo. A questo proposito, un regista, un intellettuale di oggi come può apportare un segno positivo alla cultura del proprio paese? Facendo bei film e creando processi collettivi. Quello che bisogna

cercare quando uno spettatore vede un tuo film è far scattare in lui qualcosa di vitale, una relazione. I film devono essere aperti, da un lato e dall’altro dello schermo. E gli spettatori non possono essere passivi. Dobbiamo ricreare un rapporto intimo, come quello che vivevo io da ragazzino quando mi sentivo coinvolto dalle immagini che guardavo alla televisione. Dobbiamo appassionare lo spettatore in quello stesso modo. Ricorda quando in Noi credevamo, a un certo punto, ho messo una struttura in cemento armato completamente anacronistica nell’800? Ecco, quello è un segno chiaro del voler scuotere lo spettatore. Un po’ come fece Sofia Coppola in Maria Antonietta, dove tra gli oggetti della regina di Francia inserì scarpe sneakers. Certo, anche lei cercò di dare la stessa scossa con quella trovata. Ci sono giovani registi italiani, magari all’opera prima, che segue con interesse? Potrei dire i fratelli D’Innocenzo con La terra dell’abbastanza. Ma ce ne sono molti altri, mi sembra un momento molto vivo per il cinema italiano.

Mentre l'Europa Optatem. Ita voluptatem si prepara re,alquos bagno eturdimagnihilit sangue della mi, Grande tem accatius Guerra, estion Luciacullanis si ribella verem a duerehent. ideali maschili, il maestro filosofo e il giovane medico del paese, trovando alla fine la propria strada.

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TONY PALMER

©Lorenzo Manisco

Palmer divenne famoso alla fine degli anni Sessanta con All My Loving (1968), doc progettato con John Lennon, in cui fotografò la scena rock di quegli anni, con interviste ai protagonisti dell’epoca sullo sfondo delle proteste della controcultura giovanile.

JOHN AND ME

È uno dei più grandi registi al mondo di film sulla musica. Inglese, classe 1941, ha firmato a partire dagli anni ’60 oltre cento tra film e documentari, che gli sono valsi decine di premi in tutto il mondo. di STEFANIA COVELLA

The Who, Ita Optatem. Jimi voluptatem Hendrix, John re, quos Lennon, etur magnihilit Frank Zappa, mi, Maria tem accatius Callas, estion Creamcullanis sono alcuni verem degli rehent. artisti che hanno legato il proprio nome a quello del regista inglese. Ma il sodalizio più significativo è stato forse quello, pur contrastato, con Leonard Cohen (pag. destra in alto).

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a è soprattutto con il documentario che Palmer è entrato nella storia, immortalando leggende del calibro di Frank Zappa, Beatles, Pink Floyd, The Who, Jimi Hendrix, Maria Callas. Tony Palmer è solo un giovane studente dell’Università di Cambridge quando rappresenta il giornale universitario a una conferenza stampa dei Beatles, una band allora con solo un paio di hit all’attivo. John Lennon lo convince a fargli fare, in incognito, un giro del campus «Si è presentato con un barbone finto, un enorme cappello e un impermeabile vecchio e sporco, sembrava un vagabondo, ci facemmo una bella risata». John gli lascia il suo numero, tre anni dopo Tony lavora per la BBC, ha ancora quel foglietto e i Beatles sono all’apice del successo. Lennon contatta per lui star come Hendrix, The Who, Cream, Frank Zappa. Così inizia la carriera dell’uomo diviso tra il pop e la musica classica, che ha guardato la Callas negli occhi e ha filmato un rockumentary leggendario su Leonard Cohen, dal titolo Bird on a wire, creduto perso per decenni, riscoperto nel 2010 e proiettato in anteprima mondiale al SeeYouSound nel dicembre scorso.

Qual è stato il tuo primo contatto con il cinema? Sarei voluto diventare un accademico, ma un amico, studente a Oxford, mi propose un lavoretto estivo sul set di un documentario. Il mio compito principale era spostare l’apparecchiatura cinematografica, costosa e pesantissima, nel castello di Salisbury. Entro le otto del mattino spostai tutto ma, all’improvviso, da una stanza uscì il celebre pittore Oskar Kokoschka e la donna più bella che avessi mai visto, nuda. Tanta bellezza mi persuase a lasciare Cambridge e a perseguire una nuova strada, quella del filmaker. Come hai conosciuto Leonard Cohen? Preferivi il cantante o il poeta? Incontrai Leonard Cohen nel backstage del Festival dell’Isola di Wight nel 1970, in quel periodo ero critico musicale per The Observer. Circa un anno dopo ricevetti una lettera molto carina dal suo manager, un invito a New York. Quando arrivai nel suo ufficio, Leonard era già lì. Il manager esordì con: «Leonard esci dalla stanza», un inizio particolare. Poi mi spiegò: a quel tempo Cohen aveva un contratto con la Columbia che non sarebbe stato rinnovato, i dischi non stavano vendendo a sufficienza. Leonard non sapeva nulla, ma era stanco di ripetere le stesse canzoni ancora e ancora. Io avevo con me due copie dei suoi libri di poesie e pensavo che, a prescindere da quello che sarebbe accaduto, gli avrei chiesto di firmarle per me. Leonard era stupito, mi ero imbattuto in lui prima come poeta e solo dopo come cantante, ma a colpirmi era stato proprio il poeta. Cosa pensava Leonard Cohen del tuo documentario girato in tour, Bird on a wire? All’inizio era dubbioso sul progetto, ma il manager lo convinse.

Successero un sacco di cose, abbiamo avuto anche molti problemi ma il tour in sé è stata un’esperienza davvero felice e io e Leonard diventammo grandi amici. Bird on a wire è accurato, nessuna parola lo definisce meglio. Leonard aveva posto due condizioni: non voleva un banale video-tour e non voleva essere mostrato in nessun caso come «un autore di canzoncine d’amore», come tutte quelle dedicate a una Marianne o una Suzanne, o qualsiasi fosse la ragazza del momento. Mi aveva spiegato: «Lo so che mi capisci, perché hai letto le mie poesie, tutte le mie canzoni hanno uno sfondo politico forte, dicono qualcosa di importante, sono sul mondo che viviamo». Il documentario è andato perduto per quasi quarant’anni, cosa è accaduto? Finito il film, come faccio sempre, lo mostrai a Leonard per primo. Usò la parola “conflittuale”, non capii subito cosa intendesse dire, ma feci una cosa magnifica e stupida allo stesso tempo: gli dissi di tenere il materiale, guardarlo e capire cosa non andasse, pensando che l’avrei rivisto in un paio di settimane, che avrebbe cambiato solo qualcosa qua e là e tutti sarebbero stati contenti. Non andò così, fu molto peggio, perché lui assemblò una seconda versione del film, che comunque odiava profondamente; non me l’avrebbe mai detto, ma io lo sapevo, perché non l’ha mai promossa o nominata. Poi ho capito due cose: per lui era stato scioccante vedersi sul grande schermo, esposto e vulnerabile, e poi temeva di aver rovinato sia il film che la nostra amicizia. Fortunatamente 38 anni dopo riuscimmo a rimettere insieme il documentario, ma questa è un’altra storia. È vero che stai lavorando a un progetto italiano legato al periodo fascista? Se, come me, sei un regista interessato al background sociale di quello che accade nella musica, classica o pop, semplicemente non puoi evitare di cercare di capire cosa è accaduto nel periodo nazista. Avevo l’idea di un’opera dal titolo Music under the Nazis sulla musica sotto i regimi nazi-fascisti. Ho fatto delle ricerche, parlato con il compositore Alfredo Casella e con il direttore d’orchestra Gianandrea Noseda, prima a Torino e poi a Milano alla Scala. Era un’idea grandiosa, tutti sembravano entusiasti. Iniziai a leggere tutto quello che riuscii a trovare su Mussolini e la musica, sapevi che suonava il violino? Comunque non se ne è fatto nulla, e mi è molto dispiaciuto. Se dovessero girare un documentario su Tony Palmer, come dovrebbe intitolarsi? Il documentario più noioso del mondo, questo dovrebbe essere il titolo! Mi hanno chiesto molte volte di farne uno, ho sempre detto di no, posso pensare a tantissimi film su persone più interessanti di me. Molto tempo fa mi fu dato un ottimo consiglio in proposito: «Dì sempre quello che pensi e pensa sempre quello che dici». Forse invece questo sarebbe il titolo giusto per il documentario su di me…

Tony Palmer Optatem. Ita voluptatem è stato celebrato re, quos durante etur magnihilit la quarta edizione mi, tem accatius del Seeyousound estion cullanis – International verem rehent. Music Film Festival di Torino con una maratona-evento che ha visto la proiezione di tre dei suoi film, Testimony, All My Loving e Bird on a wire.

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- Arts -

Giacomo Bevilacqua Da oltre dieci anni è autore delle celebri avventure di A Panda piace…, in cui condensa con grande ironia tutto il suo bagaglio di conoscenze e ABILITÀ NARRATIVE. Ma Giacomo Bevilacqua, classe 1983, è un fumettista estremamente versatile, MARCOdiPACELLA capace di cambiare registro grafico e .

IL POLLICE DEL PANDA narrativo, formato e regia delle tavole in modo da costruire le sue storie attraverso l’abito espressivo più adatto. Questa stessa agilità, mescolata alla sua grande passione per la nona arte, emerge dall’intervista “rubata” fra una pagina e l’altra dei tanti progetti a cui sta lavorando. Molti lettori ti identificano con il tuo personaggio più famoso, il panda di A Panda piace. Quanto c’è di te nel buffo protagonista? Beh, Panda è nato come parte di me e continua a essere tale. In lui cerco di rappresentare il lato più “buono” di tutti noi; parto dal presupposto che, sotto la corazza che la vita ci ha costretto a indossare, in ognuno di noi c’è una parte più pura, più ingenua. Per creare nuove vignette di Panda cerco di raggiungerla e provo a costruire partendo da là. Sono quasi undici anni che faccio questo “esercizio” con lui e più passa il tempo più si fa difficile, ma per me resta quasi indispensabile, e finché riesco a tirar fuori altre storie di Panda vuol dire che mi è rimasta ancora la possibilità di dialogare con quella mia parte nascosta.

