Fabrique du Cinéma #23

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LA CARTA STAMPATA DEL NUOVO CINEMA ITALIANO INVERNO

2018

Numero

23

OPERA PRIMA

AA.VV.

In viaggio con Adele, Mamma + mamma, Saremo giovani e bellissimi

FUTURES

SAVINA E ABBATANGELO

Registi oltre i generi e i confini: da L.A. (feat. Coppola) al musical

ZONA DOC

BAIKONUR, TERRA

Un film raffinato ed evocativo ambientato in un luogo eccentrico

ANDREA CARPENZANO

[it. avanguà rdia, s. f.]: Movimento artistico che sperimenta nuove idee e modi espressivi, in contrasto con la tradizione e il gusto corrente.



S

CAMMINI COSMICI

SOLO LA NOIA PUÒ SALVARCI

MAMMA + MAMMA

SAREMO GIOVANI E BELLISSIMI

SOMMARIO

NICOLA ABBATANGELO

Pubblicazione edita dall’associazione culturale Indie per cui Via Francesco Ferraironi, 49 L7 (00177) Roma www.fabriqueducinema.it

Registrazione tribunale di Roma n. 177 del 10 luglio 2013 DIRETTORE ARTISTICO Davide Manca DIRETTORE EDITORIALE Elena Mazzocchi SUPERVISOR Luigi Pinto STRATEGIC MANAGER Tommaso Agnese DIRETTORE RESPONSABILE Ilaria Ravarino GRAFICA E IMPAGINAZIONE Giovanni Morelli REDAZIONE Monica Vagnucci DISTRIBUZIONE Simona Mariani Eleonora De Sica MARKETING Federica Remotti REDAZIONE WEB Gabriele Landrini Cristiana Raffa AMMINISTRAZIONE Katia Folco Consuelo Madrigali UFFICIO STAMPA b.studio http://bstudios.it in collaborazione con Sara Battelli PUBBLICITÀ info@fabriqueducinema.it APS Advertising srl Via Tor de Schiavi, 355, 00171 ROMA www.apsadvertising.it STAMPA CIERRE & GRAFICA Via Del Mandrione, 103 00181 Roma (RM)

LUCIANO TOVOLI

LUCIANO RICCERI

10 OPERA PRIMA IN VIAGGIO CON ADELE IL MIO FALSO ROAD MOVIE TUTTO ROSA

Numero

23

OPERA PRIMA

AA.VV.

FUTURES

SAVINA E ABBATANGELO

Registi oltre i generi e i confini: da L.A. (feat. Coppola) al musical

ZONA DOC

ANDREA CARPENZANO

[it. avanguàrdia, s. f.]: Movimento artistico che sperimenta nuove idee e modi espressivi, in contrasto con la tradizione e il gusto corrente.

IN COPERTINA Andrea Carpenzano

LUCA RUSSO

DAVIDE ENIA

FEATURING

LA SALA È MORTA, VIVA LA SALA ARGILLA

GLI ANGELI ABITANO NELLA RETE

L’ARCO DI TRASFORMAZIONE

TRA AMERICAN DREAM E #METOO

BAIKONUR, TERRA

Un film raffinato ed evocativo ambientato in un luogo eccentrico

BAIKONUR, TERRA

ABIURA

18 FUTURES MARTA SAVINA

LA CARTA STAMPATA DEL NUOVO CINEMA ITALIANO INVERNO

2018

WE CAN BE HEROES

101 FILM PER RAGAZZE E RAGAZZI ECCEZIONALI

Finito di stampare nel mese di novembre 2018

In viaggio con Adele, Mamma + mamma, Saremo giovani e bellissimi

04 COVER STORY 06 OPERA PRIMA/2 14 OPERA PRIMA/3 16 FUTURES/2 20 ICONE 22 MEMORIES 26 SPECIALE AWARDS 28 ZONA DOC 30 ARTS 34 CHICKENBROCCOLI 38 MAKING OF 40 TEATRO 44 DOSSIER ATTORI 48 GIRO D’ITALIA 56 VIDEOCLIP 58 WEBSERIE 60 SERIALITÀ 62 VFX 64 DIARIO 68 DOVE 69 EDITORIALE

RIDE

GLI EVENTI DI FABRIQUE

COME E DOVE FABRIQUE

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E EDITORIALE

foto ROBERTA KRASNIG stylist STEFANIA SCIORTINO

CAMMINI COSMICI di ILARIA RAVARINO @Ravarila_DM

Il cammino cosmico è iniziato. Lo dice un manifesto sui muri del cosmodromo di Baikonur, enclave russa in Afghanistan, la base dalla quale oggi vengono lanciati gli astronauti diretti alla stazione spaziale internazionale. Fondato a metà anni Cinquanta dai sovietici, fu il luogo in cui maturò il sogno della conquista russa dello spazio. Ce lo racconta su questo numero e in un documentario (Baikonur, Terra) il regista trentenne Andrea Sorini, creatura del Centro Sperimentale di Roma, operatore cinematografico, montatore e infine regista al primo lungometraggio. Poetico, metafisico, netto e inquietante come un sogno di De Chirico, praticamente senza dialoghi, Baikonur, Terra ha avuto un fortunato lancio internazionale, al Vancouver International Film Festival. Dal Canada comincia dunque il cammino cine-cosmico di Sorini, già concentrato verso il prossimo lungometraggio. In Giappone. Stellare anche il cammino dei nostri Futures, Nicola Abbatangelo (se amate i musical e pensate che in Italia – Manetti Bros. a parte – non ne faremo mai, non perdete il suo Beauty) e Marta Savina, trentenne anche lei, laureata in filosofia, un percorso artistico iniziato all’Università della California con Francis Ford Coppola prima e James Franco dopo. Savina ha portato al cinema in un corto la storia di Franca Viola, diciassettenne che nella Sicilia del 1965 disse no al matrimonio riparatore con il nipote di un boss locale. Ad applaudire il suo Viola,

Franca è stato il pubblico del Tribeca Film Festival. Un cammino iniziato decisamente col piede giusto. E a proposito di cammino ne hanno fatta, di strada, le registe italiane da qualche anno a questa parte: basti pensare che Luciano Tovoli, grandissimo direttore della fotografia e nostra icona di questo numero, dal 1969 a oggi ha potuto lavorare solo con due registe, Liliana Cavani e Julie Taymor. Oggi invece, pur operando ancora in una situazione di drastica disparità, i nomi delle autrici cominciano a circolare, e le loro storie incontrano finalmente il pubblico. Storie spesso dal carattere personale, legate al loro vissuto, come nel caso di Mamma + mamma di Karole di Tommaso, o storie con protagoniste irregolari, imperfette e piene di carisma come la Barbora Bobulova dell’opera prima Saremo giovani e bellissimi di Letizia Lamartire – un’altra opera rock firmata da una donna, dopo Nico di Susanna Nicchiarelli e Linfa di Carlotta Cerquetti. Autori riconosciuti all’estero. Documentaristi che esplorano il mondo. Registe, finalmente. E attori come la nostra cover Andrea Carpenzano, straordinario interprete nell’altrettanto straordinario La terra dell’abbastanza, arrivato per caso alla recitazione. Un talento naturale che il cinema ha saputo conoscere e coltivare. Il cine-cammino cosmico è iniziato: sfogliate queste pagine per scoprire, insieme a noi, i volti dei cosmonauti del nuovo cinema italiano.

«Il cine-cammino cosmico è iniziato».

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- Cover story -

ANDREA CARPENZANO

È tra i giovani attori più richiesti del momento, ma Carpa non sembra essere cambiato. Nonostante il successo, solo di una cosa non può fare a meno: la noia. di GABRIELE LANDRINI foto ROBERTA KRASNIG stylist STEFANIA SCIORTINO assistente fotografa ANITA XELLA makeup ILARIA DI LAURO@HARUMI hair ADRIANOCOCCIARELLI@HARUMI special thanks PALMERIE

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n ragazzo comune che desidera solo non smettere mai di annoiarsi: così potrebbe essere definito Andrea Carpenzano, uno degli attori più promettenti del panorama cinematografico italiano. La sua è una vita sull’onda degli eventi, che lo ha condotto a cimentarsi in lungometraggi, cortometraggi e serie televisive. Carpa – così lo chiamano i suoi amici – ha infatti esordito sul grande schermo appena ventenne, conquistando il favore della critica grazie a Tutto quello che vuoi, commedia agrodolce dove vestiva i panni di un giovane turbolento ma di buon cuore. Reduce dall’esperienza televisiva di Immaturi – La serie, la consacrazione è arrivata con La terra dell’abbastanza, un intenso dramma ambientato nella periferia romana: il suo Manolo, proprio come Alessandro nel lungometraggio precedente, ha affascinato grazie alla sensibilità che traspare anche nelle parole del suo interprete.

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Nonostante una carriera nel mondo del cinema pronta a spiccare il volo, Andrea sembra non aver perso l’umiltà, tanto che è difficile per lui definirsi un attore: «Non rifiuto questa etichetta perché la giudico negativamente, anzi, amo molto quello che faccio e sono immensamente grato a chiunque creda in me. Tuttavia non riesco ancora a giudicarmi un vero attore. Quando me lo chiedono, dico sempre di lavorare nel cinema, ma anche questo mi sembra incredibile». Davvero così poca autostima, Andrea? Forse esagero un po’, ma credo che proprio questo mi abbia permesso di essere come sono oggi. I film a cui ho preso parte sono figli del mio modo di essere: sono sicuro che, se avessi avuto troppa stima in me stesso, non sarei riuscito a interpretare Manolo e Alessandro allo stesso modo. Anche nella vita di tutti i giorni non faccio altro che affrontare una giornata alla volta: non ho mai sentito la necessità di avere successo a tutti i costi e non mi metto


«SOLO UN’INCERTEZZA CONSAPEVOLE PUÒ AIUTARE LA MIA GENERAZIONE AD AFFRONTARE LA REALTÀ DI OGGI». in competizione con chi mi circonda. Sono convinto che questa assenza di aspettative sia fondamentale al giorno d’oggi, è una realtà difficile e solo un’incertezza consapevole può aiutare la mia generazione ad affrontarla. Incertezza o meno, le tue interpretazioni in Tutto quello che vuoi e ne La terra dell’abbastanza sono state molto apprezzate da critica e pubblico. Hai qualche cosa in comune con i tuoi due personaggi? In realtà preferisco non giudicarmi, quindi trovo difficile paragonarmi ai ragazzi che interpreto. Sono persone totalmente diverse da me, ma entrambe presentano una forte sensibilità che, anche se rimane celata per gran parte del tempo, traspare dai loro comportamenti e soprattutto dalle loro scelte. Personalmente, non saprei dire se il punto di contatto sia proprio questa tenerezza nascosta ma, stando a quello che dice mia madre, sono un ragazzo sensibile, quindi fidiamoci di lei!

Continuando a parlare dei film che ti hanno visto come protagonista, come hai vissuto l’esperienza sul set? Non ho mai pensato di fare l’attore e non ero minimamente preparato a quello che stavo per affrontare. Mi sono presentato al provino di Tutto quello che vuoi praticamente per caso. Inizialmente ero in lizza per un ruolo minore ma, dopo varie prove con il regista Francesco Bruni, mi è stata affidata la parte da protagonista. Ero terrorizzato e adattarmi ai ritmi è stato difficilissimo, ma con la troupe si è creata un’ottima intesa. Lo stesso è successo per La terra dell’abbastanza e per Immaturi – La serie: anche in questi casi mi sono tranquillizzato quando mi sono reso conto dell’umanità e della pazzia di chi mi circondava. Hai detto che non pensavi di fare l’attore. Cosa ti sarebbe piaciuto fare se non avessi intrapreso questo percorso? Prima di iniziare a recitare ero comunque interessato al mondo

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«È IMPORTANTE RISCOPRIRE L’ARTE DELLA NOIA PERCHÉ CI PERMETTE DI APPREZZARE LE PICCOLE COSE». abiti GUCCI

del cinema, ma più al dietro le quinte: guardavo molti film e non mi sarebbe dispiaciuto fare il montatore. Quando uscivo con i miei amici portavo sempre con me una videocamera, con cui riprendevo e raccontavo la mia quotidianità. A ogni modo, la vita mi ha portato a intraprendere un’altra strada. E proprio questa strada ti ha condotto a essere dove sei oggi. Cosa è cambiato nella tua vita da quando sei diventato un attore o, meglio, un non-attore? In realtà, non molto. Sono stato sempre abituato ad avere pochi soldi e, nonostante adesso la situazione non sia molto diversa, tutto quello che guadagno lo investo in alcolici! Scherzi a parte, ho stretto amicizie con alcuni colleghi, ma preferisco uscire con i miei vecchi amici. Credo sia importante confrontarsi con persone che non fanno il tuo stesso lavoro, così da poter apprezzare realtà differenti. Inoltre, rispetto al passato, adesso occasionalmente qualcuno mi ferma per strada chiedendomi una fotografia…

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Cosa consiglieresti a un tuo coetaneo che vuole intraprendere la tua stessa carriera? Credo che chiunque voglia fare questo mestiere debba imparare a non prendersi troppo sul serio. Siamo costretti a dover costantemente dimostrare di essere capaci di fare cose diverse, ma in realtà è importante riscoprire anche l’arte della noia, perché ci permette di apprezzare le piccole cose e di dedicare il giusto tempo alle aspirazioni che giudichiamo realmente importanti. E il futuro? Non riesco a prevedere cosa succederà, perché tutto ciò che mi è successo finora non l’avrei mai immaginato. Sognando, mi piacerebbe recitare in un film di Harmony Korine, perché ho amato molto Gummo e anche Ken Park, di cui non è regista ma sceneggiatore. Per il momento però sto concludendo le riprese de Il campione, un film dove interpreto un personaggio molto diverso dai precedenti, e poi si vedrà.



- Opera prima/1 -

IN VIAGGIO CON ADELE LA PRIMA REGIA AL CINEMA DI ALESSANDRO CAPITANI È UNA COMMEDIA AGRODOLCE CON SARA SERRAIOCCO E ALESSANDRO HABER CHE VIAGGIA LIEVE ATTRAVERSO I PAESAGGI DEL SUD, IL DISAGIO MENTALE, LA TENEREZZA.

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Il film racconta il percorso dei protagonisti dalla Puglia verso Frosinone su una vecchia cabrio, che diventa un viaggio alla scoperta di sé.

IL MIO FALSO ROAD MOVIE TUTTO ROSA di FRANCESCO DI BRIGIDA foto LIVIO BORDONE

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el 2013 il corto La legge di Jennifer è candidato ai Nastri d’Argento e vince una borsa di studio agli Studios Universal di Hollywood. Un paio di anni dopo Bellissima si aggiudica il David di Donatello per il miglior cortometraggio. Ma la storia di Alessandro Capitani parte da Orbetello, città dalla quale proviene, passa per Bologna e poi per Roma. Nel suo lavoro s’ispira molto a Daniele Luchetti, il primo a portarlo sul set. Dal regista di Io sono Tempesta e Il portaborse ha imparato la relazione con l’attore, ma ama anche il cinema dei fratelli Coen e di Alexander Payne. Com’è iniziato il percorso che ti ha portato alla regia? Sei il primo a cui lo racconto. Non ero un grande cinefilo. Da piccolo andavo a vedere i cinepanettoni con mio padre e i film di Van Damme. Mi piaceva quell’epica dei tornei. Poi insieme ai miei amici si dovette scegliere l’università così, avendo mio fratello a

Bologna per l’Accademia di Belle Arti, decidemmo di andare lì, ma iscrivendoci al DAMS. Ci sembrava facile e divertente, invece studiando cinema fin dalle monografie su Kubrick si aprì un mondo. Però dopo due anni di studio diventai impaziente. Volevo mettermi alla prova, così iniziai con i corti. E non mi sono più fermato. Poi mi hanno preso al Centro Sperimentale di Cinematografia e si fece tutto più serio, con coscienza. Ed è arrivata anche la tivù, come regista e autore. Il mio maestro è stato Daniele Luchetti, gli feci da assistente nel film La nostra vita; in seguito accettai una proposta da MTV per la trasmissione Calciatori giovani speranze e iniziò un nuovo percorso che mi ha portato a firmare alcune regie e programmi come autore. È un lavoro che permette di guadagnare, non tantissimo, ma ti fa vivere. Per me il cinema è per ricchi. Non bisogna avere soldi per farlo, ma per mantenersi quando non lo si fa.

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Isabella Ferrari è tra i protagonisti della pellicola e veste i panni dell’antipatica manager di Aldo, attore di teatro interpretato da Alessandro Haber.

