Fabrique du Cinéma #27

Page 1

LA CARTA STAMPATA DEL NUOVO CINEMA ITALIANO INVERNO

2019

Numero

27

FUTURES

MAROTTA, D’IGNOTI, CORSINI

Timide, innamorate, terrificanti: declinazioni del femminile

GOING GREEN

GREEN SHOOTING

Che cos’è, perché è necessario e istruzioni per farlo (anche a casa vostra)

FABRIQUE AWARDS

IVAN COTRONEO, GIURATO

“Non mi interessa il compitino perfetto, voglio essere sorpreso”

SENZA LIMITI SPAVALDI? SÌ. SICURI DI NOI? ANCHE.

Dopo sette anni possiamo permettercelo. Saul Nanni, ventenne in irresistibile ascesa, docet.


S

FAST FORWARD

UN CALIFORNIANO NATO IN EMILIA FEDERICA D’IGNOTI

SOMMARIO

CHIARA MAROTTA

Pubblicazione edita dall’associazione culturale Indie per cui Lungotevere della Vittoria, 10 00195 Roma (RM), Italia www.fabriqueducinema.it

ANDREA CORSINI

CINEMA SOSTENIBILE

Registrazione tribunale di Roma n. 177 del 10 luglio 2013 DIRETTORE ARTISTICO Davide Manca DIRETTORE EDITORIALE Elena Mazzocchi SUPERVISOR Luigi Pinto STRATEGIC MANAGER Tommaso Agnese DIRETTORE RESPONSABILE Luca Ottocento GRAFICA E IMPAGINAZIONE Giovanni Morelli REDAZIONE Monica Vagnucci REDAZIONE WEB Gabriele Landrini AMMINISTRAZIONE E DISTRIBUZIONE Eleonora De Sica COMUNICAZIONE Madre International in collaborazione con Sara Battelli PUBBLICITÀ redazione@fabriqueducinema.it APS Advertising srl Via Tor de Schiavi, 355 00171 Roma (RM), Italia www.apsadvertising.it STAMPA CIERRE & GRAFICA Via Alvari, 36 00155 Roma (RM), Italia

04 COVER STORY 06 FUTURES/1 10 FUTURES/2 12 FUTURES/3 14 GOING GREEN/1 16 GOING GREEN/2 20 ICONE 22 FABRIQUE AWARDS 24 ARTS 28 CHICKEN BROCCOLI 32 TEATRO/2 37 ZONA DOC 38 DIRITTO D’AUTORE 44 DOSSIER ATTORI 46 VFX 56 DIARIO 60 DOVE 61 EDITORIALE

34 TEATRO/1 DANTE ANTONELLI DANTE E MISHIMA

THE CLIMATE LIMBO ENRICO VANZINA

IVAN COTRONEO

CRISTINA PORTOLANO STRANGER THINGS

FRANCESCO DI LEVA

UNA MACCHINA DEL TEMPO

Finito di stampare nel mese di novembre 2019

IL PLAGIO

CITTÀ ETERNA

LA CARTA STAMPATA DEL NUOVO CINEMA ITALIANO INVERNO

2019

Numero

27

FUTURES

MAROTTA, D’IGNOTI, CORSINI

Timide, innamorate, terrificanti: declinazioni del femminile

GOING GREEN

GREEN SHOOTING

Che cos’è, perché è necessario e istruzioni per farlo (anche casa vostra)

FABRIQUE AWARDS

IVAN COTRONEO, GIURATO

“Non mi interessa il compitino perfetto, voglio essere sorpreso”.

SENZA LIMITI SPAVALDI? SÌ. SICURI DI NOI? ANCHE.

Dopo sette anni possiamo permettercelo. Saul Nanni, ventenne in irresistibile ascesa, docet.