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Nelle strisce del Panda, oltre all’ironia, si nota fin da subito una profonda conoscenza dei mezzi stessi del fumetto, un elemento questo che ti porta spesso a giocare con linguaggi e convenzioni di quest’arte. Qual è dunque la tua formazione? Sono sempre stato un grande appassionato di fumetto, sin da piccolo. Mio padre è ed è sempre stato un avido lettore e collezionista di fumetti: sono cresciuto in una casa stracolma di ogni tipo di storie e personaggi, dai supereroi Marvel a Moebius, passando per Spiegelman e Moore. Non credo ci sia mai stato un passaggio vero e proprio tra leggere un fumetto e volerne fare uno, da che ho memoria raramente facevo disegnini singoli; quando mi trovavo davanti un foglio bianco ci ho sempre disegnato una storia in sequenza, era il mio modo di esprimermi. Crescendo c’è stato di tutto: sono stato autore e attore teatrale e televisivo sotto l’“ala protettiva” di Marco Perrone (Zelig, Affari tuoi, I soliti ignoti), ho composto jingle pubblicitari per diverse aziende, lavorato come storyboarder e visualizer per pubblicità ed eventi, il tutto mentre frequentavo una scuola di fumetto a Roma,. Poi a 22 anni sono arrivate le mie prime pubblicazioni e ho abbandonato tutto il resto per dedicarmi solo ed esclusivamente al fumetto.



Il protagonista di Il suono del mondo a memoria è Sam, un fotografo che decide di mettersi in gioco in un momento difficile vivendo per due mesi a New York senza parlare e interagire con nessuno.

«NON CREDO CI SIA MAI STATO UN PASSAGGIO VERO E PROPRIO TRA LEGGERE UN FUMETTO E VOLERNE FARE UNO». Il numero zero di Attica, un albo di 24 pagine in bianco e nero in formato comic book, è stato distribuito gratuitamente durante il Free Comic Book Day del 1 dicembre scorso.

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Raccontaci invece cosa ha significato per te affrontare il lungo formato della graphic novel in Il suono del mondo a memoria. In realtà io ho sempre considerato “lungo formato” ogni fumetto che ho fatto. Anche se uscite prima come miniserie da edicola, sia Metamorphosis che A Panda piace l’avventura (poi titolato Ansia la mia migliore amica), non erano altro che due tomi di più di 300 pagine suddivisi in capitoli di più facile pubblicazione in edicola. La differenza è che Il suono del mondo a memoria è stato concepito in quel modo da principio, dall’esigenza di staccarmi completamente da quello che avevo fatto fino a quel momento, liberarmi di una fase ed entrare prepotentemente in un’altra, cambiando stile, formato, approccio, metodo di lavoro e risultato. Ho sempre pensato che in un qualsiasi lavoro creativo, dal fumettista al regista, dal fotografo al musicista, se hai voglia e possibilità di reinventarti, di sperimentare, di stravolgere totalmente ciò che hai fatto fino a quel momento, e non lo fai, ti diverti solo a metà. Sia ne Il suono… che nel più recente Lavennder hai dimostrato un’attenzione sempre maggiore al colore. Da dove viene questo interesse? Tutto è nato dopo i due anni in cui ho vissuto a New York. Vivere a Manhattan vuol dire vivere in una città che ti ingozza costantemente e forzatamente di informazioni, di input e di stimoli, 24 ore su 24. Per una persona come me che di lavoro immagazzina informazioni, le elabora e poi cerca di crearci qualcosa, è stato un sovraccarico senza eguali. Tornato a Roma mi sono reso conto, analizzando a mente fredda ciò che avevo vissuto, che non mi era possibile, con i mezzi che avevo a disposizione, riuscire a rendere omaggio a tutta la roba che quella città mi aveva vomitato addosso. Così mi sono dovuto rimettere a studiare partendo dalle basi, ho rispolverato nozioni di prospettiva, di figura, di architettura, ma soprattutto di colore e, unendo queste cose alla mia esperienza newyorkese, è uscito Il suono…, che essendo un libro che mischia una storia fatta di flussi di coscienza, appunti presi mentre vivevo lì e immagini da cartolina, è stato un po’ il mio “liberarmi” di tutto ciò che New York mi aveva trasmesso. Su Lavennder, nonostante sia un libro completamente diverso, ho applicato la stessa tecnica

di colorazione de Il suono, anzi, avendoli realizzati entrambi in contemporanea, mi sono divertito a lavorarci a fasi alterne. Nell’ultima edizione del Festival Arf! con Zerocalcare hai presentato Caldaje, il progetto che vi vede impegnati in un fumetto a puntate realizzato a quattro mani. Com’è nata l’idea di lavorare insieme? In realtà è stata un’iniziativa sua. Venne a casa mia un giorno con l’idea di fare un fumetto a episodi “alternati”, a me piacque e dissi di sì, col pronostico che tanto si sarebbe fermato al terzoquarto capitolo, perché siamo entrambi impegnati su altri mille progetti. Attualmente è online il terzo capitolo e ci siamo arenati perché, appunto, siamo entrambi impegnati su altri mille progetti… Però magari ora ci sblocchiamo, eh. Se Caldaje procede con calma, quali sono i progetti su cui stai lavorando al momento? Attualmente sono al lavoro su un’altra di quelle mie macrostorie in stile Metamorphosis o Ansia la mia migliore amica, una roba molto ambiziosa che mi fa svegliare tutte le mattine urlando e chiedendomi perché mi sono infilato in una roba simile. Il titolo è Attica ed è una saga in 12 volumi interamente scritta e disegnata da me. Mi ha dato una mano con lo story editing Giovanni Masi (già story editor per Metamorphosis), Emilio Lecce e Davide Caporali con qualche sfondo e qualche grigio. Uscirà per la Sergio Bonelli Editore nel corso del 2019 nel circuito delle edicole e delle fumetterie e parlerà di un presidente/dittatore che detiene il controllo di internet e dei media, che ha chiuso un’intera città all’interno di mura impenetrabili, dalle quali ha cacciato tutti gli ultimi e i poveracci, e di “cinque giovani teste di cazzo” che cercheranno, assieme a una specie di “resistenza”, di mettere a ferro e fuoco questa città-stato e abbattere le sue mura. Oltre a questo, sono a lavoro su una nuova graphic novel per Bao (che invece mi riporterà sul tracciato de il Suono e di Lavennder), che però è ancora in una fase molto embrionale. Ah, intanto gli ingranaggi nel retro della mia testa stanno iniziando a pensare a un nuovo libro di A Panda piace, di cui sto pubblicando anche un po’ di cose nuove sul suo nuovo profilo instagram all’indirizzo: @apandapiace.

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di SEBASTIANO BARCAROLI

TRAMA: GO WES!

THE GRAND BUDAPEST HOTEL (2014) di WES ANDERSON con RALPH FIENNES, TONY REVOLORI, JUDE LAW, SAOIRSE RONAN

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primi passaggi di TGBH sono una dichiarazione d’intenti: l’autore non sta sempre lì a pensare le storie da raccontare, sono le Storie che vanno da lui, che a quel punto ha l’unico compito di stare attento e ascoltarle bene quando gli si presentano. Secondo me funziona così anche per Wes. TGBH è una folle scatola cinese (anzi bulgara) di storie concatenate in un racconto che sta dentro un ricordo che viene da un libro (quelli di Stefan Zweig), e tutto questo lui lo chiude in una scatoletta rosa col nastro blu. Attori in carne e ossa si muovono con assurdi movimenti slapstick ‒ che sono stati sempre firma del suo cinema: gente che corre da una parte all’altra dell’inquadratura, gente appesa a strapiombi e cornicioni, gente che è, a tutti gli effetti, un “fumetto” ‒ in veri e propri diorami in movimento, scenografie di cartapesta, inserti ai limiti dell’animazione. E gli occhi gioiscono, come fosse un vecchio modo di fare cinema, artigianale e romantico, portato a una nuova contemporaneità. Per non parlare del fatto che TGBH è tutto in 4:3. Nostalgia portami Wes. C’è di più oltre al megacast (Fiennes, Goldblum, Wilkinson, Norton, Keitel), come già era successo per uno sbarbatello Jason Schwartzman in Rushmore e per il ragazzino di Moonrise Kingdom, il vero protagonista è il totale esordiente Zero (“zero” di nome e di fatto). Un garzoncello tenero e virgulto, timido e coraggioso, silenzioso e rispettoso, innamorato e romantico. Oltre la bellezza di Jude Law e di Léa Seydoux, sono le facce

www.behance.net/MatteoAlagna

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storte di un ferino Willem Dafoe (l’unico che riesce a essere attore feticcio di Wes Anderson, di Lars Von Trier e di Abel Ferrara e contemporaneamente regalare la sua faccia assurda a blockbusteroni tipo Aquaman) e Adrien Brody, che solo quando è diretto da Wes è bello, che restano impresse, sono perfette. E spietate: per la prima volta Anderson fa i cattivi, davvero. I personaggi di Wes ci piacciono per questo: sono tante cose, spesso opposte, in uno. Ecco perché li amiamo tanto, ecco perché tutti (Niccolò Contessa compreso) vorremmo che la nostra vita fosse sceneggiata e girata da Wes Anderson. Mi sono GRANDemente goduto GBH, perché è un mix perfetto di tutto quello che amiamo di Anderson, con i suoi tipici personaggi tagliati con il coltello da dolce; proverete anche voi adorazione totale per il protagonista e la sua arrogante tracotanza e vanitosa vanagloria, un vero personaggio alla Molière e, ça va sans dire, per i colori pastello. Me lo immagino, il caro Wes, che “filtra” le cose che gli succedono con i colori dei suoi film. Sai, come i cani che vedono in bianco e nero, ecco, io me lo immagino affetto da una strana malattia ottica che gli fa vedere la vita tutta a colori pastello: la PANTONITE®. E quindi è normale che poi i suoi film siano così dannatamente belli, colorati, PANTONE®. Questa volta la gamma è: PANTONE® 688U PANTONE® 709U - PANTONE® 7600U. Anche se, incredibilmente, c’è anche tempo per una scena in bianco e nero… possibile sia pastello anche questa bicromia binaria? Lo è.