«IL COLORE ROSA FA USCIRE TUTTA LA TENEREZZA DI ADELE E L’AMPLIFICA». Nel tuo film trionfa il rosa. Dal pigiama a forma di coniglio e i postit di Adele ai titoli di coda, passando per il suo vestito fucsia. All’inizio giocavo con questo claim: Pink is the New Black. Poteva essere una frase da usare nella promozione, ma poi non l’abbiamo fatto. Per me il rosa è il simbolo della purezza, il colore della pelle di un bambino. In qualche modo il personaggio di Sara è così. Il colore rosa ne fa uscire tutta la tenerezza e l’amplifica. La malattia mentale invece viene sfiorata, mai spiegata direttamente. Come l’avete cucita sul personaggio e in relazione ad Haber? Volutamente non abbiamo specificato cosa avesse Adele nel film. Lei si definisce neurodiversa. Che vuol dire tutto ma anche niente. Il personaggio di Haber, Aldo, ha paura che sia contagiosa perché è ipocondriaco. In realtà ci siamo ispirati allo spettro autistico, tanto che nel film ci sono ragazzi con la sindrome di Asperger. Achille Missiroli interpreta il ruolo del fidanzato di Adele, e ha realmente la sindrome. Come la ragazza che canta nell’istituto. Il nostro è uno dei pochi film dove recitano ragazzi con l’Asperger. Con Sara abbiamo fatto un percorso attraverso questo mondo incontrando molti ragazzi, ma poi abbiamo deciso di sfumarlo in ripresa perché volevamo rispecchiare lo sguardo di Aldo. Quindi nessuna etichetta rassicurante né stereotipi. Sarebbe stato un errore. Lo spettatore doveva imparare ad amare Adele sul percorso di scoperta vissuto da Aldo. Così tutto è più leggero ma ti lascia immaginare. È qui che scopriamo la diversità di Adele. Hai definito il tuo film un falso road movie. Perché? Perché si chiacchiera tantissimo. Le scene in macchina sono talmente parlate che pur viaggiando con i personaggi attraverso la Puglia, ci sono pochi campi lunghissimi tipici del genere. Abbiamo anche dovuto ottimizzare il nostro tempo limitato per costruire

il film e la sua storia girando in sole quattro settimane, ma ce l’abbiamo fatta. Quanto avete provato con gli attori prima del set? Con Sara abbiamo fatto degli incontri con dei ragazzi autistici e dei viaggi in Puglia con il dialect coach per acciuffare questo dialetto veramente strambo. Il foggiano è un insolito pugliese, poco conosciuto. Al suo mix aggiunge campano e molisano, nel complesso piuttosto difficile da preparare. Ma abbiamo avuto tempo per lavorarci: con Haber potevo andare a provare a casa sua in ogni momento. E con Sara ci siamo organizzati bene tra i suoi impegni. È stato un lavoro continuo e approfondito. Haber esce con una umanità che non siamo abituati a vedere: il suo arco narrativo è più cadenzato rispetto a quello di Sara, che invece esplode subito con Adele. La provincia foggiana, così spoglia e piatta nei suoi panorami, sembra una scelta estetica funzionale a una teatralità di personaggi soli al mondo. Il film all’inizio era ambientato in Salento. Quindi trulli, alberi, sole, natura. Tutto già visto. Invece io volevo dare un’altra visione, collocando questi personaggi in lande incredibili, spoglie. Lì trovi strade con chilometri di campi a destra e a sinistra. Un paesaggio così scenografico da valorizzare le anime dei due personaggi. Dopo l’esordio al lungometraggio come prosegue il tuo cammino nel cinema? Mi piacerebbe moltissimo collaborare di nuovo con Nicola Guaglianone. C’è un progetto di cui non dico nulla, spero si possa portare a termine perché è bellissimo, ma non posso parlarne perché è suo.

Alessandro Capitani è stato uno dei primi giovani registi su cui Fabrique ha puntato, intervistandolo su uno dei numeri iniziali della rivista, il quarto, uscito nell’autunno 2013.

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- Opera prima /2 -

MAMMA + MAMMA Le protagoniste sono Linda Caridi, vista recentemente in Ricordi? di Valerio Mieli, e Maria Roveran, diretta da Samad Zarmandil in Beate.

DIARIO DELLE EMOZIONI La pellicola è una produzione Bibi Film in collaborazione con RAI Cinema, la colonna sonora originale è firmata da Giulia Ananìa e Marta Venturini.

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KAROLE E ALI SONO DUE RAGAZZE INNAMORATE CHE, TRA PRECARIETÀ E NON POCHE DIFFICOLTÀ, TENTANO CON TUTTE LE LORO FORZE DI REALIZZARE IL DESIDERIO PIÙ GRANDE: AVERE UN FIGLIO INSIEME. DIPLOMATA IN SCULTURA ALL’ACCADEMIA DI BELLE ARTI E IN REGIA AL CENTRO SPERIMENTALE, KAROLE DI TOMMASO FIRMA UN’OPERA PRIMA AUTOBIOGRAFICA CORAGGIOSA E ANTICONVENZIONALE. di LUCA OTTOCENTO


«LAVORARE A QUESTA STORIA È STATO COME FARE PACE CON LA MIA ADOLESCENZA».

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ra il 2013 quando, in uno dei primissimi numeri di Fabrique, abbiamo proposto Karole Di Tommaso tra i nuovi giovani talenti pronti a ritagliarsi un posto nel futuro panorama cinematografico italiano. Oggi, cinque anni più tardi e con alle spalle diversi corti, la trentatreenne regista molisana esordisce nel lungometraggio con Mamma + mamma, in cui racconta la sua stessa storia, il percorso che l’ha portata ad avere un figlio con la compagna Alessia. E lo fa in modo originale, attingendo al registro fiabesco, con una una delicatezza sorprendente. Abbiamo incontrato Karole all’Auditorium di Roma, dove il film è stato presentato in anteprima alla Festa del Cinema nella sezione Alice nella città – Panorama Italia. Come nasce l’idea di Mamma + mamma e qual è stato il tuo approccio a una storia così personale? In questi casi è fondamentale trovare il giusto equilibrio tra coinvolgimento e distacco. Lavorare a questa storia è stato come fare pace con la mia adolescenza, si è trattato di un percorso di analisi molto profondo. Mentre scrivevo mi ritrovavo di colpo a commuovermi per il riaffiorare di una moltitudine di ricordi personali. Avevo già alcune sceneggiature pronte, ma a un certo punto ho realizzato che per il primo film avrei dovuto smettere di cercare storie altrove e guardare dentro di me. Così ho iniziato un lavoro lungo, sono partita con una sorta di diario delle emozioni e poi, da questo grandissimo vaso di Pandora, ho cominciato a togliere ciò che non mi sembrava essenziale. Tutto questo, proprio nell’intento di cercare l’equilibrio di cui parli, non potevo farlo da sola e nemmeno affiancata da una persona che non mi conoscesse bene. Allora ho coinvolto la sceneggiatrice Chiara Atalanta Ridolfi, amica molto intima conosciuta grazie alla mia compagna.

Del film colpisce molto il tono candido, scanzonato. Gli aspetti drammatici sono quasi assenti e ci si concentra su momenti divertenti e onirico-surreali. Vista la coscienza che ho del tema affrontato, non avevo alcuna intenzione di strumentalizzarlo e volevo evitare di realizzare un film di denuncia. Karole e Ali non sono benestanti e devono fare molti sacrifici per raggiungere il loro obiettivo, ma non mi interessava

affrontare questa storia con un tradizionale approccio drammatico, né tantomeno realistico-minimalista. Non volevo che gli spettatori si focalizzassero su quanto sia dura la vita delle coppie omosessuali prive di diritti che vogliono avere un figlio. Sì, è difficile, ma in fondo non è poi così più complicata di quella di tanti altri. La domanda che mi ponevo in continuazione era: come faccio a comunicare a un bambino che il desiderio di maternità, di una nuova famiglia, è in fondo una cosa semplice e naturale? Ho scelto così di intraprendere una via più fantastica e leggera. Questo tipo di narrazione si riflette nella caratterizzazione dei personaggi e nelle interpretazioni di Linda Caridi e Maria Roveran. Che tipo di lavoro hai fatto con loro? Enorme, bello ma complesso. Insieme abbiamo lavorato molto sullo spostare i pesi del corpo, su come modificare una camminata, su come far confluire l’aria in modo diverso, sugli sguardi. Con un approccio da scultrice, ho cercato di modificarle, di plasmarle, di prendere una materia che già era molto buona, visto che sono delle bravissime attrici, per portarle in una direzione diversa rispetto a quella per loro abituale. Linda è milanese e per interpretarmi ha imparato il mio dialetto, di lei mi sono subito fidata ciecamente e tra noi si è creato un rapporto molto intimo; con Maria invece ci conoscevamo da tempo, in precedenza aveva sempre interpretato personaggi più ruvidi e qui per la prima volta ha tirato fuori la propria femminilità con leggerezza. Stai già preparando qualcosa di nuovo? Sto scrivendo molto e continuo a essere interessata a raccontare delle fiabe, delle storie moderne in una chiave altra, cercando sempre una dialettica tra approccio fantastico e vicende reali, quotidiane. Voglio mettere in scena la mia generazione cercando di denunciare con brio e serenità la condizione in cui vive, una generazione fuori luogo la cui vita è una continua corsa a ostacoli, che subisce le conseguenze di un passato catastrofico. E per provare a raccontarla, come ho già fatto in Mamma + mamma, mi sembra molto più efficace adottare un tono brillante, che possa condurre a riflettere facendo sorridere. Un po’ come avveniva nella commedia all’italiana, che amo follemente.

La regista racconta il desiderio di maternità di due donne e il viaggio in Spagna per realizzarlo, fino alla nascita del piccolo Leon.

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- Opera prima/3 -

SAREMO GIOVANI E BELLISSIMI

ECCO, LA MUSICA È FINITA ISABELLA È UNA DONNA FUORI DAGLI SCHEMI: UNA STAR DEGLI ANNI NOVANTA, CON UN UNICO SINGOLO DI SUCCESSO, CHE A QUARANT’ANNI SI RITROVA A SUONARE VECCHIE CANZONI NEI PIANOBAR CON IL FIGLIO VENTENNE. UN ESORDIO, QUELLO DI LETIZIA LAMARTIRE, IN CUI IL FILO CONDUTTORE È LA MUSICA. di STEFANIA COVELLA

Tic tac è il singolo che Isabella riprone, senza successo, insieme al figlio chitarrista Bruno al Big Star, piccolo locale di provincia.

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«HO AMATO DA SUBITO QUESTO PERSONAGGIO INTRAPPOLATO NEI SUOI DICIASSETTE ANNI».

L

etizia Lamartire, classe 1987 è una giovane regista pugliese dal talento brillante. Laureata al Conservatorio e diplomata al Centro Sperimentale, dopo l’apprezzato corto Piccole italiane ha esordito nel lungometraggio con Saremo giovani e bellissimi. Un film musicale curatissimo fin nei minimi

dettagli, con una colonna sonora tutta da ascoltare su Spotify e una bravissima Barbora Bobulova come protagonista. Scritto con Marco Borromei e Anna Zagaglia, il film è prodotto dalla CSC Production con RAI Cinema, con il supporto dell’Emilia-Romagna Film Commission.

e affidabilità. Questo è il racconto che mi interessava, quello di un personaggio che di scuse se ne è raccontate tante. Qual è la tua scena preferita del film? Le scene che più amo del film sono tre: la prima è quella con Isabella che suona il pianoforte mentre Bruno sta componendo e rimodula la composizione secondo l’armonia della madre. Sono poi molto affezionata al momento della cena a quattro. E amo l’interpretazione di Barbora nello scontro tra Isabella e sua madre, perché lì credo che abbia toccato dei livelli veramente altissimi di interpretazione.

La musica è il punto di forza del film, alla Mostra del Cinema di Venezia ha anche conquistato un premio, il Soundtrack Award. Hai lavorato con Matteo Buzzaca, Barbora Bobulova sapeva già cantare, ma hai dato lezioni di chitarra ad Alessandro Piavani. Come hai scelto i tuoi attori e come è stato lavorare con loro sul fronte musicale? Per quanto riguarda Barbora c’è un capitolo a parte, perché è lei che doveva scegliere me. Un’attrice con molti anni di esperienza alle spalle. Io volevo lei per un motivo: ritenevo che la sua eleganza, in contrasto con la passionalità di Isabella, potesse essere davvero interessante e così è stato. Mentre Alessandro aveva il physique du rôle per Bruno: è un bravissimo attore con una voce stupenda e ho ritenuto opportuno insegnargli personalmente a suonare la chitarra. Anche io avevo bisogno di studiare i brani: era necessario un lavoro sull’armonia, perché in qualche modo la musica andava inquadrata e montata, ed era quindi fondamentale per me conoscere gli arrangiamenti e gli accordi. Le lezioni di chitarra sono state anche uno studio del personaggio, quindi è stato un lavoro prezioso.

Sul set c’erano molti giovani professionisti alla prima esperienza. Hai qualche aneddoto da raccontarci? L’intera esperienza del set è stata meravigliosa. Ci siamo fatti forza l’un l’altro cercando di fare il meglio per il film. Di aneddoti ce ne sono tantissimi. Ne ricordo un paio riguardo la scenografa, la cazzutissima Laura Inglese: ad esempio, quando è arrivato il pullman e non le piaceva l’interno perché c’erano delle scritte, allora è volata a prenderne un altro lasciandoci a terra e rischiando di non trovarlo. Oppure, dato che era Natale, la vedevi togliere tutti i Babbi Natale dalle finestre, arrampicandosi sui balconi per levarli e poi rimetterli. Questo per dire quanto lavoro e amore e cura c’è dietro tutti i dettagli.

La scrittrice francese Marie de Hennezel diceva sul tempo che scorre: «Si tratta di accettare di invecchiare senza diventare vecchi». Mi ha ricordato molto Isabella. Cosa ti ha spinto a scegliere questa storia per il tuo esordio? Ho amato da subito Isabella, questo personaggio intrappolato nei suoi diciassette anni. Lo spettatore capisce prima di lei che non è per il figlio che non ha raggiunto il successo, ma perché forse non aveva le caratteristiche per affrontare la professione. Molto spesso non si tratta solo di bellezza o talento, ma anche di predisposizione

Il prossimo passo? Mi sto prendendo del tempo per assimilare i consigli che ho ricevuto, ho bisogno di far sedimentare questa mia prima esperienza di regia sulla misura lunga. Di base, io sono una

Sei di Bari, vivi a Roma ma ti sei innamorata di Ferrara, perché hai deciso di girare lì il tuo primo film? Questo era un film dove le parti più dolorose e significative si svolgono negli interni, avevo bisogno di una cornice gentile che entrasse in punta di piedi nella storia. E Ferrara mi ha dato subito quella sensazione di gentilezza ideale per la storia.

che cerca di fare le cose più diverse possibili: non credo di aver ancora una linea e non so se mai l’avrò, perché mi innamoro delle storie e su di esse cerco di accordare la mia regia. Mi innamorerò di una storia, un’altra volta, ancora più forte.

Emma Morton presta la voce ad Arianna, interpretata da Federica Sabatini, per i brani They Change Your Heart e New Lords.

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- Futures/1 -

MARTA SAVINA Sui set Marta Savina si sente a casa. A otto anni scrive una pièce teatrale e la mette in scena, a trenta ha già diretto James Franco e affiancato Francis Ford Coppola.

TRA AMERICAN DREAM di STEFANIA COVELLA

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egista fiorentina, classe 1986, girovaga tra l’Italia, Londra e Los Angeles, insegue le sue storie fatte di donne e minoranze confinate ai margini. Il suo corto, Viola, Franca, ha debuttato al Tribeca Film Festival, vinto due Emmy ai 38° College Television Awards e in Italia è stato nominato ai David di Donatello. Il mondo si accorge di lei e ricorda Franca Viola, la prima donna italiana che nel 1965 disse no, ribellandosi al matrimonio riparatore, portando il parlamento italiano a interrogarsi e a modificare la legge sullo stupro. Come sei diventata regista? Sono stata violinista per moltissimi anni, poi intorno ai ventuno

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ho capito che detestavo suonare il violino e quindi ho preso armi e bagagli e sono partita per Londra. Ho fatto varie cose, tra cui l’università, ma soprattutto mi sono confrontata con l’esigenza di raccontare storie, che per me è come respirare. Poi però ho cominciato a lavorare in pubblicità, gestivo campagne per brand come Nissan o Kellogg’s, e ho iniziato a sentire la mancanza del racconto narrativo. E sei partita di nuovo. Sì, come mio solito quando entro in crisi, ho ripreso tutto e sono scappata a Los Angeles [ride, ndr]! Mi hanno preso per un master di quattro anni in regia alla UCLA, finora gli anni più belli della mia


«RACCONTARE STORIE PER ME È COME RESPIRARE».

E #METOO vita. Amo LA, mi ha dato la possibilità di lavorare con persone che mai mi sarei sognata di affiancare a inizio carriera, come James Franco e Francis Ford Coppola. Mi raccontavi che James Franco l’hai incontrato alla UCLA, aveva i diritti su alcune storie brevi di Faulkner, ne voleva fare una sorta di antologia per la televisione e tu hai scelto Elly. Sì, Elly è una storia ambientata negli anni ’30, in Mississippi, nel sud razzista degli Stati Uniti. Con James abbiamo parlato a lungo della storia e dei personaggi. Lui ha un raffinato approccio da attore per risolvere gli snodi della trama: prende ogni personaggio, si immedesima e tira fuori una battuta di dialogo con stupefacente naturalezza. Dirigerlo poi è stato un piacere infinito: è un attore estremamente generoso, arriva con tantissime idee e quindi il tuo mestiere diventa giocarci insieme. Con Francis Ford Coppola invece hai lavorato a Distant Vision, un progetto molto innovativo. Coppola è un artista che mi è stato di grande ispirazione perché, dopo aver vinto tutti i riconoscimenti possibili e immaginabili, non si è seduto sugli allori ma continua a spingere il mezzo cinematografico oltre i confini. Ha creato un ibrido che chiama live-cinema: un mix di televisione, teatro e cinema e ha scritto una sceneggiatura che ha voluto mettere in scena in un teatro di posa con qualcosa come trenta telecamere, come in uno studio televisivo. I set erano tutti modulari, quindi c’era un grandissimo lavoro di coreografia e

movimento. Un’esperienza incredibile. Come hai incontrato la storia di Franca Viola? Ero in libreria e ho preso in mano Cattive ragazze di Assia Petricelli e Sergio Riccardi, una raccolta di fumetti su donne che hanno segnato la Storia, ma che sono ancora in gran parte sconosciute. L’ho aperto e mi sono imbattuta nella vicenda straordinaria di Franca Viola. Viola, Franca diventerà un lungometraggio. Cosa puoi dirci di questo progetto? Lo girerai in Italia? Quando ho scritto e girato il film, mi sono subito resa conto che l’intreccio poteva riempire benissimo 100 minuti, ma in quel momento io avevo la possibilità di farci un corto e non mi sentivo pronta a sostenere un lungometraggio. È una storia estremamente italiana, alcuni studios americani si sono mostrati interessati perché è un argomento molto caldo, ma per me questo è un film che va assolutamente girato qui. Sarà una co-produzione fra Italia e Francia. Quest’epoca è più attenta alle tematiche del femminismo e del consenso, grazie anche al lavoro del movimento #metoo in America e di #quellavoltache in Italia. Ti sei mai sentita discriminata sul lavoro? Mi sono sentita sempre e comunque discriminata. La vivo in modo molto polemico, ma credo che sia davvero il momento di parlarne. Prima di tutto siamo noi donne che dobbiamo sostenerci a vicenda, essere indulgenti l’una con l’altra, difenderci e capire che stiamo tutte dalla stessa parte. Mi sono sentita discriminata eccome, ad esempio, quando sono arrivata in Italia per girare e ho ricevuto una telefonata da Massimo Ferrero (“Er Viperetta”), che non conoscevo ‒ sono dieci anni che vivo fuori dall’Italia. Questa persona si presenta come il “re delle debuttanti”, mi dice di aver sentito che tutti mi stanno corteggiando per questo film ma che lui non ne ha bisogno perché, letteralmente, sa che io “sono lì tutta eccitata e che mi sto masturbando”. Questa storia la racconto sempre a tutti con nomi e cognomi perché si deve sapere, siamo state zitte a subire cose del genere per molto tempo, ma adesso basta. Non è facile parlare perché le conseguenze ci sono, ma chi se la sente deve farlo, anche dieci anni dopo.