IN COPERTINA Saul Nanni

52 MAKING OF GLI UOMINI D’ORO

IL CRIMINE NON È PER TUTTI, ANCHE SE TUTTI POSSONO ESSERE CRIMINALI

LA REALTÀ VIRTUALE HA ORA IL SUO RE ABBIAMO ILLUMINATO LA NOTTE COME E DOVE FABRIQUE

3


E EDITORIALE

foto ROBERTA KRASNIG stylist STEFANIA SCIORTINO

FAST FORWARD di LUCA OTTOCENTO

Sette anni fa, nel novembre del 2012, usciva per la prima volta Fabrique du Cinéma. L'obiettivo era - e resta - quello di dare voce e visibilità ai giovani del cinema italiano che lottano con enorme fatica per emergere in un mondo chiuso, troppo spesso riservato ai soliti noti. Nel frattempo, da quando è nata la rivista, più di qualcosa è cambiato e sul grande schermo hanno esordito tanti nuovi talenti, a cui negli anni abbiamo dato ampio spazio, spesso seguendoli fin dai loro primi cortometraggi. Ha ragione Ivan Cotroneo, tra i giurati della quinta edizione dei Fabrique Awards, quando dice che per i giovani nel nostro Paese questo è un momento ricco di opportunità. Il pregiudizio che in passato gravava su di loro non c'è più. E ora la sfida cruciale da cogliere è quella di «non seguire le mode, non scimmiottare a tutti i costi ciò che ha successo, ma proporre la propria visione del mondo». Di più: come afferma Enrico Vanzina, l'Icona pop di questo numero, la priorità oggi dovrebbe essere quella di concentrarsi sull'universo dei ragazzi. Un cinema di giovani che racconti per davvero i giovani, in

grado di riportarli nelle sale per vedere i film assieme, confrontarsi, discutere. Noi di Fabrique continuiamo ostinatamente, convintamente, a dirlo da sette anni: se si vuole davvero rinnovare lo sguardo e il panorama del cinema non c'è altra strada, bisogna affidarsi alle nuove generazioni, offrire loro le opportunità che meritano affinché possano esprimere al meglio una diversa sensibilità nei confronti del mondo. E di sicuro sulla nostra nostra rivista troveranno sempre spazio le esperienze, i punti di vista e le aspirazioni dei giovani di talento. In questo numero, ad esempio, la copertina è dedicata al determinatissimo ventenne Saul Nanni, lanciato dalla serie Disney Alex & Co. e da Pupi Avati, con alle spalle già più di qualche ruolo da protagonista tra piccolo e grande schermo. Giovani e promettenti, fra gli altri, sono anche Chiara Marotta e Federica D'Ignoti, registe dei due cortometraggi incentrati sul mondo femminile Veronica non sa fumare e Anna, con Valentina Lodovini e la fotografia di Daniele Ciprì. I nostri young artists hanno tante cose da raccontare. Non ci resta che credere

in loro.

Non seguire le mode, non scimmiottare a tutti i costi ciò che ha successo, ma proporre la propria visione del mondo.

4

5


- Cover story -

creative producer TOMMASO AGNESE fotografa ROBERTA KRASNIG stylist STEFANIA SCIORTINO assistenti fotografa JACOPO GENTILINI / LUCREZIA CINELLI trucco ILARIA DI LAURO @ IDLMAKEUP capelli ADRIANO COCCIARELLI@HARUMI brand TOTAL LOOK FRAME special thanks ISTITUTO LUCE - CINECITTTÀ SRL

SAUL NANNI

UN CALIFORNIANO NATO IN EMILIA Da idolo degli adolescenti ad attore pronto a mettersi in gioco, Saul Nanni è sempre alla ricerca di nuove sfide. Del resto, ogni rischio è anche un’occasione.

Ne Il fulgore di Dony Saul interpreta il protagonista Marco, rimasto paraplegico dopo una caduta con gli sci, in una storia d’amore struggente che vince sul pregiudizio.

