Fabrique du Cinéma #22

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LA CARTA STAMPATA DEL NUOVO CINEMA ITALIANO AUTUNNO

2018

Numero

22

SPECIALE

CINEMA FRA ITALIA E CINA

A che punto è la collaborazione industriale con la tigre asiatica?

FUTURES

INGLESE/VIAVATTENE

Due registi, due poli opposti: dalla sensualità all’horror

VFX

“LA STRADA DEI SAMOUNI”

Fra documentario e animazione, cronaca e memoria

UNICI Benedetta Porcaroli Ognuno ha il suo stile, ma i giovani emergenti del cinema italiano sono una squadra unita e vincente



S

LA METÀ DI MAO

SIAMO UNA SQUADRA FORTISSIMA

THE END? L’INFERNO FUORI

LA PARTITA DEVE ANCORA INCOMINCIARE

SOMMARIO

MASSIMO TROISI

Pubblicazione edita dall’associazione culturale Indie per cui Via Francesco Ferraironi, 49 L7 (00177) Roma www.fabriqueducinema.it

Registrazione tribunale di Roma n. 177 del 10 luglio 2013 DIRETTORE ARTISTICO Davide Manca DIRETTORE EDITORIALE Elena Mazzocchi SUPERVISOR Luigi Pinto STRATEGIC MANAGER Tommaso Agnese DIRETTORE RESPONSABILE Ilaria Ravarino GRAFICA E IMPAGINAZIONE Giovanni Morelli REDAZIONE Monica Vagnucci DISTRIBUZIONE Simona Mariani Eleonora De Sica MARKETING Federica Remotti REDAZIONE WEB Gabriele Landrini Cristiana Raffa AMMINISTRAZIONE Katia Folco Consuelo Madrigali UFFICIO STAMPA b.studio http://bstudios.it in collaborazione con Sara Battelli PUBBLICITÀ info@fabriqueducinema.it APS Advertising srl Via Tor de Schiavi, 355, 00171 ROMA www.apsadvertising.it STAMPA CIERRE & GRAFICA Via Del Mandrione, 103 00181 Roma (RM) Finito di stampare nel mese di agosto 2018

LA CARTA STAMPATA DEL NUOVO CINEMA ITALIANO AUTUNNO

2018

Numero

04 COVER STORY 06 OPERA PRIMA 10 ITALIA-CINA 18 ICONE 26 ZONA DOC /1 30 ZONA DOC /2 33 FICTION 34 ARTS 36 CHICKENBROCCOLI 40 MAKING OF 42 TEATRO 46 ATTORI 50 VIDEOCLIP 58 REALTÀ VIRTUALE 62 VFX 64 DIARIO 68 DOVE 69 EDITORIALE

STORIE DEL DORMIVEGLIA COUNTRY FOR OLD MEN

14 FUTURES/1 ALBERTO VIAVATTENE STORYTELLER

ALTI E BASSI DELLA FICTION ITALIANA

FRANCESCO GUARNACCIA OLD BOY

TONNO SPIAGGIATO

FRANCESCA GAROLLA ON THE ROAD

COSÌ SBAGLIATO/ DRIVE ME HOME

DREAMS OF BLUE

LA STRADA DEI SAMOUNI

16 FUTURES/2 ROSSELLA INGLESE

GLI EVENTI DI FABRIQUE

COME E DOVE FABRIQUE

L’ETÀ DEL CONSENSO

22

SPECIALE

CINEMA FRA ITALIA E CINA

A che punto è la collaborazione industriale con la tigre asiatica?

FUTURES

INGLESE/VIAVATTENE

Due registi, due poli opposti: dalla sensualità all’horror

VFX

“LA STRADA DEI SAMOUNI”

Fra documentario e animazione, cronaca e memoria

UNICI Benedetta Porcaroli Ognuno ha il suo stile, ma i giovani emergenti del cinema italiano sono una squadra unita e vincente

IN COPERTINA Benedetta Porcaroli

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E EDITORIALE

foto ROBERTA KRASNIG stylist STEFANIA SCIORTINO total look ILARIA NISTRI

LA METÀ DI MAO di ILARIA RAVARINO @Ravarila_DM

«Le donne portano sulle spalle metà del cielo», diceva Mao Tse-tung, il Grande

Timoniere, a proposito del ruolo delle donne nella Rivoluzione Cinese. Peccato che la parità di genere in quel paese, al centro dello speciale di questo numero, sia rimasta un traguardo ancora lontano. Però Mao diceva anche un’altra cosa: che le donne, quella famosa metà del cielo, «devono conquistarsela». E cioè devono lottare, faticare, impegnarsi per occuparla di diritto. Stiamo lottando? Non abbastanza. Lottare significa anche reagire alle provocazioni: «Se dovessimo ragionare in termini di quote, le prime a essere umiliate sarebbero le donne stesse» diceva a luglio Alberto Barbera, presidente della Mostra di Venezia, difendendo ‒ in pieno mansplaning ‒ una selezione ufficiale al maschile, 52 registi per 8 registe. Cominciamo a rispondergli: premesso che non tutte le donne si sentono umiliate dalle quote (chiedetelo alle svedesi), il problema non si può archiviare scrollando le spalle e attribuendo ai produttori il peccato originale del “non dare fiducia alle donne”. Perché la questione è più profonda e più grave. E, ahimè, ci coinvolge tutti. Chi non finanzia, chi non seleziona, chi non guarda, chi scarta, chi non comunica. I produttori, i selezionatori, i critici, i giornalisti, i distributori.

Sono attrici che non fanno il calcolo delle pose prima di impegnarsi in un progetto in cui credono, come Euridice Axen, Benedetta Cimatti e Bianca Friscelli, tutte zombizzate (chi ha detto che alle donne non piace imbruttirsi?) nell’horror Opera Prima The End? L’inferno fuori. Interpreti di carattere come Benedetta Porcaroli, la nostra Cover protagonista di Baby: una serie Netflix affidata (anche) a una regista, Anna Negri, e scritta (anche) da due donne, Eleonora Trucchi e Isabella Aguilar. Sono registe come Rossella Inglese, tra i nostri Futures, attenta alla sensibilità delle adolescenti e produttrice di se stessa, o Valentina Paggiarin, autrice e pioniera di corti in realtà virtuale, cofondatrice della sua azienda: due artiste che la metà del cielo, senza dubbio, se la stanno conquistando a grandi passi. Donne che lavorano dietro le quinte: le sceneggiatrici Penelope Bortoluzzi e Léa Mysius, la produttrice Cécile Lestrade, la musicista Giulia Tagliavia, tutte nel team de La strada dei Samouni, il VFX di questo numero. Donne in ogni reparto, costumiste come Laura Costantini o montatrici come Chiara Griziotti, entrambe nell’Opera Prima Drive Me Home. Donne come Anna Pavignano, che con Massimo Troisi, icona di questo numero, scrisse alcuni dei suoi film più noti, da Ricomincio da tre a

è un caso se la Women in Film, già presente in 16 paesi, arriva oggi anche in Italia. Basta volerle vedere.

lo fosse dimenticato, tra i nominati all’Oscar figurava anche il nome di una donna: il suo.

Scusate il ritardo, Le vie del Signore sono finite Le donne nell’industria cinematografica ci sono e contano ‒ e non e Il postino. Film per il quale, nel caso qualcuno se

«Lottare significa anche reagire alle provocazioni». 4


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- Cover story -

S S F

foto ROBERTA KRASNIG stylist STEFANIA SCIORTINO assistenti fotografa MARTINA MORTERA e ALBERTO PANCHERI hair ADRIANOCOCCIARELLI@HARUMI trucco ILARIA DI LAURO location MIA VISUAL STUDIO thanks to DIESEL E TRUSSARDI

Non lasciatevi ingannare dal suo aspetto angelico, perché la “ragazzina” ha coraggio da vendere e la risposta sempre pronta. Non a caso, ha grandi progetti in arrivo... Vi dice qualcosa

Netflix?

di CHIARA CARNÀ creative producer TOMMASO AGNESE 6


BENEDETTA PORCAROLI

SIAMO UNA SQUADRA FORTISSIMA L

a meravigliosa incoscienza dei vent’anni e l’onesta consapevolezza di chi sa che non si finisce mai di imparare: così la giovanissima star della fiction Tutto può succedere affronta la sua carriera sempre più fitta d’impegni. Eppure la vita sul set non era affatto nei suoi piani: «A casa mia, scherzando, si è sempre detto che da grande avrei fatto l’attrice, ma diventarlo davvero è stato un colpo di fortuna. Ho sempre amato il cinema, papà mi ha cresciuta coi vecchi film di Totò e Alberto Sordi, ma mi sono buttata all’improvviso in un lavoro che non conoscevo affatto». E ci è riuscita in pieno: in pochi anni Benedetta è stata diretta da Paolo Genovese nel cult Perfetti sconosciuti ed è recentemente apparsa in Sconnessi di Cristian Marazziti. «A livello interpretativo l’approccio al grande schermo e alla TV per me è stato simile. Ho amato tutti i personaggi che ho interpretato e li ho affrontati con lo stesso impegno. Poi, ovviamente, ogni regista ha un approccio e un carattere diverso. Paolo Genovese, ad esempio, è un vero professionista nel trovare l’equilibrio tra offrire delle linee guida all’attore e lasciarlo libero per favorirne la disinvoltura».

«HO COSTANTEMENTE LA SENSAZIONE CHE QUELLO CHE FACCIO LO POTREI FARE ANCORA MEGLIO».

Come ti comporti sul set? Non ho mai studiato davvero recitazione. Un paio di volte ho chiesto l’aiuto di un coach ma non ho mai trovato il tempo per approfondire. Non so se il mio sia talento innato, sicuramente la naturalezza è uno dei miei punti di forza, ma ho costantemente la sensazione che quello che faccio lo potrei fare ancora meglio. Quindi mi piace potermi fidare e chiedere consigli alle persone con cui lavoro e che spero credano nel mio personaggio quanto me. Prossimamente ti vedremo in Baby, serie targata Netflix che racconterà senza filtri il difficile mondo degli adolescenti. Sarò la protagonista e finora è stata sicuramente la più grande sfida professionale che abbia affrontato. Sono una buona consumatrice di serie TV e di prodotti Netflix. Quindi, quando ho saputo

che avrei lavorato per una squadra talmente forte e professionale ero felice e onorata. Tuttavia, non c’è solo Baby nel mio futuro. Mi vedrete anche, accanto a Barbora Bobulova, nell’opera prima di Manfredi Lucibello: il thriller psicologico Tutte le mie notti.

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Nella serie TV Tutto può succedere, in onda su RAI 1, Benedetta veste i panni di Federica, l’adolescente di casa Ferraro alle prese con gli amori e le discussioni in famiglia.

«SOGNO UNA FAVOLA DALLO HUMOUR NERO O UNA COMMEDIA BRILLANTE ALLA WOODY ALLEN».

Che effetto fa passare da progetti per lo più corali a ruoli da protagonista? Spaventa a morte! Ho letto da qualche parte che entrare in un personaggio è come fare un tuffo nell’acqua gelida: bisogna buttarsi e non pensarci più. Quando sei il personaggio principale hai molta più paura, ma quando cogli la sua anima e capisci esattamente cosa fare, nessuno può sapere meglio di te come comportarsi. Cosa pensi della generazione di giovani emergenti di cui fai parte?

Siamo un gruppo bellissimo, tanti di loro sono miei amici e adoro vederli cimentarsi in interpretazioni coraggiose. La cosa migliore è che tra noi siamo solidali. Il nostro legame ci rende più forti anche nell’affrontare un provino. Se mi ritrovassi a contendere un ruolo, ad esempio, con una delle sorelle Fontana e fosse lei a ottenerlo al posto mio, sarei contenta. Siamo veramente tosti e determinati e sono orgogliosa di far parte di questo gruppo. E se un tuo coetaneo ti chiedesse un consiglio per intraprendere la tua strada? Non gli direi mai di perdere le speranze anche se, realisticamente, non è un momento fantastico per chi sogna di affermarsi come attore in Italia. Ma la mia è una generazione cosciente come mai prima d’ora, e con maggiori strumenti per affrontare questo mondo. Gli direi “preparati, stai per scendere in battaglia. Credici ma non prenderti troppo sul serio”. Come dimostra la mia esperienza, ci vuole anche un pizzico di fortuna!

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Quali sono i valori che non perdi mai di vista nel lavoro e nella vita privata? L’umiltà è il più importante. Il nostro lavoro ci espone tantissimo e rimanere coi piedi per terra è fondamentale, perché la professione dell’attore ti dà tantissimo ma può anche essere molto frustrante. Essere umile ti aiuta a gestirla nel bene e nel male, a tenere stretti i rapporti sinceri che instauri. Nella vita personale, invece, con un mestiere che mi porta via così tanto tempo, cerco di rispettare tutti coloro con cui lavoro e di non trascurare la mia famiglia e i miei amici. Siete ancora più esposti anche per via dei social, che oggi permettono un contatto costante e diretto con i fan. Come vivi la loro presenza nella tua vita? Non so, con un pizzico di amarezza. Sarò all’antica, ma era bello che l’attore si ammantasse di un alone di mistero e che non si potesse entrare nella sua vita a 360 gradi, sapendo esattamente chi è e cosa fa. D’altra parte, ora il pubblico ha modo di sostenerti concretamente, seguirti e comunicare con te. Questo rappresenta un traino maggiore e a me piace che ci sia un rapporto paritario; interagisco volentieri con chi mi scrive. Il progetto che ancora non ti è stato proposto? Sogno una favola dallo humour nero o una commedia brillante alla Woody Allen. Paradossalmente però adoro anche i ruoli forti, in cui la protagonista ha un grave handicap o un trauma terribile alle spalle. Vorrei poter fare tutto quello che non sono.



- Opera Prima -

THE END? L’INFERNO FUORI

APOCALISSE ZOMBIE IN ASCENSORE CLASSE 1985, IL REGISTA DANIELE MISISCHIA HA ESORDITO IN SALA A FERRAGOSTO CON UN HORROR INCONSUETO PER IL MERCATO ITALIANO E VENATO DI REMINISCENZE DEI CLASSICI DEGLI ANNI OTTANTA. di FRANCESCO DI BRIGIDA

Nel cast del film, insieme ad Alessandro Roja, Euridice Axen, Claudio Camilli, Carolina Crescentini, Benedetta Cimatti.

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Claudio è un uomo d’affari cinico e vanesio che resta bloccato nell’ascensore del suo ufficio proprio il giorno di un incontro con un manager che potrebbe cambiargli la vita.

«QUANDO SI FA UN HORROR SI VA A RAPPRESENTARE LA SOCIETÀ, ANCHE SE IN MODO GROTTESCO».

U

na formazione cinematografica iniziata alla NUCT di Cinecittà, le esperienze come operatore di macchina da presa e regista di seconda unità per i Manetti Bros ne L’ispettore Coliandro e Il commissario Rex. ll suo zombie movie low budget, prodotto dalla Mompracem degli stessi Manetti e RAI Cinema, grazie al braccio distributivo di 01 Distribution è uscito in sala a metà agosto e vede come protagonista Alessandro Roja. L’ex-Dandi di Romanzo criminale – La serie veste i panni di un manager di alta finanza che resta chiuso in un ascensore mentre intorno a lui si consuma un’apocalisse che vede le persone infettarsi trasformandosi in zombie. Ambienta tutto a Roma Misischia. Dalle immortali silhouette delle statue che dominano San Giovanni ci rinchiude in un incubo claustrofobico fatto di elementi caratteristici del genere horror. All’interno di questo spazio angusto determinato solo dai numeri dei piani, riversa i peccati di un personaggio snob e infido che dovrà cercare di sopravvivere, come mai avrebbe immaginato, in un tripudio di splatter, exploitation e rimorsi di coscienza. Così abbondano scene di azione e corpo a corpo, sangue utilizzato come una punteggiatura grafica a segnare i personaggi quanto il mood di una storia ben determinata a terrorizzare il suo pubblico. Come nasce l’idea del tuo The End? Qualche anno fa, insieme al co-sceneggiatore Cristiano Ciccotti. Pensavo che sarebbe stato divertente raccontare l’apocalisse dal punto di vista di un poveraccio bloccato dentro un ascensore. Ragionando abbiamo capito che la soluzione meno costosa e più veloce era lo zombie movie, e da lì ne abbiamo tirato fuori un film

atipico per il genere. Perché il punto di forza non è tanto lo zombie, anche se è meglio chiamarli infetti perché sono persone infettate, quanto invece l’assedio claustrofobico portato a un livello estremo. Un intero film ambientato in situazioni claustrofobiche era anche una delle suggestioni accarezzate a suo tempo da Hitchcock. Sì, assolutamente. Hitchcock è stato una delle maggiori influenze per me. Soprattutto per la costruzione della tensione nei suoi film. Chiudere un set e un cast in ascensore che tipo di esperienza si è rivelata? In realtà è stato complicato da realizzare, ma anche molto divertente. Complicato perché un film tutto in una sola location ti costringe a mantenere una tensione sempre altissima. La concentrazione quando si gira su quello che sta succedendo e sulle scene d’azione deve rimanere massima per necessità, altrimenti rischi di rendere il film noioso per lo spettatore. Ma è anche divertentissimo, perché stabilizzarti sulla stessa location ti obbliga a stare in contatto ancora più stretto con cast e troupe. Da queste cose nascono buone sinergie che ti fanno vivere meglio il set. Tutto va avanti per una porta bloccata che decreta la vita o la morte di ogni personaggio. C’è qualche episodio che ti è rimasto impresso durante la lavorazione? Ti potrei raccontare un paio di cose legate alla lavorazione e alla preparazione di Alessandro Roja all’interno dell’ascensore. Prima di ogni scena di suspense o azione avevamo stabilito con lui di far partire una musica assordante. Un grind-metal che potesse

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Il protagonista, Alessandro Roja, è divenuto celebre per il ruolo di Dandi nella serie TV Romanzo criminale.

«IL PUNTO DI FORZA NON È TANTO LO ZOMBIE, QUANTO L’ASSEDIO CLAUSTROFOBICO PORTATO A UN LIVELLO ESTREMO». fomentare l’adrenalina nell’attore. Invece per la suspense avevamo scelto la musica de La cosa composta da Ennio Morricone, con un andamento molto lento e thrillerico. Roja ha voluto anche essere sorpreso sul set riguardo all’entrata in scena degli zombie per lavorare meglio a uno spavento reale, e il risultato si vedeva bene già dai girati. Molte volte facevamo rumori improvvisi o lasciavamo passare gli infetti davanti all’ascensore dov’era chiuso, ma senza che lo sapesse prima. Più che a The Walking Dead, ormai una sorta di bibbia moderna per chi si cimenta nello zombie movie, ti rifai alle lezioni di Bava, Carpenter e Romero confezionando il tuo lavoro in stile anni ’80. È verissimo. The Walking Dead non l’ho mai apprezzata come serie. Giusto la prima stagione era interessante, con Frank Darabont alla regia, che ho sempre ritenuto molto in gamba. Però poi anche TWD ha subito la maledizione di un po’ tutte le serie. Andando avanti i personaggi si annacquano diventando irrealistici e ora galleggiano in una soap-opera-zombie. Riguardo all’horror mi sono rifatto a John Carpenter e Sam Raimi, e a Romero fino a un certo punto. Qualcuno ha trovato similitudini tra The End? e i due Demoni di Lamberto Bava. E sicuramente credo che qualcosa a livello inconscio ci sia e come. Roma e gli zombie. Il tuo film è una specie di metafora sociale alla Romero rispetto a questo binomio? Non volutamente. Per quanto riguarda un sottotesto sociopolitico sicuramente qualcosa c’è, perché quando si fa un horror si va a rappresentare la società, anche se in modo grottesco. Il nostro contesto però non è squisitamente legato a Roma, perché la storia potrebbe essere ambientata in qualsiasi grande città di potere governata dal denaro. Poteva trattarsi di Milano come New York.