MATTEO MALA ALAGNA Ecco cosa ci racconta Matteo della favolosa serie Cultraits, poster cinematografici fatti di carta e passione: «Amo i film di genere, quelli che hanno carattere. Così ho scelto 8 film, 4 di Wes Anderson e 4 di John Carpenter e ho materializzato, carta e forbici alla mano, le mie interpretazioni in formato locandina. I ritratti, ognuno con una palette colori personalizzata, sono dei collage costituiti da cartoncini colorati, montati su 4 livelli di profondità. Si parte dalla ricerca degli spunti più interessanti per passare allo sketch a matita, utile per delineare la composizione degli elementi. Chiusa questa fase, traccio su Illustrator. Il visual ottenuto servirà per ritagliare la miriade di carte e cartoncini colorati che, incollati, daranno vita alla locandine».

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- Zona Doc/1 -

LIFE IS BUT A DREAM

L'AVVENTURA DELL'INCONTRO Nel suo lungometraggio d’esordio, Margherita Pescetti compone il ritratto di una famiglia di coloni israeliani in Cisgiordania: una raccolta d’appunti che si trasforma impercettibilmente in saggio politico. di SILVIO GRASSELLI

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Il documentario racconta la vita di una famiglia ebrea che ha scelto di costruire la propria casa occupando gli avamposti israeliani tra Gerico e Ramallah.

L

anciato dalla selezione nel concorso internazionale dell’ultima edizione del Festival dei Popoli dove ha guadagnato il premio del pubblico, Life is but a dream è il lungometraggio d’esordio di Margherita Pescetti, che dopo aver trovato una distribuzione (Berta Film), s’incammina in questi mesi nell’avventura dell’incontro con le platee oltreconfine. Il film è il frutto maturo di una storia produttiva autenticamente indipendente e fieramente libera iniziata nel 2013, interrotta più volte e portata a compimento con tenacia e dedizione negli ultimi mesi del 2018. Margherita Pescetti sceglie il cinema poco dopo gli studi di antropologia. Allo IED di Venezia matura la sua idea di documentario incontrando Silvio Soldini e Alessandro Rossetto, lavorando soprattutto con Alina Marazzi e Bruno Oliviero. In questi anni gira i primi esperimenti, costruendo e affinando il suo modo personale di declinare il documentario d’osservazione (L’arca di Noè, 15’, breve ritratto di una vecchia ristoratrice veneziana sui generis, e Russulella, 50’, racconto intimo del senescente ultimo femminiello napoletano, entrambi del 2009). Qualche anno più tardi, con Passo a due porta a compimento, insieme a Teresa Iaropoli, un progetto nato durante l’apprendistato veneziano: il mediometraggio ‒ che torna ancora una volta sul racconto di personaggi canuti, tema caro alla regista ‒ ritrae in meno di un’ora il lungo, tenero e profondo amore tra due donne ormai vecchie. Notato per la sua intensità, tre anni più

«MARGHERITA PESCETTI SETACCIA I SEDIMENTI DEPOSITATI NEL TEMPO LUNGO DI UN’OSSERVAZIONE PAZIENTE». Il film inizia quando Margherita registra con la videocamera per la prima volta e Ghedalia è alle prese con il vicino, un ebreo laico, che scava nel giardino accanto al suo.

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«LO SGUARDO OSSERVA E REGISTRA IL SENTIMENTO EVANESCENTE DI UN MOMENTO».

Compagni della lunga avventura del film, iniziato nel 2013, passato in finale al Solinas nel 2014 e radicalmente ripensato dalla regista tre anni dopo, sono Pietro Masturzo, operatore e direttore della fotografia e Arianna Cocchi, montatrice.

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tardi sarà poi inserito da Antonietta De Lillo nel suo film partecipato e collettivo Oggi insieme, domani anche. La prima origine del progetto di Life is but a dream risale a un momento molto precedente, a quando Margherita incontra per la prima volta la Palestina per girare un corto su commissione, e inizia poi a frequentarla assiduamente. Per anni coltiva l’idea di fare un film sui palestinesi, sulla loro condizione, sulla loro terra; fino al giorno in cui capisce che forse deve cambiare strada, spostare lo sguardo. Così inizia a lavorare su un progetto diverso: un film sui coloni israeliani, che racconti la stessa vicenda da un punto di vista totalmente differente. Iniziano i tentativi di avvicinamento,

ma per entrare in una comunità tanto chiusa e diffidente non è facile neppure capire da dove iniziare. Tanto che la regista inizia a girare in auto le strade della

Palestina, offrendo passaggi ai coloni diretti verso la Cisgiordania. Il primo ad accettare e salire sulla sua auto è Yuri, l’uomo che poco tempo dopo, nella primavera del 2013, presenterà Margherita a Ghedalia e alla sua famiglia, i futuri protagonisti del suo film. L’incontro è un inizio che per qualche tempo non sembra portare lontano: Ghedalia e sua moglie Shira ‒ ebrei statunitensi che hanno vagabondato per anni fino a stabilirsi nei territori occupati della Striscia di Gaza ‒ alternano fasi di aperta adesione al progetto della regista italiana a momenti di netto rifiuto, di scetticismo, di ritrosia, soprattutto rispetto alle implicazioni politiche del film. Dopo le prime riprese ‒ le immagini registrate dalla regista durante una contesa con il vicino del suo futuro protagonista diventano poi l’incipit del film finito, per Ghedalia la prova che i due filmmaker sono mandati dal Cielo ‒ iniziano gli incontri “disarmati”, senza camere né registratori: solo dopo aver visto alcuni dei precedenti lavori di Margherita e aver lungamente discusso i dettagli dell’interazione con lei e con il compagno ‒ Pietro Masturzo, fotografo al suo primo impegno come operatore e direttore della fotografia, secondo e ultimo membro della minuscola troupe di due persone ‒ la famiglia di coloni accetta di accogliere i due italiani. Margherita si occupa prevalentemente del suono, mentre il compagno riprende; le macchine però sono quasi sempre spente per un problema tecnico (una sola batteria a disposizione per la fotocamera Canon 5D con la quale si lavora) che spinge in direzione di un lavoro quasi asceticamente rigoroso: l’osservazione è una convivenza discreta solo raramente trascritta dall’accensione delle macchine di ripresa. Pescetti gira pochi minuti al giorno, senza poter verificare il sonoro, senza controllo diretto neppure sulle immagini. Mentre al principio c’è da parte della regista una consapevole

caccia che punta a cogliere in fallo i suoi protagonisti in una sorta di implicita tensione al teorema, in un secondo tempo ‒ anche a valle dell’ispirazione ricevuta dalla rilettura di Hannah Arendt ‒ Pescetti cambia attitudine e comincia una nuova attesa, aperta e libera. Nel 2014 il progetto del film arriva finalista al Premio Solinas: il protagonista designato è ancora il figlio maggiore di Shira e Ghedalia, un adolescente al quale la regista decide perfino di affidare, in un esperimento, una piccola videocamera perché filmi da solo le sue giornate intorno alla casa-fattoria sulle colline dove abita con la famiglia. Il tentativo non produce buoni risultati, le prime sessioni di montaggio non sono convincenti e così il film si ferma. Solo nell’inverno del 2017, Margherita Pescetti torna al lavoro con Arianna Cocchi, la nuova montatrice: in 15 settimane di montaggio e diversi mesi di scrittura e riscrittura, nell’estate successiva viene alla luce Life is but a dream. Nonostante la sua coerente fluidità, il film espone nella forma della sua struttura il tempo lungo della sua costruzione. Come raramente succede nel documentario italiano, Margherita Pescetti evita qualsiasi tentazione didascalica e informativa. Con equilibrio e freddezza, procede per accumulo e giustapposizione di segmenti apparentemente privi di legami reciproci appariscenti, per un verso tessendo una tela di notazioni e allusioni ben organizzate in un discorso logico esatto, per l’altro catturando e riproducendo la fascinazione dello sguardo che osserva e registra il sentimento evanescente di un momento; da una parte perseguendo lo scopo della sua ricerca applicata ai corpi e alla vite dei suoi protagonisti, dall’altra lasciando che alle loro meschinità appaiano intrecciati i tratti leggeri di una freschezza quasi infantile. Senza un solo secondo d’intervista ‒ anche se Ghedalia, Shira, i loro figli, sono sempre evidentemente davanti e insieme a qualcuno che li ascolta e li osserva ‒ la regista lucidamente cattura una collezione di frammenti rilevanti di tempo, di gesti, parole, occhiate palesi e impercettibili cenni; senza tendere trappole, né attendendo proclami, ma setacciando i sedimenti depositati nel tempo lungo di un’osservazione paziente, Margherita Pescetti disegna il profilo

aspro e discontinuo del suo protagonista senza lasciarlo mai diventare personaggio, né tantomeno spingendolo nella direzione attesa dallo spettatore. Al contrario, colpisce, analizzando da vicino gli elementi minuti che compongono il film, la trama fine che svela gradualmente, quasi in controtempo, i tratti più eclatanti del carattere di Ghedalia e Shira, sfruttando anche la colonna sonora come un sottofondo sensoriale ed emotivo che diventa anch’essa lucidamente politica.

«LA REGISTA EVITA QUALSIASI TENTAZIONE DIDASCALICA E INFORMATIVA».

I coloni raccontati nel documentario sono ebrei arrivati da ogni parte del mondo: australiani, yemeniti e americani, come nel caso dei due protagonisti che vivono il sogno di costruire una casa, allevare i figli e condurre una vita semplice.

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- Zona Doc/2 -

AMERICAN MIRROR

L’ARTE DELLA BELLEZZA

American Mirror ha vinto come Miglior Documentario Internazionale all’ultima edizione dei Fabrique Awards, elogia la stupefacente complessità della bellezza e vanta nel cast una Susan Sarandon carismatica come non mai. di CHIARA CARNÀ

Tigran Tsitoghdzyan realizza ritratti iperrealistici in cui le modelle coprono il viso con le mani ma lasciano trasparire il volto, creando un'atmosfera delicata e surreale attraverso la fusione tra pittura a olio, disegno e ricerca sulla fotografia.