«IL MONDO DELLO SPETTACOLO È MOLTO VELOCE E NON SAI MAI DOVE TI PORTA».

di GABRIELE LANDRINI

R

aggiunto il successo come idolo dei teenagers grazie a una fortunata serie Disney, Saul Nanni ha smesso da poco i panni dell’adolescente canterino, prediligendo ruoli sempre più drammatici: dal ragazzo paraplegico del film televisivo Il fulgore di Dony fino al giovane omosessuale e tossicomane della serie Made in Italy, Saul non ha infatti mai rinunciato alle sfide, cercando storie e personaggi che gli permettessero di mettersi in gioco. E se la strada ormai sembra essere in discesa, all’inizio la carriera di attore non era di certo tra i suoi programmi: «Il cinema è sempre stato una passione in comune con mio padre, ma quando ero bambino non ho mai pensato che potesse diventare una professione.

6

Tutto è iniziato per caso quando, a tredici anni, mi sono presentato sul set di una pubblicità, con l’intento di vedere Kakà, che ne era il protagonista: io sono milanista ed era un mio grande sogno poterlo incontrare! Arrivato lì, ho scoperto che erano ancora in corso i casting e che naturalmente Kakà non sarebbe stato presente. Ho comunque deciso di fare un provino e tutto ha avuto inizio». Poco dopo, ti sei trovato sul set del tuo primo film. Ho esordito sul grande schermo con Un boss in salotto di Luca Miniero. È stata un’esperienza molto significativa: avevo appena tredici anni e non ero mai stato su un set con un ruolo così importante. Nonostante i miei timori, fin da subito mi sono trovato

benissimo: Rocco Papaleo è stato come uno zio, mentre Paola Cortellesi è stata di una dolcezza incredibile, per non parlare di Luca Argentero. Mi ritengo molto fortunato, non avrei potuto chiedere un esordio migliore. Il vero successo è arrivato l’anno successivo, grazie ad Alex & Co. Un successo totalmente inaspettato, aggiungerei! Immaginavo che potesse andare bene, ma non mi aspettavo un riscontro del genere. Da un mese all’altro la mia vita è del tutto cambiata: è stato come se improvvisamente mi fossi trovato in un mondo che non era il mio, a cui solo poco alla volta sono riuscito ad abituarmi. Non riesco a spiegare di preciso cosa abbia funzionato in questa serie, ma penso

7


«IL CONFRONTO CON PUPI AVATI È STATO UN MOMENTO FONDAMENTALE PER LA MIA CRESCITA». che gli spettatori si siano ritrovati in ciò che raccontavamo e questo mi ha fatto molto piacere. Conclusa l’avventura con la Disney, è stato il momento di cimentarsi in una produzione firmata da Pupi Avati, ovvero Il fulgore di Dony. Il confronto con Pupi Avati è stato un momento fondamentale per la mia crescita non solo artistica. Pupi è un regista che parla con gli occhi, che crea una forte intimità con gli attori. In lui ho trovato una persona capace di starmi vicino e di guidarmi solo attraverso lo sguardo: è stata un’esperienza indimenticabile. Anche il personaggio che ho interpretato ha rappresentato una delle mie prime grandi sfide: ho interpretato un ragazzo paraplegico. Insieme a Pupi, ho studiato il ruolo e ho conosciuto ragazzi con patologie simili. Grazie a questa esperienza, ho capito di sentirmi più portato per i ruoli drammatici. Un altro ruolo drammatico è infatti quello che proponi in Made in Italy. In questa serie interpreto un ragazzo tossicodipendente e omosessuale nella Milano degli anni Settanta. Prepararsi non è stato facile: ho visto tanti film, e in particolare Requiem for a Dream, perché trovo nel mio personaggio la bontà e il malessere che caratterizzano anche la figura incarnata da Jared Leto. Naturalmente, un aiuto fondamentale mi è stato dato dai due registi Ago Panini e Luca Lucini, che hanno trovato un’ottima alchimia tra loro e l’hanno restituita anche con gli attori. Tra i diversi set e progetti, c’è un momento che più di altri porti nel cuore? Credo che l’aneddoto che racconto con più piacere sia il mio