Optatem. Nel cast, Claudia Ita voluptatem Gusmano, re, nei quos panni etur di magnihilit Franca Viola, mi, tem è affiancata accatius estion da Filippo cullanis Calderone, verem rehent. Ninni Bruschetta e Maurizio Puglisi.

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- Futures/2 -

NICOLA ABBATANGELO

MUSICAL CHE PASSIONE!

In mezzo al mondo dello spettacolo Nicola Abbatangelo un po’ ci è nato, e la regia sembra unire tutte le sue passioni: la musica, la fotografia e il raccontare storie. di STEFANIA COVELLA

F

onda nel 2015 una casa di produzione e le dà come nome una parola inventata, Moolmore Films, sperando che un giorno possa avere un’identità riconoscibile, grazie al lavoro di professionisti come l’imprenditore Marco Di Antonio e il montatore e produttore Luigi Mearelli. Beauty è stato selezionato dalla Festa del Cinema di Roma per la sezione Alice nella Città. Un piccolo live musical, una favola dickensiana caratterizzata non dal bianco e nero, ma dalla mancanza di colore. Un vero e proprio work of art, come quelle sfere di vetro che, in una Londra più grigia che mai, intrappolano i colori e i ricordi. Hai girato Beauty a Roma in un teatro di posa con un cast internazionale. Come hai messo insieme il cast e, soprattutto, come sei entrato in contatto con Sylvester McCoy (Lo Hobbit)? È stato più semplice di quello che si possa pensare, la cosa che mi

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è sempre piaciuta degli attori che ho incontrato in Inghilterra è la loro capacità di entusiasmarsi per una storia. Abbiamo iniziato attraverso canali standard, contattando le casting director del posto. Dopo di che, abbiamo fatto i primi casting e Sylvester McCoy è entrato nella sala: sono saltato dalla sedia, è molto bello che un attore come lui si sia appassionato alla storia di un giovane ai primissimi lavori. Hai dichiarato di aver scelto il genere musical perché il canto riesce a esprimere meglio di qualsiasi altra forma d’arte le emozioni, per questo la scelta del live? Esatto, l’auspicio è che il canto possa preservare con la presa diretta la sua spontaneità e che emozioni, poiché ha dentro di sé sia la parola che la musica. Allora ho pensato che cantare in playback fosse il contrario di questo e oggi, che la tecnologia lo permette,


«LA COSA CHE HO AMATO DI PIÙ È STATA L’ATMOSFERA DI ASSOLUTA FAMILIARITÀ».

Il corto racconta la storia di Henry, che vive in un mondo grigio e intrappola il colore in piccole sfere di vetro per donarle alla moglie ammalata.

abbiamo deciso di rischiare. Gli attori sul set cantavano live

e poi, dopo il montaggio, abbiamo registrato la musica con un’orchestra di quaranta elementi. Questo ha reso tutto

molto più naturale, così non è risultato un videoclip in mezzo a un film.

Ho visto il backstage, c’era un bel clima sul set, ha fatto la differenza? Sì, la cosa che ho amato di più è stata l’atmosfera di assoluta familiarità: un attore è venuto al mio matrimonio, la sera stavamo insieme o ci vedevamo la mattina prima di girare. Io non credo che a fare il film sia solo il regista, adoro circondarmi di gente molto brava (anche più di me), dal set esco arricchito ed è il motivo per cui faccio questo lavoro.

Beauty è il primo film italiano mixato con la tecnica innovativa Dolby Atmos, usata per la prima volta nel film The Brave della Pixar. Rende il suono davvero tridimensionale e realistico! Film nel cassetto? Sì, è un giocattolo bellissimo. Fa parte di tutte quelle cose di cui, Diciamo che quando riuscirò a fare un film muto ma moderno sarò paradossalmente, il pubblico non si accorge. Rende tutto più contentissimo. Sono prontissimo per girare un lungometraggio, credibile all’ascolto: se sta piovendo, il suono arriva dall’alto proprio Beauty è nato proprio per questo. Attualmente sto preparando il mio come siamo abituati a sentire la pioggia nella realtà. Tutto questo primo film con Marco Belardi, quindi con Lotus Production e Leone è stato possibile grazie alla SDI Media, una grande azienda di postproduzione. Anche se stiamo aspettando che in Italia aumentino Film Group. Sarà sempre un musical, non posso dire di più ma sarà un Grande Musical! il numeroIta divoluptatem sale attrezzate. Optatem. re, quos etur magnihilit mi, tem accatius estion cullanis verem rehent.

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- Icone -

LUCIANO TOVOLI AIC ASC IMAGO

RIPRENDIAMOCI LA CREATIVITÀ

È UNO DEGLI AUTORI DELLA CINEMATOGRAFIA (GUAI A DEFINIRLO DIRETTORE DELLA FOTOGRAFIA…), CHE HA FATTO LA STORIA DEL CINEMA ITALIANO E NON SOLO, LAVORANDO A FIANCO DI MAESTRI COME DE SETA, ANTONIONI, ARGENTO, SCOLA, TARKOVSKIJ, PIALAT E MOLTI ALTRI. IL CINEMA OGGI? «È IN MANO A NOTAI».

di FRANCESCO STAMPATI

Luciano Tovoli è presidente dell’AIC (Associazione Italiana Cinematografia) e creatore della federazione Europea degli Autori della Cinematografia - IMAGO.

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Locandina della retrospettiva parigina dell’AFC nel 2015, durante la quale furono proiettati dodici film di Tovoli accompagnati da altrettante conferenze tenute da esperti.

La copertina del libro Suspiria e dintorni. Conversazione con Luciano Tovoli, edito da Artdigiland (2018).

Lei è stato uno dei primi autori della cinematografia ad accostarsi al digitale. Quante cose sono cambiate rispetto a quando ha iniziato? Nel 1979 ho realizzato con Michelangelo Antonioni Il mistero di Oberwald, il primo film che ha impiegato l’elettronica [il film è stato girato in video per intervenire elettronicamente sul colore, e poi riversato in pellicola, ndr]. Io e Michelangelo volevamo capire se la pellicola fosse ancora il mezzo espressivo migliore o se potevamo usare una nuova tecnologia da poco disponibile, ovvero l’elettronica in bassa definizione, poiché le parole “alta definizione” o “digitale” allora non esistevano nemmeno. Il mistero di Oberwald ha anticipato tutto il cambiamento tecnologico che poi è dilagato trasformando il cinema. Però il messaggio che volevamo dare allora, ovvero la centralità della ricerca di un mezzo che desse nuove e maggiori possibilità espressive, è stato frainteso da tutto il sistema produttivo, col risultato che adesso si gira senza luce, di fretta, con macchine a mano piccolissime e leggere che si possono acquistare sotto casa. Prima si ragionava a lungo sull’inquadratura, c’era un’elaborazione che adesso manca totalmente. Oggi non si scrivono più storie da girare nei teatri di prosa, là dove c’è bisogno di ricostruire una scenografia, di illuminare. Un tempo era molto più complesso fare questo mestiere ma avevamo fiducia, era il cinema della fiducia, in noi stessi e negli altri, oggi è il cinema di notai assiepati dietro al monitor per controllare nell’immediato il lavoro dei collaboratori, senza più alcuna fiducia in loro.

L’horror è stato un genere che forse più di altri le ha permesso di sperimentare. Come si è confrontato, ad esempio, con un autore come Dario Argento? In realtà non ho preso parte a molti film horror, ma sicuramente è un genere che si presta alla sperimentazione. Il primo horror a cui ho lavorato, Suspiria, richiedeva un certo tipo di ricerca, non mi sono posto il problema se fosse una storia romantica, dell’orrore o altro, Dario Argento aveva una visione precisa del film e io ho cercato di contribuire con la mia fantasia e creatività ‒ qualità, tengo a sottolineare, che le macchine non hanno. Il rapporto con Dario è stato splendido. Ma in generale, nella mia carriera, sono stato molto fortunato poiché ho avuto buonissimi rapporti con i registi, che mi hanno lasciato sempre completamente libero di fare quello che volevo. Colgo al volo il suo accenno a Suspiria: non posso non chiederle come ha reagito alla notizia del rifacimento di Guadagnino… Crede sia possibile realizzare un buon remake di un classico del cinema? Guadagnino è un grandissimo regista dotato di un’enorme sensibilità. Il fatto che abbia girato un remake è un omaggio a Suspiria, il tributo di un appassionato di cinema che si è legato alla settima arte proprio vedendo il film di Argento quando era un ragazzino; penso non ci sia modo migliore per rendere onore con sincerità e passione a un’opera che ti ha cambiato la vita. Il remake è sempre un omaggio a un film a cui ti ispiri, è un’operazione meritevole, con tutti i rischi che può comportare. Non ho un’opinione particolare a riguardo, ma se mi chiamassero per realizzare il remake di un bel film sarei felice. Ha girato molto anche all’estero. Come cambia il lavoro di un autore della cinematografia nel momento in cui si superano i confini nazionali? Il mio “estero” ha dei nomi ben precisi: Parigi, New York, Los Angeles. È vero, con i film italiani sono andato in giro in tutto il mondo, ma se ci riferiamo a produzioni che nascono oltre confine allora bisogna parlare della Francia e degli Stati Uniti. In ogni caso si tratta sempre di fare un film, quindi non cambia assolutamente niente. Forse l’unica cosa che varia è l’orario di lavoro, a Parigi si lavora sette ore e mezzo al giorno (eppure il cinema francese realizza 270 film all’anno interamente francesi con distribuzione certa nelle sale), da noi invece lavoriamo minimo

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«CHE SIA IN ITALIA O ALL’ESTERO SI TRATTA SEMPRE DI FARE UN FILM, NON CAMBIA ASSOLUTAMENTE NIENTE». dieci o dodici ore (con circa 150 film con incertissima distribuzione) mentre in America ne occorrono quindici o diciassette. Il resto è uguale ovunque, il rapporto con la troupe non cambia, ci sono meravigliosi macchinisti, elettricisti, operatori di macchine a Parigi così come si trovano a Roma o Los Angeles. Certo, diventa fondamentale parlare le lingue perché al di fuori dell’Italia nessuno fa degli sforzi per comprenderti. Io ero ferrato perché avevo studiato lingue all’Università di Pisa e questo mi ha avvantaggiato. Numerosissimi sono i grandi registi con cui ha collaborato: Antonioni, Scola, Ferreri, Zurlini, Schroeder, Veber, Tarkovskij. C’è un legame, o anche un film, che porta maggiormente nel cuore? Amo incondizionatamente almeno una decina dei miei film ed è difficile sceglierne uno anziché un altro. Ricordo con affetto

i primi lavori che ho girato, erano spaghetti western di serie Z, il gradino più basso che si possa immaginare, ma è stata un’esperienza meravigliosa, di vita, di divertimento, di apprendimento professionale e di questo sono molto fiero. Un altro film di cui vado molto orgoglioso, la sorprenderò, è Fracchia contro Dracula, che ho voluto fare perché volevo lavorare con Paolo Villaggio e trascorrere quanti più mesi possibile con lui, che a mio parere è stato un vero genio rivoluzionario.

Cosa pensa del mestiere di autore della cinematografia oggi? E Cosa crede cambierà in futuro per coloro che fanno o vogliono fare questo lavoro? In futuro saremo dei “catturatori” di immagini: verremo inviati dai registi per procurare albe, tramonti, boschi, senza poter decidere, invieremo poi queste immagini a un qualche altro “referente” sopra di noi e da quelle verrà tratto un film. Intendo dire che le figure autoriali saranno sempre più marginalizzate se non poniamo un rimedio a questa deriva, bisogna che tutti gli autori si coalizzino nel tentativo di difendere la creatività. Il cinema è cambiato e cambierà tantissimo, magari un giorno non si chiamerà più neanche cinema; non so che rivoluzioni ci saranno da qui a cento anni o come si girerà, probabilmente le macchine da presa le lasceremo a casa, esisterà un device che ci permetterà di scattare foto o fare riprese direttamente con l’occhio, senza più bisogno di apparecchi o troupe.

Chiudendo un occhio gireremo un film tradizionale, aprendoli entrambi faremo un film stereoscopico in 3D. Fino ad allora però c’è ancora spazio per i giovani che vogliono fare cinema, anche se sappiamo che è un’industria in crisi, senz’altro come quantità di lavoro da offrire. Ma ricordiamoci invece che la televisione, che qui in Italia impera, ha continuamente bisogno di personale e dunque soprattutto chi vuole iniziare non ha che da coglierne le opportunità.

In alto un’immagine da Tenebre di Dario Argento; sotto a sinistra Professione reporter, a destra Fracchia contro Dracula di Neri Parenti.

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- Memories -

Luciano RICCERI è stato lo scenografo di Ettore SCOLA dal 1965: suoi i set delle opere con le quali il regista, nato ad Avellino e romano d’adozione, si è guadagnato un posto di primo piano nella STORIA DEL CINEMA di LORENZO BELLACCI ITALIANO.

P

arlare con Ricceri è un tuffo in un modo di lavorare artigianale ben diverso da quello odierno: a fare da filo conduttore della chiacchierata sono due film emblematici dell’importanza che il regista attribuiva ai luoghi e alle architetture: Brutti, sporchi e cattivi e Una giornata particolare. Sia Brutti, sporchi e cattivi che Una giornata particolare sono caratterizzati da un forte impegno politico e sociale. Quanta importanza dava Scola all’aspetto politico dei suoi film? Ettore ha sempre coniugato

le vicende private dei suoi personaggi sullo sfondo di una situazione politica e storica molto precisa, erano elementi che si mescolavano in maniera inscindibile. Era proprio il suo modo di vedere e di pensare il racconto, la sua cifra

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QUAR personalissima.

In Una giornata particolare l’architettura fa da protagonista: sembra quasi che Palazzo Federici (progettato nel 1931 dall’architetto razionalista Mario De Renzi e situato a via XXI aprile a Roma) sia venuto prima di tutto… No, nella sceneggiatura c’erano indicazioni molto precise sul

tipo di palazzo, ma poi gli autori ci hanno chiesto di cercare il luogo “reale” più adatto e funzionale. Perché poi la scenografia questo è, secondo me. Non è solo estetica, fa

parte del racconto, aiuta a capire il personaggio

e la sua psicologia, tutto deve essere coerente. Lo

scenografo io l’intendo non come un autore ma come un interprete, simile all’attore. Invece di recitare si occupa di fornire i fondi che aiutano, che collaborano, che servono a raccontare meglio, in maniera più precisa, più dettagliata. Dunque, dopo aver ricevuto

la sceneggiatura, si parte con la ricerca e se si è fortunati si trova… Palazzo Federici. Dietro titoli come Brutti, sporchi e cattivi c’era la filosofia di Pasolini, fortemente critica sulla società dei consumi.

In Brutti, sporchi e cattivi, le vicende di Giacinto e della sua laida famiglia di baraccati alla periferia della metropoli diventano un dramma universale.

Sì, anche, ma con un modo di raccontare totalmente diverso. Ettore nasceva come vignettista e manteneva sempre un profondo senso dell’umorismo, amava il fantastico, il grottesco. Parlavamo tra noi di realismo magico. Realismo ma con un


*Tesi discussa al Royal College of Art di Londra nel giugno 2018.

CASA, «PARLAVAMO TRA NOI DI REALISMO MAGICO, CON UN PIZZICO DI FANTASIA».

RTIERE, pizzico di fantasia, aveva uno stile tutto suo.