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È

spagnolo per nascita, ma è sempre stato un giramondo. Arthur Balder è un artista al tempo stesso creativo e meticoloso. Ne sono indice il rigore stilistico e la cura estetica con cui ha diretto il docufilm American Mirror sul pittore armeno Tigran Tsitoghdzyan, vincitore del premio come Miglior Documentario Internazionale all’ultima edizione dei Fabrique Awards. Un lavoro che gli ha offerto l’occasione per affrontare temi quali il confine tra obiettività e soggettività e la complessità dei rapporti umani. Come sei venuto a conoscenza del lavoro di Tigran e cosa ti ha colpito della sua arte e della sua personalità? A dire il vero, ho incontrato prima la donna che all’epoca era sua moglie: la modella Nadia Kazakova. È stata lei a farmi conoscere il lavoro di Tigran. L’arte mi affascina perché si colloca a un livello molto intimo e personale dell’essere umano. In questo caso, l’arte iperrealistica di Tigran offriva una vasta serie di possibilità legate al linguaggio cinematografico. La prossimità tra il suo codice artistico e il mio mi ha spinto a esplorare la possibilità di fondere le due cose. Sono molto grato al produttore David Shara, che mi ha permesso di tradurre quest’idea in realtà. Il protagonista, che appare in bilico tra successo e solitudine, ritrae donne oggettivamente belle e realizza opere impeccabilmente patinate. Eppure il suo immaginario, lo vediamo nei flashback, è popolato da immagini grezze, sporche, persino deformi. È stato arduo, da regista, raccontare questo conflitto interiore? Quando si gira un documentario su un artista si possono percorrere varie strade. Se l’artista non c’è più, sappiamo tutto di lui e della sua poetica… conosciamo l’inizio e la fine della storia. Quando, invece, è in vita e ha solo 42 anni, fornire una visione esclusivamente obiettiva sarebbe limitante. Ho pensato che dando un’impronta soggettiva avrei potuto dire molto di più. Nel film si capisce che a Tigran sta succedendo qualcosa nonostante nessuno faccia cenno ai suoi drammi personali. La mia intenzione era trasmettere queste informazioni in modo non convenzionale, evitando la classica situazione in cui è proprio l’artista a spiegare se stesso. Sicuramente è stato difficile da realizzare: si va a costruire una dimensione che non è del tutto reale ma non è più solo fiction. Dirigere un’attrice Premio Oscar è un’occasione d’oro per un regista. Come hai coinvolto Susan Sarandon nel progetto e quali

indicazioni le hai dato in fase di riprese? Non volevo una top model, ma una donna con una spiccata femminilità, che incarnasse l’idea che presiede al film. Avere l’opportunità di lavorare con Susan Sarandon è stata una meravigliosa sorpresa. Ha un carisma incredibile e rappresenta alla perfezione le suggestioni che volevo trasmettere. Tigran doveva realizzare un suo ritratto, così abbiamo colto l’occasione per parlarle del progetto e lei ha accettato di farne parte. È una donna molto esigente, una vera professionista. Per quanto riguarda i loro dialoghi, ho preparato una lista di domande che ho sottoposto a Tigran. Non si può pretendere che un artista, riservato per natura, sappia come reagire in un dialogo faccia a faccia con un’attrice famosa e con due telecamere puntate addosso. Era fondamentale che fosse pronto. Entrambi non dovevano recitare, io ho solo fornito delle linee guida per la loro conversazione, in modo che prendesse la piega che desideravo. Puoi avere la luce giusta, le migliori macchine da presa, ma se la conversazione langue, è tutto fine a se stesso. La loro intesa è stata determinante per la riuscita della sequenza, che è il fulcro dello script. Tutte le risposte di Susan sono spontanee, è improvvisazione. Ma per ottenere buone risposte, bisogna fare le domande giuste. Nel film si discute molto sulle varie sfumature che la bellezza può assumere eppure, come già accennato, sullo schermo vediamo prevalentemente bellezze canoniche, luci scintillanti, auto di lusso... Quindi, mi chiedo, cosa è per te la bellezza? È immagine in movimento, ad almeno 24 fotogrammi al secondo! È questo il linguaggio attraverso cui mi esprimo, quello dei film. Prendi un’attrice e una fotomodella. La seconda è perfetta esteticamente ma per me è un tipo di bellezza vuota. Un’attrice può anche non essere stupenda, ma quando recita e io la filmo è il massimo. C’è bellezza quando dalle immagini traspare personalità, e questo non può accadere con un’immagine statica. A cosa ti stai dedicando adesso? Sto girando un film sulla propaganda antisemita in Europa all’inizio degli anni Venti. A quel tempo, artisti di talento hanno realizzato cartoline e manifesti il cui obiettivo era instillare l’antisemitismo nella società. Le sezioni dedicate al materiale grafico saranno animate ed è un’idea di cui sono entusiasta. Voglio mostrare che esiste una relazione tra quello che è successo un paio di decenni prima della Shoah e quello che accade oggi con i social media. In che modo questo fenomeno è cambiato e si è evoluto, pur essendo animato dal medesimo proposito, cioè diffondere odio?

«C’È BELLEZZA QUANDO DALLE IMMAGINI TRASPARE PERSONALITÀ».

Nella pellicola Susan Sarandon e Tigran Tsitoghdzyan discutono di tempo, identità e di come i concetti apparentemente conflittuali di bellezza e invecchiamento siano percepiti nella realtà dominata dai social media.

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- Teatro -

LINO MUSELLA E PAOLO MAZZARELLI

LUNGA VITA AL RE

WHO IS THE KING? CON

METTONO IN FILA ALCUNI DRAMMI STORICI DI WILLIAM SHAKESPEARE E LI TRATTANO AL PARI DI SERIE TV, COME FOSSERO PUNTATE DI UN HOUSE OF CARDS ANTE LITTERAM.

©Tommaso Le Pera

di ANDREA PORCHEDDU

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«SIAMO ATTORI, E SAPPIAMO DI QUALI PAROLE UN ATTORE HA BISOGNO QUANDO È SUL PALCO».

Chi sono i vostri maestri? I vostri punti di riferimento? PM Ho incontrato persone che mi hanno sconvolto con la loro sapienza, il loro immaginario o la profondità d’animo. Quello con il regista Eimuntas Nekrosius è stato un incontro impattante, e posso dire che mi è stato maestro. Ma i miei maestri sono quelli con cui ho condiviso scelte, rischi, percorsi, anche errori, e quindi mi tocca dire che il mio maestro principale è stato proprio Lino. E Marco Foschi, se parliamo di recitazione, è un maestro. Poi cerco di leggere, viaggiare, vedere film o serie TV. Mi capita, ad esempio, di sentire che il mio cervello funziona meglio se leggo David Foster Wallace, o quando studio il cinema di Kubrick, o le opere di Francis Bacon, o con un romanzo di Dostoevskij, uno scritto di di Simone Weil, o se ascolto cantare Leonard Cohen o parlare Louis C.K.

©Salvatore Pastore

Quando è nato il vostro sodalizio artistico? Paolo Mazzarelli Non appena ci siamo conosciuti, nel 1999-2000. Nel tempo – decenni, ormai – ha assunto varie forme, è cresciuto in mezzo a mille difficoltà, e alla fine ha trovato una sua sempre mutevole dimensione. Mi auguro possa evolversi: solo la metamorfosi e l’ascolto possono tener vivo un rapporto umano e professionale così a lungo. Se però per sodalizio si intende l’inizio dell’esperienza di compagnia vera e propria, abbiamo deciso di creare spettacoli insieme nel 2009, quasi per caso, dopo aver condiviso il palco in vari modi.

Lino Musella Siamo passati dal condividere una stanza piuttosto piccola a uno spazio creativo e lavorativo grande. Il nostro rapporto si consolida nella ripetizione, nel continuare a sceglierci, nel tenerci stretti in imprese più grandi di noi. Questa tensione verso l’alto è tutto: dalla costruzione dello spettacolo, alla scrittura, alla recitazione. Se proprio la devi fare, falla grossa! E allora è bene avere un buon complice. Io e Paolo siamo diversi, ma ugualmente testardi e sognatori.

©Salvatore Pastore

A

ttori di straordinaria presenza e qualità, Lino Musella e Paolo Mazzarelli sono anche una anomala compagnia molto attiva nel teatro italiano. I due, infatti, si sono inventati autori, drammaturghi, registi, produttori di spettacoli di grande impatto e profondità. Ora sono in tournée con il progetto enorme di Who is the king? che nel corso di più anni intende portare in scena, proprio come gli episodi o le stagioni di una serie, alcuni drammi storici di Shakespeare. Riccardo II, Enrico IV, Enrico V, Enrico VI, Riccardo III – questi i titoli in programma – attraversano un secolo cruento di storia inglese, si sviluppano e si intrecciano con ritmi da cui anche gli sceneggiatori hollywoodiani hanno tutto da imparare.

Il cast di Who is the king? Massimo Foschi, Marco Foschi, Paolo Mazzarelli, Lino Musella, Annibale Pavone, Valerio Santoro, Gennaro Di Biase, Alberto Paradossi, Laura Graziosi, Giulia Salvarani.

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©Marco Parollo

Strategie fatali porta in scena un intreccio di tre storie parallele in cui sette attori danno vita a sedici personaggi in omaggio a Shakespeare e a Jean Baudrillard, da un cui lo spettacolo trae il titolo.

In Strategie fatali si parte dalle prove di una compagnia che vuole mettere in scena l’Otello per arrivare a parlare dei temi di attualità più scottanti, come il terrorismo, il porno, i nuovi media, la gelosia.

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©Matteo Delbò

©Marco Parollo

«CI SENTIAMO IN DOVERE DI PENSARE AL TEATRO COME A QUALCOSA DI GRANDE».