Certo, con Roma ho avuto la possibilità di girare in una delle città più belle del modo. Quindi fare un totale dall’alto con il drone riprendendo i cadaveri sul Lungotevere è un’occasione ghiotta per un regista di genere. Infatti da qualche tempo il cinema di genere ha ricominciato a interessare gli autori e il pubblico. Come vedi il futuro dell’horror? È un genere che ha ancora tanto da dire, anche se in questo momento i film che escono sono spesso la fotocopia l’uno dell’altro. Quando però è usato per raccontare qualcosa di attuale offre l’occasione di riflettere. Le persone amano spaventarsi, soprattutto al cinema, perciò è un genere che non morirà mai. Anche se alcuni mi hanno detto: “Scusa, l’horror mi spaventa, perciò non andrò a vederti al cinema”. Come se avessi girato il nuovo Esorcista. Magari! È l’unico film che riesce ancora a terrorizzarmi. Però aver fatto un film prodotto da RAI e Manetti Bros, e poi distribuito da 01, è la prova concreta che qualcosa sta cambiando. Spero che si arrivi presto a produrre in Italia una decina di film di genere all’anno, cosa fino a poco tempo fa impensabile. The End? ha un punto interrogativo nel titolo. Stai già puntando a un sequel o a un franchise? In realtà no. O non ancora. The End? era stato proposto come titolo internazionale da uno degli organizzatori del London FrightFest Film Festival, al quale abbiamo partecipato lo scorso anno. Il titolo originale era In un giorno la fine, ma a me era piaciuta molto quella nuova idea del punto interrogativo così, prima dell’uscita italiana, abbiamo deciso con 01 di renderlo titolo ufficiale. Secondo me non è un film da sequel, ma se dovesse capitare e ci fosse possibilità non mi tirerei indietro.

Le location del film, tutte a Roma, vanno da Ponte Sisto a Ponte degli Angeli, dov’è stata girata una sequenza con gli zombie, fino al quartiere Tiburtino.

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- Futures/1 -

ALBERTO VIAVATTENE

STORYTELLER

È un giovane regista torinese, ha un cognome indimenticabile e uno spiccato gusto estetico per la fotografia. Diviso tra i videoclip e i set dei film di Sorrentino, ha trovato nell’horror la sua dimensione naturale. di STEFANIA COVELLA

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oxane Duran, una delle star della serie Riviera su Sky Atlantic, è la protagonista del suo ultimo corto, quello che ha conquistato Sorrentino: Birthday. Una serie di fortunati eventi ha messo Viavattene sulla strada giusta e ora è pronto per realizzare la sua opera prima. Video musicali, corti e spot, sei un eclettico! Come sei diventato regista? Sin da piccolo ho sempre voluto fare il regista, il primo corto l’ho girato a 16 anni, quando mi hanno regalato una videocamera. A 19

sono capitato su un set come volontario: ho ricoperto il ruolo di video-assist su Il divo di Paolo Sorrentino.

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Mi sono ritrovato in mezzo a Sorrentino, Toni Servillo e Luca Bigazzi che erano i miei idoli. Hai lavorato anche sui set di The Young Pope e Youth, come sei finito a dirigere il backstage di Loro?

Sorrentino ha visto il mio ultimo corto, Birthday, gli è piaciuto molto e mi ha affidato la regia del backstage di Loro. È stato un cerchio che si chiude, dopotutto ero partito come semplice volontario. Mi ha colpito e continua a colpirmi il suo modo di girare perché, quando si sta sul set, si ha sempre l’impressione di fare qualcosa di magico, quando poi si vede il film montato ci si rende conto di alcune scelte ed è sempre una sorpresa.


«IL DIFFICILE DEL MESTIERE DEL REGISTA È TROVARE STORIE CHE MERITINO DI ESSERE RACCONTATE».

Al Festival del Cinema Europeo ho visto il tuo ultimo cortometraggio: Birthday. Da dove nasce l’idea per questo corto patinato e cupo insieme? L’ho realizzato grazie alla vittoria di un bando della Torino Film Commission. Premetto che per me l’horror nasce dal quotidiano, non è da ricercare troppo in là: un’anziana non più capace di intendere e di volere, chiusa in una casa di riposo in balia del prossimo, è una situazione spaventosa. Poi l’Indastria Film ha coinvolto uno sceneggiatore ma io, già dopo il primo giorno di riprese, avevo capito che non sarei riuscito a seguire la sceneggiatura. Ho dovuto rielaborarla sul momento, l’ho modificata a tal punto che lo sceneggiatore ha chiesto di togliere il proprio nome dai titoli. Sei l’incubo di ogni sceneggiatore… Lo so [ride ndr]. È stata una situazione estrema, c’erano pochi giorni e il budget non era alto, andavano prese delle decisioni. Cosa ti ha portato a scegliere il videoclip come principale forma espressiva? Il videoclip è una forma espressiva immediata: ti viene un’idea o hai un’immagine in mente, in uno o due giorni si gira e dopo una settimana è tutto online, ne apprezzo la velocità. Preferisco lavorare con gruppi non troppo famosi e piccole etichette, perché mi danno la libertà di poter fare quello che voglio, come per l’ultimo che ho girato: Devo dirty di Luca dei Lapingra. Insieme ad Anita Rivaroli hai realizzato il videoclip del progetto Rockin’ 1000: mille musicisti hanno suonato insieme le note dei Foo Fighters. Il video è diventato virale, quanto è stato complicato realizzarlo? Non è stato semplice, c’era da capire come restituire e riprendere nel migliore dei modi l’emozione live di quell’impresa. Non è bastato mettere una decina di macchine da presa nella mischia e poi lavorare al montaggio, si è trattato di avere sempre del materiale

© Federico Carnevale

La protagonista di Birthday è una giovane infermiera, interpretata da Roxane Duran, che si approfitta dei pazienti di una casa di riposo finché non entra nella stanza numero 12.

buono per ogni strumento e studiare come alternarlo. Il video è andato benissimo, ancora oggi ha 44 milioni di visualizzazioni, non ce l’aspettavamo, è stata una bella sorpresa ritrovarsi coinvolti in un fenomeno virale. Da dove nasce la tua predilezione per il genere horror? L’horror è un genere nel quale mi sono trovato un po’ invischiato, è stata più un’esigenza, ho capito di riuscire a ottenere una certa attenzione nei festival di genere, dove una buona idea riesce a risaltare anche se hai pochi mezzi. Girerei volentieri anche un film drammatico o un noir, l’unico genere che non farei è la commedia. Che progetti hai per il futuro? Ho dei progetti che sto facendo girare tra le case di produzioni. Tra i vari soggetti, ce n’è uno al quale tengo particolarmente: un horror ambientato interamente nella cucina di un ristorante. Sono alla ricerca di un produttore coraggioso, oggi si fanno molti più film di genere rispetto a qualche anno fa, ma manca ancora un po’ di coraggio. Mi è capitato di dialogare con delle produzioni in cerca di progetti horror che hanno definito i miei soggetti “troppo horror”. Tra l’altro, non amo particolarmente i cortometraggi e sono il primo spettatore che si annoia, perché non riesci a entrare in una storia che ne sei già fuori. Mi sento pronto per realizzare la mia

opera prima, credo però che il cinema non debba essere un riflesso del proprio essere: il difficile del mestiere del regista, dopotutto, è trovare delle storie che meritino di essere raccontate. Ed è quello che cerco di fare.

Birthday partecipa al concorso I Love GAI – Giovani Autori Italiani e verrà proiettato durante la 75esima Mostra del Cinema di Venezia.

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- Futures/2 -

ROSSELLA INGLESE

L’ETÀ DEL CONSENSO

Dà ai suoi corti dei nomi femminili e ci lascia spiare le sue muse dai tratti delicati e dagli occhi magnetici nascoste dietro i vetri come le eroine di Sofia Coppola. Le mostra mentre scoprono il sesso e il proprio corpo, incuranti di un mondo che spesso le giudica per questo. di STEFANIA COVELLA La giovane e promettente Gaya Carbini è Denise nell’omonimo corto che ha vinto il premio Young for Young al Visioni Italiane di Bologna e che è in concorso a Venezia a I love GAI - Giovani Autori.

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«MI SONO ACCORTA CHE AVEVO TEMI MOLTO URGENTI: PARLARE DELLA DONNA E DELLA SUA SESSUALITÀ».

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ossella Inglese, classe 1989, da Battipaglia si è fatta notare alla Mostra del Cinema di Venezia nella sezione Sic@ Sic, entrando poi in contatto con la Wave Cinema che ha prodotto il suo ultimo corto, vincitore del premio Emidio Greco al Festival del Cinema Europeo 2018. Ti occupi di sceneggiatura, montaggio e regia, lavori sui tuoi progetti a 360°. Come hai iniziato? Il mio percorso professionale si sintetizza in tre cortometraggi: Vanilla, Sara e Denise, una trilogia sulla sessualità femminile con tre protagoniste. Ho iniziato studiando sceneggiatura a Roma, ma per fortuna ho cambiato idea e ho deciso di studiare regia al SAE Institute di Milano, dove ho anche imparato a montare. Cosa ti ha fatto cambiare idea?

Mi sono ritrovata a scrivere di cose piuttosto intime, accorgendomi così di avere temi molto urgenti: volevo parlare della donna e della sua sessualità. Ho iniziato con un primo lavoro molto personale, ma mi ha affiancata un regista con una visione diversa dalla mia, anche dal punto di vista estetico, e dirigeva gli attori in un modo che non mi piaceva. Ho vissuto altre esperienze simili e mi sono accorta di avere anche una visione registica molto forte, quindi ho deciso di passare alla regia. Hai fondato una casa di produzione, giusto? Sì, la Fedra Film è una piccola produzione fondata da me e dal direttore della fotografia, Andrea Benjamin Manenti, nel 2012, con lo scopo di finanziare i nostri cortometraggi. In tutti i miei

corti cerco di dare un contenuto narrativo anche alla fotografia e ai movimenti di camera, quindi c’è stata sempre questa collaborazione tra noi due e andrà avanti anche per la mia opera prima. Poi ci sono Sara e Denise, non è un caso che entrambi i corti portino dei nomi femminili, mettono entrambi al centro delle adolescenti alla scoperta di se stesse e della propria sessualità. Come scegli quali storie raccontare? Racconto ciò di cui sento l’urgenza: in Sara il punto focale è il

passaggio dall’infanzia all’adolescenza di una bambina, orfana di madre, che fa fatica a comprendere i cambiamenti del

proprio corpo. In Vanilla, invece, cercavo di capire il conflitto tra inconscio e io, tramite la storia di una ragazza giovane che ha una relazione consenziente con il proprio padre e si ritrova a scontrarsi con quello che prova, con la società che la circonda. In Denise ho affrontato il rapporto che c’è tra la propria identità e la propria immagine online. Questo è il corto un po’ più sperimentale, io e Andrea [Manenti ndr] abbiamo cercato di fare un uso diverso della macchina da presa, che diventa così un personaggio della storia. In Denise mi sono chiesta come vive un adolescente di oggi, continuamente esposto sui social e quindi a un pubblico in conflitto tra l’identità e l’immagine che deve dare di se stesso agli altri. Hai lavorato sempre con attori non professionisti. Lavorare con attori non professionisti è stata una scelta: quando facevo i casting mi sono ritrovata a scoprire che gli attori che avevano già avuto delle esperienze non mi piacevano. A Milano è stato

un po’ più faticoso, mentre mi sono trovata benissimo a Roma. Per l’ultimo corto, avrò visto centocinquanta ragazzi e mi

hanno catturato quelli con meno esperienza: istintivi, liberi, con un’espressività molto forte, perfetti. Ad esempio, la protagonista di Denise è Gaya Carbini, una ragazza bravissima, sembra una professionista. Per me la direzione degli attori è importante, conosco alcuni registi che non fanno grandi prove. Io invece sono una che deve provare per mesi, far capire bene i personaggi, parlarne con gli attori. Stai scrivendo la tua opera prima, ritroveremo i tuoi temi chiave o sarà qualcosa di completamente diverso? Mi piace un cinema che lascia spazio più a uno sviluppo narrativo interiore che esteriore, che è molto sui personaggi e sulla loro interiorità, sulle relazioni uomo-donna. La mia opera prima verterà sugli stessi temi della trilogia di Vanilla, Sara e Denise, ma in questo caso la protagonista è più grande, ha vent’anni, ho chiuso con l’adolescenza. Abbiamo soggetto e trattamento e stiamo lavorando sulla sceneggiatura. Mi sento pronta per un lungometraggio,

in Denise ho fatto veramente fatica, avevo scelto dei temi e una storia poco adatti a un corto e mi sono resa conto di avere bisogno di raccontare tutto con più ampiezza e respiro.

Con Denise Rossella Inglese affronta temi di grande attualità, dal bullismo alla deriva di adolescenti ossessionati dall’apparire a tutti i costi.

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- Dossier -

La Beijing Film Academy è una delle più importanti istituzioni al mondo di arte cinematografica, fra i suoi diplomati ci sono grandi nomi del cinema cinese come Zhang Yimou, Chen Kaige, Jia Zhangke.

ITALIAa cura di GABRIELE LANDRINI e GIACOMO TAGGI

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la partita


-CINA

In molti settori industriali il paese dell’estremo oriente è ormai leader, grazie anche alla capacitĂ di intrecciare relazioni economiche con il resto del mondo, nonostante le ricorrenti minacce di guerre commerciali da parte degli USA e le pesanti ombre sulla mancanza di democrazia interna.

E il cinema?

deve ancora incominciare 19


A che punto è la relazione industriale fra Italia e Cina per quanto riguarda la settima arte? Per saperne di più siamo andati a chiedere a osservatori ed esperti. di GABRIELE LANDRINI

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erfetti sconosciuti, lungometraggio diretto da Paolo Genovese e interpretato tra gli altri da Kasia Smutniak ed Edoardo Leo, è stato sicuramente un grande ed inaspettato successo in Italia: uscito nel febbraio 2016, ha infatti incassato oltre diciassette milioni di euro, piazzandosi quinto nella classifica totale dello stesso anno. Solo recentemente, l’ultima fatica di Genovese ha tuttavia trovato una distribuzione internazionale che gli ha permesso di raggiungere anche uno dei mercati attualmente più fiorenti e remunerativi: la Cina. Nel maggio 2018, il film ha infatti esordito in oltre 4000 schermi dell’estremo oriente, registrando inaspettatamente un grande successo. Guadagnando tre milioni in appena quattro giorni – arrivati a sette nelle settimane a seguire – Perfetti sconosciuti ha posto quindi l’attenzione su una questione su cui si può oggi anche solo in parte discutere: è possibile ripensare i rapporti tra il cinema

italiano e il micro-cosmo culturale ed economico cinese? In un processo di globalizzazione sempre più propenso al raffronto e alla cooperazione tra realtà distanti o perfino antitetiche, la risposta sembra essere finalmente affermativa. Tre sono le strade che Italia e Cina sembrano perseguire per riuscire a incontrarsi, confrontarsi e soprattutto arricchirsi reciprocamente. La prima, affine al già più volte citato Perfetti sconosciuti, riguarda la distribuzione delle pellicole tricolore sul territorio cinese. Questa particolare modalità di confronto, che vede nell’esportazione del prodotto nazionale il proprio punto di partenza, è probabilmente più significativa rispetto alle altre, perché permette ai lungometraggi nostrani di esordire in vari festival asiatici, arrivando perfino (ma comunque raramente) a una distribuzione su vasta scala. Innumerevoli sono quindi le manifestazioni orientali atte a valorizzare pellicole di origine italiana. Veri e propri focus sono anzitutto presenti in iniziative ad ampio respiro. Il Salone del Mobile di Shanghai ha ad esempio proposto nel 2016 una serie di appuntamenti denominati Piazza Italia dove, tra dibattiti e tavole rotonde, si è presentato in anteprima Vinodentro, lungometraggio di Ferdinando Vicentini Orgnani trasmesso durante i voli di Air China. Il Festival di Pechino, in collaborazione con l’ANICA, ha invece promosso un ciclo di proiezioni dal titolo Discovering Italy, nelle quali si sono succedute pellicole come Song ’e Napule dei Manetti Bros., La ragazza del lago di Andrea Molaioli e Scialla! di Francesco Bruni. Di stampo esclusivamente tricolore è invece Cine Italiano!, manifestazione che da sei anni si svolge a Hong Kong e mira a presentare i grandi successi prodotti sul nostro territorio a un pubblico che, al contrario, non avrebbe modo di fruirne. Con un programma composto annualmente da sette o otto film, questo festival – curato dall’Hong Kong International Film Fest Society (HKIFF), dall’Istituto Luce, dall’Istituto Italiano di Cultura e dal Consolato Generale d’Italia a Hong Kong – è forse uno dei più caleidoscopici eventi dedicati all’esportazione del made in Italy all’estero. Alternando commedie brillanti a opere dai toni più

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drammatici, l’iniziativa ha permesso a registi del calibro di Ettore Scola, Gianni Amelio, Gabriele Salvatores ed Ermanno Olmi di promuovere i propri lavori in una realtà culturale innegabilmente esclusiva. Sfortunatamente, nessuna di queste pellicole ha raggiunto una distribuzione nazionale: una delle poche eccezioni, oltre al fortunato film di Genovese visto in origine proprio a Hong Kong, è Notturno bus, film di Davide Marengo proiettato in anteprima a Shangai e rilasciato poi in tutta la nazione. La seconda strada, sicuramente meno prolifica della precedente ma ugualmente significativa, rovescia la prospettiva, non ragionando sull’esportazione ma sull’importazione. Sebbene sia tutt’oggi palese che le pellicole cinesi pecchino di scarsa distribuzione nel mercato italiano – eccezion fatta per alcuni casi rari, come il blockbuster storico Dragon Blade, interpretato da Jackie Chan –, l’ANICA sta tentando con sempre maggior riscontro di promuovere appuntamenti dedicati al cinema cinese, attraverso il confronto con produttori e addetti ai lavori di origine asiatica. Progetti come i China Days alla Casa del Cinema di Roma o il China Film Forum del Festival di Venezia sono solo due delle iniziative che gradualmente stanno tentando di imporsi, al fine di suggerire e concretizzare nuove collaborazioni e coproduzioni. Proprio in relazione a queste ultime si concentra la terza via che può (e, più delle precedenti, deve) essere intrapresa. Sebbene nella seconda metà del Novecento le coproduzioni internazionali abbiano rappresentato per il cinema italiano una ricca fonte di guadagno e successo, praticamente nullo è stato l’apporto dato dall’oriente: offrendo i propri paesaggi ma non partecipando finanziariamente, lo scorso secolo la Cina ha infatti contribuito attivamente solo a quattro pellicole d’autore, ovvero i documentari targati Carlo Lizzani (La muraglia cinese) e Michelangelo Antonioni (Chung kuo, Cina) e le opere di finzione Marco Polo di Giuliano Montaldo e il celeberrimo L’ultimo imperatore di Bernardo Bertolucci. Negli anni Duemila, i nuovi contatti hanno contrariamente permesso all’Italia e alla Cina di aumentare le occasioni per sostenersi vicendevolmente, dando vita a nuovi progetti che, finanziati o ambientati tra le due nazioni, si sono posti come antesignani di un’evoluzione produttiva necessaria e forse ineludibile. Pellicole come La stella che non c’è di Gianni Amelio, Two Tigers di Sandro Cecca e soprattutto Caffè di Cristiano Bortone sono quindi diventati i primi prototipi di un’inedita tendenza che proietterà sempre più marcatamente l’industria nazionale verso un processo culturale e produttivo che fino a ora le era estraneo. Perfetti sconosciuti, il cui successo è solo parzialmente un caso isolato, ha dunque dimostrato che il cinema italiano è finalmente pronto per scoprire nuovi luoghi e nuove forme. Da un punto di vista distributivo, il mercato in costante mutamento favorisce una maggiore dinamicità dei contenuti che, lontani dall’essere geograficamente localizzati, possono mettersi alla prova di fronte a platee che non gli sono tradizionalmente consone. La vera scommessa deve tuttavia valicare le proiezioni ai circuiti festivalieri o i dibattiti tra addetti ai lavori, puntando su un modello, come si è visto, ancora quasi totalmente inesplorato: la produzione.