La passione per il grottesco veniva dal suo background come fumettista caricaturale? Certamente, è stata la sua formazione al «Marc’Aurelio». Sai chi erano i suoi colleghi in quel giornale? Age, Scarpelli, Fellini, Maccari. Tutti personaggi straordinari. Quando scrivevano una sceneggiatura impiegavano molto tempo, assistere alle loro riunioni era uno spettacolo, come andare a teatro. Ogni tanto mi interpellavano: ma secondo te questa cosa si riesce a trovare? Li aiutava ad andare avanti, perché se no si bloccavano, si facevano venire i dubbi. Volevano essere rassicurati e a me partecipare alle loro discussioni aiutava, perché mentre davo loro suggerimenti riuscivo a capire il film prima che la sceneggiatura fosse finita. Sapevo già cosa serviva prima della sceneggiatura definitiva. Cosa ricordi del set di Brutti, sporchi e cattivi e Una giornata

particolare? Gli interni costruiti in teatro, gli esterni filmati nel villaggio sullo sfondo della cupola di San Pietro? I film di Ettore, salvo rare eccezioni, sono stati quasi tutti girati in teatro. Il grosso di Una giornata particolare, a parte la scena iniziale e quella sulla terrazza, è tutto in interno. Scegliemmo gli Studi De Paolis, avevamo addirittura preso due teatri. Fra i teatri c’erano delle grandi porte, altissime, che si potevano aprire per collegarli, permettendoci di costruire i due appartamenti di Sophia Loren e Marcello Mastroianni, uno di qua e uno di là, con il cortile in mezzo. Avete ricostruito tutto il cortile nella sua altezza? No, solo quella parte di cortile che serviva per il rapporto tra le due finestre. Ma erano pur sempre una ventina di metri. Poi pianerottoli e scale perché i personaggi salivano, entravano, uscivano. Una caratteristica particolare

di quel film è una tonalità color seppia. Fu un lavoro davvero complesso perché tutti i colori, le tappezzerie, dovevano dare sul grigio. Quello per Ettore era il colore dei tempi del Fascismo, che pervadeva i sentimenti, la vita dei personaggi, e quindi anche le loro case dovevano essere grigie. Al reparto scenografia collaborammo strettamente con il direttore della fotografia: noi cercavamo di togliere colore, per esempio, già quando mettevamo la carte da parati e il DOP lavorava sulla desaturizzazione per abbassare ulteriormente i toni.

Tutto doveva apparire o come colore che sembrava bianco e nero, o un bianco e nero che sembrava colore. Il pullover di Marcello era rosso, ma viene fuori un decolorato, un marroncino molto esausto di colore. Quali furono le tue fonti di ispirazione per la baraccopoli di Brutti, sporchi e cattivi? Non c’è stata progettazione.

Ho fatto venire dei camion con lamiere, mattoni, pezzi di cartone, tutto materiale di risulta. E abbiamo cominciato a tirare su il villaggio; doveva apparire come se lo avessero costruito i baraccati. Mi sono fatto anche aiutare da qualcuno di loro, li abbiamo fatti venire da un altro quartiere e ci hanno dato una mano a tirare su alla bell’e meglio porte, tetti, pareti e finestre. Invece in Una giornata particolare è stato tutto progettato al millimetro, studiato, ragionato. Nel piano sequenza iniziale la macchina da presa entra ed esce dalla finestra, in un’inquadratura che resterà nella storia del cinema. Io ero “l’addetto al davanzale”. Ero l’unico che riusciva a togliere questo davanzale in tempo perché prima si vedesse e poi facesse passare la macchina da presa. C’erano più porte che pareti, perché la macchina da presa girava, andava dappertutto, entrava e usciva. Non c’erano i mezzi di adesso. Allora era tutto carrelli, tutto fatto a mano.

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15 DICEMBRE 2018

Il Presidente di giuria, Paul Haggis, esordisce come autore tra il 1977 e il 1978 firmando diversi episodi delle serie americane cult Il mio amico Arnold e Love Boat.

Con il film Crash - Contatto fisico, Haggis trionfa alla notte degli Oscar del 2006 aggiudicandosi due statuette per Miglior Film e Migliore Sceneggiatura Originale.

WE CAN BE HEROES

La kermesse tutta italiana ‒ ma dal respiro internazionale ‒ torna con una quarta edizione ricca di conferme e novità, continuando a perseguire l’innovazione del linguaggio cinematografico e la ricerca di nuovi talenti. di CHIARA CARNÀ

I

Fabrique du Cinéma Awards nascono quattro anni fa, con il chiaro e ambizioso proposito di concedere agli aspiranti autori, attori e musicisti di tutto il mondo l’occasione di presentare il proprio lavoro in un contesto fresco, fertile e aperto al nuovo. Occasione: ecco un termine che si utilizza con disinvolta leggerezza. Eppure mai come ora rappresenta il nocciolo delle urgenti problematiche legate alla rinascita della settima arte. È superfluo ribadire quanto oggi sia arduo, per un aspirante filmmaker, non solo affermarsi, ma anche solo farsi conoscere. Una storia

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accattivante e una buona padronanza del linguaggio filmico non sono più sufficienti perché a latitare, troppo spesso, è proprio l’opportunità di essere “scoperti”. In questa fase, in cui il dibattito sulle nuove forme creative e narrative legate al cinema è più acceso e controverso che mai, i Fabrique Awards rendono dunque accessibile e concreta la speranza che un buon prodotto realizzato da un emergente riceva la meritata visibilità. Non stupisce che la rassegna, nella sua prima edizione tutta


Accanto alle categorie più “classiche”, ovvero MIGLIOR OPERA PRIMA, MIGLIOR OPERA INNOVATIVA E SPERIMENTALE, ATTORE RIVELAZIONE, ATTRICE RIVELAZIONE e MIGLIOR TEMA MUSICALE, tornano quelle dedicate ai lavori internazionali: MIGLIOR FILM, MIGLIOR CORTOMETRAGGIO, WEBSERIE e DOCUMENTARIO.

internazionale, lo scorso anno abbia attirato un’attenzione e un successo letteralmente planetari (oltre 1.300 lavori inviati da 70 Paesi), rendendo inevitabile il bis. Anche quest’anno tantissimi giovani talentuosi avranno modo di confrontarsi con idee di cinema innovative; tuttavia, per sapere chi conquisterà gli ambiti riconoscimenti, bisognerà attendere la cerimonia che si terrà il 15 dicembre, nell’inedita cornice dell’ex caserma Guido Reni a Roma. Una giuria di affermati professionisti del settore si occuperà di valutare le opere in concorso in base alla qualità narrativa e tecnica, ma anche all’originalità della forma di linguaggio prescelta. Al timone, come Presidente, c’è nientemeno che il regista, sceneggiatore e produttore canadese Paul Haggis, prolifico autore per il piccolo schermo e vincitore di due premi Oscar per il film Crash - Contatto fisico (2005), nonché artefice della sceneggiatura dello struggente capolavoro Million Dollar Baby (2004), diretto da Clint Eastwood. Il tavolo dei giurati vanta, inoltre, l’attore Giorgio Pasotti, amatissimo volto di tante fiction televisive e interprete sul grande schermo, fra gli altri, de La grande bellezza di Paolo Sorrentino e L’ultimo bacio di Gabriele Muccino. Pasotti si è detto curioso ed emozionato all’idea di visionare le opere in concorso: «Le opere prime sono indice di cambiamento e possono aprire sentieri nuovi nel mondo del cinema. Far parte di una giuria comporta grande responsabilità e svolgerò il mio compito con attenzione, rispetto e serietà». Altra new entry è il regista trentaquattrenne Jonas Carpignano che, con il suo A Ciambra (vincitore del David di Donatello alla Miglior Regia), ha rappresentato l’Italia agli ultimi Academy Awards nella categoria Miglior Film Straniero. Un percorso artistico, quello di Jonas, in cui figure professionali disposte a sostenere opere firmate da esordienti sono state fondamentali. Un nome su tutti? Quello del leggendario Martin

Scorsese (produttore di A Ciambra). E, giustamente, stavolta toccherà a Carpignano offrire ai candidati la possibilità di distinguersi. «Sono stato contentissimo ‒ conferma Carpignano ‒ di partecipare alla giuria e di affiancare gli altri giurati. Il 2018 è stato un anno molto interessante per il cinema». E la musica? Ci penserà il pluripremiato cantautore Brunori Sas, che decreterà il vincitore del premio Miglior Tema Musicale Italiano. All’anagrafe Dario Brunori, il musicista cosentino è esponente indiscusso della scena indie italiana (il suo ultimo album, A casa tutto bene, è stato certificato disco di platino), ma ha anche collaborato con il cinema: nel 2012, infatti, ha curato la colonna sonora di È nata una star?, commedia interpretata da Rocco Papaleo e Luciana Littizzetto. Veniamo alle energiche “quote rosa”, tra cui ritroviamo il bel volto familiare di Valentina Lodovini, da sempre inseparabile e indispensabile sostenitrice di Fabrique. La carismatica attrice umbra ‒ vincitrice nel 2011 del David di Donatello come Migliore Attrice Non Protagonista per la commedia cult Benvenuti al Sud ‒ è a tutti gli effetti un’icona del cinema italiano degli ultimi anni. Completa la cinquina, la regista e sceneggiatrice romana Susanna Nicchiarelli, autrice di corti, documentari e lungometraggi tra cui La scoperta dell’alba (2013), di cui è anche protagonista accanto a Margherita Buy. Il suo ultimo lavoro è il biopic Nico, 1988, pellicola vincitrice del Premio Orizzonti alla 74a Mostra del Cinema di Venezia. «Dal lavoro di un esordiente non si esige la perfezione ‒ ha dichiarato a proposito del suo ruolo di giurata ‒ si chiede piuttosto uno sguardo, un punto di vista sul mondo, una scelta chiara nel racconto. Un regista che dimostra di avere un suo mondo per me è già un autore». Gli ingredienti per una promettente rassegna ricca di sorprese ci sono insomma tutti. Fervido ed entusiasta, inoltre, in un panorama affollatissimo di festival blasonati, è il proposito di alimentare un dialogo costruttivo, dando voce alle nuove tendenze del cinema e a inedite forme d’interazione con lo spettatore.

«UN REGISTA CHE DIMOSTRA DI AVERE UN SUO MONDO È GIÀ UN AUTORE». www.fabriqueawards.com

Da sinistra: Giorgio Pasotti, Jonas Carpignano, Brunori Sas, Valentina Lodovini, Susanna Nicchiarelli.

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- Zona Doc -

ANDREA SORINI esordisce nella regia di lungometraggio con un documentario eccentrico e coraggioso che sceglie riferimenti alti e un andamento originale tra stilizzazione poetica e sintesi narrativa.

BAIKONUR, TERRA

DALLA TERRA AL CINEMA di SILVIO GRASSELLI

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I

l 18 ottobre scorso è uscito in sala, a un anno dalla prima presentazione ufficiale nel programma di Alice nella Città, Guarda in alto, opera prima immaginifica ed eccentrica di Fulvio Risuleo. Suo cosceneggiatore e alleato artistico è Andrea Sorini, che nelle stesse settimane ha iniziato il percorso festivaliero con il suo primo lungometraggio, Baikonur, Terra, un documentario inconsueto per i canoni italiani, prima presentato al Vancouver International Film Festival, in Canada, poi al Concorso Prospettive del Filmmaker Film Festival, a Milano. Sorini ‒ classe 1988 ‒, pur essendo nato nel capoluogo lombardo, ha vissuto buona parte della vita a Bologna. Finiti gli studi liceali, si trasferisce a Roma con l’intenzione di studiare cinema. Un corso alla ACT Multimedia, poi l’apprendistato come operatore e montatore nel video giornalistico, infine l’ingresso al Centro Sperimentale, corso di regia. Sono gli anni dei primi corti “professionali”, dell’approfondimento della passione per la fantascienza e il cinema fantastico di genere, della prima verifica dei propri gusti e delle proprie aspirazioni. Poco dopo il diploma, Andrea mette mano al progetto di un film di finzione germogliato intorno al cane Laika e alla sua storia di primo animale nel cosmo. È proprio durante le ricerche per questo film ‒ mai realizzato ‒ che inizia il progetto del documentario. Sorini resta colpito e affascinato dall’irreale contrasto visivo tra

le terre desertiche intorno alla base spaziale

di Baikonur e l’abbacinante apparizione del cosmodromo ex sovietico. Con Eliseo Acanfora inizia una prima fase di scrittura: i due, senza aver mai visitato i luoghi che vogliono raccontare e basando il proprio lavoro su immagini, documenti, incontri con testimoni qualificati, inventano un documentario laconico e allucinato. Grazie al primo dossier riescono a conquistarsi l’alleanza produttiva di Lumen Films e The Piranesi Experience, passano attraverso il laboratorio di sostegno alla scrittura del Milano Film Network (dove Sorini riceve i suggerimenti di Michelangelo Frammartino, ringraziato nei titoli di coda) e arrivano fino al finanziamento da parte del MIBACT.

È la primavera del 2017: una piccola troupe intraprende il primo viaggio in Kazakistan. Prima ancora di ottenere l’interessamento di RAI Cinema (entrata poi in coproduzione), Sorini gira in una decina di giorni quasi un terzo del film, esplorando gli spazi aperti, inanellando i pochi, selezionati incontri.

Qualche mese più tardi, ottenuti i permessi per entrare e riprendere nella base aerospaziale, si dedica a una rapida esplorazione nell’enorme labirinto di hangar, impianti, camere sigillate, sterminati corridoi e registra tutto il materiale sull’interno del cosmodromo che compare nel film, proprio poco prima della partenza della missione Sojuz. Baikonur, Terra è un film inconsueto per essere un

«UN DOCUMENTARIO LACONICO E ALLUCINATO».

Ad oggi, Baikonur è l’unico luogo in cui astronauti e cosmonauti vengono lanciati nello spazio per raggiungere la Stazione Spaziale Internazionale.

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«UN SOGGETTO ECCENTRICO E UN LUOGO REMOTO PER UN DOCUMENTARIO RAFFINATO».

Nel 2050 il cosmodromo verrà chiuso definitivamente a causa dei crescenti attriti politici che separano la Russia dal Kazakistan.

documentario italiano: tecnicamente raffinato e ben rifinito, sceglie un soggetto eccentrico e un luogo remoto (la scrittura “da lontano” e un po’ all’oscuro del regista e del suo coautore, precisa e al contempo astratta, ricorda le esotiche esplorazioni immaginifiche di Salgari), rifugge tanto le ossessioni narrative quanto l’incontinenza del film parlato, riconducendo il proprio lavoro a un canone internazionale da noi poco o per nulla diffuso. Costato meno di quel che dà a vedere (intorno ai 250.000 euro), il film porta in sé i segni della passione di chi l’ha fatto, conservando nelle trame larghe dello stile molte delle ossessioni del suo regista: un certo gusto fotografico informa la messa in quadro degli edifici e delle figure umane, brevi ritratti che raccolgono in pochi minuti, quasi del tutto silenziosi, una collezione stringata ma densa di elementi e dettagli che descrivono fulmineamente le apparizioni di personaggi alieni eppure familiari; il registro secco e irreale, l’osservazione

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che cerca di bastare a se stessa e che lascia lo spettatore libero di ricostruire, attraverso le suggestioni raccolte, l’intreccio evanescente di un impalpabile racconto, la cadenza lenta ma musicalmente precisa riecheggiano il documentario di Werner Herzog, forse addirittura la fantascienza di Tarkovskij. Per montaggio e postproduzione sono state sufficienti sei settimane: il giovane regista ‒ che inizialmente aveva nutrito il sogno di girare il film in pellicola ‒ ha usato con il digitale il rigore che si usa lavorando in analogico, pianificando, ragionando, lesinando sulle riprese e arrivando così alla postproduzione con una quantità d’immagini di poco superiore al necessario. Nonostante il suo fin troppo evidente nitore estetico, è forse nella costruzione della colonna sonora e nel suo rapporto con la colonna visiva che Sorini, insieme al suo piccolo ma solido gruppo, dimostra la maggior lucidità autoriale: al sottofondo naturale dei luoghi


«L’INTRECCIO E LA CADENZA RIECHEGGIANO IL DOCUMENTARIO DI WERNER HERZOG E LA FANTASCIENZA DI TARKOVSKIJ».

Baikonur, fino al 1995 chiamata Leninsk, è uno dei rari esempi di strutture permanenti costruite nella zona.

ripresi ‒ un silenzio lunare ‒, Sorini sostituisce una composizione sonora ottenuta dall’intreccio discreto di suoni in presa diretta registrati in loco e poi manipolati in postproduzione, musica elettronica appositamente realizzata e passaggi estatici di musica tradizionale kazaka eseguita con un kobyz, strumento della tradizione popolare locale. In questo ambizioso gioco formale che sceglie il documentario per la sua libertà produttiva e l’agilità estetica, che tenta la messa in relazione di poesia e racconto, che se ne infischia della completezza e della conferma delle cose note, non tutto funziona e qualcosa di centrale fa sentire la sua assenza lancinante. L’originale, coraggioso ardimento di una scrittura che procede aerea per salti d’idee e d’immagini è forse in parte frenata e come inaridita dalla comprensibile rapidità, dalla forse inevitabile frettolosità della ricerca sul campo; i suoi voli pindarici, le sue intuizioni e

allusioni visionarie sembrano in parte appiattite e scolorite dalla rete di legami deboli che tendono dall’interno l’ordine delle immagini. Eppure Baikonur, Terra, il progetto di Sorini e del suo coautore Acanfora (che secondo una formula quasi inedita pubblica per Il Saggiatore, mediapartner del film, un volumetto letterario parallelo al testo cinematografico), dimostra un’ambizione e una

intelligenza non comuni, e ancor di più la consonanza del lavoro di un giovane autore con il miglior cinema contemporaneo che gioca con gli stili e le forme sul terreno libero del cinema, oltre le definizioni e lontano dalle terribili credenze sulle aspettative del pubblico. Seguendo lo stesso tipo d’ispirazione e d’approccio, il gruppo di lavoro di Sorini ha già iniziato a lavorare a un film d’ambientazione giapponese concentrato sul racconto del sottosuolo.

