Fabrique du Cinéma #26

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LA CARTA STAMPATA DEL NUOVO CINEMA ITALIANO AUTUNNO

2019

Numero

26

OPERA PRIMA

MATTOTTI/DE FEO

Due esordi agli antipodi: la favola e l’horror

FOCUS

COPYRIGHT

Vi spieghiamo tutti i diritti (e i doveri) di chi crea “opere dell’ingegno”

ZONA DOC

SHELTER

Storia di Pepsi: “gay, musulmana, ribelle, rifugiata”

ANTEPRIMA

I nomi, i film e le tendenze più hot dell’autunno che verrà. La testimonial ideale? Linda Caridi



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ALZIAMO LA TESTA

UN FUOCO IMPOSSIBILE DA SPEGNERE PELLEGRINO E JANKOVIC

SOMMARIO

THE NEST

Pubblicazione edita dall’associazione culturale Indie per cui Lungotevere della Vittoria, 10 00195 Roma (RM), Italia www.fabriqueducinema.it

ORA VINCE IL RACCONTO

INTERVISTA A LUCA BIGAZZI

Registrazione tribunale di Roma n. 177 del 10 luglio 2013 DIRETTORE ARTISTICO Davide Manca DIRETTORE EDITORIALE Elena Mazzocchi SUPERVISOR Luigi Pinto STRATEGIC MANAGER Tommaso Agnese DIRETTORE RESPONSABILE Luca Ottocento GRAFICA E IMPAGINAZIONE Giovanni Morelli REDAZIONE Monica Vagnucci REDAZIONE WEB Gabriele Landrini AMMINISTRAZIONE E DISTRIBUZIONE Eleonora De Sica COMUNICAZIONE Madre International in collaborazione con Sara Battelli PUBBLICITÀ redazione@fabriqueducinema.it APS Advertising srl Via Tor de Schiavi, 355 00171 Roma (RM), Italia www.apsadvertising.it STAMPA CIERRE & GRAFICA Via Alvari, 36 00155 Roma (RM), Italia

04 COVER STORY 06 FUTURES/1 10 OPERA PRIMA/2 20 NUOVE REGOLE/1 22 NUOVE REGOLE/2 26 ARTS 28 CHICKEN BROCCOLI 32 ZONA DOC/1 34 ZONA DOC/2 37 FOCUS 40 TEATRO 42 ATTORI 44 VENEZIA CLASSIC 50 VIDEOCLIP 54 VFX 58 DIARIO 60 DOVE 61 EDITORIALE

14 FUTURES/2 EMANUELE ALDROVANDI WE HAPPY FEW

LORENZO MÒ BOROTALCO

SHELTER

MARGHE E GIULIA

DIRITTO D’AUTORE ANDREA PAONE

UNO SGUARDO DALL’ALTO

Finito di stampare nel mese di agosto 2019

FULCI FOR FAKE

TESTI/SILVESTRI

LA CARTA STAMPATA DEL NUOVO CINEMA ITALIANO AUTUNNO

2019

Numero

26

OPERA PRIMA

MATTOTTI/DE FEO

Due esordi agli antipodi: la favola e l’horror

FOCUS

COPYRIGHT

Vi spieghiamo tutti i diritti (e i doveri) di chi crea “opere dell’ingegno”

ZONA DOC

SHELTER

Storia di Pepsi: “gay, musulmana, ribelle, rifugiata”

ANTEPRIMA

I nomi, i film e le tendenze più hot dell’autunno che verrà. La testimonial ideale? Linda Caridi

IN COPERTINA Linda Caridi

16 OPERA PRIMA/1 LORENZO MATTOTTI LA FAMOSA INVASIONE DEGLI ORSI IN SICILIA

INANIMATE

GLI EVENTI DI FABRIQUE

COME E DOVE FABRIQUE

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E EDITORIALE

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foto ROBERTA KRASNIG stylist STEFANIA SCIORTINO

ALZIAMO LA TESTA di LUCA OTTOCENTO

Si può preservare la bellezza e l’unicità dell’esperienza cinematografica in sala in un’epoca in cui il digitale e le piattaforme streaming la fanno da padroni? Luca Bigazzi, cui in questo numero di Fabrique abbiamo dedicato un’approfondita intervista, ha le idee molto chiare a riguardo: rifacendosi a una celebre frase di Jean-Luc Godard pensata per mettere in luce la differenza tra visione nei cinema e visione casalinga davanti alla TV, per il grande direttore della fotografia è assolutamente necessario alzare la testa e vedere i film insieme. Non è il supporto di ripresa digitale il problema, che anzi rispetto a quello in pellicola presenta innumerevoli vantaggi, ma piuttosto la tendenza sempre più diffusa a guardare i film o le serie TV da soli o in pochi all’interno delle mura domestiche. La fruizione di un’opera audiovisiva al cinema non è solo un’esperienza straordinaria e impareggiabile, ma è anche un’esperienza dal marcato valore politico. Come ci ricorda Bigazzi, infatti, «una comunità di persone isolate davanti ai propri computer, smartphone o schermi televisivi è molto più controllabile politicamente rispetto a una comunità che si riunisce, discute, che vede, pensa e sente collettivamente». Bisogna allora lavorare affinché le sale diventino nuovamente dei luoghi sociali attrattivi e stimolanti e cercare di proporre in tutti i modi e in ogni spazio possibile una visione collettiva dei film come delle serie, anche attraverso le ormai tanto osteggiate proiezioni pubbliche e gratuite che, in un momento di così profonda crisi dei cinema, possano nuovamente

condurre il pubblico ad avere voglia di sedersi in una sala buia davanti a un grande schermo in compagnia di tanti sconosciuti, all’insegna della condivisione di un’emozione. Noi di Fabrique siamo convinti che il mondo contemporaneo globale e digitale non debba sancire la morte dell’esperienza in sala. Non a caso su questi temi, nonché sulle notevoli possibilità offerte dalla rivoluzione digitale, a luglio abbiamo organizzato al Teatro India una tavola rotonda di cui qui vi offriamo un approfondito resoconto. Quello che avete tra le mani è un numero di Fabrique davvero ricco. Sfogliandolo ve ne renderete subito conto: se la copertina è dedicata ad una delle più interessanti attrici emergenti degli ultimi anni, Linda Caridi, nel corso delle pagine che seguono andremo alla scoperta di alcuni giovani talenti molto promettenti (il duo di registi Marco Pellegrino e Luca Jankovic, Emanuele Aldrovandi e Lucia Bulgheroni) e approfondiremo lo sguardo del grande fumettista e illustratore Lorenzo Mattotti, che ha presentato in anteprima mondiale al Festival di Cannes il suo primo lungometraggio, il riuscitissimo adattamento animato de La famosa invasione degli orsi in Sicilia di Dino Buzzati. Il film di Mattotti, come lui stesso ha dichiarato, è stato espressamente pensato per la visione sul grande schermo. Fruito a casa o su un dispositivo mobile, perderebbe inevitabilmente moltissimo del suo fascino e del suo valore artistico. Non ci resta dunque altro da fare: dobbiamo tornare ad alzare la testa e vedere i film insieme.

Si può preservare la bellezza e l’unicità dell’esperienza cinematografica in sala in un’epoca in cui il digitale e le piattaforme streaming la fanno da padroni?

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- Cover story -

fotografa ROBERTA KRASNIG assistenti fotografa DAVIDE CECCHINI / FRANCESCA LA TORRE Trucco ILARIA DI LAURO @ IDLMAKEUP Parrucchiere ADRIANO COCCIARELLI @ HARUMI Stylist STEFANIA SCIORTINO Assistente stylist CONSUELO MOCETTI Thanks to SANDRO FERRONE, STEFANO DE LELLIS, L.G.R Location RELAIS RIONE PONTE

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Ha convinto pubblico e critica interpretando donne forti e combattive, e ora Linda Caridi è tra le giovani attrici più richieste del momento.

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LINDA CARIDI

UN FUOCO IMPOSSIBILE DA SPEGNERE

Diplomata alla Civica Scuola d’Arte Drammatica Paolo Grassi nel 2011, Linda collabora poi con realtà come il Teatro della Tosse di Genova, il gruppo Fonderia Mercury di Milano, RSI Radiotelevisione Svizzera Italiana, la Città del Teatro di Cascina e il Teatro Due di Parma.

di GABRIELE LANDRINI creative producer TOMMASO AGNESE

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na celebre poetessa italiana in Antonia, una ragazza dolce e innamorata in Ricordi e una donna che sogna la maternità in Mamma + mamma: queste sono solo tre delle figure femminili interpretate da Linda Caridi, attrice di origine milanese che, nonostante la giovane età, si è distinta sul grande e sul piccolo schermo, diventando una delle stelle più richieste del momento. E se ormai la recitazione è per lei un mestiere a tempo pieno, a riaffiorare dal passato è il ricordo di un’adolescente studiosa che, quasi per caso o forse per destino, si è trovata a cimentarsi nel teatro: «Alle superiori ero dedita allo studio, allenavo il pensiero e annichilivo il corpo. Attraverso la recitazione ho cercato di entrare in contatto con la mia fisicità, oltre che di combattere la timidezza. Ho frequentato alcuni corsi, che mi hanno permesso di prendere coscienza del corpo, ma anche della musica, della voce e dei testi. Poco alla volta, mi sono resa conto che dentro di me si era acceso un fuoco impossibile da spegnere. Ho imparato seriamente le basi del mestiere e, dopo essermi diplomata alla Paolo

Grassi, sono stata notata per Antonia, opera prima di Ferdinando Cito Filomarino». Proprio Antonia segna il tuo esordio sul grande schermo. Come è stato confrontarsi con una figura realmente esistita? Mi sono subito resa conto della responsabilità: il compito di raccontare la storia di una poetessa come Antonia Pozzi non è stato certamente facile. La prima fase di lavoro è stata la documentazione: mi sono insinuata nel suo privato e ho letto i suoi scritti in prosa, i suoi diari e le sue lettere. Grazie anche all’aiuto del regista, con cui abbiamo fatto un lavoro minuzioso sul personaggio, ho avuto modo di riscoprire una donna che era anzitutto una pensatrice, che viveva intellettualmente anche con i nervi, con la pelle e con il sangue. Lei traduceva la bellezza del quotidiano nelle sue poesie, raccontando la sua vita ma soprattutto il suo stesso corpo. In questo modo, i suoi scritti si sono rivelati dei piccoli tasselli di un mosaico che, una volta ricostruito, mi ha permesso di dipingerla al meglio.

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Nel 2016 fonda, insieme ad altri giovani diplomati presso la Paolo Grassi, la compagnia teatrale The Baby Walk, impegnata in un teatro sociale e di denuncia.

«LA RECITAZIONE SI PUÒ DECLINARE ALL’INFINITO». Dopo Antonia Pozzi, ti sei invece confrontata con un personaggio di fantasia: la protagonista di Ricordi. Il personaggio di Lei, che non ha un vero e proprio nome, si evolve nel corso del film: se inizialmente appare solare e ingenua, gradualmente entra in contatto con i lati più complessi del suo carattere, imparando ad accettare il dolore e la freddezza. Credo che questo film possa essere definito come un passo a tre insieme a Valerio Mieli e Luca Marinelli. Nel momento delle prove, tutti e tre abbiamo cercato di definire con una coerenza cronologica la storia d’amore di Lei e Lui, concentrandoci sulle tante piccole perle di memoria che compongono il loro vissuto. Questa originale linearità, poi frammentata in fase di montaggio, mi ha aiutato a creare dei ponti armoniosi tra i momenti di felicità e quelli di crisi, al fine di rendere verosimile la sua maturazione personale, oltre che le dinamiche di coppia. Più recente è invece stata l’esperienza in Mamma + mamma, storia di due donne che desiderano un figlio. Anche in questo caso, ti sei confrontata con una storia vera… Sì, come è noto la storia è quella di Karole Di Tommaso, che ha diretto e sceneggiato il film. Se per Ricordi è stato un passo a tre, per Mamma + mamma è stata sicuramente una danza a due. Karole mi ha praticamente schiuso la sua vita: mi ha invitato a casa sua, mi ha fatto conoscere la sua famiglia e abbiamo passato giornate intere a confrontarci. Quando poi è arrivato il momento delle riprese, questa danza non si è conclusa, anzi: con la recitazione io le restituivo ciò che avevo appreso e lei, vedendosi rappresentata, riusciva a capirsi meglio e a darmi nuove informazioni per rielaborare il personaggio. Hai interpretato tre donne forti e combattive, simili ma anche profondamente differenti. Chi è tra loro la vera Linda? In realtà, credo che ci sia un piccolo seme di Linda in ognuna di queste figure, un seme che è fiorito in modi differenti. Nel momento in cui si racconta una storia vera come in Antonia o in Mamma + mamma, il distanziamento da me stessa è stato tuttavia più naturale, perché dovevo seguire a priori una via già tracciata, mentre in un film come Ricordi la creazione di fantasia mi ha portata ad attingere

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maggiormente da un vissuto personale. Sono però convinta che in tutte queste donne ci sia una parte di ciò che sono, perché inevitabilmente per capire gli altri bisogna sempre partire da se stessi e, solo dopo, si può saltare nel vuoto, verso la diversità. Hai già una ricca carriera alle spalle, che oltre al cinema spazia anche tra teatro e televisione. Ci sono momenti che porti nel cuore? Sicuramente quando abbiamo presentato Ricordi alla Mostra del Cinema di Venezia. Una festa che ho vissuto a occhi sgranati, continuamente sorpresa dalla bellezza di ciò che mi circondava. Tra i momenti più emozionanti, ci sono poi quelli di confronto con il pubblico. Ad esempio, con Mamma + mamma, ho avuto modo di interfacciarmi con spettatori differenti, che hanno colto ciò che volevamo raccontare. Il film mira infatti a dimostrare che, al contrario di quanto alcune voci della politica desiderano far credere, le famiglie arcobaleno esistono. Credo che l’operazione sia riuscita, perché il pubblico, spesso di generazioni diverse, ha apprezzato questa storia, rendendosi anche conto della naturalezza che le è propria. Cosa consiglieresti a chi vuole intraprendere la strada della recitazione? Credo che sia importante conoscere molto bene tutte le risorse di questo mestiere: bisogna essere pronti a passare dal teatro al cinema, dai laboratori alla televisione, confrontandosi con un pubblico vasto e sempre diverso. La recitazione si può declinare all’infinito e, complice anche la sua instabilità e la sua ricchezza, consente di costruire una rete di possibilità, che crescono nel momento in cui ci si migliora. Sono convinta che il cinema sia una catena di montaggio a ingranaggi finissimi e se ognuno raffina il proprio, tutto brilla di una luce diversa. E nel tuo futuro cosa si prospetta? Sui miei progetti al momento non posso dire nulla, ma mi piacerebbe fare un film in cui prende vita il personaggio che abbiamo creato e fotografato proprio con Fabrique!



- Futures/1 -

MARCO PELLEGRINO E LUCA JANKOVIC

THE DARK SIDE OF THE MOON

A cinquant’anni dal primo passo sulla Luna, Moths to flame rende omaggio all’impresa che per anni ha stimolato le fantasie dei complottisti. L’allunaggio è il pretesto per parlare della ricerca della verità, in un’epoca come la nostra flagellata dalle fake news. di STEFANIA COVELLA

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el corto vincitore ai Nastri d’Argento 2019, l’attore hollywoodiano David Menkin interpreta l’idealista Neil Armostrong, mentre Buzz Aldrin, più pragmatico, è impersonato da un impeccabile David Callahan, attore americano prestato alla televisione italiana. I due astronauti sono facce della stessa medaglia e devono compiere un’impresa che si rivelerà essere solo un’illusione. Una simbologia di dualità ricorrente che ritroviamo anche dietro le quinte, con i due registi: Marco Pellegrino, autore del soggetto e delle musiche, e Luca Jankovic, regista sperimentale e fondatore di Box Vision. Attratti come falene dalla luce artificiale del cinema, hanno collaborato sotto ogni punto di vista raggiungendo una sintonia palpabile.

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Come avete iniziato a fare cinema? M: Ho seguito una gavetta standard, mi sono trasferito dieci anni fa a Roma e ho iniziato a lavorare parallelamente come assistente alla regia e aiuto casting, collaborando a diversi film e serie italiane di rilievo internazionale, tra le quali Habemus Papam di Nanni Moretti, La passione di Carlo Mazzacurati, To Rome with Love di Woody Allen, Brutti e cattivi di Cosimo Gomez e Una questione privata di Paolo e Vittorio Taviani. Ho sempre portato avanti l’interesse per la regia lavorando anche come regista di videoclip e parallelamente come musicista. L: Appena finito il corso di Digital Filmaking alla SAE di Milano, ho iniziato subito a lavorare come filmaker nei reparti più tecnici. Nel


Moths to flame mette in scena la tesi complottistica del 1969 secondo cui gli Stati Uniti avrebbero organizzato una farsa per anticipare l’Unione Sovietica nella colonizzazione dello spazio.