F O C U S | L A H O L LY W O O D D ’ O R I E N T E

Hengdian World Studios Siamo abituati al giorno d’oggi a vivere in un mondo di simulacri, di riproduzioni virtuali che si affiancano – o sostituiscono – alla realtà degli oggetti sensibili. Basta indossare degli occhiali per ritrovarsi immersi in luoghi che non esistono più, vederli come erano una volta, come ad esempio agli scavi di Pompei. Ma tolti gli occhiali, l’illusione svanisce. di GIACOMO TAGGI In Cina, però, esiste un posto dove le cose vengono ricostruite una seconda volta. E non importa che si tratti di repliche di luoghi già esistenti – è il caso, ad esempio della Città Proibita – o di posti che non esistono più – come un quartiere di Pechino di fine ’800. In questo luogo molto particolare scocca la scintilla della magia, come in un grande parco divertimenti, il tempo si ferma e posti scomparsi tornano a esistere. E si possono toccare. Stiamo parlando degli

Hengdian World Studios: semplicemente

gli studios cinematografici più grandi del mondo. Capire la realtà di quella che viene definita la “Hollywood d’Oriente” non è facile, finché non la si vede con i propri occhi. Per noi occidentali, cresciuti con il mito della Hollywood sulla West Coast, gli studios risultano quasi sconosciuti. Non solo perché sorgono nei pressi di Hengdian, una città di soli 140.000 abitanti – l’equivalente di un piccolo borgo per gli standard cinesi. Probabilmente non sarebbero passati alla storia se non fosse

stato per l’Hengdian Group, proprietario degli studios. Il gruppo, che è fra i primi 10 gruppi privati cinesi con oltre 3 miliardi di fatturato, è ancora a conduzione familiare. Alla fine degli anni ’70, quando il fondatore Xu Wenrong muove i primi passi nel mercato della seta, l’economia della città è prevalentemente agricola. In quel momento nessuno può immaginare che venti anni più tardi, a pochi chilometri dai campi coltivati, sarebbero sorti gli edifici della Hong Kong della prima metà dell’800. Era una location ricostruita espressamente per le riprese di un film, La guerra dell’oppio. Sarebbe stato solo il primo di una lunga serie. A oggi gli Hengdian World Studios possono vantare, distribuite su centinaia e centinaia di ettari di terreno, ben 33 location differenti, distinte in A-class (livello di produzione cinematografica) e B-class (livello televisivo), mentre 46 sono attualmente in costruzione. Tra le varie location vi sono palazzi, castelli, residenze imperiali, giardini, strade e interi quartieri, fino a luoghi contemporanei generici come aeroporti, ospedali, campi da golf.

Ma il vero motivo per cui questi studios rappresentano una realtà unica nel panorama mondiale, è che tutte le location sono ricostruite per davvero: in cemento armato, in scala 1:1. Ora, a chi è capitato di visitare Hollywood o Cinecittà sa bene che in quei luoghi la magia del cinema e la realtà circostante sono separate da un sottile strato di cartapesta: degli edifici che vediamo sullo schermo non esiste più che una facciata sostenuta da alcuni pali, che spesso viene smantellata a riprese terminate. A Hengdian è completamente diverso. Se vi trovate nella location, mettiamo, della Pechino di inizio secolo, potete passeggiare per le sue strade come se fossero quelle di

una città reale. Persino entrare in qualche casa. Il motivo per cui le location in costruzione sono così tante però non è solo la crescente espansione del mercato audiovisivo cinese. I maggiori introiti degli studios derivano infatti dai visitatori, che vi si recano come se fosse un parco divertimenti, e si contano nell’ordine di quasi 20 milioni l’anno. Ma il progetto del gruppo Hengdian è quello di far lievitare questo numero ancora di più. E anche voi, se esiste un posto scomparso in cui vorreste essere, andate lì e probabilmente lo troverete. E se non ci fosse ancora, abbiate solo un po’ di pazienza: è probabile che presto costruiranno anche quello.

«SE ESISTE UN POSTO SCOMPARSO IN CUI VORRESTE ESSERE, ANDATE LÌ E LO TROVERETE».

Il Gruppo Hengdian, socio della Fondazione Italia-Cina, ha istituito un’importante accademia del cinema e della televisione, la Hengdian College, che oggi conta circa 4.000 studenti.

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FOCUS | SCUOLE E ACCADEMIE

La formazione dei campioni

Recentemente ho avuto occasione di compiere un viaggio in Cina in compagnia di un ristretto gruppo di accademici e professionisti italiani del settore ‒ provenienti da istituzioni come l’Università Cattolica, RAI, Mediaset e Cattleya ‒ per conoscere meglio la realtà del cinema cinese e lo stato delle cose nel campo dell’audiovisivo a livello formativo e produttivo. di GIACOMO TAGGI La prima cosa da dire per comprendere il cinema cinese è che, come tutto il paese, è una realtà in espansione vertiginosa. Pianificazione e possibilità di investimenti pressoché illimitata sono le parole chiave dello sviluppo di tutto il sistema. Questo comporta delle ripercussioni a tutti i livelli, a partire ovviamente dalla formazione. Un esempio? La celebre Beijing Film Academy, scuola di cinema nazionale e vero e proprio tempio della formazione nel campo dell’audiovisivo - equivalente, con le dovute proporzioni, al nostro CSC - dopo moltissimi anni sta espandendo la sua sede per prepararsi negli anni ad accogliere un numero di studenti addirittura quintuplicato - al momento sono 3500, che vengono sottoposti a una selezione durissima - : il numero degli ammessi infatti,

in proporzione alla popolazione cinese, è assai più basso che da noi. Un potenziamento reso necessario da una richiesta in costante aumento, per rispondere alle esigenze di un mercato che attraversa una fase di espansione di cui è difficile prevedere l’arresto. Spostandoci a Shangai, invece, scopriamo che oltre alla Shangai Film Academy, dipartimento dell’Università di Shangai e una delle più prestigiose nel panorama dell’industria cinematografica cinese, è stata fondata di recente la Shangai Vancouver Film School, in sinergia fra il governo municipale di Shangai e la Vancouver Film School. I canadesi sono stati chiamati a dispensare il know-how indispensabile per la crescita della scuola. L’obiettivo dichiarato di questa giovane

istituzione è quello di diventare una delle più autorevoli del mondo - e ovviamente rivaleggiare con Pechino e la sua Academy. Quello che risulta maggiormente interessante di questa scuola è il suo modello formativo, che si distingue per la estrema celerità: la formazione, pur di altissimo livello, si svolge in un unico anno accademico iperconcentrato. Questo ovviamente per permettere agli studenti di entrare quanto prima in un mercato del lavoro sempre più affamato di risorse qualificate. La quasi totalità degli studenti ammessi è cinese: sebbene i corsi siano tenuti anche in lingua inglese, la scuola non fa pubblicità all’estero e, pur ammettendo di tanto in tanto studenti stranieri, ha come principale obiettivo quello di rivolgersi ai giovani allievi nati in Cina. Un centinaio di chilometri più a sud di Shangai, ad Hangzhou, sorge un altro complesso molto importante nel campo della formazione. Stiamo parlando della Zhejiang

University of Media and Communications,

fondata nel 1984 e specializzata espressamente nella formazione di talenti destinati all’industria

mediatica e della comunicazione. Vanta inoltre una forte connessione con l’industria audiovisiva. In aggiunta alle aule, la facoltà possiede degli studi televisivi dove i ragazzi possono fare pratica, che non hanno nulla da invidiare a quelli di una grande emittente: ancora una volta la Cina conferma che, in quanto a tecnologie e investimenti, non teme nessun confronto. Un ultimo aspetto interessante della realtà audiovisiva cinese è che la catena che lega lo sviluppo, la produzione e la distribuzione di un prodotto cinematografico che da noi, come ben sappiamo, è suddivisa in diversi anelli che corrispondono a società autonome - è spesso gestita da un unico protagonista: come la Shangai Film Group, ad esempio, un enorme gruppo che comprende diverse società che spaziano dalla produzione alla distribuzione, fino agli esercenti delle sale cinematografiche, supervisionando in modo diretto tutte le fasi della vita di un film. Per farci una idea, il gruppo possiede circa 200 schermi in tutta la Cina e produce ogni anno circa 20 film: 50 film per la televisione e 800 episodi di serie TV all’anno.

La Zhejiang University of Media and Communications ha stretto collaborazioni tra insegnanti e studenti di Gran Bretagna, Nuova Zelanda, Canada, Svezia, Sud Corea, Francia, Germania, Italia.

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Qui Pechino: intervista con Airaldo Piva Airaldo Piva, nato a Milano nel 1963, ricopre attualmente la carica di amministratore delegato di Hengdian Group Europe. È opinionista del «China Daily» e professore onorario alla Hengdian College Film & Television. È una delle persone più adatte con cui parlare di come l’industria cinematografica italiana e cinese possano interagire di più nel futuro, superando le criticità ancora presenti. di GIACOMO TAGGI Qual è il peso del comparto cinema all’interno del gruppo Hengdian? Hengdian Group (HG) è oggi tra i maggiori gruppi privati cinesi, la cui sede legale è nella città di Hengdian (Zhejiang), a circa quattro ore di auto da Shanghai. Il gruppo è composto da circa 200 società controllate e, complessivamente, da oltre 50000 dipendenti. I settori principali in cui HG opera sono quello elettronico, chimico farmaceutico, dei materiali compositi, del retail e ovviamente del cinema. Anche se quest’ultimo settore non è il più importante (incide infatti per circa il 10% del fatturato consolidato totale), il gruppo intende investire sempre più nel comparto dell’entertainment. Questo per almeno tre motivi: il settore cinematografico in Cina è ancora in forte sviluppo e supererà presto quello americano. Un solo dato: mentre sia in Europa che in USA si chiudono ogni giorno dei cinema, in Cina si costruiscono 25 schermi al giorno per nuove sale cinematografiche (HG ha già superato quota 2000 schermi in tutta la Cina). Per HG il cinema non rappresenta solo un business, ma un ottimo mezzo di comunicazione e promozione di tutte le attività del gruppo. Entertainment per noi non significa solo cinema in senso stretto, ma anche e soprattutto turismo. È proprio grazie al cinema che abbiamo trasformato Hengdian da una piccola città agricola a “Chinawood”, dove i nostri studios, tra i più grandi al mondo, sono visitati ogni anno da oltre 16 milioni di turisti e stanno diventando tra le maggiori mete turistiche di tutta la Cina. In che direzione si sta espandendo il mercato cinematografico cinese? Quali i gusti del pubblico? Dai grandi film storici (penso ad esempio a Hero di Zhang Yimou), si è passati a una maggioranza di commedie o storie romantiche mirate a un pubblico teen, quello che va di più al cinema. I kolossal invece sono sempre meno. Questo perché comportano dei rischi molto più grossi, e non sono particolarmente apprezzati dai giovani. Mentre l’industria cinematografica occidentale registra un trend decrescente, i box office cinesi sono in rapida ascesa ponendosi ormai in seconda posizione sul mercato mondiale dopo solo gli Stati Uniti. Nel 2017 il box office cinese ha superato i 7,9 miliardi di dollari. Il dato più interessante secondo me è però quello che riguarda lo share tra i film cinesi e quelli stranieri (soprattutto

statunitensi): oltre il 60% degli incassi cinematografici in Cina è arrivato da film cinesi a conferma di una progressiva crescita qualitativa e organizzativa dell’industria cinematografica locale. Per correttezza, va anche ricordato che esiste una forte influenza del governo cinese sul numero e sulla modalità di distribuzione dei film stranieri da proiettare in Cina. Per quanto riguarda i trend di questo mercato, vorrei ricordare la tendenza a produrre sempre più film low budget (che in Cina significa 6-10 milioni); un maggiore impatto di internet e delle nuove tecnologie sulla catena del valore dell’industria cinematografica (pensiamo ai recenti investimenti nel settore da parte di aziende come Alibaba, Tencent ecc.); un maggiore e progressivo impulso non solo artistico ma anche politico nel passare da un prodotto “per la Cina” a “per il mondo”, cambiamento che dovrebbe favorire le coproduzioni internazionali e quindi anche l’Europa. Esiste uno spazio nel mercato interno per prodotti occidentali? Parliamo solo di USA o anche di Europa? È indubbio che ancora oggi a trarre maggior vantaggio dalla rapida crescita dell’industria cinematografica cinese sia soprattutto quella statunitense, la quale detiene il quasi monopolio tra i 34 film prodotti all’estero ammessi ogni anno alla distribuzione nel territorio cinese. Tuttavia in questi ultimi anni mi è sembrato di percepire un’attenzione maggiore verso le commedie europee con temi e soggetti più affini per un pubblico cinese sempre più costituito da giovani, affascinati e incuriositi dal nostro lifestyle. Per quanto riguarda l’Italia, c’è molta considerazione e interesse verso il nostro cinema. Tutti sono concordi nell’attribuire al cinema italiano un ruolo fondamentale nella storia del cinema mondiale, ma salvo qualche caso isolato, al grosso pubblico cinese il nostro cinema pare essersi fermato negli anni ’60 e ’70. Del resto, mi sembra che gli investimenti per un’efficace promozione del nostro cinema in un mercato così ampio e complesso siano ancora insufficienti. Spesso, inoltre, ci presentiamo in modo disordinato e attraverso una moltitudine di operatori, facendo perdere di efficacia i già limitati stanziamenti pubblici. Nonostante ci siano stati degli sforzi maggiori rispetto al passato e più attenzione da parte delle organizzazioni nazionali competenti, siamo ancora molto indietro rispetto ad altri paesi europei, come ad esempio la Francia. Qual è lo stato delle coproduzioni? Se ne discute molto, ma è difficile che si riesca a concludere. Le cause principali sono la difficoltà a lavorare insieme e alcune barriere dettate dal provincialismo che risultano difficili da superare, da entrambe le parti. Un esempio di collaborazione, non esattamente coproduzione: la Disney sta girando Mulan in live action, e agli Hengdian Studios. Occorre dire che i cinesi non sono molto abituati a occupare una posizione di leadership nel cinema. Se le società straniere arrivano e hanno le idee chiare e sanno perfettamente cosa vogliono fare, è probabile che il lavoro venga realizzato. Ma se arrivano con pochi mezzi e le idee non chiare, come spesso accade agli italiani, e cercano la leadership nei cinesi, è più difficile che il film vada in porto. Faccio un esempio in positivo: un giorno in cui sono stato sul set di Mulan, vedevo una ragazza con uno zainetto da cui non si separava mai e mi chiedevo che cosa contenesse. A fine giornata l’ho scoperto: era uno zaino con il necessario per un primo soccorso. Questo a mio avviso è un esempio di ottima organizzazione. Si capisce anche da questi particolari quando una compagnia è organizzata e affidabile fin nei minimi dettagli. C’è un interesse da parte dell’industria cinese a penetrare nel mercato italiano? HG ha recentemente firmato, ad esempio, un memorandum d’intesa con Apulia Film Commission. La Cina è interessata a rafforzare un processo di internazionalizzazione dei propri prodotti, anche cinematografici, nonché a contribuire all’esportazione della cultura cinese all’estero (il tanto citato soft power). Questo significa aumentare la promozione

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FOCUS | ZHU RIKUN

La voce del cinema indipendente Se il cinema istituzionale è fortemente sostenuto dal governo, i cineasti indipendenti, come si può immaginare, in Cina non hanno vita facile. Zhu Rikun, già selezionato in vari festival europei, ci racconta come si lavora da outsider. di GABRIELE LANDRINI

L’Occidente vede il cinema cinese come un mercato ricco e prolifico, venato da impulsi differenti che si intrecciano gli uni con gli altri. In questa realtà produttiva all’apparenza florida, non mancano tuttavia tacite limitazioni, che non permettono a registi più controcorrente di ritagliarsi un proprio spazio. Zhu Rikun, documentarista attualmente al lavoro al suo primo lungometraggio di finzione tra Cina e Italia, ha risposto in esclusiva a Fabrique ad alcune domande proprio su questo tema, raccontandoci cosa significhi oggi essere un cineasta indipendente in un mercato tutt’altro che libero come quello orientale. Come si rapporta l’industria praticamente monopolistica cinese con il cinema indipendente? Il processo di realizzazione di un film indipendente in Cina è molto complicato, perché le produzioni non istituzionali sono prese di mira dal governo e dal partito comunista, in quanto esenti dalla censura. Anche la distribuzione è altrettanto complessa, dato che sia i festival sia gli esercenti non permettono alle pellicole indipendenti di essere proiettate, prediligendo film commerciali. Questa tendenza condanna moltissimi cineasti, che difficilmente riescono a lavorare

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regolarmente. In cosa differiscono le tue opere rispetto a quelle più istituzionali? Al contrario di molti miei connazionali, io realizzo solo film indipendenti, lontani quindi dalle logiche commerciali: questo significa che i miei lungometraggi non subiscono un processo di censura. Tutte le mie opere sono sperimentali, dato che io sono alla costante ricerca di forme particolari che possano dare un’identità ai miei lavori. I miei film sono quindi nuovi, non tradizionali, perché io, in quanto regista, mi esprimo attraverso i contenuti e le forme. Il tuo primo film di finzione è ambientato tra Italia e Cina. Come hai intrecciato queste due realtà? L’Italia e la Cina sono due paesi totalmente diversi, sia nelle tradizioni sia nella contemporaneità. Il mio primo lungometraggio di finzione ragiona proprio su questo: si intitola Made in Paradise e parla di due sorelle cinesi che vivono rispettivamente in Cina e in Italia. Sebbene siano in paesi differenti e quasi antitetici, le loro vite sono simili. Il mio intento è dunque fare in modo che la realtà italiana e quella cinese si intersechino e si confondano in una costante sfasatura.

dei propri film sui mercati internazionali e soprattutto favorire le coproduzioni internazionali. L’accordo stipulato con l’Apulia Film Commission va proprio nella direzione di incoraggiare forme di collaborazione anche di tipo turistico-culturale mediante promozione di eventi, festival, conferenze ecc. Non da ultimo, l’accordo avrà come intento anche quello di sviluppare collaborazioni nell’ambito universitario e più in generale nella formazione di giovani tecnici e professionisti. HG è infatti da sempre molto sensibile verso il sociale e soprattutto verso l’istruzione: del nostro gruppo fanno parte delle scuole che vanno dall’asilo all’università. Nel 2007 abbiamo istituito un’importante accademia del cinema e televisione proprio a Hengdian che annovera oltre 4000 studenti.