LM Non ho avuto maestri famosi. Ho sempre cercato di assorbire tutto il possibile quando ho riconosciuto in chi avevo di fronte un sapere, un talento. Posso dire che, sia in teatro che nella vita, sono stato fortunato e mi sono fatto spugna. Come bilanciare il lavoro di autori, registi, attori? Quale metodo di lavoro? PM Non penso esista un metodo. Semplicemente si prova e si riprova finché non ci si avvicina in qualche modo a un risultato accettabile. Ogni volta è successo in un modo diverso. Come dice quel film di Woody Allen: “basta che funzioni”… LM L’unico aspetto rimasto invariato negli anni, se si può chiamare metodo, è la formazione di un’idea, di un nucleo tematico, di un embrione che porti allo spettacolo. Nei nostri lavori il tempo trascorso dal pensiero all’azione è importante. Siamo molto severi con le nostre idee e le abbiamo portate in scena solo se sono sopravvissute a questo tempo. Quando scegliamo le più difficili e folli, sappiamo bene cosa hanno passato e quanto siano maturate dentro di noi. Quel tempo è prezioso e creativo, bisogna esserne gelosi. Ora state affrontando un “serial” teatrale di opere shakespeariane. Perché? PM Dopo Strategie fatali eravamo davanti a un bivio. Avevamo inventato uno spettacolo di quasi tre ore, con venti personaggi interpretati da sette attori, tre storie intrecciate, piani paralleli… E la cosa ci era piaciuta! Che potevamo fare di più? Poi Lino se ne è uscito con la proposta di riscrivere tutta la serie dei drammi storici di Shakespeare. A me pareva una follia, gli ho detto di no. Durante una tournée in Messico mi ha convinto. Deve essere stata la tequila, immagino. LM Dopo aver scritto tre testi a due, un testo per quattro attori come La società, un altro per sette interpreti, ossia Strategie fatali, e dopo dieci anni di percorso, era arrivato il momento di affrontare un classico, di osare questo affronto! Abbiamo letto opere di Shakespeare che non conoscevamo e abbiamo fatto la scoperta dell’acqua calda o dell’America: otto drammi in sequenza, divisi in due perfette “stagioni”, che tracciano l’ascesa del più glorioso re, fino alle bassezze del più tremendo. Una sequenza narrativa contemporanea per statuto e un disegno drammaturgico perfetto. Come resistere?

Che risposta state avendo per Who is the king? PM Una risposta adeguata alla difficoltà dell’operazione. Ma quella più folgorante è venuta dal pubblico giovane. Ci siamo trovati con adolescenti in lacrime, realmente colpiti, sconquassati dalla visione dello spettacolo. E – non è retorica – non c’è soddisfazione più grande. Poi, ovviamente, c’è anche chi non ama, chi deve sempre e comunque fare la lezioncina del tipo “bello, ma io lo avrei fatto meglio”. Va bene anche così… LM Chi ha assistito al lavoro può dire che non bluffiamo: abbiamo fatto quel che volevamo fare, senza furberie, senza scappatoie. Cercando anche leggerezza ma affondando le mani nel sangue di queste opere. Sono felice della risposta del pubblico e lo sono tutti gli interpreti. È un lavoro che abbiamo conquistato passo dopo passo, perché al di là di ogni drammaturgia o costruzione registica, ogni attore è tenuto a restituire senso e vita in scena. A quando la scrittura di un film? PM Ci stiamo ragionando da anni, e forse è davvero venuto il momento di fare un primo passo. Credo e spero che stia per accadere. LM Il cinema e la TV ci capita di frequentarli “in differita”: non ci è mai successo di condividere un set. Ci siamo entrambi cimentati nella scrittura cinematografica, ma anche in questo caso da soli. Ci interessa molto quel mezzo e ne parliamo spesso: chissà forse un giorno cercheremo di scrivere, interpretare e girare un film contemporaneamente. Ma impazziremo senz’altro!

©Tommaso Le Pera

Come adattare Shakespeare al presente? Con quali parole? PM Siamo attori, e sappiamo di quali parole un attore ha bisogno quando è sul palco. Le parole devono suonare, avere ritmo e devono saper toccare. Per le storie originali, partiamo dal plot, dall’azione,

più che dal linguaggio. Poi cerchiamo di dare una forma gradevole, coerente ed efficace – ossia un linguaggio – al plot stesso. Riguardo a Shakespeare: prendiamo i due testi che rappresentano l’inizio della sfida di riscrittura in Who is the king? ovvero Riccardo II e Enrico IV parte prima. Sono completamente diversi fra loro! Allora si tratta di saper leggere, prima che saper scrivere. Abbiamo dedicato mesi della nostra vita a leggere quei testi, prima di metterci le mani. LM Ci sentiamo in dovere, perché ancora in forza e ormai maturi, di tentare imprese ardue, di non farci spaventare, di coinvolgere più compagni nel viaggio, di alimentare confronti tostissimi e, nonostante indicibili difficoltà, di continuare a pensare al teatro come a qualcosa di grande. Credo che i capolavori di Shakespeare si proiettino nel futuro, altrimenti non sarebbero tali: non siamo noi che li attualizziamo. Si tratta semmai di costruire dighe, canali, ponti che permettano il naturale fluire dell’opera. È un autore che va evocato, come lui stesso ci insegna nel prologo dell’Enrico V. Puoi fare stravolgimenti enormi, ma in molti casi è tutto già scritto, alquanto bene e in modo decisamente attuale.

Sopra: Lino Musella e Marco Foschi. Accanto: la Compagnia MusellaMazzarelli ha vinto il Premio Hystrio alla Drammaturgia 2016 grazie alla pluralità di registri espressi in spettacoli come Due cani, Crack machine, La società e Strategie fatali.

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- Attori -

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Fra morbide ombre e calde luci si dipana il racconto di una serata elegante e insieme casual, all’insegna della combinazione di codici e stili.

NIGHTLIFE

creative producer TOMMASO AGNESE fotografo RICCARDO RIANDE testi raccolti da MONICA VAGNUCCI stylist ALLEGRA PALLONI assistente stylist ALICE DE STEFANO hair ADRIANO COCCIARELLI @HARUMI makeup ELEONORA DE FELICIS @HARUMI total look donne ERICA IODICE MILANO gioielli ALICE SAMBENATI thanks to SHEKET per la location

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LUDOVICA MARTINO Studi Ho frequentato il liceo classico e iniziato a studiare recitazione in una scuola di cinema a Roma all’età di 15 anni, all’inizio un po’ per gioco, perché recitare mi divertiva molto. Scoccata la maggiore età, ho iniziato a trasformare il mio sogno in un lavoro. Adesso mi tengo in allenamento studiando dizione, recitazione e partecipando, quando posso, a masterclass, anche se la mia vera scuola è stata il set. Mi sono laureata da pochissimo in Interpretariato e Traduzione e ora mi sono iscritta al corso magistrale.

21 anni

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Mi avete visto nella serie Skam Italia, remake italiano dell’originale norvegese, dove vesto i panni di Eva,

un’adolescente, e nella fiction di RAI 1 Tutto può succedere, nel ruolo di Emilia. Mi vedrete nel film per il cinema Il campione, di Leonardo d’Agostini con Stefano Accorsi e Andrea Carpenzano, che sarà presto nelle sale, e in una nuova serie TV di Riccardo Grandi. Racconta la scena del film che avresti voluto interpretare La scena di un film o una serie in costume, perché adoro gli abiti d’epoca, oppure di un horror o ancora quella di un cartone animato (come doppiatrice, si intende…).


LUIGI FEDELE Studi Ho cominciato a recitare all’età di sei anni in un piccolo teatro costruito in un seminterrato. A 9 anni ho messo piede per la prima volta su un set cinematografico, dove ho incontrato le persone che hanno segnato profondamente il mio percorso artistico e umano. Tra tutte, vorrei ricordare una cara amica, Barbara Valmorin, con cui ho continuato a studiare per anni. Tra un set e un palcoscenico mi sono diplomato al liceo classico Pilo Albertelli di Roma. Attualmente frequento l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio d’Amico.

21 anni

Mi avete visto nel 2010 nel mio primo film, La pecora nera di di Ascanio Celestini, dove ho interpretato la parte di Nicola, un bambino dimenticato e rinchiuso all’interno di un ospedale psichiatrico. Poi, in Cavalli di Michele Rho, Banana di Andrea Jublin e A fari spenti nella notte di Anna Negri; nel 2016 mi sono trasformato in Ferro, un ragazzo padre alle prese con una gravidanza inaspettata, protagonista di Piuma di Roan Johnson. Nel

2018 ho avuto la fortuna di incontrare il personaggio di Guido, ragazzo affetto da sindrome di Asperger, protagonista del film Quanto basta di Francesco Falaschi. Mi vedrete in due spettacoli teatrali che saranno presentati al Festival dei Due Mondi di Spoleto. Al momento ho anche qualche sogno nel cassetto di cui sono un po’ geloso. Racconta la scena del film che avresti voluto interpretare La scena in cui Daniel Blake, nell’omonimo film di Ken Loach, dopo aver ricevuto l’ennesima respinta alla sua richiesta del sussidio di disoccupazione, scrive con una bomboletta spray nera sulla facciata esterna dell’edificio in segno di protesta. L’atto di rivolta di un personaggio dimenticato che, nonostante tutto, non ha mai perso il rispetto per se stesso. Purtroppo non ho l’età giusta per vestire il ruolo di un sessantenne, ma è un sogno e spesso quando sogno non sono coerente.

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GIANLUCA DI GENNARO Studi Diplomato al liceo artistico Suor Orsola Benincasa. Mi avete visto nei film Certi bambini, Miele, La Santa, Lo chiamavano Jeeg Robot, Zeta, Capri Revolution. Nelle serie e mini serie: Provaci ancora prof, Don Matteo 7, Ho sposato uno sbirro 2, Come un delfino, Il clan dei camorristi, Per amore del mio popolo, L’oro di Scampia, Gomorra 2, The restaurant.

28 anni

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Mi vedrete a breve su Canale 5 nella seconda serie di Rosy Abate. Al cinema sarò il protagonista di Cobra, opera prima di Mauro Russo. Racconta la scena del film che avresti voluto interpretare Avrei voluto recitare qualsiasi scena in Braveheart di e con Mel Gibson: è stato il primo film che ho visto al cinema, avevo 5 o 6 anni, e da allora è rimasto tra i miei film preferiti.


ALMA NOCE 19 anni

Studi Sto finendo l’ultimo anno di liceo classico, con un po’ in ritardo perché mi sono fermata per un anno in un periodo insieme di perdita e di ritrovamento di me stessa. Non ho mai studiato recitazione, un po’ perché la mia situazione economica non me l’ha permesso, un po’ perche tanta gente mi ha detto di imparare sui set. Ma anche questa è una cosa che vorrei fare... magari all’estero. Sono dell’idea che studiare non possa farmi che bene.

due anni che lavoro in una serie, L’isola di Pietro, che mi ha offerto la possibilità di interpretare una ragazzina cieca e di avvicinarmi a un mondo completamente diverso dal mio.