«LAVORARE IN DUE AMPLIFICA LE POTENZIALITÀ».

frattempo, ho iniziato a girare cortometraggi. Nel 2017 ho fondato Box Vision e ho prodotto I mostri 2.0, un progetto ispirato al film di Dino Risi I mostri (1963), una serie di sette cortometraggi. Mi sento in una fase di sperimentazione, più provo progetti differenti tra di loro e più imparo. Come è stato lavorare in co-regia? M: È stata un’esperienza importante e molto bella. Ho realizzato altri lavori insieme a dei co-autori, ad esempio ho scritto un romanzo a quattro mani con Giulio Beranek Il figlio delle rane, che è uscito l’anno scorso per Bompiani. Mentre Moths to flame è stata la mia prima esperienza di co-regia vera e propria, al di fuori delle esercitazioni scolastiche. Lavorare in due amplifica le potenzialità, ma è stato possibile grazie alle lunghe chiacchierate e allo scambio di energia propositiva. Certo, serve il compromesso e aumenta anche il fattore dell’imprevedibilità, che permette di aggiungere qualcosa e forse di innamorarsi ancora di più del progetto. L: Per me è la prima co-regia, ho accettato il progetto al volo: non è un’esperienza semplice ma con Marco, forse per questione di carattere, non ci sono state tante difficoltà. Ci piacerebbe lavorare ancora insieme.

Escluso il DOP Alessandro Dominici, vi siete affidati a una troupe under 35: Matteo Chemel, Silvia Cremaschi, Fabio Filigi e Orash Rahnema. È stato difficile reperire i fondi? M: Abbiamo realizzato il progetto senza fondi pubblici, un investimento che abbiamo fatto per noi. È un momento particolare per Milano, c’è terreno fertile per i lavori più narrativi, ovviamente è la capitale della pubblicità ma ci sono molti giovani autori e artisti che hanno voglia di sperimentare e si sono prestati per l’impresa. Abbiamo realizzato il corto con un budget di circa 15 mila euro e con la co-produzione di Box Vision e dell’inglese Paguro Film di Giada Mazzoleni, in collaborazione con l’Ananim Production di Ghila Valabrega e il giovane team di Overclock. L: Abbiamo girato in un sottoscala nel quartiere Giambellino, eravamo un po’ in ansia all’idea di portare David Menkin, che aveva recitato per produzioni hollywoodiane, nella periferia di Milano, in un seminterrato. L’atmosfera sul set era professionale

ma rilassata allo stesso tempo, abbiamo ribattezzato il quartiere Giambhollywood, e in pausa pranzo abbiamo dato

lo stesso nome anche a una pizza. In quel seminterrato abbiamo ricostruito tutte le scene partendo da zero, tappezzando le pareti di rosso e rivoluzionando lo spazio; quando abbiamo finito abbiamo

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Il corto utilizza le ambiguità legate all’allunaggio come pretesto per parlare in modo parodistico e surreale della ricerca umana della verità e di come questa sia manipolabile attraverso i media.

«CI SIAMO CONCENTRATI MOLTO SUI DETTAGLI NARRATIVI DELL’AMERICA NEGLI ANNI SESSANTA». messo tutto a posto, ma la differenza era comunque abissale, tanto che abbiamo lasciato una porta rossa come segno del nostro passaggio! E il proprietario, che non riusciva ad affittare il locale da anni, c’è finalmente riuscito. Abbiamo portato bene… Parlatemi del lavoro sul set con gli attori, entrambi professionisti stranieri. Com’è stato lavorare con loro? So che li avete lasciati liberi di improvvisare. L: Abbiamo avuto un po’ di difficoltà con la lingua, anche se uno dei due è americano ma vive in Italia da anni. Abbiamo impostato la lavorazione per poter fare due giorni di prove, uno con David Callahan e uno con David Menkin che è arrivato da Londra. Abbiamo lasciato loro libertà di movimento per poi fissare quello che ci piaceva. Da lì abbiamo modellato la regia, la spontaneità creativa degli attori ha aiutato moltissimo, anche per calibrare il linguaggio e le espressioni. M: Infatti una prima fase di traduzione è stata fatta con Callahan stesso, anche grazie a un suo contatto: Peter Flood, dialoghista per Le iene di Quentin Tarantino. Siamo riusciti così a fare un editing più

interessante e aderente al linguaggio usato nell’America dei Sixties. Ci siamo concentrati molto sui dettagli narrativi e filologici di quegli anni. Il nostro è stato un lavoro un po’ vintage: ad esempio, non abbiamo potuto usare la pellicola, ma abbiamo scelto delle ottiche anamorfiche degli anni Sessanta. A cosa state lavorando adesso? L: A un corto interamente ambientato in un ascensore che sta per cadere, al cui interno si ricrea una versione in miniatura della società italiana di oggi: un anziano un po’ bigotto e razzista, un muratore dell’Europa dell’est e una ragazza madre. Ho anche un paio di soggetti per lungometraggio, uno dei quali affronta i temi dell’amore, dell’inadeguatezza e della difficoltà del diventare adulti. M: A Faber Nostrum, l’album tributo a Fabrizio De André: in particolare al videoclip de I Ministri per la cover Inverno e con la band pugliese La Municipal per la cover di La canzone di Marinella. Ho anche una sceneggiatura in prima stesura, una storia al femminile, il tema è l’integrazione, parla di razzismo e vendetta.

L’opera, prima di aggiudicarsi il Nastro d’Argento, aveva vinto il premio speciale di Studio Universal nell’edizione 2018 di Alice nella città.

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- Futures/2 -

EMANUELE ALDROVANDI

WE HAPPY FEW Nel mondo del teatro il nome di Emanuele Aldrovandi è già noto, tanto da essere considerato uno degli autori più talentuosi della drammaturgia italiana contemporanea under 35. Un talento, il suo, decisamente eclettico, che lo ha portato ad avvicinarsi anche al mondo del cinema con buoni risultati: Un tipico nome da bambino povero è il suo secondo cortometraggio, in concorso all’ultima edizione del Giffoni Film Festival. di BARBARA LO CONTE

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empre attento alle dinamiche sociali, Aldrovandi racconta di un padre che decide di portare in vacanza con la famiglia un bambino povero come esempio per insegnare ai figli quanto siano fortunati a vivere “dalla parte bella della disuguaglianza”. Qual è stata l’ispirazione alla base del cortometraggio? L’ispirazione è stata prima di tutto intima e personale, legata in un certo qual modo al senso di colpa di trovarmi ‒ senza nessun merito o motivo particolare che riguardi veramente me ‒ dalla parte fortunata della disparità economica mondiale. La spinta iniziale è stata quindi un’esigenza personale forte che ho poi deciso di rappresentare in modo estremizzato per farne uscire le contraddizioni, come sempre deve fare secondo me l’arte, che sia teatro o cinema.

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Il corto affronta tematiche importanti: identità, privilegio, divario. In particolare, uno dei protagonisti parla di “parte bella della disuguaglianza”, che è quasi un paradosso. Che tipo di messaggio hai voluto dare? Io sono contrario ai messaggi didascalici, credo invece che la forza delle narrazioni sia quella di aprire degli spiragli di riflessione

e di permettere a chi guarda di pensare qualcosa in modo diverso, magari sradicando dei luoghi comuni.

In questo caso, ho deciso di trattare questi temi non in maniera pedante ma in modo paradossale, mettendo in bocca a un padre un pensiero educativo che può anche essere giusto, ma che viene messo in pratica in maniera così eccessiva da risultare alla fine assurda e controproducente.


«IO SONO CONTRARIO AI MESSAGGI DIDASCALICI». La carriera di Aldrovandi, formatosi all’Accademia di arte drammatica Paolo Grassi di Milano, vanta premi prestigiosi tra i quali spicca il Premio Riccione Pier Vittorio Tondelli, vinto nel 2013 con Homicide House.

Il corto è stato coprodotto con 7even Tower Studios e sponsorizzato dal Lafodia Sea Resort di Lopud, location delle riprese.

Domanda scontata: la scrittura teatrale ha influenzato il tuo modo di fare cinema? Forse sì, anche se io cerco di tenere separate le due cose. Il fatto di partire dall’assunto che non ci siano buoni e cattivi e che la messa in scena di qualcosa serva come strumento dialettico per farsi delle domande è una cosa che considero ovvia ma che deriva dalla lunga frequentazione con il teatro. Quello che può avermi influenzato è la facilità nel creare storie, personaggi, conflitti, visto che sono dieci anni che lo faccio per il teatro. Come sceneggiatore parto dunque in un certo senso avvantaggiato, poi però come regista cerco di fare tabula rasa del teatro e di ragionare in maniera differente perché è un linguaggio diverso. Anche il modo in cui si racconta un personaggio cambia completamente. Al momento ad esempio sto adattando un testo teatrale che ho scritto, La

donna più grassa del mondo, come sceneggiatura per un lungo. Ho mantenuto il nucleo di base ma lo sto riscrivendo completamente nel linguaggio del cinema. Quando ho deciso di cominciare a fare cinema mi sono dato la regola di non fare teatro filmato. Quindi pensi che continuerai a fare cinema? Sì, assolutamente. È una cosa su cui sto investendo tempo ed energie ed in cui credo molto. Oltre al lungometraggio, con Mike Pagliarulo e la sua Big Nose Production ‒ con cui è iniziato il mio percorso nel cinema ‒ abbiamo in progetto di realizzare altri corti. Continuerò a fare teatro, il cinema però non lo vedo come un passatempo ma come un altro obiettivo. E alla fine ho capito che, quando si hanno gli obiettivi chiari, con l’impegno, le idee e la forza della perseveranza le cose si riescono a fare.

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- Opera Prima/1 -

Mattotti dal 1998 vive e lavora a Parigi: il suo film, presentato con successo allo scorso Festival di Cannes, uscirà in autunno.

LA FAMOSA INVASIONE DEGLI ORSI IN SICILIA

UN ALTRO IMMAGINARIO Non capita spesso di realizzare la propria opera prima a sessantacinque anni: illustratore di fama internazionale, Lorenzo Mattotti ha esordito nel lungometraggio con un incantevole adattamento animato del libro di Buzzati. di LUCA OTTOCENTO

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iù noto all’estero rispetto al paese che gli ha dato i natali, il bresciano Mattotti accarezzava da tempo l’idea di dirigere un film, suggeritagli in passato a più riprese dall’amico Carlo Mazzacurati. Per un motivo o per l’altro, però, l’occasione giusta non si era ancora presentata. I suoi romanzi grafici (tra gli altri, ricordiamo Il signor Spartaco, Fuochi, Doctor Nefasto, L’uomo alla finestra e Stigmate) sono stati tradotti in numerose lingue e hanno influenzato generazioni di fumettisti di tutto il mondo,

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mentre le copertine e le illustrazioni per riviste e quotidiani quali The New Yorker, Vanity Fair, Nouvel Observateur e Le Monde lo hanno reso celebre a più latitudini. Lorenzo Mattotti in passato aveva già avuto esperienze nella settima arte, occupandosi dei segmenti di apertura degli episodi di Eros di Antonioni, Soderbergh e Wong Kar-Wai (2004) e firmando gli sfondi e i personaggi del Pinocchio animato di Enzo D’Alò (2012). Nel 2007, inoltre, aveva diretto uno dei sei episodi del poco conosciuto film d’animazione collettaneo francese Peur(s) du noir.


La famosa... è una coproduzione franco-italiana: Prima Linea Productions, Pathé e France 3 Cinema per la Francia, Indigo Film e Rai Cinema per l’Italia.

Come nasce l’idea di portare sul grande schermo, in forma animata, La famosa invasione degli orsi in Sicilia? Dino Buzzati ha influenzato il mio lavoro sin da quando avevo sedici anni: con i suoi racconti, per la notevole capacità di creare il mistero, l’immaginario, il visionario, ma anche con i suoi disegni, immagini e pitture. Nel 1971 ha persino realizzato un romanzo grafico chiamato Poema a fumetti, quindi davvero l’ho sempre sentito vicino e considerato un grande maestro. Nei miei lavori ho inserito spesso dei riferimenti a lui, alla sua maniera di disegnare e alla sua fantasia. Quando la produttrice Valérie Schermann mi ha chiesto di pensare all’idea per un lungometraggio, le ho fatto leggere La famosa… e lei se n’è subito innamorata. È a quel punto che è scattata la scintilla, la voglia di metterci in cammino. All’inizio è stato molto difficile persino avere i diritti: tutto si è sbloccato quando ho incontrato la signora Almerina Buzzati che, affascinata dal mio lavoro, mi ha donato l’opportunità di fare questo film, la cui lavorazione è durata più di cinque anni. Il lavoro di trasposizione non deve essere stato facile... In effetti è stato piuttosto duro. Volevo rimanere il più fedele possibile al romanzo di Buzzati, mantenendo la stessa struttura di fondo e restituendo al contempo quella tipica gioia del raccontare, dell’inventare storie, che traspare da ogni singola pagina. Ovviamente però è stato necessario fare un grosso lavoro di sintesi, visto che nel libro ci sono una pluralità di storie laterali, personaggi e rimandi che in un film di un’ora e venti non avrebbero mai potuto trovare spazio in maniera adeguata. In più, nella storia di Buzzati non c’è neanche un personaggio femminile e questo dal nostro punto di vista non era possibile. Così, in fase di sceneggiatura con Thomas Bidegain, autore degli script degli ultimi quattro film di Jacques Audiard, e Jean-Luc Fromental, grande sceneggiatore di fumetti oltre che cinematografico, abbiamo trovato l’escamotage narrativo del cantastorie Gedeone che gira per le montagne della Sicilia a raccontare storie insieme a una ragazzina piena di vita, Almerina. Questo ci ha permesso di entrare e uscire dalla vicende narrate da Buzzati liberamente, di tagliare e riassumere lavorando proprio col piacere del raccontare e conferendo al film linearità, fluidità e un ritmo forte. Come si è rapportato, invece, alle illustrazioni di Buzzati? Il suo disegno è estremamente semplice, minimalista, a volte naïf, ma potentissimo. Avrei voluto mantenere quasi tutto dei disegni di Buzzati, però evidentemente è impossibile fare un film d’animazione dove tutti i personaggi sono piccoli e non si riesce a vederli bene. Ho dunque cercato di attingere quanto più possibile alle sue idee sul piano grafico e creativo (le nuvole che tagliano le montagne, il mare molto disegnato e non realistico, oppure ad

esempio gli alberi disposti in un determinato modo), sviluppandole nel contesto di una spettacolarità che era assolutamente necessaria per immagini destinate al grande schermo. Oltre alle illustrazioni contenute ne La famosa..., mi sono ispirato molto anche alle pitture di Buzzati, i celebri ex voto. C’è stato davvero un continuo dialogo tra le immagini di Buzzati e il film. Mi sono affidato tanto al talento del mio nutrito gruppo di animatori, perché non volevo in alcun modo che il film avesse il mio tradizionale stile di disegno legato a matite, pastelli e giochi di sfocato: una tecnica del genere avrebbe condotto a un’atmosfera claustrofobica che sarebbe stata totalmente fuori luogo. Fin dall’inizio ero convinto che il film necessitasse di una propria estetica autonoma, nitida e precisa. Cosa la affascinava di più del mettere in scena il lavoro di Buzzati? La forza di questa favola è che si rinnova continuamente ed è sempre attuale poiché parla di questioni universali, ponendo problemi senza dare soluzioni. Nel quotidiano viene innestato il magico, il non spiegabile e così si restituisce un po’ l’essenza del mistero e della complessità della vita. Nel suo romanzo coglievo le potenzialità per realizzare un cartone animato che fosse un grande spettacolo europeo. Per me era molto importante dare l’impressione che nel cinema d’animazione fosse possibile sviluppare un altro immaginario oltre a quello dominante americano o giapponese. In Europa abbiamo tantissimi modelli culturali a cui attingere eppure, per un motivo o per l’altro, abbiamo molte difficoltà nel farli emergere nel contesto della produzione animata. Ai miei collaboratori facevo vedere il Beato Angelico, le grotte disegnate da Giotto e la pittura rinascimentale: ho cercato di creare un’iconografia mediterranea senza mai inseguire quella goticobarocca tipicamente anglosassone che, per quanto molto suggestiva, negli anni ha completamente occupato il nostro immaginario. Quali sono i suoi principali riferimenti nel campo dell’animazione e del cinema? Se penso al cinema d’animazione la prima cosa che mi viene in mente è il Walt Disney più classico e fuori dal tempo di Fantasia e Dumbo. In seconda battuta, il Miyazaki di opere come Il mio vicino Totoro e Principessa Mononoke. In passato mi hanno inoltre molto influenzato lavori come Il pianeta selvaggio e Yellow Submarine, con quest’ultimo che per la fantasia, la libertà, la gioia e la grafica viene fuori anche in certe sequenze del mio lungometraggio. L’idea di fondo per La famosa… era di creare grandi paesaggi e dare notevoli profondità e spazialità alle immagini. Da questo punto di vista, mi piaceva lavorare con l’immaginario di quei maestosi film d’avventura classici che non si fanno più perché troppo costosi, come ad esempio Lawrence d’Arabia.

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FOCUS | MAURIZIO LOMBARDI

Il trasformista Grazie a Dumas ha imparato a sognare, e oggi Maurizio Lombardi è un attore versatile e trasformista, sempre pronto a spingersi oltre i propri limiti. Dalla televisione al cinema, dal teatro al doppiaggio, da Paolo Sorrentino a Matteo Garrone: Maurizio Lombardi si è sempre distinto come un attore poliedrico, capace di adattarsi a diverse situazioni. Dopo La famosa

di GABRIELE LANDRINI

invasione degli orsi in Sicilia, la seconda metà del 2019

©Barbara Ledda

lo vedrà tra i protagonisti di alcuni dei progetti più attesi della stagione fra cui Pinocchio di Garrone e The New Pope di Sorrentino. Volgendo lo sguardo al passato, sembra però che tutto sia iniziato assolutamente per caso o, forse, per fortuna: «Capita che ti trovi a leggere un libro, ti entusiasma e ti rendi conto che nella vita vorresti raccontare storie. Ecco, il mio libro è stato Il conte di Montecristo di Alexandre Dumas. Il protagonista mi ha conquistato fin dalla prima lettura, proprio perché è un trasformista e un interprete. Grazie a lui, ho iniziato a sognare». Tra i film in uscita, il primo in ordine di tempo è The Nest, opera prima di Roberto De Feo. Ti ha divertito interpretare la parte del villain? Nel corso della mia carriera, ho interpretato diversi cattivi, tanto al cinema quanto in televisione e a teatro. Questo film però mi ha permesso di dar vita a un vero deviato mentale, un esecutore freddo e sadico. Con Roberto abbiamo osato e sperimentato, avvicinandoci al cinema horror americano. Abbiamo giocato con le perversioni, andando a pescare nelle realtà oscure celate in ognuno di noi. È stato davvero stimolante e adrenalinico, perché ho potuto

portare all’estremo qualcosa di nascosto, provocando me stesso così da riuscire a provocare gli altri.