Qui Roma: il parere di Alberto Fumagalli Docente di Semiotica e direttore del MISP, Master in International Screenwriting and Production dell’Università Cattolica, ci dà il suo parere di accademico e studioso sul vertiginoso sviluppo, almeno quanto a numeri, del cinema cinese. di GIACOMO TAGGI

Avendo visitato più volte i college e le università cinesi, quale crede sia l’aspetto principale da imparare da loro a livello di formazione? Il punto di forza è l’investimento deciso che i cinesi operano sulla formazione di alta qualità. Non a caso sono passati dall’essere un paese prevalentemente agricolo, che si limitava alla produzione fisica di beni pensati da altri, a essere un paese che ha tutto, dalle tecnologie all’innovazione. Questo perché hanno investito tanto. Ma non bisogna dimenticare che la loro struttura a livello di organizzazione statale rende tutto più semplice: quello che viene deciso ai piani alti si trasforma in realtà in pochissimo tempo. Così hanno deciso di investire sulla formazione, sia finanziando scuole e università, sia permettendo a moltissime persone di andare a studiare all’estero e di imparare dai migliori che ci sono in ogni parte del mondo. Quindi la prima cosa è credere nella possibilità di fare grandi passi avanti investendo sul sistema formativo. Nel suo libro Creatività al potere lei tratta il tema del cosiddetto soft power, l’influenza che il cinema hollywoodiano ha avuto sulla supremazia anche politica degli Stati Uniti a livello globale. Pensa che lo stesso valga per la Cina, oggi? I cinesi hanno deciso di impegnarsi tanto nel cinema per questo motivo. Gli investimenti che hanno fatto sulle sale, sull’industria, derivano da una valutazione dell’importanza dell’audiovisivo nella diffusione di una way of life, di un’immagine del loro paese e della loro cultura a livello globale. È stata una strategia evidentemente e assolutamente dichiarata. È ovvio che per passare da una grande industria alla capacità di raccontare storie a tutto il mondo ci vuole tempo, non è qualcosa che accade dall’oggi al domani. Forse pensavano che sarebbe stato più facile scrivere e produrre film


FOCUS | SHI YANG SHI

Un artista fra due culture Arrivato in Italia a undici anni, Shi Yang Shi si è imposto negli ultimi decenni come uno degli artisti di origine asiatica più importanti e poliedrici del panorama nazionale. di GABRIELE LANDRINI

Facendo del suo connaturato ibridismo culturale un punto di forza, l’attore – ma anche scrittore ed inviato – ha alternato nella sua carriera esperienze teatrali a ruoli cinematografici, non dimenticando naturalmente il piccolo schermo e facendo incursione perfino nel mondo editoriale. Proprio in occasione dell’uscita del suo primo romanzo autobiografico Cuore di seta, Shi ha raccontato se stesso e il lungo percorso che lo ha condotto a essere l’uomo e soprattutto l’artista eclettico che è oggi. Quando hai iniziato a interessarti al mondo dell’arte e al cinema? In realtà, fin da bambino sono sempre stato un piccolo artista, infatti a 11 anni dipingevo; quando sono arrivato in Italia ho dovuto soffocare questa mia passione a causa delle difficoltà riscontrate dopo essermi trasferito. Ho iniziato a interessarmi seriamente al mondo del cinema quando avevo 24 anni; studiavo marketing alla Bocconi e nel frattempo lavoravo come venditore ambulante. La magia del grande schermo mi ha travolto quando ho intrapreso la carriera di traduttore

e ho avuto la possibilità di confrontarmi con Gong Li, che si trovava al Festival del Cinema di Venezia come presidente di giuria. È stato proprio a lei che ho confidato il mio desiderio di fare l’attore e inaspettatamente mi ha incoraggiato. Anche Tian Zhuangzhuang, regista che quell’anno ha presentato alla kermesse Springtime in a Small Town, mi ha spronato a seguire la mia strada, indirizzandomi agli studi teatrali dato che, mi spiegò, “noi preferiamo gli attori di teatro perché si impegnano e studiano di più”.

perché mio padre mi vedeva come un potenziale drago, ovvero secondo la cultura cinese un imprenditore a capo di un’azienda. Io però ho deciso di ribellarmi. Dopo l’esperienza a Venezia, ho cominciato a sostenere provini e a propormi. Sempre al Lido, ho incontrato Gianni Amelio che mi ha assunto come aiutoregista, oltre che in un piccolo ruolo, nel suo film La stella che non c’è, un dramma sui rapporti commerciali tra Italia e Cina. Da lì ho cominciato a collaborare con diversi registi, come Giuseppe Tornatore, Silvio Soldini e Luca Luccini.

Hai quindi stravolto la tua vita buttandoti nel mondo dello spettacolo. È stato difficile? Sì, è stato molto difficile, ma era una cosa che sentivo di dover fare: mi sarei disperato se fossi diventato un producer per altri. Io provengo da una famiglia che in Cina era abbiente ma che, una volta arrivata in Italia, è diventata molto povera, quindi le aspettative dei miei genitori si concentravano tutte su di me. Quando avevo vent’anni mi sono trovato in una situazione in cui mi rendevo conto di essere incapace di sognare,

Cineasti importanti, nonostante il cinema italiano non offra molti ruoli ad attori di origine cinese. È difficile per me trovare ruoli complessi. Ma a volte capita: ad esempio, il personaggio che interpreto nella soap-opera Un posto al sole sta diventando davvero stimolante, perché sta prendendo una piega che mi piace molto. Tuttavia, è una realtà difficile, perché non è semplice emergere. Non bisogna però lasciarsi travolgere dal vittimismo, non mi reputo assolutamente una vittima e non voglio esserlo. Io e i

che sarebbero diventati dei grandi successi internazionali, ma in questo momento hanno dei prodotti che sono grandi successi locali – locale si fa per dire, considerando che parliamo di un paese di 1 miliardo e 300 mila persone – ma ancora non hanno l’esperienza e la raffinatezza necessarie per fare qualcosa che sia davvero convincente a livello globale. Ci vorranno ancora un po’ di anni forse, ma ci arriveranno. Qual è a suo avviso il segreto per una buona collaborazione o coproduzione con un paese come la Cina? Il segreto secondo me è avere molta pazienza. Davvero molta. Perché per lavorare insieme bisogna conoscersi, rispettarsi. Una

miei colleghi continuiamo infatti a scrivere e a recitare. Sono sicuro che con il tempo, e magari con un po’ di ritardo, il cinema italiano ci darà il giusto spazio. Dopo il teatro e il cinema, e accanto anche alla tua breve avventura come inviato televisivo per Le iene, ultimo in ordine di tempo è stato invece il tuo confronto con la scrittura. Come è nata l’idea di raccontare la tua vita in un libro? Nel 2015 mi hanno proposto per la prima volta di scrivere il libro Cuore di seta e io inizialmente non ero convinto. Riflettendo, però, mi sono reso conto di avere il desiderio di mettere su carta la mia storia, al fine di poter creare un ponte tra diverse culture e anche tra diverse sessualità. Io faccio parte della comunità LGBT+ e naturalmente di quella cinese, quindi volevo raccontare in modo chirurgico, ma anche con rispetto, queste due realtà, cosicché tutti potessero rispecchiarsi. Il libro non è nato con intenti politici, ma ci sono diritti che devono essere riconosciuti e, parafrasando Camus, la mia arte non fa attivismo, ma quando l’attivismo chiama l’arte risponde.

coproduzione non è qualcosa che si organizza in cinque minuti, probabilmente si tratta di iniziare da progetti più piccoli. Si potrebbe cominciare con una produzione europea in Cina, iniziando a coinvolgere una società cinese come service, per vedere se si lavora bene insieme e, se tutto procede al meglio, allora a quel punto può aver senso pensare a una coproduzione, che richiede chiaramente un diverso livello di collaborazione, una parità di ruoli, una maggiore intesa anche sullo sviluppo della storia. Ci vuole tempo e pazienza. Le persone che lavorano con la Cina dicono che per lavorare bene con loro bisogna investire molto sul rapporto umano e personale. Perché è una cultura in cui conta molto chi sei tu e che rapporto ho io con te, piuttosto che quello che c’è scritto sui contratti.

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MASSIMO TROISI

NON CI RESTA CHE

PIANGERE IL 4 GIUGNO DEL 1994 CI LASCIAVA MASSIMO TROISI. LA SUA SCOMPARSA PREMATURA, A SOLI 41 ANNI, HA PRIVATO IL MONDO DEL CINEMA ITALIANO DI UNA DELLE SUE PERSONALITÀ PIÙ BRILLANTI E HA APERTO UN VUOTO, ANCORA NON COLMATO, NELLA CULTURA PARTENOPEA.

di RAFFAELE VERZILLO foto MARIO TURSI

T

roisi ci ha lasciato in eredità sei film come autore e regista, ed è stato protagonista di uno degli esordi più folgoranti del cinema italiano: Ricomincio da tre, infatti, uscito nelle sale nel 1981, incassò circa 15 miliardi di lire, rimanendo in programmazione per molti mesi. Parlare del cinema di Troisi è argomento vasto, ma sono due gli aspetti che credo sia necessario approfondire per provare a comprendere la traccia lasciataci dal grande autore napoletano: il periodo storico e l’identità culturale. Sul finire degli anni ’70 la produzione cinematografica italiana, che contava un cospicuo numero di film, si era accomodata, fatta eccezione per alcuni titoli firmati dai grandi autori o dall’“autarchico” Moretti, sui filoni poliziotteschi, spaghetti western-B e commedia

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L’esordio di Troisi avviene a soli quindici anni al Teatro Spazio Zero di San Giorgio a Cremano, dove incontra Lello Arena, Enzo Decaro, Valeria Pezza e Nico Mucci con cui forma il gruppo teatrale I Saraceni.

©Archivio Mario Tursi Foto

«IL SUO VIAGGIO IDENTITARIO PARTE DAL DIALETTO PER REALIZZARE PRODOTTI INTERNAZIONALI».

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©Archivio Mario Tursi Foto

«IL DIALETTO ERA COME UNA DIFESA, IL BISOGNO DI RESTARE FEDELE A QUELLO CHE AVEVO INTENZIONE DI DIRE».

Nel suo ultimo lavoro interpreta il protagonista de Il postino, di Michael Radford, per cui nel 1996 viene candidato postumo all’Oscar come Miglior Attore Protagonista.

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erotica che avevano profondamente impoverito la qualità dell’offerta. Inoltre la paura e la violenza che contraddistingueva il periodo, gli “anni di piombo”, influenzavano negativamente il pubblico, che in mancanza di proposte cinematografiche valide disertava le sale. La televisione aveva iniziato a essere prevalente nelle serate italiane e lì, proprio sul piccolo schermo, cominciarono ad apparire autori comici e satirici che mostravano i germogli di quella che sarebbe stata la generazione del nuovo panorama cinematografico italiano: fra cui Verdone, Benigni, Nuti e, appunto, Troisi. La Smorfia, il trio teatrale di cui Troisi era ispirato protagonista, irruppe in televisione nel 1979, nel programma Non stop, e fu immediatamente travolto da un favore incondizionato. La rappresentazione di una nuova forma di comicità napoletana, lontana dallo stereotipo della farsa, immersa nelle tematiche proprie degli anni ’70 e che impiegava una forte satira sociale accompagnata dall’uso del dialetto molto spinto da parte di Troisi e Lello Arena, fece subito breccia nel pubblico italiano, portando alla ribalta il fenomeno dell’affermazione di identità culturali regionali attraverso l’uso accentuato degli idiomi dialettali; come Troisi spingeva sul napoletano, così Benigni e i Giancattivi si esprimevano in toscano, Carlo Verdone usava il romano e Maurizio Nichetti era il portatore dello humor milanese. L’esordio al cinema è, si è detto, Ricomincio da tre, un racconto di satira sociale che, pur parlando di temi comuni a tutto il paese, li estremizza e vivacizza attraverso la forza del dialetto, la lingua di provenienza del protagonista, diventando in questo modo ancora più incisivo. Troisi quindi scommette sulla sua lingua: la scelta è data dal voler affermare il suo pensiero utilizzando il dialetto napoletano, e non preoccupandosi che potesse essere incomprensibile in alcune regioni italiane. Era come se Massimo dicesse: “Se vi sta bbuono accussì mi seguite, sennò... pazienza”. Il ritorno fu stupefacente: Troisi veniva compreso in tutta Italia, perché talmente denso era il suo pensiero da superare le barriere linguistiche del dialetto che, anzi, lo aiutava a dare forza al suo messaggio. Troisi descrive così il suo esasperato utilizzo del dialetto: «Era come una difesa, la precisa volontà di non farsi omologare, il bisogno di restare fedele a quello che avevo intenzione di dire». Quindi, caratteristica comune di questo movimento di rinnovamento del cinema italiano nei primi anni ’80, definito in modo superficiale “dei nuovi comici”, è la decisione di tornare al linguaggio base, semplice: si cerca l’essenzialità della forma per spostare tutte le energie sull’innovazione dei contenuti. Troisi resta fedele al napoletano “spinto” anche nel suo secondo lungometraggio Scusate il ritardo, in sala nel 1983, ben due anni dopo il successo straordinario dell’esordio. La sua scelta, precisa, di non cavalcare il successo immediato di Ricomincio da tre è altro esempio di qualità autoriale: non è importante, sull’onda del successo, fare, è anzi fondamentale fermarsi a pensare e decidere bene che cosa dire. Forte del successo anche del secondo film, Troisi continua il suo percorso di crescita iniziando non solo a produrre film di altri registi (Camerini, Gasperini ecc.), ma anche contaminando il suo humus espressivo attraverso la ricerca di collaborazione con altri autori. Da questa sua ennesima prova di umiltà e genialità nasce il capolavoro comico Non ci resta che

©Archivio Mario Tursi Foto

«SE VI STA BBUONO ACCUSSÌ MI SEGUITE, SENNÒ... PAZIENZA».

piangere, scritto e diretto insieme a Roberto Benigni che, ancora oggi, rappresenta uno dei più alti esempi di cinema comico degli ultimi cinquant’anni. Massimo ora non ha più bisogno di difendersi, può permettersi di recitare in italiano, pur conservando la sua matrice napoletana, perché ha consolidato la sua idea di autore e il suo modo di raccontare la realtà. I suoi film più maturi, infatti, lasciano il dialetto sullo sfondo favorendo l’apertura a racconti più corali dove, ad esempio, si può permettere di parlare con accento napoletano, ma di avere un fratello (Marco Messeri) la cui calata è indiscutibilmente toscana (Le vie del Signore sono finite) – segno indelebile di un’ormai affermata identità di cineasta e interprete. E così per le prove di attore che ci regalerà con Ettore Scola fino al capolavoro conclusivo della sua breve carriera, Il postino, che è la perfetta quadratura di una ricerca stilistica per la quale non solo parte dal romanzo di un autore cileno (Skarmeta), ma affida la regia a un autore inglese (Radford) per affermare definitivamente che il suo viaggio identitario, partito dal dialetto, ormai è avviato verso la realizzazione di prodotti dichiaratamente internazionali. Il viaggio di Massimo Troisi si arresta drammaticamente nel 1994. Sono passati ventiquattro anni: il cinema italiano è da tempo in crisi, purtroppo non c’è una cospicua produzione di titoli e l’unico “pseudogenere” che sfruttiamo è una stiracchiatura di commedia all’italiana piena di luoghi comuni e sberleffi che il pubblico si è stancato di seguire. Alcune note alte restano, pochissimi autori che rompono questo scenario con film dissonanti. Sotterraneo, però, che si alimenta a fatica nel sottobosco di filmmaker e autori indipendenti, c’è un meraviglioso movimento – del quale credo che il Troisi produttore, che oggi avrebbe 65 anni, sarebbe stato tra i promotori – intento a dare nuovo impulso al cinema italiano. Oggi è più difficile, complice anche l’impero della serialità televisiva e gli schermi giganti “4K+Dolby UltraMegaStraSurround” che invadono le case degli italiani, ma non impossibile. Ritengo che l’industria del cinema debba solo ricominciare, come negli anni ’80, a investire su questo nuovo movimento, dando credito ai suoi coraggiosi autori e assecondandoli a perseguire la ricerca della propria identità.

ringraziamo MANUELA TURSI per la gentile concessione delle immagini 29


- Zona Doc /1 -

STORIE DEL DORMIVEGLIA

L’ATTESA NELL’ASTRONAVE

LUCA MAGI, CON LA SUA OPERA SECONDA, SOVVERTE IL CLICHÉ DEL FILM A TEMA SOCIALE E TRASFIGURA LE VITE DEGLI OSPITI DEL ROSTOM IN UNA CONFESSIONE ONIRICA SEMI-COSCIENTE CHE DENTRO L’OCCHIO DELLA MACCHINA CINEMA PALPITA E S’ILLUMINA. di SILVIO GRASSELLI

Il documentario ha partecipato al Biografilm Festival 2018 nella sezione Biografilm Italia vincendo il premio della giuria per il Miglior Film Italiano.

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«QUEL CHE SI RACCONTA È L’ACCUMULO E IL SEDIMENTO POLVERIZZATO DI TUTTE LE STORIE CHE SONO PASSATE E CHE NON SMETTONO DI PASSARE ATTRAVERSO UN LUOGO».

A

Bologna c’è il Rostom, un centro d’accoglienza per i senza fissa dimora con problemi sanitari. Persone che la cronaca giornalistica generalmente ignora, a meno che non ci sia di mezzo un delitto o una disgrazia, mentre il racconto d’arte tende spesso a “riscattarne la dignità” concentrandosi sull’epica iperrealista della miseria. Il Visions du Réel, festival svizzero tra i più autorevoli del mondo nel campo del “cinema del reale”, poi anche il Biografilm di Bologna hanno premiato quest’anno Storie del dormiveglia, l’atipica prova seconda di un artista visuale che ha scoperto nel documentario la via più logica per condurre la sua ricerca libera d’autore d’immagini. Luca Magi frequenta per sette anni la Scuola del Libro di Urbino ‒ la stessa dove hanno imparato Gianluigi Toccafondo, Simone Massi [vedi art. Effetti Speciali] e altri riconosciuti autori dell’animazione

Nel film gli ospiti del Rostom intonano strofe della celebre canzone di Bennato L’isola che non c’è.

d’artista italiana ‒; lì apprende le tecniche delle arti grafiche applicate al cinema d’animazione. Uscito dalla scuola, lavora un anno nella factory marchigiana della Rainbow, inserito nella catena produttiva di una delle serie animate messe in onda dalla RAI. Insoddisfatto, Magi passa al lavoro di grafico e illustratore, associandosi ad altri colleghi in uno studio indipendente. Ma cambia presto di nuovo e ricomincia come educatore in strutture diurne per disabili e adolescenti a rischio. In questo periodo iniziano le solitarie, segrete sperimentazioni con il video. Segue un altro triennio di studi all’Accademia di Belle Arti di Urbino ‒ progettazione multimediale ‒ e uno stage alla Stefilm, società di produzione torinese coinvolta nella rinascita del documentario italiano in quel fatidico inizio del secolo che segnò il principio di molte carriere e la riapertura di un orizzonte espressivo e riflessivo oggi sempre più ampio. Così Luca Magi inizia a occuparsi di cinema documentario. Il primo spunto è In viaggio con Anita, un progetto di Federico Fellini mai realizzato. Nel 2012 è pronto Anita, esordio aereo e astratto scritto insieme ad Antonio Bigini, esplorazione postuma e immaginifica sulla medesima rotta del viaggio che i due protagonisti del trattamento del ’57 ‒ inventato da Fellini insieme a Tullio Pinelli con la partecipazione di Pasolini, poi venduto ad Alberto Grimaldi che lo farà dirigere a Mario Monicelli solo nel 1979, stravolgendone l’origine felliniana ‒ compiono nel centro Italia. Un esordio che è anche una presa di posizione, un ingresso in scena che manifesta già chiaramente i caratteri distintivi di un’idea matura di cinema. Mentre il film compie il suo giro festivaliero in patria e all’estero, Magi inizia un’altra esperienza, quella che lo spingerà verso un nuovo progetto. A Bologna entra al Rostom e inizia a frequentarlo da operatore sociale notturno. La cooperativa che gestisce il centro gli chiede di realizzare un piccolo documentario che ne racconti le vicende interne: il regista sfrutta l’occasione per girare il film che già da qualche tempo ha iniziato a immaginare, espandendo il lavoro che avrebbe dovuto occupare una settimana appena a quattro anni, con l’idea di giungere alla fine a un lungometraggio che non si fermi alla piatta osservazione sociologica, ma che rifiguri i paesaggi esistenziali lasciandone proliferare la normale abbondante ricchezza. I primi due anni servono a cercare i protagonisti per il film tra quelli

David, Paul, Leonardo, Alexandru, Fabio, “Gennarino”, Khteri, Assunta, Roxana sono le voci che raccontano storie di persone lasciate ai margini.