Mi avete visto a 7 anni in un film indipendente, poi ho continuato con piccoli ruoli, tra i quali un film con Dario Argento, Dracula 3D, una piccola parte negli Avengers e una serie con Francesca Archibugi in cui interpretavo una prostituta russa. Il ruolo mi ha divertita molto e mi ha dato modo di imparare a insultare… in russo! Sono

Racconta la scena del film che avresti voluto interpretare Se dovessi scegliere una scena di un film a cui mi sarebbe piaciuto partecipare direi la scena della ragazza della fonte, il film mai scritto di Guido Anselmi, interpretato da Mastroianni in Otto 1/2... una scena mai vista e solo raccontata.

Mi vedrete nella terza stagione de L’isola di Pietro. Poi un progetto molto interessante e a cui tengo molto... ma non avendo ancora firmato il contratto, sono costretta a tenermi tutto per me ancora per un po’.

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MIRKO TROVATO Studi Mi sono diplomato all’istituto tecnico per il turismo. Mi avete visto quando avevo 13 anni nella serie TV Braccialetti rossi, di cui sono stato tra i protagonisti per tre stagioni, dal 2014 al 2016. Nel 2015 ho recitato nella webserie Lontana da me. Nel 2017 ho debuttato al cinema con il film Non c’è campo e l’anno dopo sono tornato con il film Un nemico che ti vuole bene, diretto da Denis Rabaglia. Sempre nel 2018 sono stato tra i protagonisti di Baby.

20 anni

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Mi vedrete presto di nuovo sul grande schermo con il film Restiamo amici, diretto da Antonello Grimaldi. Il mio progetto futuro certo e che posso rivelare è la seconda serie di Baby; tutto il resto per il momento è top secret. Racconta la scena del film che avresti voluto interpretare Mi sarebbe piaciuto molto vestire i panni di Jordan Belfort, interpretato da Leonardo Di Caprio, nel film The Wolf of Wall Street, ed essere diretto dal grande Martin Scorsese.


CHABELI SASTRE GONZALEZ Studi Frequento da tre anni il laboratorio permanente di Alessandro Prete e i suoi seminari estivi. Mi avete visto nella serie Netflix Baby, nel ruolo di Camilla. Negli ultimi due anni ho preso parte a diversi videoclip musicali, l’ultimo è stato quello dei Canova con Goodbye Goodbye. Mi vedrete in Baby 2, di cui a breve inizierò le riprese.

Racconta la scena del film che avresti voluto interpretare Adoro tutti i personaggi femminili di Pedro Almodovar, che ha un modo unico di farli esprimere, autentici nella loro teatralità spagnola. Come in Tacchi a spillo, quando Marisa Paredes si esibisce con una canzone di Luz Casal che dedica alla figlia in prigione, Victoria Abril. Mi colpisce il modo in cui la canta ed esprime con gli occhi e con il corpo il suo dolore: mi è di ispirazione perché vorrei recitare con la stessa eleganza e profondità.

24 anni 53


- Making of -

PUPONE

Il tema attorno al quale ruotano le vicende dei protagonisti di Pupone è l'universalità dei sentimenti che attraversano l'adolescenza e tutte le diverse fasi della vita.

C'È SOLO UN CAPITANO

Riprese in corso per Pupone, ultima produzione della MP Film di Tommaso Ranchino e Nicola Liguori, un coming of age che parla di appartenenza, di crescita, della difficoltà di lasciare il noto per l’ignoto. a cura di DAVIDE MANCA foto GIUSEPPE FOGLIA

Optatem.è Ita Pupone un progetto voluptatem chere, si quos affidaetur a unmagnihilit team di giovani mi, temtalenti accatius emergenti: estion cullanis troupe verem e cast sono, rehent. infatti, nomi nuovi nella cinematografia italiana.

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cast RICCARDO MANDOLINI, DAPHNE SCOCCIA, FEDERICO CESARI, LUCA CESA, GABRIELE FIORE, FRANCESCO MURA e con MATTEO OLIVETTI e FAUSTO SCIARAPPA sceneggiatura e regia ALESSANDRO GUIDA fotografia DAVIDE MANCA montaggio MARCO CARERI scenografia SILVIA DI FRANCESCO costumi ROBERTA BLARASIN organizzazione ENRICO DI PAOLA produzione MP FILM

T

emi cari all’adolescenza, ma che rincontriamo più volte nella vita. E proprio sull’universalità delle emozioni gioca Pupone, che racconta le vicende del diciottenne Sacha, interpretato da Riccardo Mandolini. Soggetto e regia sono di Alessandro Guida che, insieme a un cast e a una troupe di talenti emergenti, sta girando interamente in location dal vero. A dare

valore aggiunto al progetto, la possibilità di usufruire degli ambienti di una vera casa famiglia (Il Tetto Casal Fattoria Onlus) e dello Stadio Olimpico, grazie alla collaborazione con A.S. Roma.

Tecnicamente abbiamo utilizzato un’Arri Alexa Mini e una serie di ottiche Cooke S4, un equipaggiamento di grande livello per catturare tutte le gradazioni di luce che avevamo in mente. Infatti, il desiderio della regia era avere un forte rapporto di contrasto tra luce e ombra mantenendo una piena delicatezza nelle gradazioni di luce sui volti, per riprodurre la lotta emotiva interiore del protagonista:

un violento bisogno di aiuto nel suo viaggio di transizione dalla vita collettiva infantile alla vita da adulto indipendente. La grande apertura e luminosità delle ottiche ci ha permesso di girare senza l’impiego di grandi proiettori, ma sfruttando la luce del sole e riempiendo in interno le zone in ombra soprattutto con l’utilizzo di neon a luce fredda del tipo Kinoflo e con proiettori al tungsteno prevalentemente a lente Fresnel per gli sfondi per ricreare il calore delle lampade diegetiche. Per seguire i movimenti, dare fluidità e nascondere la mano dell’operatore, la maggior parte delle sequenze è stata girata in steadycam con l’operatore Emiliano Maiello, che con grande abilità è riuscito a rendere impercettibili i movimenti di macchina anche con i teleobiettivi più spinti. Abbiamo provato a limitare al massimo la profondità di campo, visto il costante utilizzo di quinte sfocate attorno al target dell’inquadratura.

Optatem. Le ambientazioni Ita voluptatem del filmre, sono quos assolutamente etur magnihilit realistiche, mi, tem accatius la sceltaestion è stata cullanis infatti verem quella rehent. di girare rigorosamente in location dal vero.

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- Videoclip -

«CON L’IRONIA SI PUÒ GIOCARE CON I PROPRI MITI E SFUGGIRE IL CONFRONTO». 56


ANTONIO DI MARTINO / GIORNI BUONI

BAROCCO POP

Canta di personaggi mai riconciliati, che cercano di tenere insieme i pezzi della propria quotidianità sullo sfondo di una Palermo da realismo magico, in cui divinità pagane e cose di tutti i giorni si incrociano senza sosta. di FRANCESCA FERRI foto MICHELA FORTE

M

adonne, orologi barocchi, carne cruda, carte esoteriche, calici di vino, synth e chitarre, corpi sanguinanti si amano, si mangiano, si riamano in questi “giorni buoni fatti di ore crudeli”. Antonio Di Martino appare come re Mida nel nuovo videoclip del brano Giorni buoni, firmato dai Ground’s Oranges, che annuncia il nuovo album Afrodite. Immagini psichedeliche ‒ in cui riemerge Lucifer Rising di Kenneth Anger e il cinema sperimentale degli anni ’70 ‒ si accompagnano a sonorità rock e new age che si muovono tra Battisti e Battiato da un lato e i Phoenix e i Tame Impala dall’altro. Prodotto da Matteo Cantaluppi, già al lavoro negli ultimi anni con Thegiornalisti ed Ex-Otago, Afrodite segna un momento di crescita nella carriera del cantautore palermitano e della sua band composta da Giusto Correnti, Angelo Trabace e Simona Norato. Come si sono formati i Famelika prima che nascessero i Dimartino? Eravamo quattro ragazzi dello stesso paese, Misilmeri, in provincia di Palermo negli anni ’90, al centro di quello che veniva chiamato il triangolo della morte. Ogni mese ammazzavano una persona… E io avevo delle canzoni e voglia di raccontare quel che accadeva intorno a noi, così con il mio attuale batterista abbiamo messo su una rock band e fino al 2009 abbiamo suonato insieme. Poi abbiamo formato i Dimartino. Dalle cover di Luigi Tenco al brano Ho sparato a Vinicio Capossela, si sente l’ispirazione dei cantautori italiani del passato e di artisti

contemporanei, ma allo stesso tempo anche il desiderio di distaccarsene. Penso che a un certo punto dobbiamo emanciparci dai grandi cantautori italiani, anche se è difficile perché Battisti o Tenco hanno tracciato una strada, che prima non c’era. Come altri in questo momento in Italia, io cerco la mia strada che parta da loro ma sia radicata nel mondo di oggi. E sperimento, come con le canzoni di Chavela Vargas che ho tradotto in italiano. Non è facile però. I cantautori negli anni ’70 avevano un ruolo sociale e il potere di influire sull’opinione pubblica, oggi invece la figura del cantautore è legata solo all’intrattenimento. A proposito di artisti contemporanei, hai collaborato con tanti ma forse quello che senti più vicino a te dal punto di vista musicale è Brunori Sas. Non solo dal punto di vista musicale ma soprattutto affettivo. Dario è stato molto importante per i miei primi anni di carriera e lo è tuttora. Per quest’ultimo disco ho fatto due giorni di seduta psicologica a casa sua. Ero in crisi, allora sono andato da lui a chiedergli consigli musicali e ne sono uscito con un’indagine psicologica su me stesso. Com’è nato l’album Afrodite? Da una storia personale legata alla nascita di mia figlia che si infrange contro i cambiamenti sociali, il senso di paura e da alcune storie che definirei cinematografiche. Per esempio il brano Daniela balla la samba è ispirato a una scena a cui ho assistito nella periferia di Palermo mentre tornavo a casa alle quattro di

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Giorni buoni è diretto dal collettivo catanese Ground’s Oranges, che ha all'attivo lavori per Colapesce, Baustelle, The Zen Circus, Gazzelle.