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- Arts -

Luca Russo Fumettista, illustratore e pittore, con NOTTETEMPO – il suo ultimo libro a fumetti pubblicato da Tunué – ha integrato il disegno con la scrittura, realizzando il suo primo lavoro da autore unico. Romano classe 1974, ha di aggiunto un tassello importante al suo > MARCO PACELLA

TUTTO È RACCONTARE >

linguaggio espressivo, già caratterizzato da una notevole versatilità nell’utilizzo di stili e tecniche differenti. Pastelli, chine e acrilici sono confluiti qui nella scelta della pittura digitale, dando forma al paesaggio onirico e poetico, pienamente maturo, di Nottetempo. Ma, ad accompagnare il lavoro al tavolo da disegno, sembra non mancare mai della buona musica. Ti definisci un artista di formazione classica. Raccontaci come è avvenuto il tuo avvicinamento all’arte, i tuoi riferimenti e la scelta del fumetto come canale d’espressione. Ho amato da subito l’arte, sin da bambino portavo sempre con me matite colorate, tempere, pennarelli… e tanta carta, ovunque andassi. A quel tempo il sabato lo trascorrevo spesso nella sartoria di mio padre, dove ogni oggetto era magico e bellissimo. Adoravo la parola artigianato e l’atmosfera particolare che si respirava in quel luogo. Disegnavo, mentre gli abiti nascevano e mio padre mi faceva ascoltare dischi e nastri di ogni tipo: musica classica, jazz, rock, cantautori… in particolare questi ultimi m’incuriosivano molto, anche se spesso non li comprendevo appieno, ero un bambino. Ricordo il vociare dei clienti, mentre indossavano gli abiti nel salottino prova, e io disegnavo nella stanza a fianco, su un grande tavolo in legno. Quasi

Le uniche figure umane di Nottetempo sono un pianista malinconico, in preda a ricordi dolorosi, e sua moglie Giulia.

ogni domenica i miei genitori portavano me e mio fratello alla scoperta dell’arte, tra le mille chiese di Roma, le piazze, i centri storici dei paesi del Lazio, le fiere del libro… l’arte quindi è sempre stata presente nella mia famiglia e mi è stato trasmesso l’amore per la bellezza sin da piccolissimo. Allora sognavo di diventare un disegnatore di cartoni animati, forse perché nel vederne tanti e amando il disegno sembrava la cosa più logica da desiderare. Invece scoprii presto che il mondo dei fumetti era la mia vera passione.

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«HO SCELTO LA PITTURA DIGITALE PERCHÉ AVEVO BISOGNO DEL CALORE DELL’OLIO E DELLA TEMPERA E LA PRATICITÀ DEL COMPUTER». Però, sin da subito, il fumetto che mi ha affascinato più degli altri è stato quello pittorico o comunque quello di autori che sperimentano, passando da una tecnica all’altra. Alberto Breccia, Sergio Toppi, Dino Battaglia, Bill Sienkiewicz, Moebius e diversi altri erano e sono ancora per me dei punti di riferimento importantissimi. Ma non solo fumettisti e illustratori hanno contribuito alla mia formazione. L’arte in generale, qualsiasi forma d’arte: pittura, fotografia, cinema, musica, letteratura… tutto è raccontare e quindi tutto mi interessa. Nei tuoi tre fumetti lunghi lo stile e le tecniche scelte sono cambiati nel tempo. In che modo scegli i materiali da adoperare? C’è un rapporto con le atmosfere narrative delle singole storie? Penso che la tecnica debba essere al servizio della storia. Nell’ultimo graphic novel, Nottetempo, il tono del fumetto è onirico, visionario, malinconico. Ho scelto la pittura digitale perché avevo bisogno del calore dell’olio e della tempera e la praticità del computer, che permette di tornare indietro facilmente sulle tavole realizzate in caso di modifiche. Nei precedenti graphic novel, scritti da Cristiano Silvi, ho usato tecniche tradizionali, facendomi sempre guidare dalla storia: per (in)certe stanze, un noir psicologico dalle tinte forti, ho optato per la mezzatinta acrilica in modo da ottenere una resa grafica drammatica che ricordasse una vecchia pellicola in bianco e nero; per Guardami più forte ho scelto invece l’acquerello per rendere la fragilità esistenziale dei personaggi. Un filo rosso nei tuoi fumetti può essere rintracciato nella vena noir, malinconica e riflessiva, che avvolge la narrazione. Credo di delegare inevitabilmente a personaggi e storie d’invenzione delle emozioni che mi appartengono. Il tuo ultimo libro, Nottetempo, ti vede per la prima volta autore unico della storia e delle tavole. Com’è stata questa esperienza e cosa ha significato nel tuo percorso professionale? Nottetempo è stato una rivoluzione. Ho impiegato tre anni effettivi per realizzarlo, ma ho cominciato a pensare a questa storia molto prima. Volevo raccontare la perdita dell’equilibrio tra un

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artista e le sue due donne: la moglie-musa Giulia e un fantasma che da sempre abita le stanze della sua casa e della sua mente, l’arte. Solo a metà del libro ho compreso che stavo parlando di me, anche se non esplicitamente: certe emozioni che conosco bene sono finite tra le nuvole che avvolgono diverse vignette della storia, negli sguardi dei personaggi, nei silenzi. A quel punto credo di aver avuto la voglia di smettere. Ho capito però che non potevo, che la storia mi avrebbe ossessionato se non l’avessi portata a conclusione. Da quel momento ogni giorno di lavoro è diventato sempre più complesso; mettersi nella giusta condizione per seguire il protagonista nel suo viaggio alla ricerca di sé è stato decisamente estenuante. Ma questo non significa che sia stata un’esperienza negativa, la definirei piuttosto unica nel mio attuale percorso artistico e professionale per coinvolgimento emotivo e sperimentazione tecnica. Nel libro racconti che la storia è nata partendo da alcune illustrazioni. Come è avvenuto il passaggio al fumetto? Come ho scritto nella scheda Percorsi di Nottetempo, le illustrazioni erano una sorta di «mappa scritta in un codice segreto da decifrare». Queste illustrazioni, nate per altri progetti, mi hanno rivelato il potenziale narrativo della tecnica della pittura digitale. Fin da (in)certe stanze rendi espliciti i tuoi ascolti musicali durante il lavoro. Che ruolo ha la musica per te e come avviene la scelta dei brani o degli autori? La musica è la mia compagna di viaggio, non solo quando lavoro. Spesso è essa stessa fonte di idee e soluzioni narrative, per questo ringrazio sempre gli artisti che, con la loro musica, mi hanno accompagnato durante la lavorazione di un libro. La scelta dei brani mentre disegno non è casuale, non è mai solo un sottofondo. Prima di sedermi al tavolo, seleziono accuratamente un certo numero di dischi adatti alla sequenza a cui mi sto dedicando in quel momento. In Nottetempo è stato risolutivo l’ascolto

di Philip Glass per aiutarmi a visualizzare alcune scene particolarmente evocative.



CHICKENBROCCOLI QUESTA VOLTA HA SCRITTO UN LIBRO INSIEME A FEDERICA LIPPI, UNA RACCOLTA DI FILM PER RAGAZZI, CIASCUNO ACCOMPAGNATO DALL’ILLUSTRAZIONE DI ALCUNI DEI GIOVANI DISEGNATORI PIÙ INTERESSANTI DEL MOMENTO. www.chickenbroccoli.it

di SEBASTIANO BARCAROLI

(2018) DI FEDERICA LIPPI, SEBASTIANO BARCAROLI

101 FILM PER RAGAZZE E RAGAZZI ECCEZIONALI 101

film per ragazze e ragazzi eccezionali inizia con una dedica particolare, che recita così: Questo libro è dedicato ai bambini che eravamo. Senza di loro non saremmo diventati gli adulti che siamo. Avevamo pensato di dedicarlo a Indiana Jones, alla Principessa Leia, a Harry Potter e a E.T., ma poi ci siamo resi conto che era impossibile scegliere tra i tanti eroi ed eroine che hanno popolato la nostra infanzia cinematografica ‒ e che ancora ci fanno ritrovare il nostro fanciullino interiore ogni volta che un po’ di nostalgia ci spinge a rivedere un film di “quando eravamo piccoli”. E quindi abbiamo pensato a quelli che più di tutti ci hanno insegnato a non soffocare mai i nostri sogni, a continuare a vivere tutto come fosse un’avventura intergalattica, a non darsi per vinti neanche quando si è immersi nella Palude della Tristezza fino al collo: noi

da bambini! Sono loro i veri creatori del libro! Cosa definisce di più una grande amicizia se non le mille avventure vissute insieme al cinema? Cercare

il tesoro di un pirata senza un occhio, seguire uno scienziato pazzo a cavallo della sua DeLorean e ritrovarsi in un’altra epoca, volare sulle nostre BMX insieme a un extraterrestre. Avventure vissute spalla a spalla anche se ancora non ci si conosceva. Eravamo tutti insieme, col naso all’insù, a vivere la stessa emozione, la stessa commozione, a ridere delle stesse cose e a piangere degli stessi finali emozionanti. 101 film per ragazze e ragazzi eccezionali è un libro che viene dal cuore per spalancare i cuori altrui. Abbiamo pensato a una serata ideale, di quelle in cui si decide con tutta la famiglia il film da guardare per divertirsi insieme, ma anche a un pomeriggio solitario o con gli amici, chiusi in camera a frequentare scuole di magia, girare

Illustrazione di Karate Kid di Oscar Odd Diodoro. www.odd-house.com

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il mondo in 80 giorni, volare in groppa a un drago bianco, per poi tornare indietro pieni di meraviglia. Il libro contiene 101 pellicole che partono dai classici della storia del cinema e arrivano fino ai successi più attuali, tutti uniti dallo stesso filo rosso: fanno sognare a occhi aperti. Abbiamo scommesso su un progetto ad ampio respiro e, visto che entrambi siamo grandi appassionati di illustrazione e fumetto, abbiamo formato la squadra dei 24 illustratori che avrebbero realizzato le 101 opere del libro. Una volta scelti i film, siamo partiti per questa avventura… eccezionale! 101 film come i 101 dalmata, ma anche come la tradizione tipica della casa editrice: la Newton Compton Editori, infatti, è celebre anche per le sue guide e i suoi manuali sempre divisi in 101. Il bello è che, se volessimo scrivere un sequel (o perché no una trilogia, come nelle migliori tradizioni cinematografiche), avremmo già un sacco di titoli pronti! Ma i 101 che abbiamo scelto sono davvero il “best of the best”. E, visto che la cosa più bella del cinema è scambiarsi opinioni appena appare la parola FINE, abbiamo inserito per ogni film una scheda da compilare: si possono mettere le stelline proprio come i veri critici e scrivere le proprie recensioni. Dulcis in fundo, a fine del volume, perché non provare a scrivere il proprio film? Con una serie di domande mirate chiunque può diventare un nuovo Spielberg… o magari un nuovo Picasso, infatti si può – anzi si deve – disegnare anche la locandina! I film per ragazzi riescono in questo: insegnano a diventare grandi senza mai fare la figura del professore antipatico, del genitore severo, dell’educatore bacchettone. È questa la loro magia. Si cresce, senza mai sentire il peso dell’età adulta.



- Making of -

ABIURA a cura di DAVIDE MANCA

Tra le opere di Giovanni B. Algieri oltre ad Abiura, il documentario Cosa manca e i cortometraggi Poesie murali, Schabernack, Senzamare, vincitori di numerosi festival in tutto il mondo, tra cui il Barcelona Film Festival e il Los Angeles Film Awards.

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ABIURA È UN PICCOLO ON THE ROAD CHE HA PER PROTAGONISTA FOFO, UN UMILE E ONESTO OPERAIO IN PENSIONE, CHE CARICA STRANA GENTE A BORDO DEL SUO VECCHIO FURGONCINO.

DESTINAZIONE: IL SEGGIO ELETTORALE. UN BREVE TRAGITTO, CHE ATTRAVERSA LE PIÙ REMOTE PERIFERIE DELLA CALABRIA, DIVENTA UN VIAGGIO INTERIORE PER ESPLORARE IL SENTIMENTO DEL TRADIMENTO. IL TERMINE “ABIURA”, INFATTI, INDICA UNA RINUNCIA ALLA FEDE DI UN GIURAMENTO CHE, IN QUESTO CASO, È IL PATTO “SACRO” DELLA FAMIGLIA.

› Le riprese sono state effettuate con una Alexa mini e una serie di ottiche Cooke S4. Lo stile del film cerca di ricreare un immaginario dai forti contrasti con molti chiaroscuri, un racconto breve ma dai temi sociali chiaramente espressi: il Sud, la Calabria, il paese di campagna, l’integrazione sociale. Le scelta fotografica è stata orientata alla realizzazione di un’immagine a contrasto con lo stereotipo comune

relativo alla realtà del Sud Italia. La desaturazione del colore applicata sia alle scene che ai costumi è stata evidenziata in ripresa. La luce fredda e glaciale è in contrasto con l’idea comune di un Meridione sempre caldo e assolato. La scelta stilistica è improntata alla sintesi e alla parsimonia di inquadrature per concentrarsi sui volti e sull’atmosfera generale del racconto.

ATTORI Fofo GIOVANNI TURCO moglie di Fofo SERAFINA FUSARO amico di Fofo GIANNI PELLEGRINO figlio di Fofo CARLO GALLO CAST & CREDITS regia GIOVANNI B. ALGIERI sceneggiatura - GIOVANNI B. ALGIERI; ANDREA CORBO; CLAUDIO RUSSO prodotto da BALUMA PRODUCTIONS aiuto regia MARCO SCUDERI scenografia SAMANTHA GIOVA DOP/operatore DAVIDE MANCA makeup artist FRANCESCA VALIANI segretaria di edizione FRIDA ESPOSITO DOP/operatore DAVIDE MANCA assistente operatore DAVIDE LONIGRO aiuto operatore GIULIO CONTARDI capo elettricista RICCARDO COCCI capo macchinista MAURIZIO SALVATORI fonico presa diretta IVANO ZANCHI backstage SIMONE AMMIRATO montaggio MARCO SCUDERI colorist LORENZO MEIATTINI

La Baluma Productions è una nuova società cinematografica con sede in Calabria, composta da giovani professionisti del settore.

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«UN RACCONTO BREVE MA DAI TEMI SOCIALI CHIARAMENTE ESPRESSI».

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Foto 1 Capannamento balcone per effetto notte. Foto 2 Il regista dietro le quinte segue la scena. Foto 3 Inquadratura riflessa sullo specchio. Foto 4 Inquadratura in controluce di Kinoflo 4x60 riflesso su poliplat. Foto 5 Reparto trucco e parrucco in location. Foto 6 Camera Car su furgone. Foto 7 Macchina da presa su Windup. Foto 8 Effetto pioggia, regia e fotografia dietro le quinte.

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«IL FILM CERCA DI RICREARE UN IMMAGINARIO DAI FORTI CONTRASTI».

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Foto 9 Camera Car e pannello di led a pioggia. Foto 10 Il regista e il direttore della fotografia danno indicazioni. Foto 11 Pausa di riflessione sul set. Foto 12 Il regista dà indicazioni dal monitor di controllo.

«LA LUCE GLACIALE È IN CONTRASTO CON L’IDEA COMUNE DI UN MERIDIONE SEMPRE CALDO E ASSOLATO».

Una troupe di oltre trenta persone, tra cast tecnico e cast artistico, ha attraversato numerose località della Calabria, location del cortometraggio.

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- Teatro -

DAVIDE ENIA

NAUFRAGIO CON SPETTATORE

È UNO SPETTACOLO CHE COLPISCE AL CUORE, CHE COMMUOVE E INDIGNA. CHE FA SALIRE LA RABBIA TRA LE LACRIME. L’ABISSO, DI DAVIDE ENIA, È FORSE UNO DEI LAVORI PIÙ INTENSI DELLA STAGIONE TEATRALE. di ANDREA PORCHEDDU foto FUTURA TITTAFERRANTE

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L’abisso è una produzione del Teatro di Roma - Teatro Nazionale, Teatro Biondo di Palermo Accademia Perduta Romagna Teatri.

Il romanzo Appunti per un naufragio è edito da Sellerio, e c’è anche un audio libro (letto dallo stesso Enia) per Emons Editore.

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acconta di Lampedusa, di sbarchi, di vita e di morte. Con un senso di umanità ed empatia, con un dolore che si fa testimonianza e condivisione. Nato come libro con il titolo Appunti per un naufragio, poi prodotto dal Teatro di Roma, che aveva già ospitato una tappa iniziale di ricerca nell’ambito del progetto “Ritratti di una nazione”, L’abisso è una delle più alte e al tempo stesso umanissime riflessioni sul nostro tempo. E lui, Davide Enia, tornato in scena dopo molti anni, conquista il pubblico. Romanziere apprezzato in tutta Europa, aveva mosso i primi passi nel teatro, dalla sua Palermo, con spettacoli che lasciarono il segno nei primi anni Duemila. Tra questi, un memorabile Maggio ’43, sulla Seconda Guerra Mondiale o Italia-Brasile 3-2, racconto sospeso tra memoria privata e collettiva non solo della celebre partita, ma anche del nostro Paese. Accompagnato spesso da un musicista in scena, Davide Enia dà carne e sangue alla sua scrittura impregnata di dialetto palermitano, avvolge lo spettatore in immagini forti, dense, struggenti. E con L’abisso ha raggiunto un vertice del suo percorso creativo: racconta con sapienza uno spaccato umano, storico, legato al momento che tutti noi viviamo. Eppure, spiega di essere andato a Lampedusa per una sorta di “commissione”, per il dover scrivere un nuovo libro… Come è nato dunque L’abisso? Come si può raccontare il tempo presente nel momento della crisi? La risposta, il risultato, è il fallimento della parola, che non riesce a contenere la smisuratezza degli accadimenti. Questo si riflette già nel titolo del romanzo, che è Appunti per un naufragio, e denuncia l’impossibilità della forma romanzo. Bisogna fare i conti con questa

parzialità, con questa limitatezza. Manca il filtro del tempo perché la parola sia netta, e manca, poi, la visione più importante, quella di coloro che arrivano, che non hanno ancora elaborato il trauma e che non hanno trovato parole nella loro lingua per raccontare ciò che accade. Romanziere e drammaturgo. Come concili le due scritture? Negli anni, mi sono interrogato continuamente su quel che ho fatto e perché. Ho capito di essere figlio di questa duplicità di linguaggio: la parola scritta, afferente allo studio; e il linguaggio del corpo, del teatro, che fa parte visceralmente del mio mondo. Ho bisogno di esplorare entrambe le direzioni per creare quella distanza che permette l’elaborazione, la comprensione del trauma e il suo superamento. Come cambia dunque la parola scritta una volta arrivata in teatro? La parola prende coscienza del fatto che, ad esempio, i silenzi sono narrativi. Il teatro dà la possibilità di un’esplorazione di linguaggi diversi: il canto, il cunto, il racconto, la partitura musicale, quella fisico-coreografica… Peculiarità del teatro, poi, è l’accadimento di fronte a un pubblico sempre diverso: ciò mi permette un percorso performativo che mi fa tornare alla condizione emotiva di colui che sta nominando per la prima volta i fatti. È importante l’annullamento del filtro della recitazione, qualcosa che ho guadagnato con le prove, per tornare ogni volta allo stato emotivo iniziale e cavalcarlo esattamente. Nello spettacolo c’è una spudorata personalizzazione del racconto. Qualcosa che umanizza e riporta al singolo quel che sta accadendo.