La famosa invasione degli orsi in Sicilia ti ha permesso di cimentarti nell’arte del doppiaggio. Come hai vissuto questa esperienza? È stato un momento di confronto e scambio. Mattotti è un autore che si fida di chi ha davanti, quindi in certi casi si è lasciato anche guidare. È stata un’esperienza divertente, perché ho avuto modo di costruire da zero la vocalità di un personaggio. Sono convinto che la voce sia come una tavolozza di colori che, declinata in diversi modi, ti permette di enfatizzare un certo aspetto del carattere grazie ai toni e alle cadenze. Io ho doppiato un animale alto e lungo e ho pensato che sarebbe stato interessante attingere dai dialetti italiani, in questo caso da quello veneto, così da potergli aggiungere veridicità e narratività. Sarai nel cast del prossimo film di Matteo Garrone, Pinocchio. Come è stato lavorare con un regista di questo calibro? Matteo desidera che le cose accadano, sta in macchina e vuole che l’attore faccia qualcosa che riesca a emozionarlo. Se Sorrentino, ad esempio, ti dà un ring preciso, Matteo

ti concede maggiore possibilità di manovra.

Questo lo rende un instancabile cacciatore, che non si ferma fino a quando non trova ciò che realmente desidera. Comunque,

Pinocchio è stato un set abbastanza faticoso, più che altro per motivi logistici: io interpreto un tonno e, girare in acqua con un costume molto ingombrante, non è stato sempre facile!

Lombardi è un artista poliedrico: ha completato la sua formazione studiando canto e danza, la sua attività spazia dal cinema al teatro classico e di ricerca.

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- Opera Prima/2 -

THE NEST (IL NIDO)

HEAVEN OR HELL

Fuori dalla Villa c’è solo il Male, assicura la madre all’amatissimo figlio, costretto su una sedia a rotelle. Ma nel ragazzo adolescente i dubbi crescono sempre più fino a cercare la via di fuga. Chi dei due ha ragione? L’horror con cui Roberto De Feo esordisce sul grande schermo gioca su atmosfere gotiche e miltoniane, con un pizzico di Hollywood. di CARLOTTA GUIDO foto LORIS T. ZAMBELLI

L

a teatralità della Villa dei Laghi fa da sfondo alle vicende del giovane Samuel (Justin Alexander Korovkin), intrappolato nella fastosa dimora insieme all’irreprensibile madre Elena (Francesca Cavallin). Il ragazzo riuscirà a scoprire il mondo che circonda la sua casa/prigione solo grazie all’arrivo della dolce e intraprendente Denise (Ginevra Francesconi). Qual è il tuo rapporto con il cinema di genere e, in special modo, l’horror? Con The Nest non volevo fare il classico film dell’orrore, bensì

un’opera che avesse l’orrore nel messaggio di cui si fa portatrice, che è poi effettivamente il fulcro del finale. Di certo

ho sempre avuto intenzione di girare un lungometraggio in grado di raccontare la famiglia e la paura di crescere: infatti in molti hanno definito The Nest “un romanzo di formazione”. Il rapporto più complesso che ho cercato di far emergere è proprio quello madre

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e figlio, Elena e Samuel, in special modo perché il ragazzo si trova costretto su una sedia a rotelle. Questa difficile condizione è collocata in un periodo della vita già di per sé complesso come l’adolescenza, e quindi un altro grande tema affrontato è quello dell’abbandono del nido materno, del desiderio di scoprire il mondo circostante, costi quello che costi. Un mondo che Elena descrive al pari di un universo ostile e pericoloso, ed è proprio in questo dettaglio che si trova l’orrore: nella paura di affrontare qualcosa che non si conosce. La location della Villa dei Laghi gioca un ruolo fondamentale nel film. È stato difficile scovarla? Il mio intento è sempre stato quello di girare un film dal respiro internazionale, unico nel suo genere. Per questo sono partito dalla scelta della location, e per fortuna – dopo un anno e mezzo di ricerca in tutta Italia – sono incappato nella Villa dei Laghi, che si trova in provincia di Torino all’interno di Parco La Mandria, un luogo


Perché Elena costringe Samuel a vivere prigioniero? Questo il quesito di The Nest, scritto da Lucio Besana, Margherita Ferri, Roberto De Feo e prodotto da Colorado Film in collaborazione con Vision Distribution e con la produzione esecutiva di Prem1ere Film.

portatore di una storia incredibile. Le sue numerose stanze

sembrano passare da un’epoca all’altra, con pochi passi si ha l’impressione di vivere in tempi diversi. Per questo ho deciso di ambientare lì il film, proprio per la magia di cui è di per sé custode. Grazie al grande lavoro di scenografia condotto da Francesca Bocca, in sole tre settimane la Villa è diventata lo scenario perfetto per la mia storia. La tua paura è metodica, ordinata: quanto è stata importante la fase di preparazione? La preparazione del film è stata fondamentale. Avendo a disposizione solo 4 settimane, con giornate di lavoro di circa 7 o 8 ore, non puoi permetterti di arrivare sul set impreparato. Non si può cambiare idea né tantomeno sperimentare più del dovuto, quindi ho lavorato per tre mesi sullo storyboard, ho fatto numerosi sopralluoghi sul set e scattato più di tremila fotografie! Assieme alla storyboard artist abbiamo disegnato tutto il film, anche se poi, come spesso capita durante le riprese, molti dettagli hanno chiaramente preso un diverso aspetto. Anche la rosa degli interpreti è significativa: com’è stato dirigere un gruppo di attori così eterogeneo? Sempre a causa del poco tempo a disposizione abbiamo lavorato molto in fase di prova. Devo dire che ho avuto la fortuna di incontrare proprio i volti e i caratteri che cercavo, per questo il lavoro ha dato dei risultati notevoli. Giravamo circa sei scene diverse

al giorno, sparse qua e là nel copione quasi come in un puzzle, quindi dovevo trovare un modo per aiutare gli attori a concentrarsi facendoli immergere nella situazione. Così abbiamo lavorato molto sulla musica, creando una vera e propria playlist dei cambiamenti di stato d’animo del protagonista; una partitura emotiva, se vogliamo. In quali influenze cinematografiche ti riconosci? Non mi piace mai fare riferimento a un regista o autore in particolare, preferisco dire che mi ispiro a tutti quei film che mi sono piaciuti e che mi hanno lasciato qualcosa. Nello specifico, le influenze sono abbastanza evidenti, The Others di Amenábar e The Village di Shyamalan su tutti. Mi riferisco in particolare al loro modo di filmare una location perché è da lì che questi due registi cominciano a raccontare, ed è da questo loro modo di girare il punto dal quale sono partito e che ho fatto mio. Quanto è stato importante il riferimento letterario a Paradise Lost di Milton nella narrazione di The Nest? Nel film il tema della ricerca è fondamentale. Elena, la madre, cerca di mettere su una sorta di Truman Show nel tentativo di bloccare suo figlio in casa per non farlo entrare in contatto con il male che abiterebbe il mondo esterno. Agli occhi di questa madre la Villa è un paradiso perduto, il luogo migliore in cui crescere. Quindi il poema di Milton mi è sembrato il tramite letterario perfetto per incarnare questo idillio che viene infranto da un figlio alla ricerca spasmodica dell’oltre.

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- Nuove regole dell’immagine/1 -

ORA VINCE IL RACCONTO

Esistono nuove regole dell’immagine al tempo dell’esplosione della serialità, dell’avanzare incontrastato delle piattaforme streaming? E quali vantaggi o svantaggi ha portato il digitale per chi si occupa di audiovisivo? Fabrique l’ha chiesto a cinque esperti... a cura di DAVIDE MANCA E LUCA OTTOCENTO foto BRUNELLA IORIO

ACR Appena reduce da un importante successo internazionale: BBC ha infatti acquisito i diritti per la distribuzione in tutto il mondo di New School, serie originale italiana per ragazzi prodotta da De Agostini Editore/DeAKids. Chi meglio di lei, per ragionare sulle potenzialità che ha dato il digitale proprio a livello di globalizzazione? «Non ritengo» spiega Rondelli «che abbia ormai senso una visione del tipo streaming vs classico broadcasting, perché oggi in realtà si tratta ormai di un sistema fortemente integrato, dove l’arrivo delle piattaforme streaming è stato fondamentale perché ha creato un aumento di domanda di contenuti a livello globale che si è riflesso anche a livello della produzione locale, favorita, oltre che dall’allargamento del mercato in sé, anche da leggi che un po’

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dappertutto, Italia compresa, supportano i prodotti nazionali. Nel mercato kids, come quello di New School, questo si vede ancora di più, perché i bambini sono nativi digitali che cercano il contenuto e non interessa loro la piattaforma (Youtube, Netflix ecc.) in cui lo trovano. Per quanto possiamo poi notare a proposito della struttura, c’è sicuramente una tendenza a proporre contenuti più brevi: i bambini in particolare vogliono subito capire di che si tratta, arrivare al punto, perché sono abituati a passare da un contenuto all’altro. Le lunghezze tendono dunque a seconda delle età a diminuire, partendo dalla mezz’ora per i più grandi fino a scendere a un massimo di 5 minuti per i più piccoli. Un altro grande cambiamento è che non esistono più le sigle, per il medesimo motivo: non si ha


Alba Chiara Rondelli

Fabio Paladini

Ludovico Bessegato

Head of Original Production per i canali TV De Agostini Editore

Produttore creativo e sceneggiatore de Il cacciatore

Produttore creativo, sceneggiatore e regista di SKAM Italia

«LO STREAMING E IL CLASSICO BROADCASTING SONO ORMAI UN SISTEMA INTEGRATO». più voglia di aspettare per vedere il contenuto soprattutto in una visione binge, ed è un cambiamento che sta arrivando anche in TV, anche perché si sa già che il prodotto andrà poi in rete. Per contro le piattaforme OTT si stanno ad esempio attrezzando per avere l’evento, il grande show alla Master chef, in cui il pubblico ricerca il qui e ora come accade in TV. Insomma, siamo in un sistema in cui vige un condizionamento reciproco. Tengo infine a sottolineare, che se dalle serie che arrivano principalmente dai mercati americani non abbiamo nulla da imparare sul piano della tecnica e dell’immagine, c’è ancora molto spazio di crescita sul piano della scrittura: non nel senso che qui manca il talento ma un’organizzazione davvero industriale della scrittura seriale». FP Cos’è cambiato nel tuo lavoro con l’esplodere della serialità televisiva? «Cominciamo col dire che Il cacciatore è una coproduzione RAI, quindi è ancora figlio della televisione dei palinsesti, ad esempio dal punto di vista della struttura narrativa siamo sempre nei 50 minuti canonici a puntata più dieci di pubblicità. Tuttavia, anche in questo tipo di prodotti si risente dell’influsso innovatore delle piattaforme streaming che hanno portato molta più libertà da tanti punti di vista: a livello di struttura, ad esempio, sia nel numero di puntate (Chernobyl sono 5 puntate) che nella durata della singola puntata. E questo, per un autore, è davvero significativo: quando trovi una storia puoi davvero chiederti qual è il formato giusto, mentre fino a poco tempo fa dovevi trovare una storia che fosse già adatta per 12 puntate da 50 minuti. Altra innovazione, questa volta in ambito visivo, è la possibilità di andare su dispositivi diversi, dal grande televisore casalingo al cellulare e al cinema per eventi promozionali. Quello che si insegnava fino a pochi anni fa (in TV il primo piano perché lo schermo è più piccolo, i

campi lunghi al cinema) perciò non è più vero: ora vince il racconto, le necessità della storia. L’asticella qualitativa del prodotto si è tanto alzata che anche il prodotto pensato per la TV risente del nuovo modo di pensare le serie proprio delle piattaforme streaming». LB Potenzialità delle piattaforme digitali oggi e qualche elemento di criticità. «Ho vissuto gli ultimi colpi di coda della pellicola e devo dire che non ne ho nostalgia: era molto costosa e questo limitava nelle scelte, quindi a mio modo di vedere la digitalizzazione ha avuto e ha soltanto vantaggi, soprattutto per i giovani. Per quanto riguarda invece il tema delle piattaforme streaming è chiaro che, come autori, la possibilità di confrontarci oggi con le grandi realtà produttive americane che un tempo potevamo guardare solo con il binocolo è un grande passo in avanti, così come quella di avere a disposizione un’audience non più nazionale ma mondiale. Ed è perfino inutile ricordare quanto è soddisfacente, da spettatori, poter disporre di un catalogo in alta qualità in ogni momento. Però ci sono anche alcune criticità su cui è bene vigilare: quella maggiore è il rischio di una standardizzazione del prodotto. Dal momento cioè in cui ci sono poche piattaforme molto ricche e potenti, quello che bisogna evitare è che la globalizzazione della piattaforma non porti poi a una globalizzazione degli stili e dei contenuti, ma che si punti comunque a valorizzare il talento e il linguaggio locale. Mi auguro che quando andremo a parlare con interlocutori americani o magari cinesi avremo il diritto di esprimere la nostra specificità culturale e possa nascere uno scambio davvero virtuoso, dove il contatto con una grande realtà industriale faccia uscire il nostro cinema dall’artigianato, talvolta tanto autoriale da sfiorare l’autoreferenzialità. Non possiamo però assistere al consolidarsi di un sistema alla McDonald,s, dove l’adattamento al luogo consiste

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Arnaldo Catinari

Stefano Belli

Direttore della fotografia di Suburra

Direttore del magazine Tutto digitale

«LA PELLICOLA È UN RITORNO NOSTALGICO E NON UNA VERA NECESSITÀ». solo nel fatto che al posto della sottiletta ci mettiamo il parmigiano e ci chiamiamo McItaly, ma lavorare affinché il rapporto sia fondato sulla capacità di ascolto e di affidamento anche alle competenze locali. Per adesso abbiamo ancora troppi pochi elementi per sapere dove stiamo andando, stiamo a vedere». AC «Con l’arrivo dei grandi player la qualità visiva si è alzata tantissimo per due motivi: in primo luogo, dal punto di vista eminentemente tecnico, il livello di emissione di Netflix (sotto il profilo colorimetrico, dei contrasti, del rispetto dell’immagine creata dal dop) ha raggiunto vette impensabili fino a qualche anno fa e non è assolutamente confrontabile con l’emissione e la compressione che c’è, ad esempio, nei canali pubblici. E questa qualità visiva rimane costante da un device all’altro, cellulare, tablet, schermo. Per la prima volta riesco a vedere la mia color come l’ho vista in laboratorio! In secondo luogo, dato che la competizione non è più a livello nazionale ma internazionale, lo spettatore è abituato a vedere prodotti “alti” ed è una grande sfida per tutti quelli che si occupano di visivo (fotografia, scenografia e costumi). Infine c’è il 4k che non perdona, nel senso che se una cosa non è perfetta (nelle luci, nei costumi) si vede e risalta come un errore. A me questa rivoluzione piace, l’ho seguita appieno, tanto a mio modo di vedere il dibattito “meglio digitale o pellicola” ha poco senso, è superato dalle molteplici possibilità che il digitale offre. Il look pellicola l’ho ricreato ad esempio nell’ultima serie Sky che ho girato, Petra, con lenti speciali vintage, ma appunto è un effetto digitale. Ormai anche un occhio esperto non è in grado di riconoscere più l’una dall’altro». SB «Io credo che una base di linguaggio cinematografico sia sempre necessaria: come si suol dire, per cambiare le regole bisogna prima

conoscerle. Ciò detto assistiamo al proliferare di nuovi mezzi per la ripresa di immagini: dal drone, al gimbal, allo smartphone, per i quali bisogna trovare altre categorie di analisi, dato che è un diverso linguaggio che va ad aggiungersi e non a sostituire, per fortuna, quello tradizionale. Digitale, pellicola? Stabilito che puoi realizzare un’idea con qualsiasi strumento (per paradosso, un kolossal con uno smartphone) credo che esista un uso appropriato per ogni mezzo. Ad esempio, lo strumento migliore per documentare qualcosa che accade sul momento è un dispositivo che puoi portarti dietro agevolmente e usare al momento opportuno, come il cellulare; per fare cinema classico le mdp di ultima generazione sono le migliori, ma se devi impiegare un drone, ecco che una reflex la puoi montare più facilmente, nascondere dietro a un angolo e via dicendo. Insomma, avendo a disposizione un’ampia gamma di strumenti digitali, la pellicola la vedo anch’io più come un ritorno nostalgico che una vera necessità: tanto più che oggi non esiste più la varietà di pellicole di un tempo e che molte mdp digitali offrono come profilo colore l’imitazione perfetta di alcuni tipi di pellicola. Per non parlare dei costi e del fatto che sono pochi ormai i cinema che possiedono un proiettore 70 mm perfettamente funzionante. Sempre parlando di novità, se lo standard adesso è 8k ‒ è solo una questione di tempo perché si diffonda ‒ esistono già, soprattutto in Estremo Oriente, sale che offrono ulteriori esperienze come il sedile che si muove, lo spruzzo d’acqua, il vento fra i capelli, adatte naturalmente a film sui generis, più da parco dei divertimenti che da sala o salotto. Infine, un altro esperimento visto qui in Europa è lo schermo allargato, con lo schermo frontale che si estende ai due lati fino a formare una sorta di semicerchio: per ora sono stati girati pochi film per questo tipo di visione, ma già lo si usa prima dello spettacolo per pubblicità molto più immersive».