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«UN RAFFINATO E STILIZZATO RACCONTO INTIMO E TRASOGNATO DI ALCUNE DELLE VITE CHE PASSANO ATTRAVERSO IL ROSTOM».

La voce narrante del film è quella di David, un inglese ospite del centro, che si racconta tenendo un diario con l’aiuto di un registratore vocale.

che trascorrono le notti al Rostom, raccogliendo e registrando i loro incontri, le loro storie, i loro lunghi tempi morti, accumulando volti e parole, contemporaneamente cercando i finanziamenti necessari attraverso la partecipazione a bandi e premi (Solinas, Corso Salani). Dopo una prima fase quasi in solitaria, Magi inizia a scrivere con Michele Manzolini (che poi diventerà anche coproduttore con la sua Vez Film) e a montare con lo spagnolo Jaime Cousido, due delle quattro menti dietro Il treno va a Mosca, altro esordio documentaristico fuori canone uscito in quegli stessi mesi. Le suggestioni visive e le testimonianze raccolte iniziano a trovare una propria forma, viene l’incontro con David Stavros Onassis, e arriva una fondamentale intuizione. L’inglese, tra i frequentatori abituali del ricovero, tiene un diario dei suoi giorni per la strada: per questo diventa lui il narratore, la voce che nel film tesse tra loro come fili le storie degli altri protagonisti. Magi giunge poi alla decisione di portare la videocamera anche fuori dal recinto del centro, oltre il buio e il silenzio della notte, registrando immagini bruciate dal sole, sfocate e quasi irreali come se fossero i sogni diurni che gli ospiti del Rostom proiettano fuori delle sue chiuse stanze. Nasce così Storie del dormiveglia, che classicamente sovverte il cliché del film a tema sociale, costruendo un raffinato e stilizzato racconto intimo e trasognato di alcune delle vite che passano attraverso il ricovero bolognese, trasfigurando anzi le loro

storie brute e talvolta brutali in una sorta di confessione onirica semicosciente che dentro l’occhio della macchina cinema palpita e s’illumina. L’intento esplicito del filmè lavorare su un luogo tipicamente relegato ai trafiletti giornalistici della cronaca locale, alla vieta narrazione dell’indigenza come disagio, come accidente o come difetto, condizione rappresentata come estranea all’orizzonte del mondo urbano borghese, per costruirne un racconto formalmente raffinato nel quale la trita enumerazione delle storie disgraziate sia rovesciata in teatro segreto delle apparizioni e delle esistenze. Più che un film astratto o antinarrativo Storie del dormiveglia è l’esperimento, il tentativo d’un film antirazionale, un film d’atmosfera che si articola tutto intorno alla modulazione di note emotive in una partitura che procede come lungo un crescendo verso un falso apice finale. Non c’è sviluppo del racconto perché quel che si racconta non è una storia sola, ma l’accumulo e il sedimento polverizzato di tutte le storie che sono passate e che non smettono di passare attraverso un luogo: quel che sta tra l’incipit quasi fiabesco e la chiusura incerta del sogno o della fantascienza ‒ quasi che il Rostom fosse diventato nel frattempo un’astronave o una fortezza spoglia e sicura ‒ è la sospensione temporale dell’attesa, sospensione del tempo nel quale il cinema scava le sue forme e scolpisce le immagini di un senso diverso.

La struttura deve il suo nome a Rostom Mollah, un ospite storico del dormitorio morto sulla strada nell’inverno del 2013.

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- Zona Doc /2 -

COUNTRY FOR OLD MEN

COTACACHI, ECUADOR. ANZI, STATI UNITI IL CINEMA DI FINZIONE HA TENTATO SVARIATE VOLTE DI METTERE IN SCENA IL COSIDDETTO AMERICAN DREAM E ALMENO ALTRETTANTE VOLTE IL SUO FALLIMENTO: IL SOGNO AMERICANO SI È INFATTI RIVELATO SPESSO UNA MERA ILLUSIONE, CHE SI SFOCA INESORABILMENTE DAVANTI A PROBLEMI QUOTIDIANI QUALI LA DISPENDIOSA SANITÀ A PAGAMENTO O IL POCO CONTROLLATO COMMERCIO D’ARMI. di GABRIELE LANDRINI

A

partire da questa realtà, il documentario Country for Old Men racconta quindi l’infondatezza dell’utopia a stelle e strisce, focalizzandosi su una galassia di figure tanto importanti quanto poco considerate: gli anziani. Alternando alcune interviste a spaccati di vita quotidiana, i documentaristi italiani Pietro Jona e Stefano Cravero si muovono tra le strade di Cotacachi, un piccolo agglomerato urbano dell’Ecuador che negli ultimi dieci anni ha visto crescere la propria popolazione, dopo che diversi pensionati statunitensi – chiamati anche economics refugees – vi si sono trasferiti. Alla ricerca di un sogno che nella loro terra natia era sembrato ormai impossibile, queste figure eccentriche ma estremamente reali si susseguono pertanto davanti alla cinepresa, raccontando a proprio modo il passato ma soprattutto il presente. Divisi tra i resoconti di vita vissuta e le logiche del reportage

d’inchiesta, gli old men evocano i problemi di una nazione sterminata e contraddittoria come gli Stati Uniti: Claudia e Bruce, ad esempio, sono una coppia che, tra una torta cucinata in casa e un pomeriggio in giardino, ricordano come la decisione di lasciare la propria terra sia stata dettata dalla necessità del marito di curarsi, non potendo fare fronte alle altissime cifre richieste dalla sanità statunitense. Diane invece è una psicologa ormai in pensione che, dopo aver offerto sostegno ad alcuni sopravvissuti alla strage di Columbine, ha abbandonato la propria nazione per trasferirsi in un luogo dove il possesso d’armi non è consentito. Prodotto da GraffitiDoc in collaborazione con RAI Cinema e con il sostegno di MIBACT, Piemonte Doc Film Fund e del Programma Creative Europe – MEDIA dell’Unione Europea, Country for Old Men è stato presentato in anteprima al Trieste Film Festival 2018 e sarà distribuito da Lab80 a partire da ottobre.

Per Stefano Cravero, montatore (di Susanna Nicchiarelli fra gli altri) e Pietro Jona, fonico e filmmaker freelance, si tratta del primo lavoro da registi.

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- Fiction -

ALTI E BASSI DELLA FICTION ITALIANA Chicco Agnese, uno fra i maggiori esperti di televisione italiana, fa il punto sulla produzione di fiction e sulla risposta di un pubblico diventato sempre più esigente, attratto dalle nuove e ricche proposte dei canali digitali in grado di catalizzare l’attenzione dei giovani. di CHICCO AGNESE Elaborazioni auditel gentilmente fornite da GECA ITALIA

E

saminando la stagione televisiva invernoprimavera di quest’anno (dall’8 gennaio al 2 giugno 2018), è interessante osservare l’evoluzione

dell’offerta di fiction italiana, che ha visto in questi ultimi anni il consolidarsi di una crescente supremazia della televisione pubblica, sia in termini di risultati di ascolto, sia in termini di titoli prodotti. La RAI, infatti, nel periodo considerato, ha programmato ben undici prime visioni, a fronte di sole due serie proposte da Canale 5: Immaturi e Furore capitolo secondo. Un totale di 67 prime serate (considerando anche le 10 repliche di Montalbano) per la RAI (di cui 57 serate su RAI1), contro le 16 di Canale 5.

Sembrerebbe che Mediaset abbia in parte rinunciato a questo importante genere televisivo per dare più spazio all’intrattenimento e alla fiction d’acquisto: film e soap. Il progetto di sviluppare un filone soap tutto italiano (sul modello spagnolo de Il segreto) non sembra aver dato i risultati sperati: la serie Sacrificio d’amore, infatti, interrotta in gennaio dopo sei puntate per via degli ascolti deludenti, ha ripreso la programmazione su Canale 5 in giugno, nella speranza che, durante la stagione estiva e con la rete illuminata dai Mondiali di calcio in Russia, la soap ritrovasse un suo pubblico. I primi risultati però sono stati ancora più deludenti: ascolti sotto il 10% di share, che sembrano compromettere definitivamente il futuro di un progetto

Il successo della fiction in casa RAI passa attraverso lo sperimentalismo di alcuni titoli, ad esempio Il cacciatore, e la tradizione che, come nel caso di Don Matteo, è in grado di attrarre l’attenzione anche di un pubblico giovanissimo.

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che intendeva integrare, con una serie a basso costo, un palinsesto sempre più carente del genere fiction. Con l’avvento del digitale, la disponibilità di una vasta e prestigiosa offerta di fiction seriale internazionale e la discesa in campo di nuovi competitor come Netflix, con il suo ricco catalogo di serie TV, anche originali (fra i quali alcune produzioni italiane come Suburra, Baby, La luna nera etc.), hanno attratto proprio quei target (15-54 anni) che tradizionalmente hanno rappresentato il pubblico di riferimento di Mediaset. Costretta a muoversi in un contesto competitivo in cui la fiction RAI domina sui target più anziani e in cui l’offerta “digitale e convergente” conquista il pubblico più giovane e dinamico, la fiction Mediaset appare in difficoltà rispetto a un “passato glorioso” e sembra sospesa alla ricerca di nuove soluzioni editoriali. I dati relativi ai pochi titoli proposti da Canale 5 in questa stagione confermano, però, che solo la capacità di far breccia nei target più giovani può garantirne il successo. Immaturi, per esempio, che racconta di alcuni ex compagni di scuola che alla soglia dei 40 anni si ritrovano a dover ripetere l’esame di maturità e quindi a frequentare l’ultimo anno di liceo, ha colto nel segno. Peccato che dopo le prime puntate gli ascolti complessivi siano scesi dal 19% al 12% di share, anche a causa della contro-programmazione di Sanremo Young su RAI1. Ciononostante nei target giovani lo share medio della serie è stato rilevante: 18,33% nel target 25-54 anni e 24% nel target 15-24 anni. Sul fronte RAI, invece, la fiction di produzione rimane un asset strategico per la rete ammiraglia, e assume un crescente ruolo sperimentale nelle altre due reti (Il cacciatore RAI2, La linea verticale RAI3). Per RAI1 gli ascolti di questa stagione registrano, però, notevoli oscillazioni: i titoli storici come Il commissario Montalbano (due nuovi episodi con uno share medio pari al 44%), e Don Matteo 11 (share medio 28%) raggiungono dei record, con ottime performance, come abbiamo visto, anche sui target 25-54 anni. Da sottolineare che

Don Matteo conferma il suo forte appeal sul pubblico giovanissimo, con oltre il 25% di share nelle fasce di età 8-14 e 15-24. Nell’arco della stagione una sola new entry si avvicina ai citati campioni di ascolti: Il capitano Maria, quattro puntate con uno share medio pari al 25,27% (oltre 6 milioni di spettatori). La protagonista Vanessa Incontrada, nel suo duplice ruolo di capitano dei carabinieri alle prese con la criminalità cittadina e di madre alle prese con una figlia problematica, conquista anche i target più giovani con oltre il 20% nelle fasce di età 8-14 e 15-24. “L’effetto Incontrada” rappresenta forse l’unica vera sorpresa della stagione. Sempre su RAI1, buoni anche gli ascolti del “family drama” Romanzo famigliare (20,70%), con un pubblico concentrato nelle fasce più anziane e anche in quelle con istruzione superiore (23% tra i laureati). Meno brillanti gli altri titoli: È arrivata la felicità è stata spostata dal prime-time alla domenica pomeriggio a seguito dei bassi ascolti; Questo nostro amore 80, ormai alla terza stagione, si è attestato al 15%; La mafia uccide solo d’estate 2, con uno share medio intorno al 16%, non riesce a bissare il successo della prima serie. Nel complesso una stagione senza grandi novità, nella quale, ancora una volta, a sorprendere sono stati sia i risultati delle due nuove puntate de Il commissario Montalbano (11 milioni di spettatori), sia quelli delle 10 repliche a seguire, che hanno primeggiato nella classifica delle fiction con un ascolto medio pari al 26,36% di share (oltre 6 milioni di spettatori). Il commissario Montalbano è forse l’unica fiction che nel passaggio dalla TV analogica a quella digitale ha incrementato i suoi ascolti, (anche quelli delle repliche), continuando a raccogliere un consenso generalizzato presso tutti i target. Un prodotto-evento, il

cui segreto, forse, è anche la capacità di attrarre un vasto pubblico che generalmente guarda poco la televisione, come emerge dalla forte penetrazione fra i laureati (58% di share) e gli appartenenti alla classe socio-economica alta (57% di share).

M E D I E | F I C T I O N I T A L I A N A 0 8 . 0 1 . 2 0 1 8 - 0 2 . 0 6 . 2 0 1 8 | Fonte AUDITEL PROGRAMMA

ROMANZO FAMIGLIARE DON MATTEO 11 IL COMMISSARIO MONTALBANO (1^TV) IL COMMISSARIO MONTALBANO (REPL) FABRIZIO DE ANDRÉ PRINCIPE LIBERO È ARRIVATA LA FELICITÀ QUESTO NOSTRO AMORE 80 LA MAFIA UCCIDE SOLO D’ESTATE CAPITOLO 2 IL CAPITANO MARIA IL CONFINE IL CACCIATORE LA LINEA VERTICALE IMMATURI LA SERIE FURORE CAPITOLO SECONDO

AMR (.000)

SHR (%)

5.186 6.625 11.104 6.376 6.193 1.961 3.642 3.522 6.147 3.700 1.785 1.351 3.275 2.500

20,70 27,87 43,93 26,36 24,89 10,61 15,05 16,22 25,27 15,74 7,35 5,68 13,95 10,22

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- Arts -

Francesco Guarnaccia A soli vent’anni esordisce nel mondo del fumetto pubblicando a puntate sul web la storia From Here To Eternity. Il sito che la ospita è quello di MAMMAIUTO, uno dei collettivi più attivi e interessanti nel panorama italiano, di di cui Francesco Guarnaccia è uno MARCO PACELLA dei membri più giovani e promettenti.

CE NE SONO DI COSE STRANE IN QUESTO REGNO Classe 1994, l’autore pisano dimostra fin da subito una grande capacità narrativa, solide conoscenze dei linguaggi artistici – di cui infarcisce con abilità citazionistica le sue tavole – e un’attenzione nelle colorazioni che fin da subito vengono notate dai lettori e dalla critica. Inevitabile dunque che il suo lavoro abbia suscitato l’interesse di una casa editrice come Bao Publishing, con cui Guarnaccia ha da poco pubblicato Iperurania, corposo libro a fumetti che segna la sua raggiunta maturità. Lo abbiamo incontrato in occasione dell’ultima edizione del festival romano Arf! che, anche in seguito alla vittoria del premio Bartoli lo scorso anno, gli ha dato la possibilità di esporre al Mattatoio di Testaccio una selezione di lavori accanto alla grande mostra dedicata ai trent’anni dalla scomparsa di Andrea Pazienza. Iperurania racconta la storia di un pianeta inaccessibile e inospitale che può essere solo fotografato, e questo diventa l’obiettivo di una colonia spaziale in cui tutti sono alla ricerca di fama.

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Partiamo dalla fine. L’anno scorso hai vinto il premio Bartoli e quest’anno apri la mostra di Andrea Pazienza. Che effetto fa? Aprire la mostra di Pazienza mi fa sentire come il gruppo spalla in un concerto leggendario, è una cosa da tremarella alle ginocchia, mi



Il protagonista del graphic novel è Bun, un ambizioso ma poco motivato fotografo dilettante, la cui avventura inizia il giorno in cui si trova misteriosamente a toccare con i piedi la superficie del pianeta su cui era vietato l’accesso per motivi di sicurezza.

«APRIRE LA MOSTRA DI PAZIENZA MI FA SENTIRE COME IL GRUPPO SPALLA IN UN CONCERTO LEGGENDARIO». sento veramente fortunato ad aver avuto questa possibilità. La mostra in sé mi rende molto fiero, è una sorta di punto sul complesso della mia produzione e ha avuto un’ottima curatela, perché ho partecipato alla selezione, ma poi tutta la comunicazione è stata seguita egregiamente da Arf! insieme a Fox Gallery. Mi ha sorpreso l’intuizione che hanno avuto nel trovare un fil rouge che lega i miei lavori e nell’evidenziarlo nel modo giusto in tutti gli aspetti: dalla scelta del titolo [Ce ne sono di cose strane in questo regno, ndr] alla tavola d’apertura, dalla locandina alle cornici gialle. Oggi collabori con una casa editrice ben strutturata, ma nel tuo percorso hai anche un’esperienza nel mondo dell’autoproduzione. Come è stato, anche come palestra, il rapporto con il lavoro di gruppo nei Mammaiuto? Per me l’autoproduzione è, ed è stata, fondamentale. Hai scelto la parola giusta, è una palestra meravigliosa, dove c’è la massima libertà espressiva e professionale; del resto, quando si pratica uno sport bisogna continuare ad allenarsi per dedicarsi al meglio a ciò che si fa. Quindi per me l’autoproduzione rimane sempre una via da tenere aperta, parallelamente a quella più commerciale. Il metodo che ho trovato per mantenerle entrambe è differenziare i lavori: ce ne sono alcuni che sono adatti a una diffusione più commerciale e altri più consoni alla via dell’autoproduzione. Avere il sostegno di gruppo è fondamentale in questo processo, perché offre un confronto con persone fidate, un supporto nell’editing e anche semplicemente un bel rapporto di amicizia nel quale ci si sprona e ci si incoraggia a vicenda a fare le cose che ci piacciono. In uno degli incontri di Arf! hai detto che Iperurania rappresenta per te il lavoro della maturità, sia ‒ credo ‒ per una questione di narrazione, sia a livello grafico, per esempio nelle splendide splash page che hai inserito all’interno. Come è stato produrre un lavoro così maturo? È stata una bella sfida con me stesso e anche un motivo di crescita. Avevo scritto il mio libro precedente, From Here To Eternity, via via in capitoli che uscivano mensilmente su Mammaiuto. In questo modo non mi sembrava di fare un libro: disegnavo dieci pagine ogni tanto e solo alla fine sono diventate un volume unitario. Questa è stata invece la prima volta che mi sono confrontato con un testo da realizzare in un colpo solo, e mi sono accorto di come il metodo stesso di produzione dia origine a storie e a stili differenti.