«IN REALTÀ, IN QUESTA STORIA IO PARLO DI MIO PADRE, DI MIO ZIO, DI ME».

La messa in scena fonde diversi registri e linguaggi teatrali, gli antichi canti dei pescatori, intonati lungo le rotte tra Sicilia e Africa, e il cunto palermitano.

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Il romanzo Appunti per un naufragio è edito da Sellerio, e c’è anche un audio libro (letto dallo stesso Enia) per Emons Editore.

«LA RIVOLUZIONE È METTERSI IN UNA CONDIZIONE DI ASCOLTO». È una totale messa in gioco, l’unico modo per fare un’operazione onesta rispetto alla materia: io, nel momento in cui osservo tutto questo, e queste cose mi trapassano, sono solo un essere umano, è la mia vita. In realtà, in questa storia, io parlo di mio padre, di mio zio, di me. Ed è forse quel che la fa stare in piedi. Racconto l’immigrazione tramite il rapporto tra me, mio padre e mio zio. A tutto questo corrisponde una partecipazione emotiva del pubblico molto forte: c’è davvero commozione in platea. Mi sono accorto che, dopo la recita, si fermano tante persone per parlare, per abbracciarmi. Ti rendi conto allora che qualcosa è andato oltre lo spettacolo: hai l’impressione di aver creato un senso di comunità. Si torna, forse, a quell’origine del teatro, a quella collettività fatta per discutere e provare a cambiare il punto di vista sul presente. Come immagini le conseguenze dello spettacolo? Spero che, uscendo dalla sala, le persone inizino a “riprocessare” lo sguardo che hanno sulle cose del mondo, ad ascoltare le notizie con orecchio. Provino a prendere posizioni nette e a difenderle, nonostante oggi ci siano rigurgiti di razzismo sempre più evidenti. È interessante parimenti che, uscendo da questo lavoro, ci si senta meno soli. Lo spettatore trova altri che la pensano come lui, che non vogliono sottostare alle regole di una politica che marcia sul corpo di esseri umani per far passare altri messaggi. Invece i corpi in mare si soccorrono, stop. Sembra ancora di avvertire la voce di Antigone che discute con Creonte... Il lavoro non aggiunge nulla, ma anzi ritorna con forza e con orgoglio all’origine del teatro: discutere dell’assoluto contemporaneo. Non

bisogna aver paura di quei nomi e di quelle lingue. Pensiamo a Mimmo Lucano: è stata spesso evocata Antigone. A Riace non ci sono mai stato, ma per quel che ho studiato, letto, per la mia esperienza, ho capito che la legalità sbandierata è da sempre strumento del potere e mai della giustizia. La politica deve risolvere i problemi con gli strumenti e i termini della politica, mai sul corpo degli esseri umani. Legandomi a questo ultimo aspetto, agli studi, alle letture: cosa stimola la fantasia? Come nasce una storia? C’è stata una sorta di rivoluzione. In questi ultimi anni ho letto molto meno rispetto al passato. Non sono un lettore straordinario, non lo sono mai stato – certo, in confronto alla triste media italiana ed europea mi difendo – ma cerco di leggere, di mangiare bene, di stare bene fisicamente anche per tenere il ritmo dello spettacolo. Però, la rivoluzione è che cerco sempre più di mettermi in una condizione di ascolto, che forse prima non avevo. E il cinema? Guardo molto le serie TV, meno il cinema. Sono frenato da un fatto: odio il doppiaggio. Quindi ho difficoltà a vedere snaturati la voce e il corpo dell’attore. Vado a vedere film in lingua originale o film italiani. Ci sono registi italiani che considero maestri assoluti. Un esempio? Matteo Garrone, senza dubbio. Cosa può fare l’autore, lo scrittore in questa società? Ascoltare. Lo raccomando a tutti. E non sentirsi in dovere di dare giudizi su cose che non si conoscono. Basterebbe questo.

Nella partitura musicale, scritta e eseguita in scena da Giulio Barocchieri, risuonano i canti popolari dei pescatori e le preghiere per i morti in mare.

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- Attori -

creative producer TOMMASO AGNESE fotografa BRUNELLA IORIO testi raccolti da MONICA VAGNUCCI

FEATURING stylist ALLEGRA PALLONIÂ assistente fotografa ALICE CICCOLA hair GIADA UDOVISI@HARUMI makeup ELEONORA DEFELICIS@HARUMI total look uomini DAVID NAMAN special thanks DISTRETTOQUATTRO

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SPAZI GRANDI E VUOTI, PRONTI PER CONTENERE TUTTA LA VOLONTÀ, L’AMBIZIONE E LA CONCRETEZZA DEI SEI GIOVANI ATTORI CHE ANIMANO IL DOSSIER DI FABRIQUE, IN ATTESA DI FARSI APPREZZARE AL MEGLIO SUL PICCOLO E GRANDE SCHERMO. Thanks: Federica Lanari (abiti donne)

I giovani attori che ci hanno raccontato le loro esperienze sui set hanno un obiettivo preciso: diventare i protagonisti della scena.

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Studi Attualmente studio Lettere Moderne a La Sapienza, dopo cinque anni di liceo classico superati più che discretamente. I miei studi “artistici” sono stati gli insegnamenti di Mario Scaletta, Massimiliano Giovanetti e soprattutto di Enrico Brignano.

20 anni

Mi avete visto esordire a cinque anni su RAI 1 con la fiction Medicina generale, quindi ho preso parte a Fratelli detective su Canale 5. Ho partecipato anche alle serie I Cesaroni, RIS, Distretto di polizia, Ho sposato uno sbirro. Per quanto riguarda i film, ho recitato in Questione di cuore, Febbre da fieno, Al posto tuo, Non c’è campo. Mi vedrete nel film Moschettieri del re per la regia di

Giovanni Veronesi, in uscita il 27 dicembre. Sui progetti futuri, ci stiamo lavorando. Racconta un episodio significativo legato alla tua esperienza del set Sul set dei Moschettieri del re mi sono trovato a fianco di Attori con la A maiuscola quali Favino, Mastandrea, Papaleo e Rubini. Da loro ho imparato molto, soprattutto come si debba stare su un set. Sono dei veri signori, sia davanti che dietro la telecamera. «Se non hai il rispetto reciproco di chi lavora con te tutti i giorni, tornerai a casa stanco e affaticato. Se lo ottieni, andrai a casa ugualmente stanco, ma con la voglia, l’indomani, di tornare». Queste sono le parole di Favino.

MARCO TODISCO «I MIEI STUDI “ARTISTICI” SONO STATI GLI INSEGNAMENTI DI MARIO SCALETTA, MASSIMILIANO GIOVANETTI ED ENRICO BRIGNANO».

Studi All’età di circa sedici anni ho preso parte con successo al provino di Non dirlo al mio capo e, finite le riprese, durante gli ultimi anni del liceo, mi sono iscritta a una scuola di cinema dove ho approfondito i miei studi di dizione e recitazione. Mi avete visto in Non dirlo al mio capo in cui ho indossato i panni di Mia Marcelli, la figlia adolescente e un po’ ribelle di Lisa, interpretata da Vanessa Incontrada. Nella fiction Che Dio ci aiuti 4, ero Agata, una ragazza con problemi cardiaci e in fin di vita. Sono molto legata a entrambi questi personaggi perché mi hanno insegnato molto, sia a livello tecnico che umano.

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Racconta un episodio significativo legato alla tua esperienza del set Dal set porto tanti bei ricordi, in particolare uno riguardante i miei primi giorni di lavoro. Credevo di non essere all’altezza, mi sentivo come un pesce fuor d’acqua a lavorare con attori di un certo calibro, e Vanessa, con cui ho avuto da subito un bel feeling e che è in grado di capire i miei pensieri soltanto guardandomi negli occhi, un giorno mi ha fatto trovare in camerino una collana a forma di cuore con su scritto “You can do it”. Da quel giorno, la porto a ogni provino per ricordare a me stessa che c’è qualcuno che crede in me ed è giusto che io faccia lo stesso.

19 anni


«YOU CAN DO IT».

LUDOVICA COSCIONE 51


MARIA VERA RATTI «È COME SE AVESSI APERTO UN TAPPO, E DA LÌ È INIZIATA LA MAGIA».

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Studi A Napoli, facendo vari corsi di cinema. A 22 anni decido di trasferirmi a Roma, dove mi mi diplomo presso un’accademia di arti drammatiche, ma che non citerò perché non la consiglio. Dopodiché ho frequentato vari corsi e seminari di recitazione con Michael Margotta, Francesca Viscardi, Edoardo De Angelis, Massimiliano Bruno, Danilo Nigrelli e altri. Un seminario che mi ha insegnato tanto è stato quello di commedia dell’arte... io amo le maschere!

31 anni

Mi avete visto a teatro, in cui ho lavorato tanto e con vari registi. Adoro il palco, piedi scalzi e pelle d’oca. Nel 2016, dopo varie esperienze indipendenti e non nell’audiovisivo, vesto i panni di Ronni in Gomorra 3 ‒ La serie, esperienza molto bella e forte, su un set internazionale, tra Bulgaria e Napoli, diretto da Claudio Cupellini e Francesca Comencini.

Mi vedrete in Gomorra, quarta stagione, dove sono diretto da cinque registi diversi, tra cui Marco D’Amore al suo esordio in questo ruolo. Ho avuto la fortuna di lavorare nel film The Pope in una scena con Jonathan Price che interpreta Papa Bergoglio. Mi vedrete anche nella nuova serie Devil, in uscita su Sky, in cui sono un ragazzo argentino (ma non posso svelare altro). Racconta un episodio significativo legato alla tua esperienza del set Di ricordi ne ho veramente tanti, ma quello che mi fa sorridere di più è stato quando sul set di Gomorra ero in posizione sul mio scooter in attesa dell’azione e mi ha fermato una macchina dell’antidroga convinta che stessi lì per qualche malaffare, mentre sentivo: «Azione, Ronni, Azione!». Regista e costumista sono rimaste entusiaste per la credibilità del mio personaggio!

ROBERTO OLIVERI «ADORO IL PALCO, PIEDI SCALZI E PELLE D’OCA».

Studi Ho studiato Scienze Politiche e Studi Russi e dell’Asia Centrale a Leiden, in Olanda. All’università mi ero unita a un gruppo di teatro e, dopo la laurea, per la gioia dei miei genitori, ho capito che volevo solo fare l’attrice. Vivevo a Berlino, ho preso il primo volo Ryanair che potevo permettermi, ho fatto il provino per il Centro Sperimentale e mi hanno preso. Adesso sono al secondo anno ed è forse l’unica scelta veramente sensata che abbia mai fatto in vita mia.

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Mi vedrete nella seconda stagione di Rosy Abate, ed è il mio primo lavoro!

Racconta un episodio significativo legato alla tua esperienza del set Appena iniziate le riprese, dovevo fare una scena che mi stava molto a cuore. In preparazione avevo lavorato sulla dinamica, fissandomi degli appuntamenti emotivi come salvagente; erano i miei primi giorni sul set e, come si dice a Napoli, stavo tutta “imballata”, troppo per aprirmi alla scena come volevo. Lo avvertivo e, una volta battuto il ciak, ho smesso di pensare e ho capito: mi sono buttata e ho imparato una concentrazione diversa. Mi sono fidata del lavoro che avevo fatto, tanto da lasciarlo andare per guadagnare quella libertà, quell’ascolto e quella sintonia che fanno fermare il mondo mentre reciti. È come se avessi aperto un tappo, e da lì è iniziata la magia.

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Studi Ho studiato alla Civica Scuola d’Arte Drammatica Paolo Grassi di Milano e ho approfondito la mia recitazione in Inglese con alcuni insegnanti della Guildhall School of Music and Drama. Mi avete visto come prima esperienza su un set importante, nella serie TV Romanzo famigliare con la regia di Francesca Archibugi.

24 anni

Mi vedrete nel 2019 nel cortometraggio in concorso ai David di Donatello Dorothy con la regia di Federico Lagna, scritto da Federico Lagna e Marco Ponti. Nel 2019 uscirà, inoltre, Panoptes, opera prima indipendente del regista Marcello Mosca, di cui sono protagonista.

Racconta un episodio significativo legato alla tua esperienza del set L’esperienza di set più incredibile per me è stata sicuramente quella di Romanzo famigliare. Lavorare con Francesca Archibugi è stato bellissimo. Ricordo che, quando mi guardava, con quel suo cerchietto e la sigaretta elettronica, sentivo come se mi vedesse dentro! Interpretavo un’allieva della Marina Militare e per un mese io e gli altri attori abbiamo fatto addestramento quasi tutti i giorni con i militari veri. È stato utile dal punto di vista umano e artistico. E inoltre, su quel set, grazie a Guido Caprino, ho imparato l’importanza dell’ascolto. Guido era sempre concentratissimo, trasformava ogni tua azione in qualcosa di utile per la scena.

VALERIA BONO «LAVORARE CON FRANCESCA ARCHIBUGI È STATO BELLISSIMO».

Studi Non ho mai avuto l’occasione di studiare in una scuola a tempo pieno. Avendo iniziato a fare questo lavoro all’età di 14 anni, non ne avevo né il modo né l’età. Poi, quando finito il liceo e si è presentata la possibilità di studiare in una scuola, ho scelto di privilegiare il percorso lavorativo che avevo già avviato. Mi sono comunque sempre sforzato di ampliare i miei orizzonti in materia di recitazione: le estati dei miei anni di liceo sono state costellate da continui viaggi in Inghilterra, dove ho frequentato scuole anche importanti, come Central School of Speech and Drama. Nelle mie continue peregrinazioni, sono anche capitato a Los Angeles, dove ho studiato tecnica Meisner. A oggi, studio Letteratura Inglese all’università e continuo a portare avanti le mie esplorazioni nella

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recitazione. Sono sempre stato un tipo curioso, mai attaccato a un singolo modo di lavorare. Mi avete visto dopo qualche piccola esperienza a teatro quando ero ancora bambino, in Io e te di Bernardo Bertolucci. Successivamente ho lavorato ne I nostri ragazzi di Ivano de Matteo, Zeta di Cosimo Alemà, La ragazza nella nebbia di Donato Carrisi e Una questione privata dei fratelli Taviani. Negli anni mi è anche capitato di lavorare su alcuni set internazionali: nello specifico, in Maria Maddalena e nella serie The Alienist, I Medici. Mi vedrete in Medici 3, che uscirà nel 2019.

21 anni


«CONTINUO A PORTARE AVANTI LE MIE ESPLORAZIONI NELLA RECITAZIONE».

JACOPO OLMO ANTINORI Racconta un episodio significativo legato alla tua esperienza del set Ricordo il mio ultimo giorno sul set di Io e te come uno dei più belli della mia vita. Dopo cinquanta giorni di lavorazione, la maggior parte dei quali spesi in interni, giravamo una sequenza in tram. All’inizio della giornata abbiamo fatto una foto di gruppo con tutta la troupe, che ormai per me era diventata a tutti gli effetti una seconda famiglia. Quando abbiamo chiuso l’ultimo ciak, ho sentito la profondità del legame che avevo stabilito con quelle persone. Ho pianto per un po’ di giorni di seguito. Non scorderò mai quella troupe, e conserverò sempre una profonda gratitudine per ognuno di loro.

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Mentre lo scontro mediatico tra Netflix e le associazioni degli esercenti di cinema si fa sempre più radicale, Fabrique ha sentito una voce fuori dal coro, quella di Nicola Curtoni, che con Emilia Desantis ha scritto Alla ricerca della sala - Il Giro (d’Italia) dei Cinema.

LA SALA È MORTA, VIVA LA SALA

di MARTA ZOE PORETTI 56

Sul blog www.girodeicinema.it si trova una miriade di fotografie e di storie per oltre 50 sale cinematografiche, distribuite su tutto il territorio nazionale. Il libro invece è edito da Il Mosaico.