mattina. Ricordo di essermi fermato al distributore di benzina e nel parcheggio accanto c’era una ragazza che ballava sul tetto di una macchina circondata da motorini che la illuminavano. Lei ballava ma non c’era nessuna musica, così a un certo punto un ragazzo le dice di scendere dalla macchina, e lei risponde: “Ma perché cazzo hai spento la musica?”. Poi ho capito che lei ballava sulla musica che proveniva dalla mia macchina, stavo ascoltando un pezzo di Gilberto Gil a tutto volume. Sembrava veramente una scena di un film. Dieci anni dopo ci ho scritto una canzone. Perché questo titolo? L’ho scelto nella notte in cui è nata mia figlia a Erice. Avevo appena assistito al parto che è una cosa assurda, l’emersione di una città, subito dopo ho visto sul monte il castello di Venere illuminarsi, dove un tempo sorgeva l’antico tempio di Afrodite, un nome che poi mi ricorda qualcosa di psichedelico, ma non so dire il motivo. Qualcuno ha visto in Afrodite una tua nuova tendenza al pop… Se pop vuol dire che suona bene allora sì, è più pop degli altri. Il videoclip di Giorni buoni con gli attori Corrado Fortuna e Shary Taddei è un’esplosione di riferimenti cinematografici, a partire dalla citazione di Marcello Mastroianni de La dolce vita. È estremo, ma non è colpa mia! Lucifer Rising, il cinema sperimentale degli anni ’70 e Fritz Lang sono state le prime idee dei Ground’s Oranges per questo videoclip. Io però con i videoclip non faccio mai pace. È raro che non risultino ingombranti rispetto alla canzone, così come è difficile riuscire a mantenere l’attenzione di chi guarda per più di trenta secondi se non sono immediati e potenti fin dalle prime immagini. Nel video è evidente l’estetica barocca propria della Sicilia, una terra molto presente nei tuoi testi.

Per esempio la location è un appartamento di Airbnb che hanno trovato già così arredato. Perché la Palermo nobile è così, eccessiva. Non abbiamo creato il set: Palermo si presta, per questo attira da sempre i registi. Ricordo di aver visto una volta Wim Wenders che girava da solo per la Vucciria in cerca d’ispirazione. Però la Sicilia cerco sempre di metterla sullo sfondo e di non farla mai diventare protagonista. In Afrodite, in effetti, Palermo ha preso il sopravvento perché ci ho vissuto di più in questi tre anni. Nel brano Cercasi anima citi Pasolini e poi le mutande della tua ragazza: cerchi sempre di demitizzare tutto e tutti? Con l’ironia si può giocare con i propri miti e sfuggire il confronto. Se dovessi pensare a Leonard Cohen, il mio mito di sempre, non potrei che parlarne con ironia. Anche la ricerca dell’identità, la disillusione e un senso di sconfitta ritornano spesso nei tuoi testi. La mia è una generazione sconfitta, figlia di vincitori a loro modo sconfitti. Allo stesso tempo però perdiamo con il sorriso. Ora, invece, girando per l’Italia mi sono accorto che i nuovi giovani hanno una visione della società molto diversa da quella che era la mia, non nascono arresi, hanno voglia di combattere, hanno una nuova energia e voglia di riscatto. La malinconia nel dover abbandonare la propria terra è un altro fil rouge. È una costante per chiunque viva in un paese del sud. Io sono rimasto in Sicilia ma vivo da navigante. Domani che accadrà? Mi piacerebbe che dal tour di quest’anno uscisse un disco live, magari l’anno prossimo in occasione dei dieci anni dal mio primo disco, Cara maestra abbiamo perso.

Al centro del videoclip una storia d'amore originale con venature quasi horror, interpretata dagli attori Corrado Fortuna e Shary Taddei, coniugi anche nella vita.

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- VFX -

ECHO

DIECI SECONDI

Una ragazza si sveglia in mezzo al nulla e vede la sua immagine riflessa in uno specchio dieci secondi più avanti rispetto a lei. Si risveglia dall’incubo, ma solo per viverlo di nuovo.

www.echoshortfilm.com

di EDOARDO FERRARESE

A

volte bisogna semplicemente buttarsi anima e corpo, assorbire tutto come una spugna, sperimentare, rischiare e sì, anche divertirsi. Il cinema, nella sua accezione più ampia, offre queste possibilità, ma ci vuole un taglio particolare di sguardo per coglierle tutte. Victor Perez ci sta riuscendo alla perfezione. Fresco vincitore del Best International Short Film Director ai Fabrique Awards per il suo cortometraggio, Echo, Victor, spagnolo di nascita ma ormai adottato dal nostro paese, ci ha raccontato la sua vita tra effetti visivi, regia, scrittura e un amore per il cinema perfetto nella sua splendida follia. Cominciamo proprio da Echo, il tuo ultimo lavoro come regista. Come nasce l’idea? Risale addirittura a dodici anni fa, ma all’epoca non c’era la tecnologia per girare quello che avevo in mente. Poi mi sono trovato

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a Stoccolma per uno spot della Nike agli Stiller Studios, dove si fa motion control. Lì ho raccontato la mia idea, cioè girare con due macchine da presa simultaneamente una persona che vede un suo doppio allo specchio, ma dieci secondi più avanti. A loro è piaciuta e hanno deciso di coprodurre il corto con me, perché la storia è talmente legata alla tecnologia che sarebbe impossibile pensare le due cose separate. Hai seguito il corto in ogni suo aspetto? L’unica cosa che non ho fatto sono i panini [ride, ndr]. L’ho scritto, prodotto, diretto, ho supervisionato gli effetti con tutto il team. Certo, avevo una squadra formidabile che mi aiutava, ma in Echo ci ho messo l’anima, dall’inizio alla fine. Ho chiesto tanti piccoli favori a molte persone, e sono fiero di aver imparato facendolo, perché poi girare e sperimentare serve anche a quello.


Stiller Studios ha sviluppato una tecnologia innovativa con una rappresentazione 3D per abbinare il mondo virtuale a quello reale e viceversa, ottenendo così un feedback visivo in tempo reale.

E oltre al Fabrique Award hai ricevuto una nomination insperata. Sì, è incredibile. Echo è stato nominato ai Visual Effects Society Awards proprio per l’innovazione nel campo della cinematografia virtuale fotorealistica. Siamo infatti riusciti a sincronizzare per la prima volta nella storia due macchine da presa montate su due robot controllati al computer (motion control), una per l’immagine vera e l’altra per il riflesso nello specchio, usando un algoritmo – inventato da noi – che ci ha permesso di calcolare la posizione del riflesso in relazione alla camera principale in diversi momenti nel tempo e a diverse velocità: quello che abbiamo chiamato Time Displacement. Così abbiamo creato l’effetto di uno specchio virtuale, e lì mi sono veramente messo in gioco, riuscendo a mettere in scena lo sfalsamento temporale di una delle due camere pur mantenendo l’angolazione del riflesso in relazione alla macchina da presa principale. I Visual Effects hanno compreso l’enorme lavoro innovativo e hanno candidato Echo, per la prima volta un

cortometraggio, assieme a film con budget multimilionari come Aquaman, Jurassic World, Ready Player One e Benvenuti a Marwen. Essere nominato insieme a Spielberg e Zemeckis è già un onore. Spielberg è infatti uno dei tuoi modelli di regia. Non si può prescindere dal suo lavoro e dalla sua storia. Oltre a lui, direi David Fincher nell’uso del racconto visivo, Sergio Leone e poi, inevitabilmente, Christopher Nolan, avendo anche lavorato con lui in Il cavaliere oscuro – Il ritorno. Nolan è il perfetto esempio del regista contemporaneo: un autore con i budget dei blockbusters. Tu però nasci come attore, gli effetti visivi e la regia sono arrivati dopo. Paradossalmente sì. In Spagna già a quattordici anni ero un attore professionista. Però ho sempre adorato sperimentare con la “materia cinema”. Mio fratello, che è un fotografo ed è molto più grande di

«GLI EFFETTI VISIVI DEVONO ESSERE STRUMENTI PER RACCONTARE».

Echo è una produzione Masked Frame Pictures in associazione con Stiller Studios, prodotto da Tomas Wall e Victor Perez.

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Il film è realizzato con una tecnologia di motion control all'avanguardia, sincronizzando per la prima volta due robots: il Cyclops® massivo e preciso al pixel e il Bolt®, più veloce e versatile.

me, quando ero piccolo mi aveva insegnato a fare dei piccoli lavori in stop-motion. Mi divertivo a creare questi film usando i miei Transformers. Avevo sei anni e ricreavo le esplosioni con il cotone e la plastilina: mi sono reso conto solo da adulto che era folle lasciar giocare un bambino con tutte quelle macchine fotografiche, ma era il mio divertimento. Poi a sedici anni ho portato i miei lavori in uno studio di grafica per fare una stampa e mi hanno preso a lavorare. Da lì non ho mai smesso. L’amore per l’Italia passa per una donna, giusto? Sì, la mia vita è cambiata quando ho conosciuto quella che è oggi mia moglie. Ero a Reggio Emilia per un corso di scultura, facevamo maschere in cuoio secondo la tradizione della Commedia dell’Arte. Davvero, non apriamo questo capitolo [ride ancora di gusto, ndr]… però è lì che ho conosciuto mia moglie e ho deciso di trasferirmi stabilmente. Solo che per via dell’accento era difficile trovare lavori interessanti come attore, quindi mi sono iscritto alla scuola di cinema dove insegnava Vittorio Storaro. Avevo ventisei anni ed ero assieme a tanti giovani, ma credo che avere studiato tardi ha fatto sì che potessi affrontare tutto con più maturità e consapevolezza.