Il dibattito si è svolto in apertura della festa di Fabrique lo scorso 6 luglio al Teatro India, con una seguitissima tavola rotonda nel suggestivo spazio dell’arena estiva.

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- Nuove regole dell’immagine/2 -

LA SALA? HA UN VALORE POLITICO

Rivoluzione digitale, eclissi della pellicola, affermazione della serialità, crisi delle sale, necessità di ristabilire la centralità di una fruizione cinematografica collettiva. Fabrique ha affrontato tutti questi temi cruciali per il futuro della settima arte con il grande direttore della fotografia italiano Luca Bigazzi...

a cura di LUCA OTTOCENTO foto GIANNI FIORITO

U

no come Bigazzi non avrebbe bisogno di presentazioni. In oltre tre decenni di carriera ha lavorato con alcuni dei più importanti cineasti italiani (tra i tanti, Gianni Amelio, Paolo Virzì, Mario Martone, Carlo Mazzacurati, Silvio Soldini) e detiene il record di

vittorie di David di Donatello per la migliore fotografia, ben sette. Inoltre, a partire da Le conseguenze dell’amore del 2004, il nostro è fido collaboratore di Paolo Sorrentino e nel 2017 per The Young Pope è stato anche il primo dop italiano ad essere nominato agli Emmy. Insomma, stiamo parlando di uno degli autori italiani della fotografia per il cinema in assoluto di maggior rilievo dagli anni Ottanta a oggi.

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Ciò che colpisce fin da subito di Luca Bigazzi quando si ha l’opportunità di conversare con lui sono la lucidità, la consapevolezza e la notevole capacità di articolare discorsi assai stimolanti in maniera chiara e diretta. L’intervista che segue ne è un’evidente conferma. Com’è cambiato il lavoro del direttore della fotografia con il passaggio dalla pellicola al digitale? Quali sono dal tuo punto di vista i vantaggi offerti da quest’ultimo? La fotografia digitale è ormai lo standard su cui lavoriamo tutti, a eccezione di alcune rare produzioni che usano ancora la pellicola. Paradossalmente, però, quando vado a vedere al cinema film girati in pellicola non riesco a capire se davvero sono stati realizzati in


«CREDO FERMAMENTE NELL’IMPORTANZA DELLA VISIONE COLLETTIVA DEI FILM». pellicola o in digitale. Eppure, facendo il mio mestiere da tanti anni, dovrei avere gli strumenti per capirlo al volo. La verità è che, dal punto di vista tecnico, il digitale è superiore su ogni piano perché è più elastico, manovrabile, leggero e offre un’infinità di possibilità creative, con innumerevoli opzioni di variazioni cromatiche. Girare in digitale oggi è non solo una necessità morale ed ecologica in quanto meno inquinante, ma rappresenta anche un grandissimo vantaggio sul piano squisitamente formale, toglie freni alla creatività e dà la possibilità di democratizzare il nostro lavoro aprendo ai giovani. Uno dei grandi punti di forza del digitale, in effetti, risiede nella sua economicità. Senz’altro, ma ci tengo a specificare una cosa a riguardo. Spesso sento dire che con il digitale si gira distrattamente, senza farsi tanti problemi, perché non bisogna stare attenti ad evitare di sprecare metri di costosa pellicola. Questo non è affatto vero. Il problema centrale del fare cinema non è mai stato davvero il costo della pellicola, ma il tempo, in assoluto la cosa più preziosa che si ha durante la lavorazione di un film. È il tempo il vero costo di una produzione cinematografica. Per cui non ha alcun fondamento il discorso secondo il quale se si gira in digitale allora ci si può permettere di ripetere la stessa inquadratura cinquanta volte, perché in questo modo i costi aumenterebbero vertiginosamente. Con il digitale, inoltre, oggi mi sento molto più libero di quando lavoravo con la pellicola poiché non sono più condizionato da evidenti limitazioni tecniche dovute al supporto. Perché in tanti ancora, tra registi di fama internazionale, addetti ai lavori e cinefili, rimpiangono la pellicola? La celluloide continuerà a convivere con il digitale? Dal mio punto di vista per la pellicola non c’è alcun futuro e il rimpianto per essa lo trovo abbastanza ridicolo. Si tratta di una scelta romantica, tecnicamente ingiustificata e retrograda: è come se oggi rimpiangessimo i motori a scoppio, il telefono a gettoni rispetto al cellulare o il fax rispetto alla mail. La rivoluzione digitale nel cinema è già arrivata e personalmente non ho alcun rammarico per questo: se mi facessero un’offerta obbligandomi a girare un film in pellicola, ringrazierei e rifiuterei. La scomparsa della celluloide non mi preoccupa per niente. Ciò che mi allarma, piuttosto, è un altro aspetto.

che una comunità di persone isolate davanti ai propri computer, smartphone o schermi televisivi è molto più controllabile politicamente rispetto a una comunità che si riunisce, discute, che vede, pensa e sente collettivamente. In generale, sono convinto che l’empatia e la comunicazione non verbale tra le persone siano uno strumento fondamentale di conoscenza. In quanto forma creativa d’arte collettiva, il cinema va fruito collettivamente. Jean-Luc Godard diceva che per guardare lo schermo cinematografico bisogna alzare la testa. Se ci pensi, invece, per vedere un film in uno smartphone o in un tablet il capo lo devi abbassare. Quindi, alziamo la testa e vediamo i film insieme. Cosa pensi della prepotente affermazione della serialità televisiva? Qual è la strada da percorrere per restituire centralità alla sala cinematografica? Quella della serie mi sembra una forma espressiva molto interessante, perché permette agli autori di sfuggire alla rigidità dell’ora e mezza/due ore di durata, che alcune volte rappresenta un problema. Sono felice che ci sia la serialità. In questo contesto, bisogna concepire una nuova idea di sala cinematografica che si apra anche alle serie. Sono certo che molte serie potrebbero avere un grandissimo successo al cinema. Quando ad esempio alla Cineteca di Milano è stato proiettato tutto The Young Pope, la sala ogni sera era piena. I cinema devono essere concepiti come spazi di aggregazione sociale e devono offrire luoghi di ritrovo dove incontrarsi prima e dopo la proiezioni. Alla crisi delle vendite dei biglietti non si può rispondere aumentando i prezzi o creando il deserto culturale intorno alle sale, negando ad esempio la possibilità di organizzare iniziative pubbliche gratuite. Molti distributori ed esercenti purtroppo non si rendono conto che è anche grazie a queste ultime che si possono convincere persone ormai disinteressate all’esperienza della sala a tornare al cinema.

Luca Bigazzi al lavoro sui set di The Young Pope e Loro.

Quale? Ha forse a che fare con la fruizione cinematografica? Esattamente. Sono molto preoccupato dall’idea che i film o le serie TV vengano visti sempre più in maniera individuale. Credo fermamente nell’importanza della visione collettiva delle opere audiovisive: solo in una sala insieme ad altri spettatori che non conosciamo, nel passaggio delle emozioni, delle vibrazioni, delle risate o del disappunto, può davvero avvenire la comprensione cinematografica. Tutto ciò ha anche un valore politico, nel senso

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- Arts -

Lorenzo Mò Con DOGMADROME, la sua prima storia lunga a fumetti, ha vinto quest’anno il PREMIO BARTOLI al festival ARF! di Roma. Piemontese, classe 1988, Lorenzo Mò condensa nel suo lavoro una straordinaria passione per i più diversi linguaggi espressivi e MARCOdiPACELLA ludici, dall’animazione al gioco di ruolo.

GIOCHI DI RUOLO Che effetto fa aver vinto il Premio Bartoli e quanto ti sta dando in termini di consapevolezza? Sinceramente non mi aspettavo di vincere un premio così importante, soprattutto sapendo chi erano gli altri candidati: tutti artisti che stimo e apprezzo profondamente. Vincere il premio credo mi abbia dato maggior sicurezza, ed è la stessa sensazione che ho provato con la critica e in generale l’accoglienza che ha avuto Dogmadrome. Nel libro emerge in maniera evidente il tuo rapporto profondo e multiforme con diverse espressioni narrative, dalla serialità televisiva ai giochi di ruolo, dall’animazione al videogioco.

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Con Dogmadrome il lettore entra nella mente di quattro amici che affrontano un'avventura dopo l'altra in un gioco di ruolo, senza preoccuparsi delle difficoltà che che può comportare il divertimento: tornare alla realtà uscendo dal dominio della fantasia.

Il mio modo di pensare a una storia si rifà moltissimo all’animazione: quando mi viene in mente un racconto, di solito i personaggi nella mia testa si muovono come se fossero all’interno di un cartone. Dico questo perché il primo approccio che ho avuto con il disegno coincide con la forte attrazione che da bambino avevo (e ho tuttora) per le immagini in movimento. In generale però, penso che sia una cosa normale vedere i propri personaggi che prendono vita durante la stesura di una storia. Parlando di serie TV, invece, ritengo che stiano modificando il nostro modo di pensare e di concepire il modo di narrare: mai come in questo momento la gente sente il bisogno di avere a disposizione un intrattenimento il più lungo possibile e potenzialmente infinito. Io stesso vorrei poter fare una serie a fumetti



Dogmadrome è insieme una dichiarazione d'amore per i giochi di ruolo e un'esplorazione del potere della mente con tutte le sue inquietudini.

che non abbia una fine. Malgrado ciò, Dogmadrome non è stato progettato come un episodio all’interno di un format più grande; in questo senso l’avventura di Fede, Gianni, Edo e Paro va intesa forse più come un film, dal momento che è una storia autoconclusiva. Dal punto di vista ludico, sono sempre stato molto attratto dai videogiochi: parlo della loro evoluzione, degli stili e del modo che

hanno di coinvolgere i giocatori da quando è nata l’era del web così come la conosciamo. Tuttavia, nonostante la loro potenza, ho sempre preferito giocare di ruolo, forse perché avere a disposizione un medium che mi permettesse di giocare senza limiti era qualcosa che di gran lunga superava qualsiasi stupefacente grafica di qualsiasi stupefacente videogame. La storia segna una complessa dialettica fra realtà e immaginazione, mettendo in luce anche i rischi legati agli sconfinamenti fra questi due mondi. Come è nata l’idea e come ha preso forma nel tuo racconto? Dietro Dogmadrome si nasconde la necessità di congelare, in

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circa duecento tavole, il periodo della mia vita in cui, insieme a mio fratello e ad altri due amici, si giocava a Dungeons&Dragons e ad altri giochi di ruolo inventati da noi, con regole tutte nostre. Nonostante ciò, non c’è nulla di strettamente autobiografico all’interno del libro, perché sarebbe stato tutto molto noioso: quello che intendevo fare era cercare di mettere insieme la storia di una grande amicizia, e siccome volevo scrivere un racconto di avventura fantasy ancorato alla realtà, ho pensato di controbilanciarla con l’immaginario proprio di questo genere, dai caratteri al linguaggio dei personaggi, nel modo più verosimile possibile. Questo cortocircuito tra reale e

fantastico ‒ che ho cercato di evidenziare nei personaggi attraverso il contrasto fra la scelta dei nomi e del vocabolario adolescenzialsboccato con il loro aspetto ‒ è una cosa che mi ha sempre affascinato, perché i protagonisti vengono posti di fronte a scelte fuori dal comune ed è interessante vedere uscir fuori in questi termini il loro vero carattere. Oltre a tutto ciò però m’importava dare al libro il tono di una storia di crescita, per mostrare infine come la pura evasione dal quotidiano possa avere dei risvolti tremendamente pericolosi. La critica ha posto più volte l’accento sulla tua piena consapevolezza del mezzo fumettistico, un fattore certamente


non scontato in un esordio su storia lunga. Sarei curioso allora di sapere qual è il tuo percorso formativo e quali sono gli autori a cui hai attinto per la tua crescita professionale. Ho cominciato a pubblicare alcune piccole cose nel 2014 su LÖKzine e nello stesso anno fui coinvolto in Novel, un progetto antologico edito da Eris insieme ad Albertina Press. Dall’anno successivo in poi ho collaborato con riviste indipendenti come Lucha Libre, B Comics e anche Linus. Nel 2015 ho maturato l’idea di scrivere e disegnare una storia di più ampio respiro e finalmente di proporla a Eris. Dietro al mio modo di disegnare c’è un percorso lunghissimo dove agli studi fatti al Liceo Artistico e in Accademia di Belle Arti si affianca tutto l’immaginario che mi ha influenzato durante il periodo dell’infanzia

Sia in Dogmadrome che in Merendino – la tua serie pubblicata su Linus – colpisce la scelta di impostare la tavola non lasciando spazio fra le vignette, ma anzi serrandole fra loro e accentuando così il ritmo narrativo. Come è nata questa idea e come procedi più in generale a livello tecnico ‒ storyboard, materiali, colorazione? La scelta di serrare le vignette in uno spazio pressoché inesistente nasce dalla necessità di ingabbiare in modo sistematico e razionale l’horror vacui fatto di segno e colore, creando anche sul piano formale una specie di cortocircuito tra l’impostazione rigorosa della tavola e il contenuto più esplosivo delle vignette. Da un punto di vista tecnico, procedo normalmente con un breve storyboard per

e dell’adolescenza. Come dicevo, il mio gusto personale e quello che so fare derivano in gran parte dal disegno animato: penso alla Disney con maestri del calibro di Ward Kimball e Milt Kahl. Tra le influenze ci metterei anche Tex Avery, Bob Clampett, Robert McKimson e Chuck Jones per citare la Warner Bros, pezzi da novanta del fumetto come Floyd Gottfredson, Jack Kirby, Akira Toriyama, Benito Jacovitti, molto dell’underground francese, americano e italiano, gran parte della produzione dello Studio Ghibli, ma anche pellicole come l’Armata Brancaleone e il suo seguito o Amici miei. Naturalmente non basta solo lo studio dei grandi maestri, è necessario digerirli e rielaborarli facendo i conti con i propri punti deboli e i punti di forza, sia sul disegno che sul colore.

visualizzare il numero di vignette e il testo inserito al loro interno. Il passaggio successivo è la stesura a matita della tavola e poi si passa alla colorazione digitale di tutto quanto. A cosa stai lavorando? Ci sono nuove strade che stai percorrendo a livello espressivo? Al momento sto chiudendo un lavoro collettivo del quale non posso ancora parlare, e sto pensando a due progetti un po’ più grossi di cui per scaramanzia non voglio ancora dire nulla. Mi piacerebbe trovare la stessa forza visiva che ho con il colore anche attraverso il bianco e il nero e provare con qualcosa a più mani, lavorare per esempio a una storia scritta da qualcun altro.

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olete davvero sapere come sono fatti i romani? I loro pregi e difetti (che spesso si fondono)? Guardate Borotalco. Guardatelo una, dieci, mille volte, tanto non vi stancherà mai, e finalmente lo saprete. Dopo due film “un sacco belli”, Carlo (tra capitolini ci si chiama per nome anche se non ci si conosce) toglie le maschere e trova il suo personaggio migliore, Manuel Fantoni. Senti come suona bene: «Manuel. Fantoni», e crea il nostro vero role model in fatto d’amore. Benvenuti Sergio, sfigatissimo neoassunto da I Colossi della Musica, non riesce a essere veramente se stesso con Nadia, una splendida Eleonora Giorgi, una di quelle bellezza popolari da far girare la testa, come si direbbe a Roma: ’na fata. Siamo tutti Manuel Fantoni in amore: vogliamo apparire più fichi, interessanti e avventurosi, ma in fondo siamo solo romanticissimi “coglioni”. «Un bel giorno, senza dire niente a nessuno, mi imbarcai su un cargo battente bandiera liberiana». «Senti che so’ ’ste olive! So’ greche!». «Al tatarattatà scendi». «Ciao Lucio! Ciao!». Sta tutta qui la grande forza dei film di Carlo, la capacità di rimanere

CHICKEN LUCIO DALLA. LUCIO DALLA. LUCIO DALLA.

impressi nella memoria, con i personaggi dalle battute fulminanti, le situazioni paradossali eppure straordinariamente quotidiane. Carlo Verdone è la voce di Roma, l’unico che ha saputo raccontare i coatti senza da questi essere odiato, anzi al contrario, lo venerano; l’unico che ha dato ai tanti personaggi assurdi e coloriti che si incontrano per le vie della capitale una caratterizzazione sempre piena di verità neorealista, a volte malinconica a volte graffiante, ma sempre carica di un amore spassionato. Borotalco è di certo il suo film più importante, quello dove lasciava nell’armadio le parrucche e i tic dei personaggi televisivi tanto amati e provava a metterci la faccia, anzi il facciotto rubicondo e timido. In un susseguirsi di scene cult, la storia d’amore tra Sergio, anzi Manuel, e Nadia diventerà un castello di bugie ogni giorno più grande, il cui crollo lascerà ai due molte ferite. Ma la speranza, anche tra micidiali palazzoni di periferia, è l’ultima a morire. Verdone ama Roma tutta intera, e non è un caso che uno dei suoi attori feticcio, Mario Brega, un grande e grosso omone che veniva dai western di Sergio Leone, debba proprio a Verdone la sua celebrità. Come direbbe lui: «’Sto firm è ’n zucchero. E nnamo e veditelo! Eddaje!».