«NON CI INTERESSA DA DOVE VIENI, CI INTERESSA DOVE STAI ANDANDO». Nicola, come nasce il progetto del Giro (d’Italia) dei Cinema? Lo avevo in testa da tre anni. Ho lavorato prima come volontario, poi come servizio civile in una sala francese. Per un altro anno sono stato responsabile di programmazione in un multisala indipendente francese, il Ciné Manivel di Redon. Così ho conosciuto il progetto del Tour de Cinema: un giro di Francia tra le sale indipendenti. Mi son detto: quando tornerò in Italia voglio ripartire da un progetto così. Andare a incontrare gli esercenti che fanno un lavoro originale in tutta Italia, dal privato alla gestione parrocchiale, dalla fondazione alla cooperativa, e raccogliere le “buone pratiche”, un lavoro che non è mai stato fatto in Italia. Ho conosciuto Emilia quando era studentessa allo IULM a Milano. Dopo un’esperienza di lavoro in UCI, anche lei era motivata a fare questo giro di 50 giorni, del tutto autofinanziato, che tra settembre e ottobre 2017 ci ha portato in 38 città e in 17 regioni diverse, visitando 48 cinema. Un itinerario di 5400 chilometri. Tra i 48 cinema del libro, c’è una storia che vi ha colpito in modo particolare? Abbiamo visitato veramente tantissime realtà diverse. Una storia molto bella che merita di essere raccontata è quella del Postmodernissimo di Perugia. Questi giovani si sono intestarditi a voler riaprire una sala dove gli esercenti “tradizionali” avrebbero sostanzialmente fallito. Riaprono con una missione sociale e culturale forte, legata al territorio, in un centro storico difficile. Ed è un successo. Dopo quattro anni il mutuo è stato ripagato, il cinema funziona benissimo dal punto di vista economico, sociale e culturale. Tra l’altro quest’anno a Venezia 75 hanno vinto il Premio Lizzani come gli esercenti più innovativi. Nel vostro libro si parla di molte nuove sale legate all’iniziativa di giovani realtà imprenditoriali. Secondo i dati SIAE i biglietti venduti nello Stivale sono stabili da un quarto di secolo (90 mln nel 1989, 92 mln nel 2017). Il Cinetel ci parla di un saldo positivo di +119 monosale dal 2013 al 2017. Questa rappresentazione mediatica “la sala sta morendo” non riesco a capire da dove salti fuori. Uno dei problemi che noi abbiamo toccato con mano in questo Giro è che molte realtà di esercizio piccolo non riescono a professionalizzarsi. La bellezza del Post Mod è che alla base ci sono dei dipendenti, che fanno affidamento su una comunità che li aiuta, fatta anche di volontari. Se noi non diamo lavoro ai giovani nell’ambito della cultura, avremo ancora di più quella “fuga di cervelli” che vedo verso la Francia. Parliamo di volontariato culturale, ma in Italia queste sperimentazioni sono più difficili: sono rari i cinema dove esistono entrambe le parti, dipendenti e volontari. In base alla tua esperienza quali sono le differenze tra Italia e Francia nella gestione della sala? In Francia i politici, anche a livello locale, riconoscono il valore della sala come luogo di socializzazione e luogo culturale. Nei piccoli centri abitati significa sostenere una visione collettiva che implica uscire di casa, stare insieme. Poi ci sono più abbonati, più agevolazioni fiscali, ma il problema in Italia non è Netflix, è

un sistema molto fragile. Uno dei nostri problemi è l’essere molto nostalgici. Io ed Emilia siamo più interessati a quello che sta accadendo: sono tantissime le sale che riaprono con dei format innovativi, diversi, partiamo da lì per creare una condivisione di idee. Tra le nuove monosala in Italia che avete visitato, puoi raccontarci dei casi esemplari di “buona pratica”? Il dato del Cinema Beltrade è impressionante. Una sala parrocchiale che faceva seconde visioni con una resa economica molto bassa. Il giorno che l’abbiamo visitato questo cinema faceva 37.000 biglietti, con +45% di presenze rispetto all’anno precedente. Perché sono cresciuti così tanto? Perché si sono inventati un format che a Milano nessuno faceva, con aperitivi e incontri. Mi ha colpito anche l’iniziativa Abbonamento 14 a Torino. Esercenti diversi si sono messi in rete, in centro cittadino, creando una formula vantaggiosa per lo spettatore. È il modo che gli indipendenti (più o meno giovani) hanno trovato per farsi forza contro i grandi gruppi. Di idee innovative nella parte finale del libro ce ne sono una sessantina. C’è anche la bella scommessa del Cinema Edison di Parma che fa film di qualità fuori dal centro storico, in un quartiere popolare, che di norma non è quello più sensibile al cinema d’essai. Eppure è riuscito a trovare un suo pubblico, grazie soprattutto all’energia dello staff. A Fossano, nel Biellese, dei giovani dipendenti di un cinema hanno voluto creare un’associazione che organizza proiezioni gratuite in luoghi insoliti e hanno avuto più sostegno dai privati che dalle amministrazioni locali. Spesso si fa affidamento solo sul pubblico, ma anche nel privato ci sono molte persone interessate al cinema, cinefili e non. Riprendiamo una delle domande al centro del libro: come si resiste? Come si resiste e come si agisce. Quando incontravamo gli esercenti io ed Emilia tendevamo a dire: non ci interessa da dove vieni, ci interessa dove stai andando. A noi pare che siano quattro i temi più importanti. Il primo riguarda il rapporto col pubblico. Bisogna prima creare il bisogno di cinema, non solo di audiovisivo, ma di sala cinematografica. Il secondo è l’architettura: è necessario abbandonare l’idea di cinema come non-luogo, per farlo diventare un luogo a tutti gli effetti, con bar, libreria, spazi per bimbi, eventi che non siano prettamente cinematografici, sfruttando lo spazio della hall prima ancora del palco. Terzo: i cinema oggi hanno bisogno di persone poliedriche, che abbiano competenze tecniche e di comunicazione. La pubblicità ad esempio serve a valorizzare l’immagine del tuo cinema. Quarto: essere inclusivi, il legame con gli altri cinema, gli altri attori del territorio è fondamentale. Il nostro Giro è finito, ma la panoramica è lungi dall’essere esaustiva. Siamo interessati a conoscere altre sale. Emilia attualmente sta finendo la tesi. Io sono “animatore” in una monosala a Tirano (Sondrio). Il mio ruolo spazia dai bandi alla animazioni per le scuole, dalla scelta dei film alle gestione logistica della sala. Il film da solo non basta per animare la sala. Non si può più aspettare che il film lavori per noi. Bisogna rimboccarsi

le maniche.

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- Videoclip -

©Matteo Casilli

La Scelta partecipa a Sanremo Giovani nel 2008, classificandosi al secondo posto con il brano Il nostro tempo e vincendo il premio AFI (Associazione dei Fonografici Italiani).

ARGILLA

TRASFORMAZIONI Mirko Frezza ha esordito sul grande schermo ne Il più lungo giorno proprio accanto a Milena Mancini, apparsa di recente in uno dei ruoli principali de La terra dell’abbastanza dei fratelli Damiano e Fabio D’Innocenzo.

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«ABBIAMO LAVORATO CON UNA FORTE SINERGIA, MIXANDO TECNICA E CREATIVITÀ». Quando l’amore finisce, e con esso le parole, subentrano dolore, rabbia e silenzi; la vita ricomincia da zero, si percorrono nuove strade e le cose assumono forme inconsuete, rinnovati contorni, proprio come l’argilla. di FRANCESCO STAMPATI

L

a metafora che associa la mutevolezza e malleabilità dell’argilla alla vita dopo una rottura e/o una separazione è il perno tematico del brano omonimo e del corrispettivo videoclip. La canzone fa parte del disco Colore alieno, secondo album della band romana La Scelta, composta da Mattia Del Forno (voce, piano, synth), Francesco Caprara (batteria percussioni), Emiliano Mangia (chitarre), Marco Pistone (basso). Il video diretto da Matteo Casilli e Giorgio Varano (uniti nel collettivo MassimoRispetto) vede la partecipazione degli attori Mirko Frezza e Milena Mancini, già partner nel film Il più grande sogno di Michele Vannucci (2016).

Fabrique ha unito registi, cantante e attore in un’inedita intervista a tre.

Come è avvenuto il vostro incontro? Mattia Ho conosciuto prima Matteo, abbiamo delle frequentazioni in comune e mi ha coinvolto nel suo progetto fotografico e musicale [Musician, ndr]. Ci siamo incontrati, gli ho parlato della canzone e del fatto che volessi realizzare un video semplice e lui poi, in un secondo momento, ha contattato Giorgio. Siamo quindi andati da Mirko per proporgli di partecipare al videoclip. Pur provenendo dallo stesso quartiere, non ci conoscevamo di persona ed è stato amore a prima vista. Non ha voluto sapere niente, solo quando e dove. MassimoRispetto Come collettivo abbiamo unito le capacità nel videomaking alla passione e all’interesse per la musica, e questo ci ha portato ad avere molti contatti con i musicisti. L’incontro con Mattia e il resto della band è avvenuto un pomeriggio a casa di Matteo ed è lì che si sono svolte le riprese. Tutto è accaduto velocemente, è nata una bella amicizia e ognuno ha dato il massimo. Mirko I ragazzi de La Scelta sono della mia zona: La Rustica. Non conoscevo loro come artisti, ma nel quartiere ci siamo incrociati qualche volta. Appena mi hanno proposto di lavorare con loro, non ci ho pensato su due volte. Per la controparte femminile ho fatto il nome di Milena Mancini, con la quale avevo già recitato, ed è stato quindi tutto più facile perché ci conosciamo bene. Quali erano le esigenze della band? Mattia Mentre progettavamo il video del singolo con Matteo e Giorgio, gli ho spiegato che non ci interessava tanto la struttura narrativa quanto l’idea che descrive il significato della canzone: una quotidiana storia d’amore di coppia in cui i momenti di sole si alternano con quelli di tempesta, e quindi ogni volta il ritrovarsi,

riprendere in mano la vita e modellarla come argilla. MassimoRispetto Le esigenze della band erano quelle di valorizzare al massimo le emozioni che la canzone suscita. In un primo momento abbiamo ascoltato più volte il brano con il gruppo, successivamente con gli attori. Abbiamo avuto carta bianca sulla realizzazione tecnica del video, ci siamo limitati a giocare con i sentimenti-chiave del pezzo. Parlateci della vera e propria fase realizzativa del video, quale il concept stilistico? MassimoRispetto Abbiamo lavorato con una forte sinergia complementare, mixando tecnica e creatività. Volevamo un video pulito dove i protagonisti dovevano essere gli attori e l’emotività, per questo motivo abbiamo optato per uno sfondo neutro, spoglio, e l’inquadratura fissa con ampio utilizzo del piano americano. Sul momento abbiamo registrato dei ciak con i due attori insieme e poi siamo passati a quelli singoli, cinque o sei ciak in totale. In postproduzione abbiamo inserito le sovrapposizioni degli sguardi in camera, raddoppiandoli nella stessa inquadratura e seguendo il crescendo della musica. Piccolo focus sulla recitazione. Mattia L’incredibile espressività degli attori ha contribuito a rendere la recitazione ancora più naturale. Mentre loro giravano, noi eravamo sul set in un angolino, per cui siamo stati coinvolti emotivamente. La sequenza in cui Milena si abbandona al pianto è stata forte, siamo rimasti davvero colpiti e ci siamo commossi. Con Mirko poi è nata una grande sinergia, abbiamo contribuito alle colonne sonore di alcuni cortometraggi in cui recita e stiamo lavorando a un nuovo progetto insieme. MassimoRispetto Mirko e Milena sono talmente bravi e in sintonia tra di loro di fronte alla cinepresa che ci hanno reso il lavoro molto più facile. Sono stati molto disponibili e partecipativi sia per quanto riguarda l’ascolto delle nostre indicazioni, sia nel proporre idee e spunti. Mirko Il brano parlava da solo, i registi ci hanno chiesto cose essenziali e mirate, poi abbiamo seguito l’emotività della melodia e del testo. La cosa facile è stata che ho lavorato con Milena quasi come se fosse mia moglie, anzi, potremmo definirla come la mia moglie “virtuale’’. Dopo aver condiviso il set per più di quattro mesi durante le riprese de Il più grande sogno ormai abbiamo sviluppato una notevole alchimia, ci capiamo con uno sguardo.

Ringraziamo per la collaborazione FRANCESCA PIGGIANELLI e ROMA VIDEOCLIP 59


- Webserie -

SUBITO DOPO IL TRAMONTO, UN ATTIMO PRIMA DELL’ALBA

GLI ANGELI ABITANO NELLA RETE Il web è in trasformazione alla ricerca di forme nuove in grado di ibridare internet, cinema e TV: e forse solo una commistione di linguaggi può raccontare l’apocalisse di valori e sentimenti nei nostri giorni. O la loro resurrezione? di CHIARA CARNÀ

U

na webserie gratuita di tre episodi che si trasforma e si ricompone in un mediometraggio grazie a un contenuto aggiuntivo acquistabile separatamente in streaming, secondo il modello freemium tipico delle app. Già questa descrizione ci dice che con Subito dopo il tramonto (SDT), finalista all’ultima edizione del Roma Web Fest, siamo di fronte al tentativo di realizzare qualcosa di nuovo nel mondo della serialità web, unendo l’aspetto creativo a quello della sostenibilità economica: un annoso problema, com’è noto, per i web artist, che faticano a trovare un modo di monetizzare i loro prodotti, anche di successo, in rete.

Tre i temi al centro degli episodi, ognuno a se stante e autoconclusivo: amore, giustizia e tolleranza, messi in crisi nei tempi crudeli di inizio millennio. Altra novità è che ogni episodio della serie è realizzato con tecniche completamente differenti: fiction, mockumentary e graphic novel. Nella versione “film” i tre episodi si scompongono e ricompongono creando un prodotto nuovo con un finale unico dal linguaggio misto che propone un dubbio inquietante: che la crisi non sia la premessa alla fine del mondo? La cornice che unisce i tre episodi e dà vita al mediometraggio dà una risposta di wendersiana memoria, con angeli contemporanei che dovranno decidere se salvare o no un’umanità apparentemente irredimibile.

Lo sfondo di SDT è Milano, scenario urbano osservato dall’angelo Rafael, che dovrà decidere se gli uomini, pur così imperfetti, meritino di essere salvati.

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Il progetto è interamente accessibile al link http://latodue.com/ subitodopoiltramonto/ sul quale si possono consultare gli episodi e acquistare il film nella sua versione integrale.

«L’OBIETTIVO È CREARE QUALCOSA CHE STIA A METÀ FRA LA FICTION E IL SOFTWARE». A dar vita a SDT un gruppo di professionisti dalla forte vocazione digitale e al mix dei linguaggi, a partire dall’art direction curata da Flavio Rosati (illustrazioni), Marco De Luca (Animazioni & VFX) e Simone Birolini (Motion Design), professionisti dell’advertising digitale, fino alla colonna sonora ideata e performata da Eugenio Grima, ingegnere elettronico ancora prima che musicista. Nel cast Lorenzo Bugliesi, Manuela Parodi, Riccardo Vianello, Selene Gandini e Walter Leonardi.

«L’intenzione del progetto è quella di creare qualcosa di “completamente web” nel mondo dell’entertainment indipendente della rete. I prodotti seriali o i film che oggi vediamo sul web, alcuni dei quali assolutamente superbi, rappresentano in molti casi la distribuzione web di prodotti che potrebbero andare anche in TV o al cinema. Ed è per questo che spesso sono difficilmente monetizzabili, a meno che non riescano a generare un traffico tale da guadagnare dalle inserzioni su piattaforme come YouTube oppure non riescano a essere notati da editori tradizionali e quindi a entrare nel mercato editoriale classico. L’idea di SDT è quella di proporre un nuovo formato “freemium” e guadagnare dall’interesse generato dagli episodi verso il prodotto premium. Un interesse da generare nelle nicchie. Ecco perché la scelta del linguaggio di genere (noir/ thriller/fantasy) e del trattamento differente degli episodi (fiction, mockumentary e graphic novel) più facilmente innestabili sugli

interessi di community specifiche» spiega Eugenio Antonio Marrari, autore e regista del progetto in collaborazione con Andrea Marchi, filmmaker e direttore della fotografia. «L’asset di SDT è proprio l’ibridazione tra prassi di progettazione di prodotti e servizi con il metodo del service design con quelli classici della produzione di contenuto» continua Marrari «al fine di costruire un prodotto non solo basato sulla tua sensibilità autoriale ma anche su strumenti che si occupano del target, o meglio delle comunità, a cui è rivolto. L’obiettivo – ambizioso, lo riconosco – è creare qualcosa che stia a metà fra la fiction e il software quasi, che va a mescolare questi mondi che sembrano lontani ma, in tempi in cui all’ordine del giorno ci sono big data e tecnologie in costante espansione, stanno diventando uno dipendente dall’altro.. Questo approccio potrebbe servire per inventare, ad esempio, nuovi metodi di distribuzione, come abbiamo fatto noi».

Ogni episodio della webserie è realizzato con tecniche diverse: fiction per la storia d’amore, graphic novel per quella crime, mockumentary per quella d’azione.

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- Serialità -

Uno dei segreti delle grandi storie che amiamo sullo schermo è rappresentato dall’EVOLUZIONE DEI PERSONAGGI: ci identifichiamo con gli eroi che lottano e cambiano, proprio come facciamo noi nella vita. In sceneggiatura, esiste una vera e propria TEORIA su questo cambiamento: GIACOMOdi TAGGI l’Arco di Trasformazione. Di che si tratta?

L’ARCO DI TRASFORMAZIONE DEL PERSONAGGIO FRA CINEMA E SERIE TV Al Pacino ne Il padrino rende in modo straordinario il suo Arco di Trasformazione da reduce decorato con tutti gli onori a boss spietato.