8

primo incontro con Pupi Avati. Leggendo su internet, mia

nonna aveva scoperto che Pupi era alla ricerca di un ragazzo con i tratti californiani, di origine possibilmente emiliana. Io allora mi ero impuntato di voler fare almeno un

provino, anche solo per poter incontrare un maestro come lui. Ho provato a contattarlo senza successo e allora ho deciso di presentarmi a casa sua, grazie alla complicità di suo fratello Antonio. Quando Pupi mi ha aperto la porta, ha esclamato: «L’ultima persona che si è presentata a casa mia per proporsi per un ruolo è stato Stefano Accorsi!». A quel punto ho pensato di aver esagerato, ma poi le cose sono andate per il meglio. Cosa si prospetta nel tuo futuro? Il mondo dello spettacolo è molto veloce e non sai mai dove ti porta, quindi non credo di poter azzardare delle previsioni: mi piacerebbe cimentarmi nel campo della regia, ma senza alcuna fretta. Ora continuo a recitare, mentre proseguo gli studi all’università. È uscito da qualche mese in sala Mio fratello riconcorre i dinosauri, un bel progetto in cui ho un piccolo ruolo. Da poco, invece, è stato trasmesso su RAI 1 I ragazzi dello Zecchino d’Oro, un film televisivo con Matilde de Angelis. In un prossimo futuro sbarcherò su una piattaforma streaming, mentre al momento sto girando un film intitolato Scooter, la storia di due ragazzi che dopo la maturità decidono di andare in Francia alla ricerca di una ragazza. Se invece parliamo di sogni, mi piacerebbe interpretare un antagonista, un vero cattivo. E agli aspiranti attori che vorrebbero seguire la tua strada, che cosa consiglieresti? Sono troppo giovane per dare consigli, mi sento semplicemente di dire: osservate tanto e imparate da tutto ciò che vi circonda.


- Futures/1 -

«LAVORARE CON PIÙ PROFESSIONISTE DEL CINEMA È UNO DEI MIEI PROSSIMI OBIETTIVI».

FEDERICA D’IGNOTI

ANNA

Anna parla di un atto di fede e del coraggio che serve per non incatenare gli altri a sé. Racconta di un amore, ma il finale ce ne svela un altro, quello per la scrittura, che la protagonista usa come vendetta per esorcizzare un dolore. Ma, soprattutto, parla di cinema.

Optatem. Con il suoIta penultimo voluptatem filmre, breve, quosAngelo etur magnihilit tem accatius cullanis verem rehent. , Federicami, D’Ignoti ha vintoestion Cort’online 2017 e l’Underground Film Festival di Dublino.

esempio quando faccio l’aiuto regia: spesso gli uomini sul set non sopportano di essere comandati da una donna. Anche come

regista ho avuto gli stessi problemi, siamo poche e spesso sottovalutate. Ad esempio, se scegli il direttore della fotografia sbagliato – che non è assolutamente il caso di Daniele Ciprì che adoro e che ha lavorato con me nella realizzazione di Anna – inizia a prevaricarti e a non tenere minimamente conto delle direttive. Io sono una persona molto tranquilla, ma so farmi rispettare. Il cortometraggio è interpretato da Valentina Lodovini e Pietro De Silva, con la fotografia di Daniele Ciprì.

C’è voluto quasi un anno e mezzo per passare dalla scrittura di Anna al set, anche se poi è stato un processo rapidissimo. Sì, ho scritto il corto circa un anno e mezzo prima rispetto a quando è stato girato. La prima persona che ho coinvolto è stata Valentina Lodovini, che già conoscevo, e da lì è iniziato tutto l’iter produttivo. Anna è un lavoro molto low budget, abbiamo girato tutto in poche ore e in un’unica location, il Lanificio. Quel giorno è stato terribile perché quando siamo arrivati ci hanno detto che quattro ore dopo

di STEFANIA COVELLA

R

egista e sceneggiatrice, nata a Catania ma di adozione romana, Federica D’Ignoti lavora dal 2008 nel reparto di regia. Si è formata attraverso anni di esperienza sui set e due master, uno in sceneggiatura e l’altro in regia, alla scuola Tracce S.N.C. di Roma. Con Anna, prodotto da Freak Factory, APA Paimon Production, Studio Tanika, Redigital Studio e distribuito da Premiere Film, ha vinto numerosi premi ed è entrata a far parte della shortlist dei Nastri d’Argento 2019. Anna è quasi un corto di meta-cinema: nasce da una sfida con un altro regista, un personaggio è ispirato al produttore della Indigo Film Nicola Giuliano e il finale a sorpresa svela che, dietro