BROCCOLO

SE CHRISTIAN DE SICA NON SI FOSSE PERSO NEI CINEPANETTONI SAREBBE STATO UN GRANDE.

VAN ORTON Due gemelli torinesi balzati agli onori del mondo dell’illustrazione con la forza di una Catapulta Infernale (ogni riferimento...). Hanno iniziato disegnando luminosi poster cinematografici che sembravano vetrate mistiche, ora sono baronetti di una Pop Art tutta italiana. Hanno lavorato per Marvel, Variety, Empire, NBA e collaborato con Jon Bon Jovi e Pearl Jam. vanortondesign.com

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- Zona Doc /1 -

SHELTER: FAREWELL TO EDEN

PASSAGGI Il documentario ci fa seguire la vicenda umana di Pepsi, partita da un'isola dell'arcipelago filippino per salvarsi e che, dopo dieci anni in Libia con un lavoro come infermiera, si trova a vagare per l'Europa attraversando il confine di Ventimiglia.

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LA FRONTIERA CORRE SEMPRE NEL MEZZO, SCRIVEVA ALESSANDRO LEOGRANDE, SCAVA E SEPARA, ED È SUL MARGINE DELLE FRONTIERE CHE OGGI SI GIOCA LA GRANDE PARTITA POLITICA DEL MONDO CONTEMPORANEO. di STEFANIA COVELLA


«HO VISSUTO L'ARTE SEMPRE IN MANIERA POLIMORFICA E QUESTO È EVIDENTE NEL DOCUMENTARIO».

T

ra paesaggi suburbani e una forte sensazione di spaesamento Shelter: Farewell to Eden di Enrico Masi restituisce un’esperienza vitale che va oltre il semplice dibattito contenutistico, facendosi sensazione vivissima e pungente. Shelter è l’unico documentario italiano nominato per il Doc Alliance Award, presentato a Cannes quest’anno, ed è la più che mai attuale e dolorosa storia di Pepsi «gay, musulmana, ribelle, infermiera, rifugiata, amo tutte queste parti e devo sostenerle perché è un mio diritto», un individuo in transizione che non mostra mai il suo volto, ha sette nomi e l’ottavo, quello vero, non lo userà. Come hai conosciuto Pepsi e la sua storia? Con la Caucaso stavamo lavorando da quasi due anni su un progetto incentrato sui servizi d’accoglienza per i rifugiati. Shelter era nato come un film su questi luoghi di transito, effimeri, ripetitivi, e si è come creata una via che procedeva dal sud al nord fino a Ventimiglia, nodo nevralgico del film ma se vogliamo anche dell’identità europea, che poi proseguiva in Francia. Abbiamo conosciuto Pepsi a Porte De La Chapelle, nel nord di Parigi, ancora dentro la périphérique, quasi una cinta muraria post-moderna. Si è manifestata di fronte a noi come un’apparizione e lei stessa ci ha scelti. Come è nata la tua vocazione per il documentario? Lavoro come artista visuale da molto tempo, la mia prima opera (2003) venne presentata alla Cineteca di Bologna e questo mi ha dato il coraggio per continuare. Con la Caucaso, negli anni, abbiamo cominciato a occuparci di cinema e di arte. Il passaggio al documentario è stato quasi strumentale, mi ha ispirato una dichiarazione di Pasolini: come lui ho scelto il cinema per arrivare a un pubblico più vasto per questioni politiche e non strettamente espressive. Ho comunque vissuto l’arte in maniera sempre

polimorfica e credo che questo sia evidente nel documentario. C’è stato un momento in cui hai sciolto il nodo che ti ha spinto a girare un film su una tematica così forte e allo stesso tempo così distante da te? Il momento in cui ho pianto, davanti a uno scenario impossibile da sostenere, è stato a Ventimiglia, sotto una neve rara per quei territori, coperti dal ponte dell’autostrada. Quasi un “altro” spazio, un paesaggio indefinito, come una sorta di Gaza, in cui non ci sono regole e i confini sono un limite ma anche un pericolo, un simbolo di morte. Hanno coinciso due emozioni: sapere che il film era lì ma anche un’assoluta sensazione di distanza. Come artista mi trovavo in quei luoghi per rappresentare qualcosa e tornare poi a casa, al sicuro, mentre per quelle persone si trattava di vita o di morte. Abbiamo fatto comunque il possibile per Pepsi, il nostro lavoro le ha permesso di ottenere lo stato di rifugiata per motivi umanitari. Pepsi viene dalla Libia, quella che già Alessandro Leogrande ne La frontiera segnalava come luogo ostile, dalla quale provengono i racconti più terribili. Lei però ricorda la Libia con piacere, ci ha vissuto per dieci anni e, prima della morte di Gheddafi, aveva un contratto, lavorava come infermiera, frequentava degli amici. I pericoli, paradossalmente, li ha vissuti in viaggio e in Europa, a causa della progressiva marginalizzazione. La Libia è di difficile comprensione per noi che viviamo la realtà occidentale, ma è il frutto di una controversia internazionale che ha portato all’eliminazione di un leader e a un caos ingovernabile. Pepsi, a un certo punto, medita di tornare: a noi sembra incredibile, ma per alcuni la Libia è comunque casa. La visione che il mondo ha della transessualità è ancora stereotipata e spesso legata alla prostituzione; ma le posizioni di

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«SI HA PAURA DI UNA STORIA COSÌ TRAGICAMENTE POSITIVA, SAREBBE LA VITTORIA DI UNA VISIONE IN CUI I MIGRANTI SONO UNA RISORSA E NON UN PERICOLO».

Shelter è il terzo capitolo della trilogia realizzata da Enrico Masi, dopo The Golden Temple (2012) e Lepanto (2016), dedicata alla resistenza e alla resilienza.

Pepsi hanno suscitato alcune perplessità anche nella comunità LGBT+. Sia a Copenaghen che durante la presentazione di Shelter al BFI Flare: London LGBT Film Festival, abbiamo avviato un dibattito molto importante su questo tema. Ragazzi e ragazze transessuali sono intervenuti anche criticando la comunicazione del film, rea di ridurre la storia a quella di una transessuale filippina che però, nel corso del documentario, si definisce più volte gay e parla esclusivamente di omosessualità, in termini a volte controversi. Pepsi ha dovuto interrompere il processo di transizione di genere per sopravvivere e ricercare la stabilità necessaria, nel film non si definisce mai transgender. Abbiamo scelto di non calcare la mano su una questione delicata come l’autodefinizione. Quando Pepsi parla di Europa, ribalta la questione ed è un discorso importante nell’era dei porti chiusi, del decreto sicurezza e della propaganda dell’invasione. I media hanno sempre una certa difficoltà nel rappresentare storie come quella di Pepsi. Il tema migratorio è all’ordine del giorno e questo lo trasforma in

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genere. Si ha paura a mettere al centro una storia così tragicamente positiva. I media fanno fatica a rendere protagonista una storia come questa, sarebbe la vittoria d’una visone aperta e sociale in cui i migranti sono una risorsa e non un pericolo. A cosa ti dedicherai adesso? Quella che Shelter conclude è una trilogia dei grandi eventi o delle grandi mutazioni sociali, iniziata nel 2010. Oggi che è completa, voglio occuparmi di cose nuove, con lo sguardo che ho maturato. Non mi fermo mai, se non sto scrivendo sono sempre in strada o in viaggio. Per questo ho seguito cose anche lontane da me, cittadino dell’Emilia rossa: ho quasi avuto vergogna di questa provenienza così docile e pacificata, non ho mai conosciuto il conflitto nella mia origine ed è forse questo il passaggio che farò dopo, tornare all’Appennino settentrionale, un po’ come tornare alla Resistenza, per realizzare una ricerca ambientale di ecologia politica. Sto anche per concludere un altro film, A proposito di Levi, una biografia d’arte su Carlo Levi, una co-regia con Alessandra Lancellotti prodotta da Caucaso e Istituto Luce.


- Zona Doc/2 -

MARGHE E GIULIA, CRESCERE IN DIRETTA

C’È UNO SMARTPHONE FRA NOI “Marghe e Giulia Kawaii”, due bambine di 9 e 12 anni, sono seguite online da 300mila persone. Il film di Alberto Gottardo e Francesca Sironi racconta la vita quotidiana delle due sorelle alle prese con un modello di successo nel quale realtà privata e riconoscimento pubblico, ricordi e contenuti condivisi in rete si sovrappongono continuamente. di SAMUEL ANTICHI Alberto e Francesca, cosa vi ha spinti a concentrarvi su queste due giovanissime influencer? Quando eravamo piccoli abbiamo trascorso entrambi ore e ore davanti alla TV. Ora vedevamo figli e nipoti trascorrere pomeriggi interi davanti a YouTube o sui social network, cogliendo così l’enorme differenza fra quello che allora era il nostro semplice fruire e il nuovo fare ‒ fra il guardare e subito riprodurre, interagire, chiedere ‒ che il virtuale comporta soprattutto a chi vi si affaccia da protagonista. In tutto questo, non trovavamo esplorazioni documentarie che interrogassero la specificità di queste nuove forme di intrattenimento. Abbiamo conosciuto Marghe e Giulia per caso, quando la nipote di Alberto, una domenica a pranzo, si è messa a guardare un loro video. Siamo andati a trovarle per la prima volta nel 2017 e per oltre un anno abbiamo fatto visita alla famiglia. Non avevamo presupposti di indagine, solo domande. Entrando nella loro casa, seguendole in giro, cercavamo di ascoltare le risposte dalla realtà, semplicemente. Qual è stato il vostro approccio verso un racconto e una forma testimoniale esplicitamente ricostruita e finzionale come quella attuata dalle due ragazze nei propri video? La nostra telecamera, pur non intervenendo, portava lì,

immediatamente, lo spazio attorno. Quello che comunemente si definirebbe backstage, ma che è diventato molto di più: l’interazione con gli altri, i luoghi che le bambine frequentano, l’atteggiamento nei loro confronti dei vari mondi che incontrano ma soprattutto le relazioni che si muovono dentro e fuori dall’inquadratura del telefonino con cui le sorelle e i genitori sono abituati a guardare, guardarsi e raccontarsi. Come è stato percepito da parte delle due ragazzine e dei genitori l’ingresso della vostra macchina da presa, e quindi del vostro sguardo, nel loro quotidiano, uno spazio sì condiviso ma dopo appurate selezioni e ritocchi? Il tempo, forse, è stata la principale distanza che le sorelle, ma anche i genitori, hanno percepito fra la loro esperienza del racconto e quella che stavamo portando avanti noi con il documentario. La lentezza del nostro percorso sfuggiva ai meccanismi di immediata verifica, come gratificazione o fallimento, a cui espone invece l’online. Quando un anno dopo abbiamo invitato tutta la famiglia a Milano per vedere il montato è stato intenso, difficile ed emozionante e ci ha confermato che bisogna sempre amare i propri protagonisti. Forse è in quell’amore, che ha continuato a crescere dal primo incontro, che si può spiegare anche il senso del documento che abbiamo costruito insieme.

Marghe e Giulia è prodotto da Somewhere Studio in collaborazione con Sky.

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ottenere una rivincita rispetto ai torti subìti. Con il sostegno costante del produttore (Riccardo Di Pasquale – Fenix Entertainment), sto coinvolgendo fotografia (Davide Manca) e costumi (Alessandro Lai), e ben presto anche scenografia e make-up, perché tutti i reparti lavorino in sinergia, studiando cromaticamente le inquadrature per realizzare dei veri e propri quadri emozionali.

DALLA TV AL GRANDE SCHERMO Regista di teatro e TV, sceneggiatore, scrittore: la carriera di Daniele Falleri è costellata di successi. Manca solo il tassello del cinema, che l’autore presto andrà a riempire. Fra poco, infatti, inizieranno le riprese del suo primo lungometraggio, un thriller dal respiro internazionale che si intitolerà It was a dark night.

Finalmente approdi al grande schermo con un thriller, un genere di lunga tradizione internazionale, ma poco frequentato dal cinema italiano. It was a dark night è indubbiamente un film di genere e si inserisce nella grande famiglia dei thriller. Ma è riduttivo imbrigliarlo in un’unica definizione, perché è una storia contaminata da più sottogeneri. Facendo un triplo salto mortale potrei dire che è uno psico-

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thriller drammatico con tratti comedy. Più seriamente, cerco di raccogliere le emozioni del reale, dove, come sappiamo, anche nei dettagli drammatici possono esplodere scintille di ironia. Il linguaggio del cinema è diverso da quello televisivo e teatrale. In cosa rinnoverai il tuo stile? Cinema, TV e teatro hanno linguaggi diversissimi, ma partono tutti dalla stessa fonte

creativa: raccontare storie. Io vengo dalla scrittura di narrativa e solo dopo sono stato folgorato dalla narrazione per immagini. E dopo ancora dalla regia. Ho fatto la gavetta provando sulla mia pelle cosa significa perfezionare la lunghezza di una battuta, la costruzione di una scena. Ci sono storie che possono essere raccontate solo in televisione, oppure solo in cinema o in teatro. It was a dark night è cinema. È una storia universale in cui i personaggi lottano per

Hai la fama di avere un bel rapporto con gli attori con cui lavori. Quanto è importante il contributo attoriale per la buona riuscita di un’opera? Partiamo da un assunto: io amo gli attori. O più precisamente amo lavorare con attrici e attori che amano il proprio lavoro. Sono loro complice, cerco di creare un clima in cui percepiscano che possono contare su di me, che abbiamo un solo comune obiettivo e soprattutto che insieme ce la faremo. Mi faccio ispirare dalla realtà che ho di fronte, cioè un’attrice o un attore con quello sguardo, con quella camminata, con quel respiro che è suo ed unico. E lotto perché proprio quello sguardo, quella camminata, quel respiro siano quelli perfetti per il personaggio. Voglio che tutti gli elementi sia del cast che della troupe si sentano essenziali e percepiscano il film come loro. Mi piace quando anche il runner, parlando del film, dice: “Il mio film.”


Se dovessi scegliere? Hans Zimmer è in assoluto il migliore degli ultimi trent’anni, è monopolizzante, di un altro pianeta: è il loro (degli americani) Morricone. Ma anche Danny Elfman è un genio, non si vergogna certo a scrivere delle grandissime poesie musicali.

MIRKOEILCINEMA

Mirko Mancini ha un carisma fuori dal comune, ed è grazie a questo combustibile naturale che riesce sempre a estrarre creatività d’oro dalle sue vene.

Ne è rimasto affascinato anche Claudio Bonivento dopo averlo visto in concerto all’Auditorium di Roma, e ha deciso di affidargli la composizione della colonna sonora del suo A mano disarmata. Ma non è un debutto: «È il mio secondo lungometraggio, ma il primo come Mirkoeilcane». Prima di Bonivento, l’allora Mirko Mancini aveva lavorato con Vincenzo Alfieri per le musiche in supporto a I peggiori nel 2017. «Ho scritto tanto anche per

cortometraggi, ma è chiaramente un altro tipo di approccio. In un lungometraggio ci sono tanti personaggi, scene, atmosfere differenti; è molto più importante il rapporto che si instaura con il regista, trovare la giusta confidenza, anche perché è un mondo dove le pretese sono giustamente molto alte. Sei un appassionato di compositori? Assolutamente sì, soprattutto di quelli per il cinema.

Che stile pensi di avere come compositore di colonne sonore? Non ho la cultura musicale che hanno loro, ho studiato tanto, ma mai quanto loro. Inoltre devo necessariamente tenere conto del budget e del tempo a disposizione: loro hanno mesi o anni, e poi orchestre, filarmoniche... Io ho a disposizione un computer; e quando va bene un quartetto d’archi. Che stile pensi abbia il tuo nuovo disco? Guarda, in questo momento c’è tanta arrabbiatura, delusione, o come diciamo noi a Roma, tanto “rodimento de culo”. Passi una vita a inseguire, a sognare di diventare qualcosa. Poi ci arrivi e ti accorgi che quel mondo non è così sfavillante come pensavi; più grande è la porta, più grandi sono i favoreggiamenti, la politica, le clientele, tutte cose che fanno male quando ti accorgi che stanno accadendo proprio a te; e allora ascolti la voce pura che arriva dal cuore e dice “ma annatevene tutti…”.

Molto chiaro. Come si trasforma in musica tutto questo? Attraverso il concetto di libertà. A Sanremo siamo stati molto attenti all’arrangiamento, molto cerebrali; adesso voglio lasciar andare tutto quello che mi viene in mente. E al momento mi viene in mente qualcosa di estremo. Proprio per evitare di continuare ad essere accostato ad altri artisti. Mannarino e Silvestri. Esatto, e ci sta, è normale che sia così. Questa volta voglio provare ad essere Mirko, oppure De Gregori. La donna cannone oggi… … non arriverebbe neanche ai Bootcamp di XFactor. Ma qualcosa di bello e profondo ci dovrà pur essere! Sì, certo. Ad esempio Stefano Bollani, uno dei musicisti più preparati del pianeta, oltre a essere una delle persone più simpatiche e umili al mondo. Poi c’è l’altro mio mito che è Cory Henry, talmente sovraumano che pure YouTube me lo consiglia se ascolto troppo Baby K o J-Ax. Sul podio c’è anche Jeff Beck, sia chiaro. Quindi ascolteremo un assolo sul tuo nuovo album. Sì, un assolo a canzone! D’altronde prima di “diventare” Mirkoeilcane, volevo essere il chitarrista più bravo del mondo.