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L’

Arco è la rappresentazione grafica e strutturale dell’evoluzione spirituale e psicologica del protagonista nel corso della storia. Esso corrisponde alle sfide che gli pongono il diventare adulto e gli avvenimenti a cui va incontro nella sua vicenda: l’essenza del conflitto interiore che la narrazione coglie sta tutta nel momento in cui il personaggio deve scegliere fra rimanere fermo in un passato rassicurante ma fatale (fatal flaw) o muoversi verso il cambiamento e il rinnovamento. Proprio come accade nell’esistenza reale. E la domanda è una sola e sempre la stessa: stiamo andando incontro alla vita (cioè alla crescita, allo sviluppo di sé), o alla morte (la stasi)? A seconda di come un personaggio, attraverso le sue azioni, risponde a questa domanda, si delineano due possibilità. Da un lato abbiamo il personaggio eroico, dall’altro quello tragico. I termini eroico e tragico sono qui usati non come tratti descrittivi, ma in relazione all’obiettivo dello sviluppo interno del personaggio. Con eroe non si intende solo chi compie grandi imprese, ma chiunque riesca a riscattare il proprio valore e trasformarsi in una versione migliore di sé: in questo senso Forrest Gump è un eroe tanto quanto William Wallace. Il personaggio tragico è il suo opposto: colui che non riesce a riscattarsi e fallisce, rimanendo chiuso entro i suoi limiti e non riuscendo ad abbracciare il cambiamento. Potenzialmente ognuno di noi può essere entrambi. La direzione dell’Arco di Trasformazione tende sempre verso l’eroico: ma chi non riesce, viene tragicamente distrutto. Non esistono vie di mezzo. L’Arco di Trasformazione ha rappresentato uno degli strumenti più potenti per creare le grandi storie del cinema. Con l’avvento della nuova serialità televisiva, che ne è stato? Quali trasformazioni ha a sua volta subito? Nei film, l’Arco assomiglia piuttosto a un percorso lineare, da un punto A a un punto B. Nel mondo delle serie la sua forma è diversa, più somigliante a cerchi concentrici che si dispiegano attorno a un cuore di tenebra: la psiche nascosta del protagonista. Ogni episodio di una serie – proprio come i capitoli di un libro – rivela un aspetto particolare del carattere del protagonista, in un processo virtualmente senza fine. Per comprendere meglio questa differenza, vale la pena prendere in considerazione due casi specifici: Michael Corleone e Jackson Teller, protagonisti rispettivamente de Il padrino e della serie Sons of Anarchy. Sono due personaggi tragici nel senso sopra descritto e hanno tante cose in comune. L’ombra dei loro padri, ad esempio, che apparentemente rifiutano, ma da cui non riescono a staccarsi. Il fatto che siano entrambi dei criminali e fuorilegge, ma sognano di guidare le loro famiglie verso

la legalità. Che a condannarli siano in primo luogo i loro sentimenti, l’amore che li lega alla loro famiglia. Entrambi diventano ciò che avevano giurato di non diventare mai. Realizzando un destino che non desideravano, ma a cui non hanno saputo opporsi. Prendendo in esame l’evoluzione di questi due personaggi, possiamo iniziare a intravedere le novità che la narrazione delle serie TV porta nell’Arco di Trasformazione classico. Rispetto a Michael, l’evoluzione di Jackson è molto più lenta e travagliata: sicuramente più realistica sotto questo aspetto, più umana. Il suo dilemma interiore è evidente, lo rende un personaggio tridimensionale, dalla profondità psicologica più marcata, simile a quella che si incontra nei grandi romanzi di Dostoevskij. Ma al netto di qualche difformità, l’Arco di Trasformazione è ancora valido nei suoi punti principali. È meno facile riconoscerne la struttura a causa della lunghezza degli episodi, ma essa è ancora presente e costituisce l’impalcatura principale della narrazione.

Quali sono le principali differenze? 1. L’Arco è più complesso: la lenta esplorazione permette di scendere maggiormente in profondità nell’animo del personaggio, che appare più simile a una persona reale con le sue contraddizioni che a un modello ideale. 2. Il sistema dei personaggi: anche nei film esistono i subplot per i personaggi secondari; ma lo spazio di una serie consente maggiori variazioni sul tema. Ad esempio, se ne Il padrino non ci sono veri e propri personaggi che hanno una evoluzione che fa da contraltare a quella di Michael, anche in positivo, in SOA Wendy alla fine è un contraltare di Jax, che da tossica diventa una buona madre. 3. La forma: la narrazione seriale conferisce una libertà assoluta che modifica la struttura dell’Arco, che può diventare una spirale, o persino un cerchio completo. Il film per funzionare non può fare che solo metà del giro, una trasformazione netta. Si può costruire un cerchio con i sequel, e ne Il padrino è effettivamente così – Michael prova a portare la famiglia verso la legalità – ma questo è già l’inizio della serialità. Articolo tratto da un intervento discusso in occasione dell’11esimo SRN (Screenwriting Research Network) Conference, Settembre 2018, Milano. Da consultare per approfondire: Dara Marks, L’Arco di Trasformazione del personaggio, Roma, Dino Audino, 2007.

Il modello di Dara Marks fonde gli studi di Chris Vogler (Il viaggio dell’eroe), Linda Seger (Come scrivere una grande sceneggiatura) e Robert Mckee (Story).

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- VFX -

RIDE

TRA KUBRICK E GO-PRO La storia è quella di Max e Kyle, due riders acrobatici che accettano di partecipare a una gara di downhill che si rivelerà essere una corsa per la sopravvivenza.

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www.effettidigitali.it


EDI è intervenuta su circa settecento inquadrature, realizzando una città interamente al computer.

Dalla ILM passando per la Weta Digital. Le società di effetti visivi digitali sono ormai un must per il cinema anglosassone, e il pubblico nostrano ancora arranca quando si tratta di associare questo tipo di cesellamento filmico all’Italia. di EDOARDO FERRARESE

N

oi intanto abbiamo fatto una chiacchierata con Pasquale Croce, socio cofondatore di EDI Effetti Digitali Italiani, a proposito del loro lavoro nella postproduzione di Ride, thriller diretto da Jacopo Rondinelli, scritto e supervisionato artisticamente dai Fabio Guaglione e Fabio Resinaro di Mine. Come è avvenuto il primo contatto tra voi e gli autori di Ride? Inizialmente con i due Fabio, che ormai tenevamo d’occhio dopo il loro esordio con Mine. Però è stato un primo passo un po’ fuori dagli schemi, perché noi solitamente entriamo nei progetti con un’idea ben precisa di quello che andremo a fare, dall’inizio alla fine. E in questo caso no? No, perché gli autori ci hanno spiegato che avevano girato il film usando praticamente solo GoPro, con un’infinità di punti macchina e senza sapere ancora, di preciso, come il film sarebbe stato montato. Non solo, avevano bisogno anche di effetti digitali sui totem neri, che però sono parte fondamentale della storia.

Certo, i creativi del gruppo erano entusiasti mentre i pragmatici decisamente meno, ma ci sembrava giusto metterci alla prova, e una corsa del genere non potevamo farcela sfuggire. Poi abbiamo comunque avuto il contributo giornaliero di Rondinelli e Guaglione, che con sceneggiatura alla mano ci hanno aiutato nell’inserimento, a livello di intreccio, delle grafiche da aggiungere ai totem. Si vedeva quanto tenessero al loro film. Parliamo invece delle GoPro, supporto principale su cui Ride è stato girato. Qual è la difficoltà nell’aggiungere gli effetti su questo tipo di macchine da presa commerciali? Il discorso è tecnico. Cerco di semplificarlo un minimo: anche se, in generale, i sensori digitali hanno una maggiore risoluzione sul canale del verde e minore su quello del blu e del rosso, con le macchine da presa professionali è possibile avere un’ottima qualità di scontornamento sia con il green-screen che con il blue-screen. Nel nostro caso, invece, il sensore della GoPro, piccolo e non orientato al mercato professionale, non avendo sufficiente qualità sul canale del blu, ci ha obbligato a scegliere il green-screen. Ora ti faccio io una domanda: dove è stato girato, per la maggior parte, Ride?

Certo, perché gli attori interagiscono con questi parallelepipedi di kubrickiana memoria. Appunto, quindi noi avremmo dovuto creare una parte grafica su quello che a tutti gli effetti è quasi un personaggio del film, senza avere una precisa idea della porzione di informazioni da rivelare di volta in volta. Un vero rebus: ogni elemento era interdipendente.

In un bosco, ovviamente. Appunto, perciò green screen in mezzo alla vegetazione. Il delirio. Nel 60% dei casi si è dovuto intervenire facendo maschere a mano, avendo sempre una base di tentativo in automatico e poi una rifinitura manuale.

Quindi come siete riusciti a risolverlo? È stata una sfida per noi di EDI e l’abbiamo accettata con piacere.

Ma i problemi con le GoPro non finiscono qua. Ovviamente no. Le lenti grandangolari delle GoPro cambiano da

«È STATA UNA SFIDA PER NOI DI EDI E L’ABBIAMO ACCETTATA CON PIACERE».

Nel cast del film diretto da Jacopo Rondinelli Ludovic Hughes, Lorenzo Richelmy, Simone Labarga, Nathalie Rapti Gomez, Matt Rippy.

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Per la realizzazione del progetto, la società di post produzione ed effetti visivi ha impiegato sette CG artists, ventidue compositors e cinque motion graphics artists.

«LA LAVORAZIONE IN 3D È UNA DELLE NOSTRE GRANDI PASSIONI».

macchina a macchina. Di solito per le riprese di un film si usa un solo set di lenti per le inquadrature, invece in questo caso avevamo molte macchine con lo stesso tipo di lente, anche se ognuna inevitabilmente aveva una sua piccola differenza. Infatti basta una minima variazione nella manifattura dell’ottica, che in questo caso è in plastica, per avere una grossa differenza in termini di distorsione dell’immagine che si traduce in variazione nell’ordine di parecchi pixel. Quindi noi non potevamo nominare ogni ripresa sapendo precisamente da quale macchina veniva, anche se a un certo punto abbiamo iniziato a riconoscerle a occhio. Per ogni

scena dovevamo creare una mappa di deformazione in modo da ritrovare lo stesso tipo per compositare sopra la grafica. Non avevamo mai lavorato con le GoPro, ma anche per questo abbiamo intrapreso questo lavoro come una sfida personale. Voi avete anche ricreato una città completamente in 3D, è stato quello il compito più arduo? È stato un compito diverso, più vicino al nostro core business. La lavorazione in 3D è una delle nostre grandi passioni, perciò devo dire che l’elemento più complesso di Ride alla fine è stato adattarsi alle GoPro, proprio perché a livello organizzativo c’erano più variabili e più incognite.

Che programmi e strumenti avete usato per creare? Intanto ognuno di noi ha una tavoletta grafica, che utilizza sempre e comunque, anche per muoversi sull’interfaccia. Chi opera ha sempre una penna in mano. Per il dipartimento di compositing il programma principale è Nuke (di cui EDI è il più grosso parco licenze in Italia). La sua struttura a nodi ci permette di condividere tutto in ogni momento, ed è perfetto perché così puoi creare una sottostruttura che diventa di fatto come un vero e proprio plug-in senza bisogno di programmare tutte le volte. Così possiamo standardizzare: aumenta la qualità e si riducono i tempi. Ride aveva anche molta motion graphic su cui lavorare, perciò per quello ci affidiamo al pacchetto Adobe: After Effects, Photoshop e Premiere. Per il 3D invece utilizziamo Maya per la parte generale e le animazioni e Houdini per gli effetti particellari, come duplicazioni e liquidi. Perciò quanto è durata la post-produzione? Diciamo 4-5 mesi di lavoro effettivo, per compositing, motion graphic e 3D. Abbiamo lavorato su circa 6-700 inquadrature. Siete soddisfatti del risultato? Soddisfattissimi. Bellissima sia l’esperienza sia il lavoro con regista e sceneggiatori. Siamo pronti a una nuova collaborazione con loro, perché sono convinto che questi autori emergenti siano legati al futuro di EDI.

Una delle questioni tecniche più complesse da affrontare è stata quella posta dal sensore della GoPro, piccolo e non orientato al mercato professionale, che non avendo sufficiente qualità sul canale del blu, ha obbligato a scegliere il green-screen... in un bosco.

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DIARIO

GLI EVENTI DI FABRIQUE

14 SETTEMBRE 2018

Notte di fine estate con Fabrique Per la presentazione del nuovo numero, Fabrique ha scelto uno scenario evocativo caratterizzato da spazi non convenzionali dalla forte impronta storica. Il ritorno dalla presentazione alla Mostra del Cinema di Venezia dei nuovi protagonisti di Fabrique è stato salutato con un evento speciale nella location suggestiva dell’India Estate, un concept di entertainment sostenibile e una manifestazione estiva che ha proposto per tutta l’estate concerti, art expo, street food e perfomance dal vivo nello spazio esterno del Teatro India. Una serata speciale di fine estate dedicata alla presentazione del numero 22 di Fabrique du Cinéma, che il 14 settembre scorso ha visto salire sul palco attori, registi e autori di alcune delle migliori novità, con la presentazione dei film Ride e La profezia dell’armadillo, oltre a Flash, il pilota di serie vincitore del Premio Solinas, e a Casomai l’ultimo videoclip di Federico Zampaglione. Accessibile gratuitamente anche la mostra Roma sogna, allestita nel foyer, che ha inaugurato il 13 settembre la nuova stagione d’arte contemporanea del Teatro India con 700 metri quadri di esposizione in cui sono raccolte opere di artisti contemporanei legati a Roma. La serata è stata aperta dal talk informale sul tema “La Serialità del domani. Cosa cercano e cosa si aspettano i produttori di oggi

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dagli autori del domani”, un’iniziativa acclamata soprattutto dagli studenti di cinema e dai professionisti alle prime esperienze lavorative. Una tavola rotonda per esplorare insieme agli addetti ai lavori del settore cinematografico quali siano le nuove esigenze dei broadcast in tema di serialità televisiva. Tra i relatori si sono alternati: Marco Belardi di Lotus Production; Fabio Guaglione, regista e sceneggiatore; Marcello Izzo e Silvia Ebruel, sceneggiatori della serie TV Il Cacciatore; Costantino Margiotta, CEO di Flim Flam. Moderatore il giornalista Francesco Di Brigida. In una festa densa di eventi non poteva mancare la musica, protagonista come sempre delle serate targate Fabrique, con Francesco Motta e il suo emozionante set acustico. Una breve e piacevole pausa per il polistrumentista e autore toscano in giro per l’Italia con il tour estivo di Vivere o morire, l’ultimo album che lo conferma come uno dei migliori artisti in circolazione. A seguire i djset di Andrea Arcangeli e Diego De Gregorio che hanno accompagnato l’indimenticabile notte di fine estate all’insegna dell’arte e del divertimento.


NEWS 15 DICEMBRE 2018

DOVE

Come e dove Fabrique

FABRIQUE DU CINÉMA AWARDS Arriva l’attesissimo evento che celebra le opere più creative e innovative con una serata speciale, in cui vengono premiati artisti italiani e internazionali. Riflettori puntati il 15 dicembre su una giuria d’eccezione, che vedrà protagonisti personaggi di fama assoluta come Jonas Carpignano e Susanna Nicchiarelli insieme a Giorgio Pasotti, Valentina Lodovini e Brunori Sas, e con un presidente d'eccezione: Paul Haggis. Per l’occasione, lo scenario raffinato dell’ex caserma Guido Reni si vestirà a festa per accogliere i nomi dei vincitori che si aggiudicheranno i premi come Miglior Opera Prima, Miglior Opera Innovativa e Sperimentale, Attore Rivelazione, Attrice Rivelazione e Miglior Tema Musicale, Miglior Film, Miglior Cortometraggio, Webserie e Documentario.

ROMA CINEMA BARBERINI | 06.42010392 | Piazza Barberini, 24/26 CASA DEL CINEMA | 06.423601 | Largo Marcello Mastroianni, 1 EDEN FILM CENTER | 06.3612449 | Piazza Cola di Rienzo, 74 GREENWICH | 06.5745825 | Via G. Battista Bodoni, 59 INTRASTEVERE | 06.5884230 | Vicolo Moroni, 3 MADISON | 06.5417926 | Via G. Chiabrera, 121 NUOVO SACHER | 06.5818166 | Largo Ascianghi, 1 TIBUR | 06.4957762 | Via degli Etruschi, 36 TREVI | 06.6781206 | Vicolo del Puttarello, 25 SCUOLE CENTRO SPERIMENTALE DI CINEMATOGRAFIA | Via Tuscolana, 1520 CINE TV ROSSELLINI | Via della Vasca Navale, 58 GRIFFITH | Via Matera, 3 IED | Via Giovanni Branca, 122 ROMEUR ACADEMY | Via Cristoforo Colombo, 573 SCUOLA D’ARTE CINEMATOGRAFICA GIAN MARIA VOLONTÉ | Via Greve, 61

MILANO CINEMA CINEMA ANTEO | Via Milazzo, 9 SPAZIO OBERDAN | Viale Vittorio Veneto, 2

BERGAMO CINEMA LAB 80 FILM | Auditorium, Piazza Libertà

TORINO

Paul Haggis

CINEMA CINEMA MASSIMO | Via Giuseppe Verdi, 18

Presidente di giuria

BOLOGNA

2018

CINEMA CINEMA LUMIÈRE | Via Azzo Gardino, 65

FIRENZE FABRIQUE DU CINÉMA

LA CARTA STAMPATA DEL NUOVO CINEMA ITALIANO INVERNO

2018

Numero

23

OPERA PRIMA

AA.VV.

In viaggio con Adele, Mamma + mamma, Saremo giovani e bellissimi

FUTURES

SAVINA E ABBATANGELO

Registi oltre i generi e i confini: da L.A. (feat. Coppola) al musical

ZONA DOC

BAIKONUR, TERRA

Un film raffinato ed evocativo ambientato in un luogo eccentrico

ANDREA CARPENZANO

[it. avanguàrdia, s. f.]: Movimento artistico che sperimenta nuove idee e modi espressivi, in contrasto con la tradizione e il gusto corrente.

LA CARTA STAMPATA DEL NUOVO CINEMA ITALIANO SCARICA GRATUITAMENTE TUTTI I NUMERI DAL SITO 0 SCRIVICI A REDAZIONE@FABRIQUEDUCINEMA.COM

WWW.FABRIQUEDUCINEMA.IT Like us www.facebook.com/fabriqueducinema

CINEMA CINEMA STENSEN | Viale Don Giovanni Minzoni, 25 CINEMA ALFIERI | Via dell’Ulivo, 6

PISA CINEMA CINEMA ARSENALE | Vicolo Scaramucci, 2

FESTIVAL Cortinametraggio Festa del Cinema di Roma Ischia Film Festival Maremetraggio - International Shorts Film Festival Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia Roma Creative Contest Roma Web Fest Rome Independent Film Festival Visioni Italiane Cineteca di Bologna

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