E il punto di svolta, purtroppo, te l’ha dato sempre l’Italia. Sì, io ero a L’Aquila durante il terremoto. Ho visto la mia casa crollare. Sono rimasto con solo un pigiama per due settimane, ma quando non hai più niente da perdere capisci chi sei e cosa vuoi. Sono andato a Londra e mi sono gettato nel mondo degli effetti visivi: mi divertivo, mi ci pagavo le bollette, ma il tarlo della regia era sempre lì. Per tanti anni ho aiutato gli altri a creare le loro storie, ora voglio parlare delle mie. Gli effetti visivi devono essere strumenti per raccontare, devono supportare un’idea e renderla possibile. Hai lavorato anche agli effetti visivi de Il ragazzo invisibile: seconda generazione. Esatto, e quest’anno siamo candidati ai David di Donatello. Non lo nascondo: è stato difficile lavorare qui, perché non essendoci una tradizione di film dove gli effetti visivi hanno un grande impatto nel modo di raccontare la storia, le produzioni in Italia partono con una mentalità completamente diversa rispetto al mondo anglosassone o americano a cui sono abituato. In Italia ci sono artisti di grandissimo talento, e ho dovuto lavorare a lungo per permettere a loro di dare il meglio, alla produzione di credere a degli effetti “costosi” e alla

Per creare l'effetto di uno specchio virtuale, tutte le riprese da entrambe le unità di motion control sono state girate contemporaneamente.

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«LO SPETTATORE DEVE MERAVIGLIARSI E CREDERE CHE QUELLO CHE VEDE SIA POSSIBILE». società che produce gli effetti visivi di stabilire un workflow che non ha nulla da invidiare ai più grandi studios. La fatica maggiore è stata far credere a tutti che ce la potevamo fare... e così è stato. Per fortuna Gabriele Salvatores, Nicola Giuliano, Francesca Cima, Carlotta Calori e RAI Cinema hanno creduto in me, dandomi praticamente carta bianca. Tanti ripetevano “non si può fare”, ma

posso dire che i procedimenti sono gli stessi, solo che in Italia c’è un rumore di sottofondo che ripete “eh, ma qua le cose sono diverse”. Io voglio invece dimostrare che in Italia si possono fare le cose in maniera diversa, si può creare un’industria di questo tipo, e con Il ragazzo invisibile: seconda generazione ho già messo un tassello in questa direzione. È ironico che debba essere uno spagnolo a rompere le scatole per far funzionare le cose: ma io amo questo paese, ci vivo e voglio poterlo valorizzare.

a tutto il team fin dalla prima riunione: è possibile, si può fare e lo abbiamo fatto.

E ora? Ora sto lavorando al mio primo lungo: Ensemble. Sarà una storia cyberpunk sulla musica classica. Penso sia un progetto che possa unire tutte le mie passioni, impiegando gli effetti visivi al servizio della storia. Lo spettatore deve meravigliarsi e credere che quello che vede sia possibile, perché gli effetti visivi vanno pensati durante la scrittura e inclusi nell’idea di regia. Non è necessario un budget enorme, perché nelle ristrettezze si stimola la fantasia e, paradossalmente, si lavora meglio, hai meno pressioni esterne e puoi mantenere la tua idea durante tutto il processo di realizzazione.

grazie al duro lavoro abbiamo raggiunto un risultato incredibile, questo al cinema si vede e fa la differenza. Ciò dimostra quello che ho detto

Quindi essere VFX Supervisor in Italia o in America è molto differente. È soltanto una questione di tradizione, abitudine e pratica. Questi elementi preparano un mindset alla produzione per poter considerare i VFX come un elemento narrativo importante quanto il montaggio o la fotografia. Qui abbiamo il talento ma non lo sappiamo sfruttare. Avendo lavorato a Pirati dei Caraibi e a Il ragazzo invisibile: seconda generazione

Per realizzare Time Displacement sono stati necessari mesi di ricerca e sviluppo, prove e pianificazione.

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DIARIO

GLI EVENTI DI FABRIQUE

15 DICEMBRE 2018

NUOVE STELLE NEL FIRMAMENTO DI FABRIQUE Per la presentazione del numero 23, Fabrique ha scelto uno scenario evocativo caratterizzato da spazi non convenzionali dalla forte impronta storica.

Lo spazio suggestivo e non convenzionale del Teatro India di Roma ha ospitato l’attesissimo evento dei Fabrique du Cinéma Awards, che anche quest’anno hanno raggiunto dei numeri da record con 1200 iscritti da oltre 61 paesi. La kermesse, condotta dagli attori Laura Adriani e Riccardo Festa e realizzata con il contributo del Ministero per i Beni e le Attività Culturali - Direzione Cinema, si è distinta per il respiro internazionale che ha ampliato gli orizzonti della rivista senza tradirne lo spirito: la ricerca e valorizzazione dei talenti del futuro, l’attenzione alla sperimentazione, all’innovazione e alla ricerca formale e contenutistica. Ad assegnare i dodici premi nelle varie categorie, una giuria d’eccezione composta dagli attori Giorgio Pasotti e Valentina Lodovini, dai registi Jonas Carpignano e Susanna Nicchiarelli, dal cantautore Brunori Sas e presieduta dal Premio Oscar Paul Haggis, che ha ereditato il ruolo di Presidente di Giuria dall’attore Willem Dafoe, protagonista dell’edizione precedente. L’evento ha visto anche la presentazione del nuovo numero della rivista, il 23esimo, che ha confermato l’attenzione di Fabrique per i nomi giovani e giovanissimi, a partire dalla cover interpretata da Andrea Carpenzano, dalle opere prime (ben tre: Saremo gio-

Tante le collaborazioni per gli Awards, dal Teatro di Roma ad AMREF, per proseguire con la giovane casa di produzione Maestro.

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vani e bellissimi, In viaggio con Adele e Mamma + mamma), fino ai registi del futuro (Marta Savina e Nicola Abbatangelo). Inoltre, fra tanti altri argomenti, focus sul teatro di Davide Enia, sul fumetto di Luca Russo, sugli effetti speciali di Ride, sulle sale cinematografiche indipendenti da nord a sud. Senza dimenticare i sei giovani attori proposti da Fabrique all’attenzione dei suoi lettori: Marco Todisco, Ludovica Coscione, Maria Vera Ratti, Roberto Oliveri, Valeria Bono e Jacopo Olmo Antinori. La serata ha inoltre ospitato la premiazione della seconda fase del Premio Franco Solinas 2018 dedicato alla Migliore Sceneggiatura, giunto alla 33esima edizione con 105 film realizzati. Non poteva mancare, inoltre, il tributo di Fabrique a Bernardo Bertolucci a pochi giorni dalla scomparsa attraverso il lavoro del montatore Graziano Falzone, le cui immagini sono state accompagnate dalla musica dal vivo del compositore Paolo Vivaldi. A completare la commistione delle arti, la danza di Effetto Domino, una serie di mostre evocative e, come da tradizione, la musica, che ha acceso la serata sulle note degli Zen Circus, band pisana che ha scalato i gradini dell’indie-rock italiano diventando uno dei nomi più acclamati della propria generazione, e di San Diego DJ Set.


NEWS 15 DICEMBRE 2018

I VINCITORI DEI FABRIQUE AWARDS 2018 L’evento tanto atteso dei Fabrique Awards, che ha illuminato la notte romana del 15 dicembre scorso con una straordinaria partecipazione di pubblico, ha visto l’assegnazione dei dodici ambitissimi premi in palio consegnati da una giuria prestigiosa e dal fascino internazionale. I vincitori delle categorie in gara sono:

Miglior Lungometraggio Internazionale:

The Grizzlies di Miranda De Pencier (Canada) Miglior Opera Prima Italiana:

La terra dell’abbastanza di Damiano e Fabio D’innocenzo Miglior Opera Innovativa e Sperimentale Italiana:

Troppa grazia di Gianni Zanasi Miglior Tema Musicale Italiano:

Minkyu Kim - The Forest Miglior Attore:

Guglielmo Poggi - Il tuttofare Miglior Attrice:

Sara Serraiocco - In viaggio con Adele Miglior Corto Internazionale:

Robot Will Protect You di Nicola Piovesan (Estonia) Miglior Corto Italiano:

Mani rosse di Francesco Filippi Miglior Regista di Corto Internazionale: Victor Perez per Echo (Spagna) Miglior Documentario Internazionale:

American Mirror di Arthur Balder (Armenia/America) Miglior Webserie:

Er cavaliere de Roma di Luca Arseni (Italia) ​Miglior Soggetto e Sceneggiatura:

La cortesia di Nicholas Di Valerio (Italia)

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DOVE

Come e dove Fabrique

ROMA CINEMA BARBERINI | 06.42010392 | Piazza Barberini, 24/26 CASA DEL CINEMA | 06.423601 | Largo Marcello Mastroianni, 1 EDEN FILM CENTER | 06.3612449 | Piazza Cola di Rienzo, 74 GREENWICH | 06.5745825 | Via G. Battista Bodoni, 59 INTRASTEVERE | 06.5884230 | Vicolo Moroni, 3 MADISON | 06.5417926 | Via G. Chiabrera, 121 NUOVO SACHER | 06.5818166 | Largo Ascianghi, 1 TIBUR | 06.4957762 | Via degli Etruschi, 36 TREVI | 06.6781206 | Vicolo del Puttarello, 25 SCUOLE CENTRO SPERIMENTALE DI CINEMATOGRAFIA | Via Tuscolana, 1520 CINE TV ROSSELLINI | Via della Vasca Navale, 58 GRIFFITH | Via Matera, 3 IED | Via Giovanni Branca, 122 ROMEUR ACADEMY | Via Cristoforo Colombo, 573 SCUOLA D’ARTE CINEMATOGRAFICA GIAN MARIA VOLONTÉ | Via Greve, 61

MILANO CINEMA CINEMA ANTEO | Via Milazzo, 9 SPAZIO OBERDAN | Viale Vittorio Veneto, 2

BERGAMO CINEMA LAB 80 FILM | Auditorium, Piazza Libertà

TORINO CINEMA CINEMA MASSIMO | Via Giuseppe Verdi, 18

BOLOGNA CINEMA CINEMA LUMIÈRE | Via Azzo Gardino, 65

FIRENZE CINEMA CINEMA STENSEN | Viale Don Giovanni Minzoni, 25 CINEMA ALFIERI | Via dell’Ulivo, 6

PISA CINEMA CINEMA ARSENALE | Vicolo Scaramucci, 2

FESTIVAL Cortinametraggio Festa del Cinema di Roma Ischia Film Festival Maremetraggio - International Shorts Film Festival Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia Roma Creative Contest Roma Web Fest Rome Independent Film Festival Visioni Italiane Cineteca di Bologna

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