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- Focus -

TUTTO QUELLO CHE DOVETE SAPERE SUL

DIRITTO D’AUTORE

Che i rapporti tra autori e produttori cinematografici non siano sempre idilliaci è storia nota. A volte differenze di vedute possono risultare vincenti, come è accaduto per il leggendario rimontaggio di Nuovo Cinema Paradiso voluto da Franco Cristaldi, che ha contribuito a coronare con un Oscar il film di Giuseppe Tornatore. di CATERINA NICCOLAI*

niccolaicaterina@gmail.com

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FABRIQUE HA CHIESTO A UN’ESPERTA DEL SETTORE DI SPIEGARE CON CHIAREZZA QUALI SONO LE COSE PIÙ IMPORTANTI CHE OGNI AUTORE DEVE CONOSCERE: QUESTO È IL PRIMO ARTICOLO DI INTRODUZIONE GENERALE ALL’ARGOMENTO. * Avvocato, specializzata in diritto della proprietà intellettuale e industriale, con principale attenzione al diritto d'autore in ambito cinematografico e televisivo.

N

ella maggior parte dei casi, però, rischia di compromettere o, addirittura, paralizzare le lavorazioni di un film. Prima di intraprendere un’avventura cinematografica è, quindi, consigliabile equipaggiarsi di un bagaglio di strumenti e conoscenze essenziali sui propri diritti per districarsi in quella giungla di contratti, liberatorie, regolamenti e normative in cui ci si imbatte nel percorso che porta alla realizzazione di un’opera audiovisiva. In Italia la principale fonte normativa di riferimento in materia di diritto d’autore è la Legge 22 aprile 1941, n. 633 (l.d.a.), la cui norma di apertura stabilisce che: «Sono protette ai sensi di questa legge le opere dell’ingegno di carattere creativo che appartengono alla letteratura, alla musica, alle arti figurative, all’architettura, al teatro e alla cinematografia, qualunque ne sia il modo o la forma di espressione» (art. 1 l.d.a.). Dalla lettura di tale articolo si evince che la tutela giuridica delle opere dell’ingegno, tra cui quelle cinematografiche, sorge esclusivamente per il fatto della creazione, ossia è necessario esprimere, rappresentare e diffondere il personale pensiero dell’autore attraverso una forma concreta. Oggetto di tutela non è quindi l’idea in sé che nasce nella mente dell’autore, la quale non può in alcun modo essere monopolizzata, ma il modo in cui l’idea viene “esteriorizzata” e portata alla conoscenza del pubblico. Ad esempio, riceverà tutela il soggetto in cui l’idea creativa posta alla base del racconto filmico è adeguatamente sviluppata e contiene una sufficiente caratterizzazione dei personaggi, mentre non sarà protetta la sinossi consistente in un mero riassunto che tratteggia in modo sintetico la struttura e le articolazioni essenziali di una storia. Contrariamente a quanto molti pensano, non sono, invece, richiesti atti formali costitutivi del diritto d’autore come la registrazione presso società di collecting (ad esempio la SIAE). Attenzione, però, tali formalità sono assolutamente necessarie per provare che si è autori di un’opera. In altre parole, la registrazione ha un valore indiziario e presuntivo dell’esistenza di un’opera e del nome del suo autore, ma l’opera è tutelata anche in difetto di registrazione. Ciò significa che, nell’eventualità di contestazioni circa la titolarità dei diritti su un’opera, se ne presumerà autore, salvo prova contraria, colui che risulta registrato presso gli appositi registri. Ma cosa significa essere autore di un film o di una serie? E quali sono i diritti che la legge attribuisce agli autori di tali opere? Ai sensi dell’art. 44 l.d.a. sono autori di un’opera cinematografica l’autore del soggetto, l’autore della sceneggiatura, l’autore della musica e il direttore artistico (il regista). L’opera audiovisiva è, quindi, frutto del contributo di più autori, ciascuno dei quali ha pari importanza, in quanto tutti essenziali e determinanti alla realizzazione della stessa. A tutti spettano i cosiddetti diritti patrimoniali e morali sull’opera. I diritti patrimoniali sono quelli che attribuiscono agli autori il diritto di utilizzare e sfruttare economicamente l’opera in ogni forma e modo, ad esempio pubblicarla, riprodurla, distribuirla, elaborarla, tradurla ecc. Possono essere ceduti a terzi. Hanno una

durata limitata nel tempo: si estinguono trascorsi settant’anni dalla morte dell’ultima delle persone sopravvissute tra il regista, gli autori della sceneggiatura, ivi compreso l’autore del dialogo e l’autore della musica specificatamente creata per essere utilizzata nell’opera. I diritti morali conferiscono agli autori il diritto a essere riconosciuti come autori di un’opera, di rivendicarne la paternità nei confronti di chiunque si qualifichi come autore della stessa e di opporsi a eventuali modifiche, deformazioni, mutilazioni dell’opera stessa che possano pregiudicare l’onore e la reputazione dell’autore dell’opera, ossia che diano al pubblico una visione distorta della personalità e della fisionomia culturale dell’autore. Non sono cedibili, si conservano anche dopo la cessione dei diritti patrimoniali. Non sono sottoposti a termine di durata: dopo la morte dell’autore possono essere fatti valere dai suoi eredi. Dobbiamo ricordare che i film e le serie, oltre che essere opere d’arte, sono anche prodotti industriali e commerciali, frutto di una complessa organizzazione tecnica, di finanziamento e di investimento economico posti in essere dal produttore. Il legislatore, consapevole dell’importanza dell’attività imprenditoriale del produttore, gli riconosce l’esercizio dei diritti di utilizzazione economica, i quali hanno a oggetto lo sfruttamento commerciale dell’opera prodotta. Rientrano tra tali diritti anche la distribuzione nelle sale cinematografiche, di norma affidata a un altro soggetto qualificato, il distributore. Generalmente il produttore, prima di dare inizio alle riprese, conclude con gli autori indicati all’art. 44 l.d.a. i contratti necessari ad acquisire i diritti patrimoniali su ciascuno dei loro contributi creativi: soggetto, sceneggiatura, musica e prestazioni di regia. È importante sapere che, in sede di trattative contrattuali, ciascuno degli autori può concordare se trasferire al produttore, tutti o solo alcuni dei diritti patrimoniali del suo contributo. Per l’individuazione degli autori e del produttore di un’opera audiovisiva, la legge ricorre a presunzioni stabilendo che si presumono autori e produttori coloro che risultano sulla pellicola cinematografica. Se l’opera è registrata presso il pubblico registro cinematografico curato dalla SIAE si presume che siano autori e produttori, fino a prova contraria, coloro che risultano da tale registro. Infine, per chiunque operi nel settore dell’audiovisivo è essenziale conoscere l’art. 50 l.d.a., ai sensi del quale «Se il produttore non porta a compimento l’opera cinematografica nel termine di tre anni dal giorno della consegna della parte letteraria o musicale, o non fa proiettare l’opera compiuta entro tre anni dal compimento, gli autori di dette parti hanno diritto di disporre liberamente dell’opera stessa». Questa norma, per prassi contrattuale, viene generalmente derogata, estendendo il termine triennale, talvolta addirittura a dieci anni, con un indubbio vantaggio per il produttore e a discapito degli autori del soggetto, della sceneggiatura e delle musiche, a tutela dei quali era stata, in realtà, prevista.

PRIMA PARTE / continua nel prossimo numero di Fabrique

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- Teatro -

ANDREA PAONE

Tutto molto sbagliato è un manifesto delle idee di Paone sulla società contemporanea e narra le difficoltà vissute: il rapporto burrascoso con i suoi, la bulimia, la morte del nonno, la vita con sua nonna e l'amata Toscana.

LA COMICITÀ DELL’ERRORE Black humor, satira e gag condite dal ritmo della vita. Il giovane stand up comedian toscano Andrea Paone ha le idee molto chiare su come rendere personale la sua comicità ed è pronto a far ridere il suo pubblico, presente e futuro. di CARLOTTA GUIDO foto di ALESSIO MOSE

Portatore di una vis comica fresca e originale, Paone si sofferma su tutto quel che nell’esistenza sembra essere “molto sbagliato” per farlo diventare “molto divertente”. Come ti sei avvicinato alla stand up comedy? Ho iniziato due anni fa grazie a un’intervista che feci a Daniele Fabbri mentre lavoravo come giornalista. Ho provato a esibirmi per la prima volta durante una serata alla libreria Altroquando e dopo sei o sette mesi di “figuracce” decisi che era arrivato il momento di impegnarmi seriamente. Perciò mollai tutto per dedicarmi alla stand up comedy.

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Finalmente, dopo un anno di gavetta, ho portato in scena il primo spettacolo scritto e interpretato da me, Tutto molto sbagliato. Può sembrare che sia capitato per caso, in realtà sin da piccolo ho sempre desiderato diventare un comico – anche se preferisco definirmi un attore a tutto tondo – e con il tempo ho voluto che questo diventasse il mio mestiere. Cosa intendi per “figuracce”? L’esperienza delle prime esibizioni! Soprattutto all’inizio della mia carriera mi piaceva andare a braccio ma tutto questo comportava – e


«UNA BATTUTA FORTE SI SCRIVE ALLA DECIMA VOLTA IN CUI SI CAMBIA L’ULTIMA PAROLA». comporta – delle difficoltà, in special modo quando non si ha una grande esperienza. La prima volta che mi esibii, semplicemente, dimenticai tutto quello che dovevo dire. La gente non rideva ma sono riuscito a non abbattermi e questa è stata la spinta più grande a migliorarmi. A proposito di autore e attore: in che modo riesci a coniugare queste due attività? Mi piace moltissimo scrivere, è una forma d’espressione con cui mi sento a mio agio. Trovo molto più facile essere autore di me stesso, cioè scrivere e trarre dei pezzi dai passaggi della mia quotidianità.

La maggior parte degli stand up comedian è autore dei propri pezzi, ma credo sia altrettanto importante trovare un

occhio esterno che sappia aiutarti e consigliarti durante la stesura. Troverei molto più complicato portare sul palco dei testi di stand up scritti da altri: la fonte principale della mia esperienza è proprio la mia vita. Per questo motivo credo che essere autore di se stessi sia un lavoro a tempo pieno. Da cosa hai tratto spunto per il tuo primo spettacolo, Tutto molto sbagliato? Tutto molto sbagliato è uno spettacolo che unisce tre stili di comicità differenti, caratteristica che mi ha sempre affascinato. L’idea mi è venuta dopo aver visto lo spettacolo di Neal Brennan, Neal Brennan: 3 Mics, dal quale ho rielaborato il format del mix dei tre generi di comicità tramite l’alternarsi di luci diverse sul palco. Questo spettacolo mi è servito per staccare e prendere coscienza di tutto ciò che di “sbagliato” c’è nella mia vita – ecco spiegata l’origine del titolo – e di tutte quelle questioni complesse che ognuno di noi si trova a dover risolvere nel corso della propria vita. Penso infatti che si possa scherzare su tutto, l’importante è che non si perda mai la propria umanità. Proprio per questo motivo il mio prossimo spettacolo, Vi aspetto fuori, sarà molto più irriverente e ricco di black humor – genere che adoro – ma anche molto più satirico. Quanta satira può e deve esserci nella stand up comedy secondo te? La satira ne è parte integrante.Quando faccio stand up voglio che il pubblico esca dallo spettacolo con un concetto, un’idea, non solo di me o della mia personalità, ma anche sulla società e l’attualità, che sia condivisibile o meno. Credo infatti che il mio tipo di comicità o si ami o si odi, anche se cerco di far ridere in entrambi i casi.

Hai dei mentori, delle personalità artistiche che hanno segnato il tuo percorso? Certo, in primis Giorgio Montanini, a mio parere il più grande comico italiano degli ultimi tempi. La sua amicizia è stata per me un onore ed è grazie a lui che la mia carriera e il mio lavoro da stand up comedian hanno avuto una svolta significativa. Stilisticamente invece, e con un respiro più internazionale, apprezzo moltissimo Ricky Gervais e Jim Carrey. Essendo toscano non posso non citare Roberto Benigni, che mi ha affascinato sin da piccolo ed è stato uno dei motivi che mi hanno fatto avvicinare al lavoro del comico. Quale tipo di pubblico riesci a toccare con la tua comicità? Un pubblico molto eterogeneo, devo dire. Tra loro tantissimi ragazzi che mi seguono spesso nei live e che mi hanno conosciuto grazie ai social o ai miei video su You Tube. Devo dire che non mi aspettavo tutto questo e gli sono molto riconoscente. È bello avere l’appoggio dei propri coetanei, sia in veste di pubblico sia, in special modo, tra colleghi agli esordi. Esiste, secondo te, una formula giusta per la comicità? Sono l'ultima persona al mondo in grado di rispondere a questa domanda. Alla fine ho cominciato da due anni e non posso definirmi un comico “tecnico”. Penso che le mie battute facciano ridere per come le dico e che la mia forza derivi soprattutto dal contesto in cui pongo la gag. La battuta si scrive per sorprendere il pubblico e ogni comico trova la sua personale cifra stilistica. Tra i più bravi a scrivere le battute ci sono, a mio avviso, Saverio Raimondo e Daniele Fabbri mentre Montanini, ad esempio, è un artista che veicola la battuta tramite la propria fisicità. Comunque, per come piace a me, la comicità deve essere a 360 gradi. L’unica formula che ho sperimentato durante il mio percorso è che una battuta forte si scrive alla decima volta in cui si cambia l’ultima parola. Nel senso che la prima cosa che ti viene in mente sicuramente non fa ridere e per questo bisogna rielaborarla per farla diventare sorprendente. Cosa speri per il tuo futuro? Ho cominciato a fare il comico perché mi piaceva l’idea di poter rallegrare le persone. Anche in classe, da bambino, sentivo il bisogno di far divertire le persone, di farle ridere il più possibile. Spero quindi di riuscire a farle ridere sempre di più, tramite i live o il cinema ad esempio, e cercherò di dare il massimo perché tutti hanno bisogno di migliorare, ma io più degli altri!

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- Attori -

creative producer TOMMASO AGNESE fotografo GIOELE VETTRAINO testi raccolti da MONICA VAGNUCCI trucco ILARIA DI LAURO @IDLMAKEUP stylist ALLEGRA PALLONI hair EDOARDO LUISINI @HARUMI thanks to EMMEALCUBO & PATTY B BAGS, LEMLÓ

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UNO SGUARDO DALL’ALTO I GIOVANI ASTRI NASCENTI DI QUESTO NUMERO GUARDANO A UN FUTURO DI SUCCESSI CON LA DETERMINAZIONE DI CHI SA DOVE VUOLE ARRIVARE. SEMPRE PIÙ IN ALTO.

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24 anni

20 anni

20 anni

DAPHNE MORELLI

ANDREA LINTOZZI

GRETA RAGUSA

Studi Ho studiato teatro e danza sin da piccolissima, scegliendo il primo per volontà e passione. La mia formazione professionale è avvenuta nella compagnia dello Stabile dell’Umbria, la mia regione. Parallelamente ho frequentato la facoltà di Filosofia e ho portato avanti una ricerca personale seguendo gli artisti che mi appassionano e formando una compagnia indipendente.​

Studi Tutto è iniziato da una chiacchierata con Claudio Santamaria, che mi ha consigliato la scuola di recitazione Centro Studi Acting diretta dalla sua amica e collega Lucilla Lupaioli. Lì, oltre a recitazione, ho studiato anche dizione con Alessandro Di Marco.

Studi Ho frequentato il liceo classico Torquato Tasso e mi piacerebbe continuare gli studi alla facoltà di Psicologia. Dopo l’esperienza vissuta sul set, ho scelto di proseguire la carriera di attrice facendo l’audizione per due delle scuole di cinema più importanti: il Centro Sperimentale e la Gianmaria Volontè.

Mi avete visto in un cortometraggio del brand internazionale Lush che mi ha messa a dura prova, visto il tema affrontato (la vita affettiva e sessuale legata al mondo della disabilità). Nel 2018, a margine della tournée con Il racconto d’inverno di Shakespeare, sono stata protagonista del videoclip Me Dijeron della popstar internazionale Ozuna, mentre ho continuato a lavorare con un collettivo di videomaker, Dromo Studio, con cui ho girato il mediometraggio Corsa a termine e diversi altri progetti. Racconta un consiglio ricevuto sul set che non dimenticherai mai. Il rischio più grande è quello di ripetersi non cogliendo i punti sensibili del personaggio. Un regista con cui ho lavorato una volta mi ha detto «Non inventarti niente!», aiutandomi a leggere la sceneggiatura nei minimi dettagli. Così ho capito che il personaggio è sempre più grande e importante dell’attore.

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Mi avete visto come prima esperienza nella fiction È arrivata la felicità, andata in onda su RAI1 nel 2015, con la regia di Riccardo Milani, Francesco Vicario e Matteo Mandelli. Mi vedrete in Romulus, la serie a cui sto lavorando in questo momento, prodotta da Groenlandia e Cattleya per Sky Atlantic, regia di Matteo Rovere, Michele Alhaique e Enrico Maria Artale. Inoltre ho finito da poco le riprese del cortometraggio Io che amo solo te per la regia di Riccardo D’Alessandro, trasposizione cinematografica della pièce teatrale diretta da Alessandro Di Marco. Racconta un consiglio ricevuto sul set che non dimenticherai mai. Studiare sempre ed essere in costante ricerca, osservare, rimanere in ascolto su tutto.