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In questo caso era necessario concepire un flusso narrativo molto meno discontinuo, ed è stata una bella sfida. Anche dal punto di vista tematico, di ciò che volevo raccontare, a un certo momento, preso forse da tanto entusiasmo, ho messo troppa carne al fuoco e ho dovuto fare molta attenzione a cucinarla: mi sono trovato a un punto in cui il lato emotivo della trama e i temi erano a posto, però c’era da far quadrare la narrazione. È stato piuttosto problematico, ma sono soddisfatto del risultato. La crescita è stata anche a livello tecnico. È noto che lavorando a un libro ci si evolve tanto, infatti un consiglio che si dà spesso è saltare qua e là nel disegnare le tavole, proprio per non rendere evidente la differenza fra la prima e l’ultima pagina. Ho imparato anche tante cose su come non si fa un libro: la più significativa è che prima ho disegnato e poi colorato tutte le tavole. Un procedimento negativo innanzitutto a livello emotivo, perché quando ho finito di disegnare mi sembrava di aver concluso e invece c’era ancora tutta una parte enorme da fare. Ma soprattutto ha diminuito l’effetto della narrazione dal punto di vista coloristico, perché nel momento in cui disegnavo le tavole avrei dovuto risolverle anche nel colore, che invece è venuto dopo come un aiuto alla storia e un’aggiunta estetica. Per i prossimi libri vorrei usarlo in un modo molto più narrativo e, per farlo, le tavole vanno create in modo verticale, ognuna va lavorata dallo storyboard al disegno e al colore in un unico momento. Anche se le scelte cromatiche sono state sempre uno dei tuoi punti di forza e qui si ritrovano a pieno in una storia che ha ambientazioni così “extraterrestri”. Il tuo uso del colore dimostra una conoscenza precisa anche a livello storico-critico. Che studi hai fatto? La mia formazione è da autodidatta, però di grande ricerca. Per me è fondamentale non smettere mai di cercare influenze visive, narrative, artistiche di ogni tipo. Ho un bisogno vorace di stimoli, di qualunque forma di intrattenimento: fumetti, ovviamente, ma anche videogiochi e musica. Spesso questa ricerca mi influenza in modo indiretto: quando lavoro non penso a un riferimento preciso, ma cerco di assorbire i tanti spunti e di elaborarli tramite la mia personalità, per poi riprenderli e mescolarli in un tutto più ampio. Un processo che per ora ha funzionato e spero continui, perché è molto più interessante che mettersi a tavolino alla ricerca di influenze precise tentando di replicarle in modo consapevole, ma meccanico.


Elio di Pace - L’alleato

FABRIQUE DU CINÉMA APRE LE PAGINE DIGITALI DEL PROPRIO SITO WEB A TUTTI I GIOVANI REGISTI INTERESSATI AL MONDO DEL CINEMA

Da sempre attenta ai cineasti di nuova generazione e alle piccole opere indipendenti, Fabrique du Cinéma ha deciso di dare maggior spazio alle promesse del cinema italiano anche sulla sua piattaforma online, inaugurando una rubrica settimanale esclusivamente incentrata sui film realizzati dai lettori. Continuando una tradizione già felicemente avviata dalla rivista cartacea, il sito internet offre un nuovo spazio dedicato non solo alle pellicole che quotidianamente debuttano sul grande schermo, ma anche a progetti nati

dal basso, che trovano maggiori difficoltà a raggiungere le vaste fasce di pubblico. Ogni martedì è dunque promossa una sezione chiamata “Making of”, che mira alla valorizzazione di un corto, medio o lungometraggio di un giovane regista italiano. Gli articoli, che naturalmente raccontano di settimana in settimana un progetto diverso, si compongono di un breve testo descrittivo sull’opera in questione accompagnato da una serie di immagini del dietro le quinte, di scatti dal set e di fotografie di scena.

Josh Heisenberg - Divina mortis

Cristian Patanè - Amore panico

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(2003) DI PARK CHAN-WOOK CON CHOI MIN-SIK, KANG HYE-JEONG

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rima di iniziare a leggere dovete andare su YouTube e cercare Old Boy OST - The Last Waltz. Tra 3 minuti e 23 secondi sarà tutto finito, e vi sentirete fortunati, perché qualcun altro ci ha messo dieci anni, dieci lunghi, atroci, infiniti anni per trovare la pace che un valzer come questo vi regalerà. Ma facciamo un passo indietro. Immaginate di essere un pendolare, un signore di mezza età che tutti i giorni percorre gli stessi chilometri, risponde alle stesse domande, si occupa delle stesse pratiche e torna, di sera, piegato dalla stessa stanchezza, nella stessa casa. Per dormire il giusto, e ricominciare da capo il giorno dopo.

Nessuno ve ne farebbe una colpa se una volta ogni tanto vi lasciaste andare a una ubriacatura un po’ molesta, no? Questo sarebbe un ragionamento savio. Invece qualcuno ha deciso di punire il povero Oh Dae-su, l’uomo più banale e comune che possiate immaginare, quello che non siete voi, che quella vita l’avete solo immaginata il tempo in cui io l’ho scritta poco fa. E la punizione, per una serata in cui Oh Dae-su ha alzato troppo il gomito, sembra essere esagerata: dieci anni di prigionia. Dieci lunghi, atroci, infiniti anni chiuso in una stanza, quattro mura senza finestre che diventano tutta la vita di Oh Dae-su. Unico modo di uscire è guardare forsennatamente la TV. Ah no, c’è un altro modo di uscire, ed è uscire di testa. Cosa che effettivamente Oh Dae-su fa (preparatevi alla più sorprendente

trasformazione che attore abbia mai fatto. Altro che Robert De Niro con cresta/senza cresta in Taxi Driver…). Poi un giorno, senza motivo, la porta di quella stanza/prigione/ grembo di rinascita si apre e il mondo si ritrova con un cittadino in più, un cittadino fuori controllo, un cittadino ben più pericoloso di quell’ubriaco che abbiamo conosciuto all’inizio, un cittadino che ora chiede vendetta. Che vuole sapere chi l’ha chiuso lì dentro, e perché. Questo è solo l’inizio di Old boy, imperdibile e ormai cult assoluto di Park Chan-wook, secondo capitolo della sua Trilogia della Vendetta (sta in mezzo a Mr. Vendetta e Lady Vendetta, tre capolavori). Un film che esplose come una bomba in faccia a tutti quelli che, nel 2003, ancora erano schiavi del “pulp” tarantiniano, e si ostinavano a copiarlo in ogni scena di violenza; non è un caso che proprio Tarantino abbia detto «Old boy il film che avrei voluto fare». Old boy non è figlio della violenza pulp perché viene dall’altro capo del mondo, viene dalla Corea del Sud e dalla sua filmografia folle, mai inscritta in un solo genere (vi ritroverete a ridere, a piangere, a sconvolgervi nelle due ore di questo film) e che riesce a riprodurre le dinamiche di una violenza ben più sottile ‒ e difficile da raccontare al cinema ‒ di quella tutta braccia mozzate e sangue a fiotti: la violenza psicologica.

Oh Dae-su appare come carnefice, ma è la vittima sacrificale più triste e penosa che io ricordi. La sua storia vi strapperà il cuore, e se lo mangerà mentre ancora pulsa.

CHICKEN

LA SCENA DI COMBATTIMENTO “ORIZZONTALE”, COREOGRAFIA STUPENDAMENTE DIRETTA, È DIVENTATA IL PUNTO DI RIFERIMENTO PER MOLTI REGISTI D’AZIONE AMERICANI. SOPRATTUTTO DI ZACK SNYDER CHE DA ALLORA LA METTE IN TUTTI I SUOI FILM (300, WATCHMEN, SUCKER PUNCH…) ZAZKETE! BECCATO!

BROCCOLI

QUANDO HO VISTO IL FILM MI SONO IMMEDESIMATO IN OH DAE-SU. ANCHE IO SONO DIECI ANNI CHE MI NUTRO SOLO DI RAVIOLI ALLA GRIGLIA CINESI. E MI SA CHE SI VEDE. COME? SPIKE LEE HA FATTO UN REMAKE? MA NON SCHERZIAMO…

OREGON PIZZA È un progetto fondato da Martina Esposito. Amante sfrenata di cinema e musica ‒ da Charlie Chaplin a George Romero, da Robert Johnson ai Pixies ‒, trae ispirazione dai toni acidi del Manierismo e dalla rarefazione di William Blake. Ha lavorato per Netflix e Marvel, e conquisterà il mondo. Oregon_pizza su Instagram • www.behance.net/oregonpizza

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- Making of -

Opera prima del giovanissimo Matteo Martinez, scritta a quattro mani con il sodale Frank Matano e interpretata dalla fenomale novantenne Lucia Guzzardi.

TONNO SPIAGGIATO LA DARK COMMEDY IRRIVERENTE E FUORI DI TESTA DI FRANK MATANO E MATTEO MARTINEZ. a cura di DAVIDE MANCA foto ANDREA PIRELLO e GOLIA PRESENTE

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Niccolò Senni “Niccolò” e Frank Matano “Francesco” in una scena demenziale del film.

«IL FILM È UNA COMMEDIA CHE ASPIRA GOFFAMENTE A ESSERE UNA TRAGEDIA».

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Foto 1: Due macchine sullo stesso asse per la scena del finto svenimento di zia Nanna. Foto 2: Stunt alla guida della bicicletta per la scena dell’incidente.

regia MATTEO MARTINEZ sceneggiatura MATTEO MARTINEZ, FRANK MATANO fotografia DAVIDE MANCA montaggio CRISTINA FLAMINI scenografia GASPARE DE PASCALI costumi SABRINA BERETTA suono GIANFRANCO TORTORA aiuto regia GIAIME GRIECO musiche DANJLO post produzione FRAME BY FRAME produzione NEW CO. E WILDSIDE

› Le riprese sono durate cinque settimane e sono state effettuate tra Carinola, il paese natale di Frank Matano, e Trani. L’idea era di restituire l’atmosfera di un piccolo centro nella provincia del sud Italia cercando tra le migliori location sul territorio. I vicoli, le strade, i palazzi, le case ma soprattutto i volti dovevano essere molto caratterizzati e trasportare immediatamente lo spettatore nel clima goliardico e grottesco che gli autori desideravano. L’atmosfera dark doveva aleggiare senza sopraffare l’energia comica, in un connubio artistico fatto di un difficilissimo equilibrio cromatico e luminoso. Per realizzare il film sono state utilizzate diverse macchine da presa. Una Arri Alexa mini, una Arri Alexa XT, una GoPro 6,5 Panasonic HD, vari cellulari. Le ottiche sono la serie Summicron della Leica e uno zoom 30-300 della Canon.

I movimenti di macchina sono pochi ma tutti pensati per amplificare l’effetto comico e il dinamismo dell’azione dei protagonisti.

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Il regista tra i due operatori organizza la messa in scena. Francesco si fa largo fra decine di macchine guidate dagli stunt driver in una folle corsa in bicicletta cercando di non essere investito.

Marika Costabile, coprotagonista femminile del film, interpreta Francesca, la fidanzata offesa e umiliata da Francesco il quale per tutto il film cercherà di riconquistarla con ogni mezzo, compreso l’omicidio.

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Duello mortale su sedie a dondolo.

«L’ATMOSFERA DARK DOVEVA ALEGGIARE SENZA SOPRAFFARE L’ENERGIA COMICA». Sono stati replicati spesso gli effetti registici dei cartoni animati in un film live action grazie alla collaborazione attiva tra regia, fotografia, scenografia e costumi. Gli oggetti spesso sono stati ancorati alle macchine da presa per creare dei movimenti coordinati e sulle stesse linee prospettiche rispetto al punto di vista dell’osservatore. Le macchine sono state montate su doppi binari

per gli attori, su biciclette, su slider collegati ai divani, su sedie con VFX cercando una costante coreografia tra oggetti e personaggi.

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Foto 3: 50 mm su “dolly in” verso Francesco. Foto 4: Il regista osserva il campo per la scena del cabaret. Foto 5: Zia Nanna su dolly per effetto fantasma. Foto 6: Operatori sul tetto per la scena del suicidio di zio Michele. Foto 7: Reparto trucco al lavoro per il finale del film.

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- Teatro -

FRANCESCA GAROLLA IL VIAGGIO DI FRANCESCA GAROLLA NEL TEATRO – O MEGLIO NELLA SCRITTURA TEATRALE – SI INTRECCIA SIN DA SUBITO CON QUELLO DI UNO SPAZIO, OVVERO IL TEATRO I, UNA REALTÀ INDIPENDENTE MILANESE CHE SI È IMPOSTA, SUL FINIRE DEGLI ANNI NOVANTA E AGLI INIZI DEL NUOVO SECOLO, COME UNA DELLE PIÙ VIVACI DELLA SCENA LOMBARDA E NAZIONALE. 46

©Laila Pozzo

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di ANDREA PORCHEDDU

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eatro i, con il regista Renzo Martinelli e l’attrice Federica Fracassi (una delle migliori interpreti italiane) è stato per lei un punto di riferimento, un luogo di sperimentazione e ricerca, di elaborazione di nuovi linguaggi della scena. Francesca vi approda nel 2004, diventando parte integrante della direzione artistica e del teatro stesso. Arrivava da studi di Filosofia, da un diploma in regia all’Accademia Paolo Grassi di Milano, ma aveva scoperto ben presto – già prima della drammaturgia – il piacere della scrittura. Come hai iniziato a scrivere? Da ragazzina le amiche mi prendevano in giro perché dicevano che avrei dovuto vivere nell’Ottocento, quando si comunicava per lettera. E avevano ragione. Non a caso ho, da anni, lunghe e anacronistiche corrispondenze. La scrittura è sempre stata un modo di comunicare molto più efficace del parlare. Mi permette di esprimermi meglio, di prendermi il tempo per dire ciò che voglio dire, di avere un’adesione più profonda con quel che mi interessa. Eppure, non riesco a

immaginare parole senza oralità e quando penso, penso pensieri dotati di punteggiatura, di virgole e punti, di a capo, di pause e di silenzi. Penso frasi in cui le parole sono le note di una musica.

©Lorenza Daverio

LA REALTÀ È INCREDIBILE, A PENSARCI BENE

Oltre ai progetti realizzati con la regia di Renzo Martinelli, Garolla ha firmato la regia e l’adattamento drammaturgico di Elettra. Quel che rimane, tratto da Elettra di Marguerite Yourcenar e di Non dirlo a nessuno, liberamente tratto da Il buon dio di Manhattan di Ingeborg Bachmann.

Come è stato il passaggio dalla scrittura “ottocentesca” al teatro? Ho iniziato a lavorare a Teatro i più di tredici anni fa, ma scrivo solo da otto: ci ho messo del tempo per capire che la voglia di fare teatro e la necessità, quasi fisica, di scrivere potevano unirsi. In effetti, anche prima di scrivere testi miei avevo sempre cercato nei testi degli altri la possibilità di esprimere la mia voce, spesso riscrivendo, scegliendo autori non prettamente teatrali e lavorando come Dramaturg: un ruolo che permette di fare del testo scritto un altro testo, il testo della scena. Posso considerarmi una “giovane autrice”, benché a scrivere per il teatro abbia davvero iniziato tardi, quasi a trent’anni, e anche se non sono giovane in generale, lo sono in questo particolare tipo di scrittura. Ed è anche grazie al mio percorso, inizialmente lontano dall’autorialità, che sono convinta che la scrittura teatrale sia soprattutto una competenza da acquisire e sperimentare: non un’improvvisazione, non un talento naturale, non qualcosa che si può imparare solo a scuola, ma un lavoro quotidiano di ricerca e di frequentazione del teatro. Perché quello che si fa, e bisogna tenerne conto, è lavorare su una parola che sarà “mediata”. Non solo dall’immaginazione di un lettore, ma da quella del regista, degli attori e, infine, ma è la cosa più importante, da quella degli spettatori che non vedranno in scena solo le mie parole, ma un altro testo, fatto di tutti gli elementi che costruiscono lo spettacolo.

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©Roberto Rognoni

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In Non correre Amleto si interroga sul significato della morte, attraverso un dialogo-non dialogo tra due personaggi interpretati magistralmente da Elena Ghiaurov e Milutin Dapcevic.

«PENSO PENSIERI DOTATI DI PUNTEGGIATURA, DI VIRGOLE E PUNTI, DI A CAPO, DI PAUSE E DI SILENZI». E oggi che il teatro si è imposto nel tuo percorso nella sua essenza presentato come mise en espace durante il Festival d’Avignone fisica, reale, concreta, come ti poni davanti alla pagina bianca? dell’anno scorso, è stato anche finalista al Premio Riccione Quando inizio un testo, inizio un dialogo, ma non è quello tra i del 2017 e selezionato dal Bureau des lecteurs de la Comédie personaggi che metto sulla scena, no, semmai un dialogo personale Françoise. Racconta di una ragazza francese che parte per la Siria. e unico che intrattengo con lo spettatore. Lui è l’altro da me e io Come è nata questa idea? sono libera con lui: posso parlare, immaginare quel che voglio, Haner, la protagonista, non è pazza, non ha origini mediorientali, raccontargli una storia, un segreto, recitargli una poesia. Ogni non è musulmana, eppure probabilmente si è unita all’Isis. Pare battuta non è altro che il risultato del nostro dialogo: ad altri incredibile, ma è qualcosa che è davvero accaduto a molte il compito di definire, descrivere, collocare, indirizzare. persone. Questo mi interessa: riflettere e portare allo Per questo forse “sfuggo” alle regole dell’azione scoperto le contraddizioni del reale, senza cercare di drammatica e del conflitto, che non si collocano sulla imitare l’attualità, ma facendone metafora. E così la mia scena, ma piuttosto tra la scena e la platea. Così, mi lingua può essere a tratti poetica, spazia, rifiuta spesso piace definire la mia scrittura “politica”. Politica in le regole della drammaturgia, sperimenta, tenta di un senso originario, perché ha in sé l’obiettivo di avvicinarsi a qualcosa di antico, ancestrale, emotivo, lavorare su una comunità: la comunità composta che si allontana dal quotidiano anche se ne parla. da me, da chi agisce le mie parole e da chi le ascolta. Una comunità che somiglia alla condizione umana, Chi sono i tuoi maestri? ©Laila Pozzo creata dall’interazione e dalla relazione e che non può Se penso a chi mi ha portato ad avere questo tipo di prescindere dal contesto storico, culturale, sociale: dal suo visione e a iniziare questa ricerca, mi vengono in mente artisti presente. che non necessariamente hanno a che fare col teatro: Ingeborg Bachmann, Keith Jarret, Sergej Rachmaninov, il poeta romano Dunque cosa cerchi nella scrittura? Valerio Magrelli, Agota Kristof, e pure, perché no, Nanni Moretti. Una rappresentazione del reale, soprattutto nella sua sostanza, non Una volta scrissi una lettera anche a lui, anzi, due nella forma. Oggi la realtà è vicinissima, grazie a media sempre più volte, e in entrambi i casi mi telefonò per ringraziarmi presenti nelle nostre vite: se l’altra parte del mondo è a portata di e, credo, assicurarsi che non fossi pazza. Poi, in assoluto, mano, perché dovrebbe interessarci la replica impoverita di una la persona che più ha contribuito alla mia formazione è Renzo realtà di immagini a cui accediamo comodamente con un click? Martinelli con cui condivido, insieme a Federica Fracassi, la Per questo mi interessa la realtà sommersa delle cose e per renderla direzione di Teatro i. Renzo mi ha insegnato ad aprire lo sguardo visibile uso la finzione. I miei personaggi non sono veri, possono e l’ascolto, a pensare ai testi teatrali come a spartititi musicali o solo essere verisimili, e non è necessario che siano credibili, perché a quadri da dipingere. Una libertà di pensiero, di approccio, di spesso la credibilità è qualcosa che manca anche alla realtà. La realtà ragionamento che mi ha fatto trovare la mia voce e travalicare i è del tutto incredibile, a pensarci bene. confini della lingua, con collaborazioni internazionali e la selezione nel bel progetto Fabulamundi Playwriting Europe. Una libertà che Il tuo recente lavoro, Tu es libre, scritto a La Chartreuse, mi permette di andare oltre le mura di un teatro. Ecco la cosa più prestigioso centro di drammaturgia francese che lo ha anche importante: scrivere per il teatro uscendo dal teatro.

Con Tu es libre affronta il tema spinoso e quanto mai attuale dei foreign fighters che si sono uniti al terrorismo.