Per Anna ti sei avvalsa di molti professionisti: dagli ottimi interpreti Valentina Lodovini e Pietro De Silva, al montatore Claudio Di Mauro, e appunto Daniele Ciprì. Il lavoro con gli attori è stato molto semplice, già durante le prove mi hanno restituito subito il personaggio. Con Ciprì avevamo fatto i sopralluoghi e discusso delle scelte registiche, quindi durante le riprese è andato tutto liscio. Abbiamo risparmiato molto tempo e il progetto ha sicuramente acquisito valore. Lo dico spesso anche ai miei colleghi, a volte passo per una brava, magari anche più brava degli altri, ma la verità è che sono furba e mi circondo di persone che sono più brave di me, dalle quali posso imparare.

l’ambiguità dei discorsi, c’è il cinema che racconta il cinema. È un lavoro dedicato agli sceneggiatori, a chi si trova a scrivere una storia personale e mette sul tavolo più del semplice lavoro ma una parte di sé. È anche un raccontare a chi non fa il mestiere dello sceneggiatore uno stralcio del processo che si compie dietro le quinte del mondo del cinema.

avremmo dovuto liberare lo spazio per un compleanno, quindi il set si è trasformato in un trasloco continuo tra un piano e l’altro, monta, smonta, avanti e indietro. Praticamente un giorno di traslochi più che un set, ma ce l’abbiamo fatta. Anna è una donna moderna che trova il suo riscatto nelle parole, rivendica sé stessa dopo essersi a lungo messa da parte. È coraggiosa e finalmente si mette al centro della narrazione, è quasi un messaggio di empowering femminile. Sono contenta che l’hai notato e mi dispiace sia un aspetto un po’ ignorato del corto. Dopo Anna mi ero ripromessa di non fare più cortometraggi ma ho avuto un paio di idee per dei progetti e per uno di essi ho pensato di coinvolgere una troupe di sole donne: lavorare con più professioniste del cinema è uno dei miei prossimi obiettivi. Uno di questi progetti è il cortometraggio sulla Sea Watch? Sì, ho scritto questo corto che spero di girare a febbraio, è tratto da un evento realmente accaduto il 31 gennaio del 2019, quando la Sea Watch è sbarcata a Catania e le persone che sono scese, dopo aver navigato per giorni, si sono buttate a terra terrorizzate scambiando i botti della festa di Sant’Agata per delle bombe vere. Credo sia un’immagine potente passata inosservata. So che sei un’amante delle serie TV e che stai per realizzarne una, puoi parlarmene? Credo che la serialità sia il futuro e che il cinema non stia mantenendo il passo. Ho in preparazione una coproduzione spagnola, Rosa pomodoro, una commedia che avrà come tema principale il cibo. Sono attualmente in fase contrattuale.

«CREDO CHE LA SERIALITÀ SIA IL FUTURO E CHE IL CINEMA NON STIA MANTENENDO IL PASSO».

Nonostante i clamori del #metoo, l’industria cinematografica ha ancora una forte connotazione patriarcale, le registe sono davvero poche. Quando ti sei trovata nella stessa posizione della tua protagonista ti sei mai sentita discriminata? Sì, decisamente sì. Mi sento discriminata sul lavoro di continuo, ad Optatem. Anna, dopo Itaanni voluptatem di silenzio, re, decide quos etur di svelare magnihilit a uno mi,sconosciuto tem accatiuslaestion storia cullanis di un amore verem cherehent. lei definisce incondizionato.