Mi avete visto nel 2017 nei panni di una delle protagoniste della serie prodotta da Cross Production Skam Italia e diretta da Ludovico Bessegato (prima e seconda stagione) e Ludovico di Martino (terza stagione). Racconta un consiglio ricevuto sul set che non dimenticherai mai. Quando sono arrivata per la prima volta sul set non ne conoscevo nemmeno una regola e ho imparato molto grazie all’esperienza e alla professionalità delle persone che ho incontrato nel mio percorso. Uno dei consigli migliori che abbia mai ricevuto e che porterò sempre con me è quello di fondere sempre un po’ della mia personalità con quella del personaggio per renderlo spontaneo e unico.


«IL PERSONAGGIO È SEMPRE PIÙ GRANDE E IMPORTANTE DELL’ATTORE».

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«NON LASCIARE MAI CHE IL SUCCESSO E LA POPOLARITÀ AFFIEVOLISCANO PIAN PIANO IL FUOCO DELLA CREATIVITÀ».

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32 anni

22 anni

27 anni

IVANO CALAFATO

BLU YOSHIMI

ANTONIO ORLANDO

Studi Mi sono diplomato all’Accademia di Teatro e Musical di Roma e successivamente alla Lee Strasberg Film and Theatre Institute a Los Angeles.

Studi Seguo il lavoro di mia madre fin da piccola. Ho debuttato al cinema a 9 anni con Caos calmo mentre già studiavo teatro. A 16 anni ho iniziato a studiare con Doris Hicks, membro dell’Actors Studio. Poi ho conosciuto Jack Walter, lo Estudio Coraza di Madrid e Chloe Xaufflaire, con cui continuo i miei studi. Proseguo inoltre il percorso universitario in Cinematografia.

Studi Ho studiato all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio d’Amico terminando nel 2015. È un luogo magico a cui sono legatissimo e in cui ho conosciuto persone fondamentali per me.

Mi avete visto in svariati film indipendenti e cortometraggi negli anni passati. Nel 2017 ho preso parte, nel ruolo di Michele, alla serie TV Il cacciatore diretta da Davide Marengo. Mi vedrete nella seconda stagione de Il cacciatore che uscirà in autunno. Racconta un consiglio ricevuto sul set che non dimenticherai mai. Uno dei consigli che mi ha spinto molto a riflettere e a comprendere maggiormente l’importanza e il valore del nostro mestiere, non l’ho ricevuto proprio su un set, ma seduto in aula, di fronte a David Strasberg che diceva «Non lasciare mai che il successo e la popolarità affievoliscano pian piano il fuoco della creatività e la necessità di metterti sempre alla prova».

Mi avete visto in TV ne I liceali 2, Medicina generale 2, Un Natale coi fiocchi e a fianco di Gigi Proietti in Una pallottola nel cuore 3; sul grande schermo nel 2015 con Arianna di Carlo Lavagna, poi come protagonista di Piuma di Roan Johnson e Likemeback di Leonardo Guerra Seragnoli. Mi vedrete in un film con un cast eccezionale a cui inizierò a lavorare in autunno e di cui ancora non posso parlare. Racconta un consiglio ricevuto sul set che non dimenticherai mai. I migliori consigli più che essermi detti mi sono stati mostrati con i fatti dai grandi che ho avuto la fortuna di incontrare fino a oggi. Mia madre è stato ed è ancora l’esempio migliore a cui rifarmi. Moretti mi ha insegnato tutto senza dirmi niente, così come i miei coetanei nel loro approccio e Proietti con le sue tecniche precise. Conservo anche il ricordo di un collega da me molto ammirato che un giorno mi ha detto: «Colleziona ore di volo».

Mi avete visto in Non uccidere di Giuseppe Gagliardi, nella prima stagione della serie La mafia uccide solo d’estate e nel film Il primo re di Matteo Rovere. Nel Il traditore di Marco Bellocchio ero il poliziotto Michele. Con lo spettacolo Dreams of dreams, messo in scena dalla mia compagnia teatrale, Officine Montecristo, siamo stati ospiti, oltre che in Italia, in diversi festival internazionali. Mi vedrete nello spettacolo in grammelot La difficilissima storia di Ciccio Speranza, che sto portando a termine per i prossimi festival con la compagnia lombarda Lea Mustaches. Racconta un consiglio ricevuto sul set che non dimenticherai mai. Sul set de Il primo re ho imparato che non si deve mai uscire dalle proprie competenze. Stavamo girando in una foresta paludosa nei pressi di Nettuno; l’ultimo giorno ho costruito un giaciglio senza l’aiuto dell’attrezzista prendendo un tronco che mi sembrava perfetto ma, quando mi sono seduto complimentandomi con me stesso, ho sentito un dolore fortissimo e ho scoperto che in realtà il legno era un covo di formiche rosse!

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- Venezia Classic -

FULCI FOR FAKE

HORROR ALL’ITALIANA

Simone Scafidi riporta Lucio Fulci sul grande schermo e lo racconta attraverso il materiale inedito e le interviste di chi l’ha conosciuto e amato, guidandoci in modo non convenzionale nella scoperta dell’uomo dietro al mito. di STEFANIA COVELLA

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imone Scafidi, regista indipendente da primo posto al box-office con Zanetti Story, è alla Mostra del Cinema di Venezia in concorso nella sezione Classic con Fulci for fake, prodotto da Giada Mazzoleni e Paguro Film. È la storia di un attore (uno straordinario Nicola Nocella) che deve interpretare Lucio Fulci in un film dedicato al regista romano antiaccademico e trasgressivo, tanto amato a Hollywood quanto frainteso in patria. Cosa ha significato per te Lucio Fulci? La mia passione per il cinema è nata molto prima di conoscerlo, ma lui, con la sua storia e le sue opere così viscerali e rivoluzionarie, mi ha dato il coraggio di diventare regista. Forse è una scusa, un

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po’ come il Dedalus di James Joyce, chi usa l’arte per raccontare sé stesso ha sempre bisogno di darsi un momento di epifania e per me è stato Fulci. Non è il mio regista preferito ma è quello che amo di più. Nicola Nocella è perfetto per la parte, come l’hai scelto? Era il protagonista del film ancora prima che nascesse l’idea, dopo averlo visto ne Il figlio più piccolo di Pupi Avati. Non so cosa avrei fatto se avesse rifiutato il ruolo. Come Fulci, Nicola ha una grande personalità, un vissuto forte, conosce il dolore ma è anche estremamente divertente e leggero, ha saputo portare grande serenità in questo film. Non era un ruolo semplice, è stato molto umile e ha fatto un lavoro straordinario.


«HA CREATO DAVVERO IL MITO DI SÉ STESSO, RACCONTAVA DELLE COSE INCREDIBILI».

Ai film di Fulci si sono ispirati molti famosi registi, tra cui Quentin Tarantino per Kill Bill, con un brano della colonna sonora di Sette note in nero e Sam Raimi per Spiderman, in cui compaiono dei frame de L’aldilà.

Il film parte dalla fine, da Fulci vecchio, Nocella se lo scortica di dosso e riscopre sé stesso sotto di lui. Sì, quella scena iniziale in cui Nicola si strappa il trucco rappresenta la difficoltà dell’attore che deve interpretare un personaggio realmente esistito. L’attore impersonato da Nocella parte quasi in maniera spocchiosa nella sua ricerca, si vanta dell’essere arrivato a incontrare Camilla che prima si era sempre rifiutata di rilasciare interviste video, ed è sicuro di riuscire a trovare il vero Fulci attraverso gli elementi più evidenti: i suoi film, le sue passioni e i dolori che ha incontrato. Però poi si rende conto, come gli dice Antonella alla fine, che Fulci è inafferrabile. Hai parlato di Camilla Fulci e della difficoltà di incontrarla, cosa le ha fatto cambiare idea? È riuscita a contattarla Giada Mazzoleni, la produttrice. Camilla aveva sempre rifiutato di apparire negli extra dei DVD che sono stati fatti sul padre in tutto il mondo, forse per una specie di distacco dal passato o per proteggersi. Quando ha accettato di incontrarci ha visto da una parte la nostra sincerità e dall’altra un’opportunità, quella di mostrarsi per quello che era ancora, una donna straordinaria, intelligente e combattiva nonostante la malattia. Mi commuove molto pensare a quando le abbiamo detto «vedrai, con questo film andremo a Venezia, verrai e tornerai nel mondo che ti spetta» quello dei professionisti del cinema, purtroppo se ne è andata via prima che ciò accadesse. Ho visto Fulci in lei ma anche nella sorella, Antonella, che è entrata nel film in punta di piedi, proprio alla fine, ha detto alcune cose molto significative sul padre e ha permesso al film di chiudersi in serenità. Fulci raccontava molte storie, non a caso Marcello Garofalo aveva titolato la sua celebre intervista per Segnocinema Uno, nessuno, cento Fulci (1993), è quello a cui allude anche il titolo del film?

Il titolo omaggia F for fake di Orson Welles e quindi l’incontro e l’amicizia nata tra Fulci e Welles sul set di Steno (pseudonimo di Stefano Vanzina) L’uomo, la bestia e la virtù. Si riferisce anche all’impossibilità di definire cosa sia la verità; l’intervista che citi si conclude con Garofalo che chiede a Fulci quante menzogne ha detto, e la sua risposta è una percentuale molto alta. Ha creato davvero il mito di sé stesso, raccontava delle cose incredibili, che era laureato in medicina, di essere amico di Scorsese, tutte cose facilmente smontabili. Il suo modo migliore di essere onesto era ricreare la sua storia, si potrebbe banalmente dire che lo faceva perché non si era mai sentito adeguatamente elogiato. In Italia non l’abbiamo capito, il restauro di Zombie 2 negli Stati Uniti è stato presentato da Guillermo del Toro, un premio Oscar, quanti registi italiani possono vantare un omaggio del genere? Dal film, dalle interviste e da alcuni stralci de L’occhio del testimone di Michele Romagnoli emerge l’importanza che le donne hanno avuto per Lucio Fulci. Sono il filo rosso dei suoi racconti, il fulcro pulsante del suo cinema incompreso e delle sue ossessioni. Ho fatto dire a Nocella una frase di Fulci: «Io amo le donne, è per loro che faccio cinema». Amava le donne, le desiderava, era cresciuto tra loro, faceva film per le figlie, per dare loro un tenore di vita adeguato. È stato accusato di aver fatto dei film in cui le figure femminili sono vittime, di accanirsi con il suo sguardo su di loro: ma le donne sono le protagoniste del suo cinema, come in Una lucertola con la pelle di donna, i personaggi maschili non sono positivi, ne Lo squartatore di New York c’è una rappresentazione dell’uomo priva di pietà. E tu vivrai nel terrore! L’aldilà lo ricordiamo soprattutto per l’iconica Cinzia Monreale - esistono le action-figure del suo personaggio - e per la protagonista Catherine MacColl. Sono le donne che emergono, Fulci aveva capito che potevano essere le eroine dei suoi mondi, ma è stato frainteso.

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- Videoclip -

TESTI/SILVESTRI

LE COSE CHE ABBIAMO IN COMUNE

Daniele Silvestri e Giorgio Testi condividono le origini romane e la passione per la musica. Il primo ha alle spalle 25 anni di brani di successo. Il secondo crea, attraverso il videoclip, immagini e narrazioni per le melodie dei più famosi artisti internazionali, dagli Stones a Amy Winehouse. Un’esclusiva intervista a due per Fabrique.

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rgentovivo ha fatto incetta di premi a Sanremo 2019. Scusate se non piango sarà premiato nel corso della XVII edizione del Roma Videoclip. Musica e cinema, in questi brani, si fondono e intrecciano in maniera originale e insolita grazie alla voce di Daniele e alla regia di Giorgio. «Ho conosciuto Daniele all’Angelo Mai tramite gli Afterhours, che sono nostri amici comuni ‒ ricorda Giorgio ‒ È stata un’emozione,

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©Simone Cecchetti

di CHIARA CARNÀ

perché le sue canzoni hanno accompagnato tanti momenti della mia vita, e siamo subito andati d’accordo. Quando ha scritto Argentovivo gli ho proposto la mia idea per il videoclip. Daniele è supportato da musicisti incredibili con cui condivido molto, ed è fondamentale per me avere affinità musicale con gli artisti per cui lavoro». Il testo di Argentovivo affronta temi molto delicati quali la sensazione, diffusa tra gli adolescenti, di sentirsi intrappolati in una


©Melania Stricchiolo ©Simone Cecchetti ©Simone Cecchetti ©Melania Stricchiolo

Com’è nata la volontà di dare voce a questa categoria? Daniele Silvestri Per due motivi. Il primo è che sono genitore di tre figli, di cui due adolescenti. Mi sono ritrovato a rapportami con una generazione che vive in un mondo molto diverso da quello in cui sono cresciuto io, in cui il distacco generazionale è più netto. Volevo dar voce ai sentimenti più bui di un sedicenne di oggi perché in parte, da padre, li ho conosciuti. Nella canzone non parlo dei miei figli, ma comprendo bene la preoccupazione per il futuro di chi hai messo al mondo. Mi sono anche chiesto se stessi rubando qualcosa ai miei ragazzi per “commercializzarlo”. Il secondo motivo è che, qualche mese fa, ho chiesto a chi mi segue su Facebook, parlando dell’album al quale stavo lavorando (li chiamo ancora album perché sono anziano!), di cosa avrebbe voluto sentire parlare. Molti

©Melania Stricchiolo

vita fatta di standard imposti e aspettative altrui. «È una problematica che oggi è più urgente che mai - continua Daniele - Nel brano c’è l’invadenza del mondo virtuale, che finisce per essere preferito a quello reale, e l’incapacità, per i giovanissimi, di trovare una via di uscita da questo baratro».

Immagini di backstage da Scusate se non piango, vero e proprio cortometraggio della durata di 9 minuti per la regia di Valerio Mastandrea e Giorgio Testi, girato all’interno dell’Angelo Mai, con, tra gli altri, Giovanni Anzaldo, Claudia Pandolfi e Sabrina Impacciatore.

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chiedevano proprio un discorso rivolto all’adolescente di oggi. Spero che Argentovivo aiuti e faciliti quel confronto generazionale che, per quanto difficile e violento, può produrre crescita e cambiamento. Nel videoclip di Argentovivo vediamo un pullman in movimento sul quale un ragazzo, nonostante corra a perdifiato, non riesce a salire. Giorgio Testi Quando lavoro seguo soprattutto l’istinto, non mi soffermo troppo a riflettere sui sottotesti. Qui avevo a che fare con una canzone di cinque minuti senza ritornello. Ascoltando le parole, mi ha mosso l’urgenza che mi hanno trasmesso. Sono partito da un video amatoriale, girato in India, di pendolari che, pur di non perdere il treno, si buttavano sul mezzo in corsa. Certo, si può pensare che il ragazzo protagonista corra per non perdere l’occasione di avere un futuro. La ricezione del pubblico spesso ti dà risposte a cui tu stesso non avresti pensato. È stata una grossa sfida, a oggi una delle più importanti della mia carriera. Ero terrorizzato prima di vedere il risultato. Temevo non funzionasse a livello tecnico e che Daniele mi avrebbe tolto il saluto! Ma grazie alla troupe e alla post produzione il video si è fatto onore. Argentovivo è stato realizzato in collaborazione con il rapper Rancore e con Manuel Agnelli. Come crei una sinergia quando collabori con altri artisti? DS Si tratta sempre di collaborazioni vere e sincere. Non sono paragonabili l’una all’altra perché ogni cantante ha le sue peculiarità. Bisogna sapersi incontrare. Quando conosci qualcuno da tempo, come nel caso di Manuel, non si fa fatica. Si tratta piuttosto di una scommessa e ciascuno può arricchire l’altro con nuove sicurezze. Per quanto riguarda Rancore, è accaduto un piccolo miracolo: ci siamo trovati in sintonia totale pur avendo età e stili diversi. Mi piace come scrive e dice le cose. È molto più meticoloso, costruito ed ermetico di me ma, allo stesso tempo, pieno di energia. Nella sua parte il brano si fa più astratto e denso di immagini, come quando paragona il suo zaino alla palla al piede di un carcerato.

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©Melania Stricchiolo

«PERCHÉ NON TRASFORMARE IL MUSIC VIDEO IN UN EVENTO CHE ARRIVA NELLE SALE CINEMATOGRAFICHE?»

Il video di Scusate se non piango è a tutti gli effetti un cortometraggio. All’interno dell’Angelo Mai ci si prepara a uno sgombero ma, improvvisamente, la situazione si capovolge in una festa scatenata. Come avete conciliato le vostre visioni e chi ha avuto l’idea di realizzare un piccolo film di nove minuti? GT Daniele è un vulcano di idee. La trasposizione cinematografica del testo della canzone è stata un suo desiderio. DS E siamo stati tutti sufficientemente pazzi da realizzarlo. Ha preso forma nella mia testa nel momento in cui ho pensato che ci fosse un legame tra la storia della canzone e il Centro Culturale, un luogo di incontro e di cultura, sempre a rischio sgombero. È stato stupendo vedere la partecipazione di un cast tanto numeroso ‒ tra cui Claudia Pandolfi, Pietro Sermonti, Sabrina Impacciatore ‒ che si è prestato senza ombra di protagonismo. Ancora non so come ci siamo riusciti. Pensa che un gruppo del mio fan club è stato coinvolto due giorni prima delle riprese senza sapere perché si trovasse lì. GT Ho avuto l’occasione imperdibile di curare la regia insieme a Valerio Mastandrea e sapevo che, osservando uno dei maggiori attori italiani all’opera, avrei imparato tanto. Non era la mia prima esperienza in co-regia, ma si trattava di un progetto ambizioso, con un cast importante, ed è stata l’esperienza lavorativa più stressante e divertente mai vissuta. Il confronto con Valerio, mediato da Daniele, è stato spontaneo e costruttivo. Mi sono sentito parte di una famiglia e sul set c’era chi andava e veniva come da una festa vera e propria. Tutti sono rimasti fino alla fine e sono andati via col sorriso sulle labbra, anche se avevamo lavorato più di 12 ore e di domenica. Una curiosità: chi ha scelto di inserire Lillo Petrolo in versione coreografo country nei titoli di coda? GT Ancora una volta, Daniele. Lillo era in tour a Genova, ci ha mandato il video da lì. Quando lo ho incontrato, dietro le quinte del Concerto del Primo Maggio, ci ha raccontato il vero making of della sua coreografia: a un certo punto è inciampato e si è storto una caviglia!