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- Attori -

LA STRADA PER IL SUCCESSO PUÒ ESSERE UN PERCORSO LUNGO E INSIDIOSO, DA ATTRAVERSARE CON TENACIA ED ENTUSIASMO. stylist ROSAMARIA D’ANNA hairstylist GIADA UDOVISI@HARUMI mua ELEONORA DE FELICIS@HARUMI 50


ON THE ROAD

LO SANNO BENE I GIOVANI TALENTI CHE SONO GIÀ IN CAMMINO E GUARDANO AVANTI SENZA FERMARSI. DESTINAZIONE: IL FUTURO.

creative producer TOMMASO AGNESE assistente DARIA MAISTRENKO foto JACOPO GENTILINI assistente fotografo ALEX EMMA

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«RIMANI SEMPRE INTEGRA, NON DIMENTICARE MAI CHI SEI E DA DOVE VIENI».

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«BISOGNA AVERE LA FORZA DI CREDERCI, OGNI GIORNO».

Francesco Centorame, 22 anni. Studi: Ho studiato per due anni presso lo SMO, scuola di recitazione di Pescara, città in cui sono

nato e ho vissuto prima di trasferirmi a Roma, diretta dall’attore Giampiero Mancini. Nella stessa scuola ho avuto la fortuna di fare diversi stage e workshop con casting e registi. Ma non smetterò mai di pensare che la scuola migliore sia il set, la pratica. Mi avete visto nella serie TV per ragazzi in onda su RAI Gulp Maggie e Bianca, terza stagione, nel ruolo di Jason; nella prima stagione di Skam Italia per la regia di Ludovico Bessegato. Attualmente sono impegnato con le riprese della seconda stagione di Skam Italia. Qual è il segreto del successo, secondo te? Secondo me bisogna mixare molte cose per raggiungere il successo. Bisogna credere in ciò che si fa, bruciare di passione, essere grati e rimanere umili. Bisogna avere fame. Tanta fame. Bisogna piangere per le delusioni e imparare dagli errori. Bisogna avere la forza di crederci, ogni giorno.

Benedetta Cimatti, 29 anni. Studi: Diploma al liceo linguistico. Accademia Fondamenta di Roma, dove ho studiato soprattutto le

basi del teatro (perché volevo fare solo quello). Sono seguiti diversi seminari e stage, fra i più importanti quelli con Michele Placido, Pier Paolo Sepe, Luciano Melchionna, Paolo Antonio Simioni. Mi avete vista nelle serie TV Fuoriclasse 2, regia di Riccardo Donna; Fuoriclasse 3, regia di Tiziana Aristarco; L’Ispettore Coliandro diretto dai Manetti Bros, con i quali sto ancora finendo di girare l’ultima stagione; nel 2016 ho iniziato le riprese de La strada di casa per la regia di Riccardo Donna e a breve inizieranno le riprese per la nuova stagione. Al cinema in The end?L’inferno fuori prodotto dai Manetti Bros a fianco di Alessandro Roja e Ricordi? di Valerio Mieli con Luca Marinelli e Giovanni Anzaldo. Mi vedrete nella serie TV La porta rossa 2, per la regia di Carmine Elia e a fianco di Fortunato Cerlino, con cui sto girando attualmente a Trieste. Ai progetti futuri per ora non posso pensare perché, stando su tre set diversi fino a gennaio, non ho nemmeno il tempo fisico per poter fantasticare. Ma sicuramente il teatro e spero la regia, altra mia grande passione. Qual è il segreto del successo, secondo te? Non credo esista un segreto per avere successo. Credo piuttosto esista un’identità e il coraggio per andarselo a prendere. Rimanendo sempre fedeli a se stessi, come diceva la nonna di Marjane nel film d’animazione Persepolis: «Rimani sempre integra, non dimenticare mai chi sei e da dove vieni». Ecco, io questo non l’ho mai dimenticato. È la mia storia, la storia di ognuno di noi, la verità profonda di chi siamo veramente e non di chi fingiamo di essere. Se partissimo da questo saremmo tutti più liberi. Invece, nel nostro mondo (quello dell’arte in particolare), mi sembra di vedere sempre più finzione che dovrebbe rimanere all’interno della pellicola e mai fuori. Ma sono fiduciosa. Negli esseri umani, soprattutto.

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«IL TALENTO PIÙ GRANDE CUI UN ARTISTA POSSA TENDERE È UNA DETERMINAZIONE QUASI INFANTILE E IRRAZIONALE».

Francesco Gaudiello, 24 anni. Studi: Studi privati con l’attore Davide Bechini presso il Centro Sperimentale di Cinematografia. Mi avete visto nelle serie TV Don Matteo 9, È arrivata la felicità, Rimbocchiamoci le maniche. Mi vedrete al cinema in Il peccato di Andrei Konchalovsky, nel film TV dedicato alla vita di Mia Martini, Io sono mia, regia di Riccardo Donna. Qual è il segreto del successo, secondo te? Il segreto del successo è il maschietto che per la prima volta rinuncia ai pirati e trova il coraggio di dare un bacio alla bambina che gli piace. È il coefficiente di tempo che si passa a sognarlo. O almeno è così che me lo immagino. Credo che il talento più grande cui un artista possa tendere è proprio questo: una determinazione quasi infantile e irrazionale. L’unico modo per terminare quel verso o quel dipinto, senza che il giudizio esterno contamini inconsapevolmente quello che ancora non c’è e che solo l’artista riesce a vedere. Martina Pensa, 27 anni. Studi: Mi sono diplomata a 18 anni all’Accademia Il Teatro in Soffitta. Ho partecipato a workshop di recitazione cinematografica. Tutt’ora continuo a studiare con la coach Giulia Cantore per perfezionarmi nella dizione e nell’interpretazione. Mi vedrete al cinema in Una storia senza nome di Roberto Andò, da cui ho imparato come tirare fuori esattamente quello che è richiesto al personaggio, e grazie al quale ho lavorato con Alessandro Gassman e Micaela Ramazzotti; Notti magiche di Paolo Virzì, con cui ho fatto il mio primo provino per il cinema e da cui ho imparato che per ottenere un’ottima interpretazione bisogna sudare; Uno di famiglia di Alessio Maria Federici, che mi ha dato la possibilità di capire quanto nulla vada lasciato al caso, che anche un piccolo movimento delle labbra può rendere la scena perfetta – in questo caso perfetta anche grazie alla presenza di Pietro Sermonti! I progetti per il futuro sono tanti: il teatro, mio primo grande amore, e il cinema, mondo in cui sono entrata da un anno e che mi ha travolta. Adesso non potrei rinunciare né all’adrenalina del primo, né alla meraviglia del secondo. Mi piacerebbe anche partecipare a una serie TV: l’idea di dover convivere con un personaggio per molto tempo mi affascina terribilmente. Qual è il segreto del successo, secondo te? Non penso ci sia una formula magica per avere successo. Credo nello studio, nella perseveranza, nella forza d’animo, nel colpo di fortuna e nella pazienza. Il lavoro dell’attore è un lavoro d’attesa. Si attendono provini, risposte, si attende dietro le quinte, sul set, si attende l’uscita del film e le reazioni del pubblico, si attende… ma quando arrivano i titoli di coda o l’applauso del pubblico, ti senti ripagato di ogni fatica. 54


«IL LAVORO DELL’ATTORE È UN LAVORO D’ATTESA».

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«NON DOBBIAMO MAI DIMENTICARE CHI SIAMO E DA DOVE VENIAMO».

Alessandro Fella, 30 anni. Studi: Mi sono diplomato nel 2015 alla Scuola Internazionale di Teatro Arsenale di Milano, uno dei riferi-

menti della École Internationale de Théâtre Jacques Lecoq di Parigi. Anche la scuola di Lecoq rappresenta il tronco della mia formazione. Non ho mai smesso di studiare. Oggi, come da sempre, i miei insegnanti sono tutti i colleghi con cui ho a che fare. Mi avete visto nella sere TV Talent High School 2, una serie per bambini diretta da Daniela Borsese, in cui ho iniziato quasi per sbaglio, prendendo un ruolo nel 2012; La Compagnia del Cigno, dove ho avuto il piacere di essere diretto dai maestri Ivan Controneo e Luca Bigazzi. Mi vedrete nella serie TV Il paradiso delle signore 3, in uscita a settembre. Qual è il segreto del successo, secondo te? Per me il segreto del successo è non avere successo. Non dobbiamo mai dimenticare chi siamo e da dove veniamo. Bisogna ricordarsi sempre di affrontare la vita e il prossimo con umiltà, perché da tutti si può, anzi si deve, imparare. L’attore è un privilegiato, lavora con le emozioni e con la vita, non si alza alle 5 del mattino per andare in campagna. Per questo l’attore bravo non è quello che dice bene la battuta, ma è chi fatica sempre, senza essere mai a posto con la coscienza, chi è sempre affamato di sapere. Credo che il teatro sia fondamentale per capirlo.

Cristina Pelliccia, 26 anni. Studi: Ho iniziato un corso di teatro a 13 anni con un’associazione culturale di nome Palcomix, dove ho rice-

vuto i primi strumenti di recitazione. A 17 anni ho deciso di iscrivermi al Conservatorio di Giovanni Battista Diotajuti, cinque giorni su sette per sei ore dopo l’orario scolastico. Grazie a lui ho imparato a recitare. A 21 anni sono entrata all’Accademia Silvio d’Amico, dove finalmente mi sono resa conto di non aver capito nulla e di dover ricominciare tutto daccapo. Esperienza traumatica ma molto felice, che mi ha dato tanto come persona. Mi vedrete nella serie TV Suburra 2, la mia prima esperienza assoluta sullo schermo. Qual è il segreto del successo, secondo te? ... Oddio, scusa, stavi parlando con me?

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«A 21 ANNI MI SONO RESA CONTO DI NON AVER CAPITO NULLA E DI DOVER RICOMINCIARE TUTTO DACCAPO».

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- Videoclip/Opera Prima -

Drive me Home racconta l’emigrazione occidentale di tanti giovani europei insoddisfatti del posto in cui sono nati e cresciuti che, per colmare un vuoto, ricercano un posto migliore “altrove”.

COSÌ SBAGLIATO/ DRIVE ME HOME

LA VIA DEL RITORNO

ABBIAMO VISTO IN ANTEPRIMA DRIVE ME HOME, ESORDIO ON THE ROAD DI SIMONE CATANIA INTERPRETATO DA MARCO D’AMORE E VINICIO MARCHIONI CHE USCIRÀ IN SALA A FINE 2018. di LUCA OTTOCENTO foto GIULIA MANELLI

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© Chiara Mirelli

Le Vibrazioni tornano insieme dopo cinque anni con il nuovo album intitolato V, composto da 10 brani inediti tra cui anche il singolo Così sbagliato, portato a Sanremo 2018.

CON SIMONE FABRIQUE HA PARLATO DEL FILM E DELLA COLLABORAZIONE CON LE VIBRAZIONI, PER CUI HA DIRETTO IL VIDEO DELLA VERSIONE DI COSÌ SBAGLIATO CANTATA INSIEME A SKIN, PRESENTE NELLA COLONNA SONORA.

Simone Catania ha ideato, girato e diretto numerosi cortometraggi, tra cui MONday - il mio giorno, interpretato da Alessandro Gassman, e Onde corte con Maria Grazia Cucinotta che ha vinto, nel 2008, il premio Long Island New York Film Expo per il Miglior Film Internazionale in 35 mm.

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«COSÌ SBAGLIATO PARLA DEL SENTIRSI FUORI POSTO E DI COME QUESTA SENSAZIONE POSSA ESSERE ALLEVIATA DALL’AMORE».

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n po’ come i due protagonisti di Drive Me Home, in passato il trentottenne Simone Catania ha girato molto e avuto varie esperienze all’estero. Nato a Cantù nel 1980, origini siciliane, Simone ha studiato all’Accademia di Belle Arti di Torino e poi ha lavorato nel mondo della produzione cinematografica sia a Roma, dove ha realizzato i suoi primi cortometraggi, che fuori dall’Italia, soprattutto a Londra. Proprio nella capitale britannica, in cui ha vissuto per diversi anni fino al 2011, è nata l’idea embrionale per il suo primo film da regista, sceneggiato a quattro mani insieme a Fabio Natale. A Torino, dove tuttora vive e lavora, Simone ha anche fondato la casa di produzione indipendente Indyca, con cui finora ha prodotto prevalentemente documentari, i più noti dei quali sono Ibrahimovic – Diventare leggenda, che racconta gli inizi della carriera del campione di calcio svedese, e Happy Winter, spaccato di vita dei bagnanti della spiaggia palermitana di Mondello, presentato fuori concorso a Venezia nel 2017. Qual è stato il tuo approccio al videoclip di Così sbagliato? Quando Francesco Sarcina de Le Vibrazioni mi ha chiesto di occuparmi della regia, ciò che mi interessava era realizzare in quel contesto una sorta di prequel del film utilizzando il girato che in fase di montaggio avevamo deciso di escludere. In questo modo potevo infatti raccontare ciò che accade prima di quanto si veda nel film. Drive Me Home parla di due uomini, in passato amici molto stretti,

Drive Me Home è prodotto da Inthelfilm, Indyca con RAI Cinema, il sostegno del MiBACT, Trentino Film Commission e Sicilia Film Commission.

che non si vedono da quindici anni poiché qualcosa ha portato alla rottura del loro rapporto e inizia con uno dei due, Antonio, che ritrova l’altro, Agostino. Nel videoclip viene invece mostrata la vita all’estero di Antonio, intento a sbarcare il lunario, e la sua ricerca dell’amico. In seguito, abbiamo deciso di espandere il racconto sviluppato nel video musicale in quattro clip che saranno diffuse online prima della distribuzione del film, la prima delle quali è già online in questi giorni proprio sul sito di Fabrique. Ci spieghi meglio che cosa sono queste clip? In pratica in esse verrà approfondito ciò che già nel video musicale si intuisce. Quest’ultimo racconta una storia legata a un’emozione che ha molto a che fare con la canzone, mentre le clip saranno più narrative e conterranno anche delle scene inedite. Vedremo Antonio che a trent’anni passati ha difficoltà economiche e, per un problema legato alla sua terra di origine, decide di andare a ritrovare l’amico, l’unico che sente possa realmente aiutarlo. Con le clip in qualche modo il film inizierà sul web e il pubblico avrà già un’idea del mood di Drive Me Home, che comunque sarà autonomo sul piano narrativo. Da dove nasce invece l’idea del film? Tutto parte un po’ dalla mia esperienza personale. Ho vissuto per diverso tempo fuori dall’Italia e a un certo punto, superati i trent’anni, ho deciso di tornare nel nostro paese. Avevo l’esigenza di raccontare quel particolare sentimento proprio di chi si rimette in discussione a un’età in cui i giochi della vita sono stati quasi fatti,

Drive Me Home è un road movie a bordo di un camion in viaggio per l’Europa in cui due amici riscoprono la loro amicizia e le proprie origini.

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Nel cast, insieme a Marco D’Amore e Vinicio Marchioni, Chiara Muscato e, per la prima volta sullo schermo, i giovanissimi Francesco Bianco e Gabriele Vinci.

Ringraziamo per la collaborazione FRANCESCA PIGGIANELLI e ROMA VIDEOCLIP ma non ancora del tutto, dopo aver avuto modo di conoscere altre culture ed essere per questo in grado di entrare davvero in contatto con le sue origini, apprezzando di nuovo ciò che aveva abbandonato. In Drive Me Home tutto ciò viene narrato attraverso una storia d’amicizia e il racconto di un confronto tra due persone che per ragioni diverse hanno voluto lasciare l’Italia seguendo percorsi differenti. Una storia, fra l’altro, ispirata a eventi realmente accaduti, anche se non a me. Tra Marco D’Amore e Vinicio Marchioni c’è un’evidente alchimia sullo schermo. Che tipo di lavoro hai svolto con loro? Collaborare con Marco e Vinicio è stato stupendo e direi che si tratta di una delle più belle esperienze che abbia mai fatto. Già durante i provini, ho rivolto a entrambi delle domande molto personali per capire quali fossero stati i reali conflitti nella loro vita. Su queste basi, come regista, ho poi deciso di concentrarmi non tanto su quello che c’era scritto nel copione, ma piuttosto sulle emozioni che ne scaturivano, emozioni che in qualche modo già appartenevano loro. Marco e Vinicio sono persone splendide ed estremamente umane, oltre che professionisti dotati di grande talento, e hanno vissuto in maniera molto intensa l’esperienza del set. Tutte le sfumature e i diversi livelli di lettura che ho cercato di comunicare loro, li hanno raccolti immediatamente e restituiti in maniera superba.

Intervista a Francesco Sarcina Com’è nata la collaborazione con Simone Catania? Amo il cinema e ho molti amici che lavorano in quel settore. Alcuni di questi a inizio anno stavano lavorando proprio sul set di Drive Me Home e Simone mi ha proposto di collaborare alla colonna sonora. Ci siamo subito accorti che c’erano molti punti di contatto tra Così sbagliato e la trama del film, tant’è che addirittura nella versione con Skin, nel ritornello, lei canta “Take me home”. La scelta di assegnare la regia del video a Simone a quel punto è apparsa naturale. E il

video è come piace a me, non riporta su schermo ciò che è scritto nel testo, ma aggiunge nuove sfumature. Puoi dirci qualcosa di più su questa vicinanza tra canzone e storia del film? Così sbagliato parla del sentirsi fuori posto e di come questa sensazione possa essere alleviata dall’amore. La stessa cosa che avviene nel film tra i due protagonisti, amici d’infanzia che si ritrovano dopo tanti anni. Alla componente musicale spesso il linguaggio cinematografico riserva un ruolo centrale. Cosa ti affascina di più delle possibili convergenze tra cinema e musica? Mi stimola tantissimo come una colonna sonora possa cambiare le emozioni trasmesse da una scena, come accade ad esempio nelle sequenze di violenza di Arancia meccanica. La musica classica, divina e celestiale, abbinata a immagini così sporche e bestiali genera un incontro/scontro potente. Allo stesso modo, una scena romantica abbinata a una musica più violenta aggiunge passione. In definitiva, mi affascinano i contrasti tra le parole scritte e la musica, capaci di aggiungere nuove chiavi di lettura. Che tipo di cinema preferisci e quali sono i tuoi registi preferiti? Sono un grande appassionato di film sulla fantascienza e in particolare sull’astronomia, ma amo anche i grandi cult movie. È difficile scegliere i registi che prediligo, ma direi Christopher Nolan, Ridley Scott e i fratelli Coen. C’è una colonna sonora che negli anni ti ha particolarmente influenzato o colpito? Sicuramente quella di The Wall, la trasposizione cinematografica dell’omonimo album dei Pink Floyd diretta da Alan Parker, e quelle dei film di Sofia Coppola. Nella contrapposizione tra musica e contesto storico trovo che le scelte della regista statunitense siano geniali.

Il film racconta due modi opposti di affrontare la vita: il desiderio di stabilità di Antonio (Vinicio Marchioni) e l’inquietudine di Agostino (Marco D’Amore).

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- Realtà Virtuale -

DREAMS OF BLUE COSA ACCADE NELLA MENTE DI UN’INTELLIGENZA ARTIFICIALE? LE IA PENSANO? SOGNANO? E SE SOGNANO: SOGNANO PROPRIO QUELLE PECORE ELETTRICHE DI CUI SCRIVEVA PHILIP DICK NEL 1968?