©Valentine Bow

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©Melania Stricchiolo

©Valentine Bow

Il set di Argentovivo, il brano di Daniele Silvestri (al centro), con la regia di Giorgio Testi (in basso a destra), che vede la partecipazione del rapper Rancore e di Manuel Agnelli (foto in alto a destra).

Entrambi avete lavorato per il cinema (Daniele, nel 2007, ha vinto il David di Donatello per la miglior canzone originale e Giorgio ha recentemente diretto il film Calcutta ‒ Tutti in piedi). Come cambia l’approccio alla scrittura musicale quando si lavora su immagini preesistenti? DS Una premessa: mio padre era autore per il teatro e la TV, ma ha iniziato con le sceneggiature. Il suo studio, che era anche la mia camera da letto, era invaso da copioni cinematografici tra cui mi piaceva curiosare. Poi ho cominciato la mia carriera proprio scrivendo musica per storie altrui. In queste situazioni sai già che strada intraprendere ma devi trovare il modo più giusto di contribuire. È divertente essere al servizio di qualcos’altro e ti consente di spaziare, prescindendo dal tuo stile. Come si è evoluto il videoclip, secondo voi, a livello tecnico e comunicativo? DS Ai tempi di MTV il videoclip era più importante da un punto di vista numerico e sociale. Faceva la differenza. Ora la sua influenza si è ridimensionata. Tuttavia, anche oggi, se la musica è associata a delle immagini e a un racconto, si può dare una vera svolta a un pezzo. GT È diventato mille volte più accessibile. Oggi bastano un cellulare e YouTube. Siamo sommersi di input. La stessa idea può evolvere e cambiare completamente nell’arco di una giornata. Parlando dell’industria musicale italiana, ho notato una tendenza generale a rielaborare ciò che viene fatto all’estero e questo, secondo me, non fa bene al panorama nostrano. Essere se stessi, puntare sull’identità, è fondamentale per esser presi sul serio al di fuori dei propri confini. Un artista affermato come Daniele Silvestri non ha mai smesso di sperimentare e raggiunge qualsiasi audience. Il cambiamento può partire solo da chi, come lui, ha la possibilità di dare il buon esempio.

A proposito di questo, dopo tanti anni di carriera è difficile mantenere vivo il desiderio di ricerca? DS Certo. Non do mai per scontato che rischiare sia possibile ma, rispetto a quando ho iniziato, so che è necessario. Sarebbe semplice accomodarsi sulle proprie sicurezze. Il mio lavoro, però, non è solo un gioco meraviglioso. È anche una missione molto importante. La musica ha un compito, ovvero il riconoscimento della collettività. È uno strumento che aggrega e abbatte muri. Ripetersi è facile, ma non mi appartiene. Mi sono sempre espresso comunicando attraverso diverse forme. Naturalmente sento la responsabilità nei confronti del pubblico che aspetta, ma per me è un elemento positivo. La voglia e la capacità di inventare c’è sempre. Un’idea può nascere da un ostacolo, da un esercizio di stile, da un modo nuovo di usare le metriche. Come create una narrativa quando lavorate su un nuovo progetto? Quanta autonomia mantenete sulla vostra visione? DS Penso a che tipo di luce possiede una canzone. Il video, a questo proposito, può fare tanto: la narrativa trasforma la musica in qualcosa di più. In generale mi piace offrire libertà ai registi, dargli fiducia, ma non riesco mai a rimanere del tutto distante. Capita che abbiano idee completamente diverse dalle mie o che non corrispondano al mio sentire. Mi è capitato di non andare fino in fondo. Oppure ho scelto di dare una chance, e qualche volta ha funzionato. GT Io lavoro in Inghilterra e lì, tendenzialmente, ti affidano lavori simili tra loro dai quali non è facile discostarsi. Collaborando con Daniele ho capito che mi piacerebbe tornare a lavorare sulla narrativa. Vorrei creare qualcosa che vada oltre la semplice sceneggiatura della canzone. Ora la sparo grossa: perché non trasformare il music video in un evento che arrivi nelle sale cinematografiche?

Ringraziamo per la collaborazione FRANCESCA PIGGIANELLI e ROMA VIDEOCLIP 57


- VFX -

INANIMATE

L’INTERPRETAZIONE DEI SOGNI

Un pupazzo animato si addormenta e, durante il sonno, inizia a prendere gradualmente coscienza della sua vera natura, rendendosi conto che tutto il proprio mondo non è altro che finzione. di LUCA OTTOCENTO

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luripremiato in numerosi festival internazionali, tra cui Cannes, Inanimate di Lucia Bulgheroni è un film breve d’animazione in stop motion che convince e sorprende. «Quando ho provato per la prima volta la stop motion mentre studiavo Video Design allo IED sono rimasta incantata e ho voluto approfondirla subito, trovo abbia qualcosa di magico». Esordisce così la 28enne cineasta varesina durante la nostra intervista via Skype dal Messico, dove si trova mentre sta lavorando all’idea per la sua prossima fatica dietro la macchina da presa. Lucia è reduce da un successo folgorante e inaspettato: con il suo cortometraggio d’esordio, realizzato come saggio di fine corso all’inglese National Film and Television School, lo scorso anno ha

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ottenuto al Festival di Cannes il terzo premio della Cinéfondation, la sezione dedicata ai film brevi provenienti dalle scuole di cinema di tutto il mondo. Dopo la prestigiosa kermesse transalpina, Inanimate ha continuato a ottenere riconoscimenti in giro per il globo, da Annecy a Los Angeles, passando per Melbourne, il Brasile e l’Italia, con la recente menzione speciale ottenuta al festival milanese Sguardi Altrove. Come è nata l’idea per questa tua opera prima? Inanimate inizia a prendere forma in un periodo in cui, durante il primo anno alla National Film and Television School, mi sono interessata molto alla filosofia e alla psicologia. Stavo sveglia la


Inanimate ha per protagonista Katrine, una giovane donna la cui vita, all’insegna della normalità, un giorno inizia letteralmente a crollare.

notte fino a tardi rapita dagli scritti di Platone, Plotino e Jung, approfondendo tutto ciò che trovavo riguardo l’anima, il subconscio, il concetto di realtà e di percezione della realtà. Il corto è stato un modo per mettere in scena quanto stavo leggendo e tradurre in immagini le sensazioni che provavo durante le mie ricerche. Come si è sviluppata la lavorazione? È stata piuttosto lunga, è durata all’incirca un anno. Nel progetto eravamo coinvolti in otto studenti della scuola e la post-produzione è stata davvero minima. Tutto quello che si vede nel film è reale: i set sono stati costruiti a mano, i movimenti sono stati creati in camera con la tecnica della stop motion, frame per frame. Uno degli aspetti più belli della stop motion è che quando animi entri in una sorta di trance, perché il processo è talmente lento che ogni emozione viene esasperata. Se ad esempio devi lavorare sulla tristezza di un pupazzo per lungo tempo, alla fine in qualità di animatore non puoi che entrare anche tu in quello stato d’animo. È come se ti calassi realmente nel pupazzo diventando attore. In più, nel contesto di questi tempi così dilatati, c’è ampio spazio per l’improvvisazione. Per quanto a scuola ti insegnino a lavorare in modo rigoroso e preciso, a me piace quando c’è libertà e ci si può aprire all’intuizione del momento. Il team che ha partecipato alla realizzazione del corto si è adattato a questa flessibilità e ciò ha reso tutto molto più stimolante, vivo, dinamico. I momenti chiave della storia naturalmente erano chiari e prestabiliti, ma spesso iniziavamo ad animare un’inquadratura con un’idea e poi finivamo per seguirne un’altra.

Stiller Studios ha sviluppato una tecnologia innovativa con una rappresentazione 3D per abbinare il mondo virtuale a quello reale e viceversa, ottenendo così un feedback visivo in tempo reale.

Quali sono state le tue principali ispirazioni cinematografiche? Charlie Kaufman è stato sicuramente una grandissima ispirazione. Non solo per il più celebre Se mi lasci ti cancello, ma anche e forse soprattutto per Adaptation ed Essere John Malkovich. Mi hanno sempre colpito quelle sue storie che si piegano su se stesse entrando prepotentemente nel metafilmico. Un altro punto di riferimento poi, sul piano della poetica, è stato Hayao Miyazaki. Mi interessavano l’aspetto magico, la delicatezza, l’amorevolezza avvolgenti delle sue opere. Kaufman è brutale e cerebrale, Miyazaki è più emozionale e a me intrigava moltissimo lavorare su questa affascinante commistione. Stai già lavorando a una nuova idea? Devo dire che il successo internazionale di Inanimate, oltre a un grande entusiasmo, ha portato inevitabilmente una certa pressione. In quest’ultimo anno ho iniziato a scrivere tantissimo alla ricerca della giusta storia per il prossimo progetto, in cui vorrei unire documentario, fiction e animazione. Sto ragionando sul partire da un approccio documentaristico per arrivare a ritrarre in maniera introspettiva i nostri mondi interiori e, proprio attraverso il ricorso all’animazione, cercare di dare un senso a questo universo astratto fatto di pensieri, emozioni, paure e paranoie che ci rende quello che siamo. Trovo che

l’animazione sia perfetta per riflettere su tutto ciò che riguarda il subconscio. Quello che mi interessa più di tutto è

indagare sulla nostra esistenza e sulla percezione della realtà che ci circonda.

«CON LA STOP MOTION L'ANIMATORE SI CALA NEL PUPAZZO DIVENTANDO ATTORE».

Lucia Bulgheroni è animatrice e co-sceneggiatrice del corto insieme ad Andrew Eu.

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©Frida Miranda

DIARIO

GLI EVENTI DI FABRIQUE

6 LUGLIO 2019

Bagno di folla per Fabrique Fabrique ci porta ancora una volta alla scoperta del cuore post industriale di Roma accogliendo i suoi lettori nel prestigioso spazio esterno del Teatro India Estate.

«QUASI 5000 I PARTECIPANTI ALL’INDIA ESTATE PER FESTEGGIARE IL NUMERO 25 DI FABRIQUE». 60

re dell’audiovisivo, stavolta in collaborazione con la rivista Tutto Digitale e con il patrocinio dell’AIC (Autori Italiani Cinematografia), con l’obiettivo di capire se esistano nuove regole dell’immagine. Protagonisti del dibattito i produttori creativi Fabio Paladini, (Il cacciatore) e Ludovico Bessegato (Skam Italia), la produttrice esecutiva Alba Chiara Rondelli (DeAgostini New School), il direttore della fotografia Arnaldo Catinari (Suburra – La serie) e il direttore editoriale Stefano Belli (Tutto Digitale). Sempre attenta allo scenario artistico contemporaneo, nella sua serata Fabrique ha ospitato le importanti premiazioni per il contest foto/video Microsalon indetto dall’associazione AIC (Autori Italiani Cinematografia) con Sony e Fuji Italia, presentando inoltre la prossima edizione 2020. Spazio anche ai giovani talenti emergenti del cinema italiano, tanto cari a Fabrique, in un momento speciale a loro dedicato con la proiezione dei nuovi cortometraggi. E come ogni festa che si rispetti, non poteva mancare la musica. Protagonista assoluta, questa volta, l’originalità di Giovanni Truppi, l’autore italiano più unico nel suo genere che ha acceso la serata con un live intimo e sconvolgente.

©IorioCreativeStudio / Brunella Iorio / Alice Ciccola

Presenze record, quasi 5000 partecipanti, all’India Estate lo scorso 6 luglio per festeggiare Fabrique. Tutti pronti, in una calda notte di inizio estate, per conoscere meglio i protagonisti del numero 25 della rivista, come il giovanissimo Francesco Di Napoli, proiettato verso grandi produzioni dopo il successo de La paranza dei bambini, i due registi del futuro Lorenza La Bella e Marco Jemolo, Teho Teardo con la sua musica per il cinema, il fumetto di Lorenzo Ghetti, il documentario di Giovanni Liseo, il videoclip Lunedì di Salmo feat. Alessandro Borghi e tanto altro da scoprire. Come sempre, riflettore puntato sui giovani attori che calcano le scene del cinema di casa nostra: questa volta, a stupirci in atmosfere sospese tra passato e presente, sono Simona Di Bella, Riccardo Mandolini, Lana Vlady, Gabriel Lo Giudice, Stefano Giordani Rossi, Jenny De Nucci. E per gustare appieno i contenuti del nuovo numero, una gradita sorpresa per gli ospiti di Fabrique: il punto di ristoro di India Estate, una soluzione per godersi l’evento scegliendo tra le proposte di uno street food alla romana per tutte le tasche. Come ogni Fabrique che si rispetti, la prima serata è stata aperta con l’approfondimento di un argomento rilevante per il setto-


NEWS 14 DICEMBRE 2019

DOVE

Come e dove Fabrique

TUTTO PRONTO PER I FABRIQUE AWARDS 2019 Si avvicina a grandi passi la data dei Fabrique Awards, la cui cerimonia si terrà il 14 dicembre in una location esclusiva di Roma che verrà svelata solo all’ultimo. Ma sono già tantissimi gli iscritti al premio, istituito dalla nostra rivista, che quest’anno raggiunge la quinta edizione. Registi italiani, europei e di tanti altri paesi del mondo (negli anni scorsi sono arrivati a quota 80) hanno iscritto le loro opere al concorso che più di tutti premia il talento e la sperimentazione. 11 le categorie, 4000 euro di premi già erogati, 2 corti prodotti, più di 2000 film in concorso, e un presidente internazionale che per il secondo anno consecutivo è il due volte premio Oscar Paul Haggis. Un appuntamento ormai imperdibile per gli addetti ai lavori e gli amanti del cinema di qualità con un pizzico, perché no, di glamour.

C’è ancora tempo per iscriversi: la scadenza è il 15 novembre! Tutte le info sul sito www.fabriqueawards.com

ROMA CINEMA BARBERINI | 06.42010392 | Piazza Barberini, 24/26 CASA DEL CINEMA | 06.423601 | Largo Marcello Mastroianni, 1 EDEN FILM CENTER | 06.3612449 | Piazza Cola di Rienzo, 74 GREENWICH | 06.5745825 | Via G. Battista Bodoni, 59 INTRASTEVERE | 06.5884230 | Vicolo Moroni, 3 MADISON | 06.5417926 | Via G. Chiabrera, 121 NUOVO SACHER | 06.5818166 | Largo Ascianghi, 1 TIBUR | 06.4957762 | Via degli Etruschi, 36 TREVI | 06.6781206 | Vicolo del Puttarello, 25 LOCALI BIG STAR | Via Mameli, 25 KINO | Via Perugia, 34 NECCI | Via Fanfulla da Lodi, 68 SCUOLE CENTRO SPERIMENTALE DI CINEMATOGRAFIA | Via Tuscolana, 1520 CINE TV ROSSELLINI | Via della Vasca Navale, 58 GRIFFITH | Via Matera, 3 IED | Via Giovanni Branca, 122 ROMEUR ACADEMY | Via Cristoforo Colombo, 573 SCUOLA D’ARTE CINEMATOGRAFICA GIAN MARIA VOLONTÉ | Via Greve, 61

MILANO

EDI ZIO NE

V

CINEMA CINEMA ANTEO | Via Milazzo, 9 SPAZIO OBERDAN | Viale Vittorio Veneto, 2 LOCALI OSTELLOBELLO | Via Medici, 4 NUOVA ACCADEMIA DI BELLE ARTI | Via C. Darwin, 20

BERGAMO CINEMA LAB 80 FILM | Via Pignolo, 123

TORINO CINEMA CINEMA MASSIMO | Via Giuseppe Verdi, 18

BOLOGNA CINEMA CINEMA LUMIÈRE | Via Azzo Gardino, 65

FIRENZE FABRIQUE DU CINÉMA

LA CARTA STAMPATA DEL NUOVO CINEMA ITALIANO AUTUNNO

2019

Numero

26

OPERA PRIMA

MATTOTTI/DE FEO

Due esordi agli antipodi: la favola e l’horror

FOCUS

COPYRIGHT

LA CARTA STAMPATA DEL NUOVO CINEMA ITALIANO

Vi spieghiamo tutti i diritti (e i doveri) di chi crea “opere dell’ingegno”

ZONA DOC

SHELTER

Storia di Pepsi: “gay, musulmana, ribelle, rifugiata”

ANTEPRIMA

I nomi, i film e le tendenze più hot dell’autunno che verrà. La testimonial ideale? Linda Caridi

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CINEMA CINEMA STENSEN | Viale Don Giovanni Minzoni, 25 CINEMA ALFIERI | Via dell’Ulivo, 6

PISA CINEMA CINEMA ARSENALE | Vicolo Scaramucci, 2

FESTIVAL Cortinametraggio Festa del Cinema di Roma Ischia Film Festival Maremetraggio - International Shorts Film Festival Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia Roma Creative Contest Roma Web Fest Rome Independent Film Festival Visioni Italiane Cineteca di Bologna

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