LE PECORE ELETTRICHE SOGNANO. IN VIRTUALE di ILARIA RAVARINO

P

rende le mosse da questi interrogativi il bel corto Dreams of Blue di Hive Division, presentato questa estate all’International Film Festival ShorTs di Trieste (26 opere in VR da 5 continenti), girato da Valentina Paggiarin con un team di circa trenta persone e interpretato da Sara Lazzaro, Razeev Badhan e Antonella Tosato. Una sofisticata combinazione di riprese a 360, green screen/ chroma key e ambienti 3D sviluppata, prodotta e postprodotta in sei mesi dalla Hive Division con un obiettivo forte da inseguire: esplorare limiti, possibilità e specifiche di un nuovo linguaggio audiovisivo, cavalcando una storia ‒ il “risveglio” di un’intelligenza

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artificiale ‒ capace di guidare la narrativa in un territorio consono al mezzo di riproduzione. In esclusiva per Fabrique, la “scrittrice interattiva” Paggiarin ‒ un passato da sceneggiatrice videoludica alla Ubisoft di Milano prima di fondare, insieme ai soci Giacomo Talamini, Mattia Gri ed Erik Caretta, la Hive Division ‒ racconta la genesi del progetto e la ricerca dietro alla realizzazione di Dreams of Blue. Possiamo definire Dreams of Blue un corto in VR? Sì, anche se si tratta di un corto realizzato con telecamere specifiche per i 360 gradi. Tecnicamente Dreams of Blue è un corto a 360


«MI PIACE METTERE LO SPETTATORE IN UN CONTESTO TUTTO DA ESPLORARE CON LO SGUARDO». girato su green screen, e quindi postprodotto costruendo ambienti virtuali intorno all’attrice. È un progetto che si può vedere con i visori per la realtà virtuale, e che offre un’esperienza a 360. Detto così sembra complicato, ma insomma: una volta che indossi il visore, sei immerso completamente in un altro mondo. Perché raccontare il risveglio di un’intelligenza artificiale? Abbiamo pensato di scrivere una storia che sfruttasse al massimo l’immersività del mezzo. A volte nella narrativa VR si usano codici mutuati da cinema e TV e, anche se la cosa funziona spesso, non ha molto senso. A che serve fare video a 360 in cui l’azione avviene solo in uno spicchio di trenta gradi? Qual è la storia di Dreams of Blue?

Abbiamo preso un’intelligenza artificiale e l’abbiamo fatta risvegliare in un laboratorio, come se qualcuno avesse appena avviato la macchina. O meglio: come se qualcuno ci avesse appena avviati, perché lo spettatore è il punto di vista dell’intelligenza artificiale. Dopo alcune schermate di caricamento ci troviamo in una stanza insieme a due scienziati, che ci chiedono: “Sei viva?”. E noi, cioè l’intelligenza artificiale, facciamo quello che farebbe una macchina: fermare ogni altro processo e chiedersi cosa significhi “essere viva”. Ecco allora che compaiono davanti ai nostri occhi intere pagine di ricerca, mentre il laboratorio scompare e noi piombiamo in un limbo nero. Davanti abbiamo cinque stanze, ognuna con una persona dentro: si tratta di personalità diverse, che corrispondono a definizioni differenti dell’“essere vivi”. C’è il violento, l’asettico, il prevaricatore, il felice, l’onirico... È in live action o in grafica CGI? Gli attori sono reali, le riprese su green screen. L’attrice Sara Lazzaro interpreta tutte le personalità. Quale la durata? 12 minuti. Di più era rischioso, sarebbe diventato troppo pesante da seguire. Quanto tempo avete impiegato per realizzare Dreams of Blue?

Alla Hive facciamo video in 360 dal 2015. A fine 2016 con Enrico Pasotti, lo sceneggiatore, abbiamo pensato che sarebbe stato interessante scrivere per la VR. Abbiamo sottoposto l’idea ai soci, che ci hanno dato l’ok a patto che costasse poco. E qual è la messa in scena più economica che esiste? Un attore in una stanza. Siamo partiti da quello, e poi... abbiamo un po’ esagerato. Abbiamo girato nel marzo 2017 e il video era pronto nell’agosto dello stesso anno. Sono stati quattro mesi di lavoro serrato. Come lo avete finanziato? Tramite la pubblicità. Dreams of Blue è un investimento della nostra azienda. Invece di acquistare spazi pubblicitari, sviluppiamo contenuti originali: così mostriamo cosa siamo in grado di fare con la tecnologia. I nostri corti ci fanno da volano per i lavori commerciali. Dreams of Blue ha girato parecchio, è stato a Dubai, a Londra, al Sitges in Catalogna, a Milano e ora a Trieste. Nel futuro c’è un grande festival messicano. Come lo distribuite? I corti in VR hanno ancora un problema di diffusione... Fino allo scorso maggio sul mercato non c’erano visori abbastanza accessibili per prezzo o qualità. Adesso, con Oculus Go, abbiamo un dispositivo comodo, dalla qualità medio alta e un prezzo competitivo. Certo, ci vorranno ancora anni prima che la base di utenti cresca abbastanza da innescare un meccanismo sul genere di Netflix, con grandi banche dati di contenuti. Jaunt VR e Inception distribuiranno il nostro corto gratuitamente: finché la base di utenti non cresce, fare esperimenti commerciali che funzionino a pagamento è molto difficile. Regista, donna, ti occupi di VR: sai di essere una rarità? Se è per questo io vengo dal mondo dei videogiochi, e là più che un panda ero un dodo ‒ una specie praticamente estinta. La regia dei nostri corti di solito la cura Giacomo Talamini, che però non è appassionato come me di VR. Che dire? A me la VR fa impazzire, mi piace mettere lo spettatore in un contesto tutto da esplorare con lo sguardo. Ho due soggetti per corti in VR che mi piacerebbe produrre, uno mio e uno di altri autori. Se ne parlerà verso settembre, per un’uscita nel 2019.

Dreams of Blue racconta ciò che può accadere nella mente di un’intelligenza artificiale autocosciente che rifletta sul significato della vita attraverso Internet.

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- VFX -

LA STRADA DEI SAMOUNI

DANNI COLLATERALI

Un progetto iniziato quasi dieci anni fa, con la regia del pluripremiato documentarista Stefano Savona e le animazioni di Simone Massi, disegnatore di fama internazionale, non poteva che lasciare il segno. di ELIO DI PACE

L

a strada dei Samouni, premiato allo scorso Cannes con il prestigioso Oeil d’Or come Miglior Documentario, parte da lontano. Era il 2009. Stefano Savona si recò a Gaza per tenere inizialmente un videoblog: ogni giorno avrebbe pubblicato un contributo filmato che raccontava le fasi di quel momento terribile e sanguinoso della storia recente che prende il nome di Piombo fuso. Titolo che Savona ha dato anche al lungometraggio che ha plasmato da quell’esperienza, con cui ha partecipato al Festival di Locarno di quello stesso anno nella sezione Cineasti del Presente, vincendo anche il Premio Speciale della Giuria.

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«Quindici giorni dopo la fine dei bombardamenti ho incontrato, poco fuori Gaza, uno dei membri della famiglia Samouni», ci racconta Savona. I Samouni sono una famiglia di agricoltori, vivono fuori città, circondati dalla campagna che coltivano a lattuga e mandorle. La tragedia si era da poco consumata: un soldato israeliano, senza motivo, aveva sparato a uno dei capifamiglia, Ateya, padre della piccola Amal, protagonista del film, e poi un missile era stato lanciato sulla sua casa. Molti membri della famiglia sono rimasti sepolti dalle macerie, lo stesso si credeva di Amal, che però, miracolosamente, è stata portata in salvo. Savona, che conosce bene luoghi e persone delle sue zone di


«IL DRAMMA DEI PICCOLI È COME DISEGNARE L’ALBERO DI SICOMORO CHE STA DI FRONTE CASA ». interesse - è laureato in Archeologia e Antropologia, e i suoi studi si sono concentrati soprattutto sull’Egitto, la Turchia, Israele, dove ha partecipato a diversi scavi -, già pensava che la storia dei Samouni valesse la pena di essere raccontata, ed è allora tornato un anno dopo sul luogo dell’eccidio per raccogliere materiale ulteriore. «Nonostante il ritorno e le nuove riprese, mancava tutta la parte pre-attacco, la storia della famiglia e dei membri che erano morti. Grazie ad Amal e ai suoi disegni, ho pensato che quello che mancava potesse essere disegnato e animato». E nel film i tragici disegni di Amal aprono alla ricostruzione animata: insieme a sua cugina, la bambina è in grado di riproporre col disegno il momento della morte di suo padre con minuzia di particolari, ma il vero dramma, il dramma dei piccoli, è come disegnare l’albero di sicomoro che sta di fronte casa sua.

Un’idea coraggiosa, quella di Savona, e dalle potenzialità straordinarie. Ed è qui che si immette sulla strada dei

Samouni anche Simone Massi, per molti il più grande disegnatore della sua generazione in Italia. Capacità evocativa rara nel cinema (non solo d’animazione), tratto inconfondibile, stile “graffiato” (ci dice Savona), ideale per lo scopo del film.

«Ci siamo conosciuti prima ai David di Donatello» racconta Massi «poi abbiamo legato ancora di più alla Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro. Stefano stava lavorando al suo nuovo progetto, è venuto a casa mia, me ne ha parlato e ho accettato subito. C’era già un primo montaggio, ed era relativo al dopo. Stefano aveva bisogno dell’animazione per ricostruire tutto quello che non aveva potuto filmare, ovvero le scene della famiglia Samouni, fino al

I bambini sono il fulcro del film, rappresentano le vittime ma anche la speranza di un futuro di pace in cui non si assista più alla messa a morte di innocenti.

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«UN LUNGOMETRAGGIO ANIMATO CON LA MIA TECNICA E LA MIA POETICA SI PUÒ FARE ECCOME». raid israeliano. Si tratta di un film complesso che ci ha impegnato per svariati anni. In generale il mio lavoro si è concentrato sul disegno, sullo stile, talvolta sul numero degli oggetti presenti nell’inquadratura e sul rapporto luci e ombre. Sul montaggio non sono mai intervenuto perché non avevo e non potevo avere la visione d’insieme». Terminato il montaggio degli inserti animati, arriva la succulenta sfida della ricostruzione sonora. Savona si è recato a Istanbul, insieme a due giovani assistenti, Alessandro Drudi e Virginia Nardelli, che stanno seguendo le sue orme: sono allievi del Centro Sperimentale di Cinematografia a Palermo, la sede dove si studia il cinema della realtà. «Siamo stati a Istanbul due settimane, e lì abbiamo registrato le voci di decine di palestinesi e siriani emigrati in Turchia, ricercando la voce adatta per ogni personaggio della parte animata, prestando attenzione ai vari accenti». Ancora Massi: «È stata un’esperienza straordinaria. Per la prima volta ho lavorato con una squadra di disegnatori, sotto la direzione di un altro autore. Al di là del successo di critica e del premio ricevuto al Festival di Cannes, La strada dei Samouni mi ha fatto conoscere al di fuori del circuito in cui mi sono sempre mosso, quello legato ai festival di animazione e del cortometraggio. Ancor di più il film è lì a testimoniare che un lungometraggio animato con la mia tecnica e la mia poetica si può fare eccome».

Così ha preso vita, quindi, questo film ibrido destinato ad avere molti epigoni. Inoltre, i film di Stefano Savona possono fare scuola almeno per due motivi.

Il primo è che, a ben guardarli, sono un compendio di cosa vuol dire

assumere la giusta distanza quando si filma un soggetto cogliendone in flagrante la quotidianità, le sofferenze, le gioie, i momenti di intimità riflessiva, ma sempre con grande rispetto, discrezione, umiltà: da questo punto di vista, come avevamo già riportato dalla Croisette subito dopo aver visto il film, è magistrale il momento in cui la madre di Amal, seconda moglie di Ateya, impasta il pane e racconta della perdita del marito, creando un corto circuito, un’alternanza di adesione e distacco dalla storia, rivolgendosi a chi la sta filmando e poi ritornando alle sue faccende e ai figli da accudire; ne viene fuori un quadro struggente, intenso, che fa risaltare l’enorme dignità di un essere umano anche quando si confronta con il ricordo di una tragedia. Il secondo motivo è che Savona nei suoi documentari ha il coraggio di prendere posizione: come in Piombo fuso, come in Tahrir (film del 2011 che racconta un altro evento cruciale del Medio Oriente contemporaneo, e cioè l’insofferenza, la protesta e infine la rivolta del popolo egiziano contro il regime di Mubarak), anche ne La strada dei Samouni il regista sceglie da che parte stare, ma senza proclami, solo con l’ausilio dello strumento cinematografico, solo col mostrare e senza il dimostrare. Esemplari, in tal senso, sono due momenti: il beffardo murales disegnato da un soldato israeliano sul muro della casa di Ateya, con una lapide su cui è scritto Arabs 19482009 e il commento ingenuo di uno dei fratelli di Amal - «certo che non sono mica normali» - e la frase «perché dobbiamo soffrire tanto, noi che siamo nati qui?» pronunciata da Faraj, un altro dei figli di Ateya. Un quesito tragico che come risposta contempla solo un rispettoso silenzio.

Il film pone al centro il punto di vista delle vittime prendendo con coraggio una posizione rispetto al conflitto fra Israeliani e Palestinesi.

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DIARIO

GLI EVENTI DI FABRIQUE

6 LUGLIO 2018

Notte magica al Parterre Un nuovo suggestivo scenario apre le porte all’evento estivo di Fabrique du Cinéma.

Gli splendidi giardini di Parterre - Farnesina Social Garden hanno offerto una cornice esclusiva dal sapore vacanziero, lungo il Tevere, per una serata all’insegna del cinema tra proiezioni, ospiti e, come da tradizione, tanta musica di qualità. Special guest Michele Riondino, il “madrino” della 75esima edizione del Festival di Venezia, con la sua Revolving Bridge Band. A moderare la serata, la bella e brava Liliana Donna Fiorelli, in grado di coinvolgere dal palco tutti i partecipanti con la sua simpatia. Tanti gli ospiti e gli amici che hanno colto l’occasione per intervenire: Irene Vetere, copertina del numero estivo di Fabrique e protagonista di Notti magiche, l’ultimo film di Paolo Virzì; Ivan Silvestrini, regista di Arrivano i prof e della nuova serie internazionale Lejos de ti. YouNuts Production, il duo creativo del mondo dei video musicali, assieme al produttore Antonio Giampaolo, hanno in-

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trattenuto il pubblico con la presentazione di Felicità Puttana, l’ultimo videoclip dei Thegiornalisti. Spazio anche al documentario d’autore, con la proiezione del trailer di Boxe Capitale, il nuovo lavoro di Roberto Palma che racconta un viaggio trasversale nel pugilato romano tra le storiche palestre, le nuove realtà delle periferie e il calore del pubblico. Torna così, in una notte di inizio estate, l’evento che tanto successo di pubblico ha riscontrato in questi ultimi anni, grazie all’idea vincente di coniugare la ricerca e la diffusione di contenuti con l’intrattenimento e il divertimento. Da sempre la rivista e gli eventi targati Fabrique hanno dimostrato di essere un vero e proprio trampolino di lancio, una vetrina per i contenuti e i prodotti di qualità offerti dall’audiovisivo, in grado di sostenere il talento e la sperimentazione delle giovani (ma anche meno giovani!) promesse del cinema e della televisione.


NEWS

DOVE

29 AGOSTO - 8 SETTEMBRE 2018

FABRIQUE IN LAGUNA Dal 29 agosto all’8 settembre Fabrique non perde l’appuntamento con la 75esima edizione della

Mostra Internazionale di Arte Cinematografica di Venezia. In trasferta nella Laguna, con la voglia di sperimentare e l’entusiasmo di sempre, Fabrique sarà presente per animare l’evento con le interviste ai protagonisti festivalieri. 14 DICEMBRE 2018

FABRIQUE DU CINÉMA AWARDS Il 14 dicembre prossimo non prendete impegni. Fabrique sta preparando un appuntamento imperdibile: la nuova edizione del premio alla creatività e alla sperimentazione che dallo scorso anno ha varcato i confini nazionali e ampliato il proprio orizzonte di ricerca e la propria platea di pubblico, con il nome di Fabrique du Cinéma Awards. Le categorie del Premio Fabrique sono: Miglior Opera Prima, Miglior Opera Innovativa e Sperimentale, Attore Rivelazione, Attrice Rivelazione, Miglior Tema Musicale, Miglior Film, Miglior Cortometraggio, Webserie e Documentario. La cerimonia di premiazione, con i riconoscimenti assegnati da una giuria di esperti sia nazionali che internazionali, si terrà il 14 dicembre nell’elegante e raffinato scenario di Spazio Novecento.

Come e dove Fabrique

ROMA CINEMA BARBERINI | 06.42010392 | Piazza Barberini, 24/26 CASA DEL CINEMA | 06.423601 | Largo Marcello Mastroianni, 1 EDEN FILM CENTER | 06.3612449 | Piazza Cola di Rienzo, 74 GREENWICH | 06.5745825 | Via G. Battista Bodoni, 59 INTRASTEVERE | 06.5884230 | Vicolo Moroni, 3 MADISON | 06.5417926 | Via G. Chiabrera, 121 NUOVO SACHER | 06.5818166 | Largo Ascianghi, 1 TIBUR | 06.4957762 | Via degli Etruschi, 36 TREVI | 06.6781206 | Vicolo del Puttarello, 25 LOCALI BIG STAR | Via Mameli, 25 KINO | Via Perugia, 34 NECCI | Via Fanfulla da Lodi, 68 SCUOLE CENTRO SPERIMENTALE DI CINEMATOGRAFIA | Via Tuscolana, 1520 CINE TV ROSSELLINI | Via della Vasca Navale, 58 GRIFFITH | Via Matera, 3 IED | Via Giovanni Branca, 122 ROMEUR ACADEMY | Via Cristoforo Colombo, 573 SCUOLA D’ARTE CINEMATOGRAFICA GIAN MARIA VOLONTÉ | Via Greve, 61

MILANO CINEMA CINEMA ANTEO | Via Milazzo, 9 SPAZIO OBERDAN | Viale Vittorio Veneto, 2 LOCALI OSTELLOBELLO | Via Medici, 4 NUOVA ACCADEMIA DI BELLE ARTI | Via C. Darwin, 20

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FABRIQUE DU CINÉMA

LA CARTA STAMPATA DEL NUOVO CINEMA ITALIANO AUTUNNO

2018

Numero

nationalities sections

1.300 70 5

submissions

BERGAMO

22

SPECIALE

CINEMA FRA ITALIA E CINA

A che punto è la collaborazione industriale con la tigre asiatica?

FUTURES

INGLESE/VIAVATTENE

Due registi, due poli opposti: dalla sensualità all’horror

VFX

“LA STRADA DEI SAMOUNI”

Fra documentario e animazione, cronaca e memoria

UNICI Benedetta Porcaroli Ognuno ha il suo stile, ma i giovani emergenti del cinema italiano sono una squadra unita e vincente

LA CARTA STAMPATA DEL NUOVO CINEMA ITALIANO SCARICA GRATUITAMENTE TUTTI I NUMERI DAL SITO 0 SCRIVICI A REDAZIONE@FABRIQUEDUCINEMA.COM

WWW.FABRIQUEDUCINEMA.IT Like us www.facebook.com/fabriqueducinema

CINEMA LAB 80 FILM | Via Pignolo, 123

TORINO CINEMA CINEMA MASSIMO | Via Giuseppe Verdi, 18

BOLOGNA CINEMA CINEMA LUMIÈRE | Via Azzo Gardino, 65

FIRENZE CINEMA CINEMA STENSEN | Viale Don Giovanni Minzoni, 25 CINEMA ALFIERI | Via dell’Ulivo, 6

PISA CINEMA CINEMA ARSENALE | Vicolo Scaramucci, 2

FESTIVAL Cortinametraggio Festa del Cinema di Roma Ischia Film Festival Maremetraggio - International Shorts Film Festival Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia Roma Creative Contest Roma Web Fest Rome Independent Film Festival Visioni Italiane Cineteca di Bologna

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