10

11


- Futures/2 -

CHIARA MAROTTA

VERONICA NON SA FUMARE

Attraverso una narrazione fatta di primi piani e ampi silenzi, Chiara Marotta racconta uno spaccato della vita di un’adolescente dalla prima sigaretta al primo ragazzo. di STEFANIA COVELLA

D

el potere delle scelte che ci toccano e ci cambiano, del disagio giovanile e del sentirsi soli e inadeguati mentre si spia la vita degli altri attraverso la lente deformata delle stories di Instagram. Classe 1993, Chiara Marotta è una giovane montatrice salernitana premiata alla Mostra D’arte Cinematografica di Venezia nel 2018 per il Miglior Contributo Tecnico per Quelle brutte cose di Loris Giuseppe Nese, con lei fondatore della Lapazio Film e presente all’intervista. Quest’anno Chiara è tornata a Venezia come sceneggiatrice e regista con Veronica non sa fumare, vincendo il premio per il miglior corto alla SIC. Come ti sei avvicinata al cinema? Ho frequentato il DAMS di Bologna e ho continuato la mia formazione

12

nel cinema documentario. Il mio primo approccio è stato come montatrice, proprio per Quelle brutte cose di Loris Giuseppe Nese con cui poi ho scritto Veronica non sa fumare. Nei miei lavori cerco sempre di coniugare il realismo del documentario e un’attenzione particolare per i personaggi, per il loro tessuto personale e psicologico. Scrivi, dirigi e monti, c’è un mezzo che pensi si accordi maggiormente con la tua voce? Il montaggio è sicuramente la cosa che sento più mia, riesco a trovare una vena di scrittura diversa. È una strada che percorro e nella quale riesco a esprimermi. Con la scrittura e la regia ho scoperto un’altra via che mi piace e che sicuramente continuerò a seguire.

Veronica, diciassette anni, ha spiato a lungo, da lontano, una vita diversa dalla sua, e l’ha scelta per sé. Quando finalmente riesce ad avvicinare Alessia, si immerge totalmente nel nuovo mondo, che si rivela uguale e allo stesso tempo diverso da quello che immaginava.

Cosa hai apprezzato di più della tua prima esperienza alla regia? Dirigere mi permette di entrare in rapporto con le persone del set, in particolare con gli attori. C’è stata una grande sintonia sul set, in particolare con Giulia Lamberti che ha interpretato Veronica, ma anche con Rossella De Martino, nel ruolo di Alessia, con la quale avevo già lavorato. Per Giulia Lamberti era la prima esperienza, è stato un lavoro molto bello e intenso, ci siamo trovate bene. Giulia ha capito subito che tipo di personaggio doveva interpretare. Mi dicevi che la fase di preproduzione è stata molto importante in questo senso. Sì, in fase di preproduzione ho lavorato moltissimo con gli attori sulla preparazione dei personaggi, dovevano avere chiari i punti chiave della storia. Una volta sul set però erano anche liberi di potersi muovere e talvolta improvvisare, la sceneggiatura era una sorta di canovaccio. In questo modo gli interpreti erano sicuri di potersi confrontare tra loro liberamente ma tenendo conto dei punti prefissati. Veronica si sforza di fumare, ballare, toccare un ragazzo, sembra voler imitare una vita non sua e gli ampi silenzi che accompagnano la sua narrazione ci permettono di entrare in sintonia con la sua interiorità. La scarsa presenza di dialoghi è data proprio da questo bisogno di soffermarsi sull’interiorità di questo personaggio. All’inizio del corto c’è una lunga scena muta con Veronica che balla davanti allo specchio, è significativa perché rappresenta un’evoluzione del suo sentirsi femminile, donna, del guardarsi lasciandosi andare. Era impossibile tagliarla in montaggio mantenendo il senso senza

che sembrasse una scelta puramente estetica. Ci tenevo a seguire Veronica nella sua solitudine, nel suo guardare da lontano la vita verso la quale si sta avvicinando, anche attraverso delle scelte sbagliate. Cosa pensi del cinema italiano contemporaneo? Guardo molto al cinema italiano di oggi, mi piacciono Alice Rohrwacher, Pietro Marcello e Roberto Minervini, sono dei punti di riferimento. Poi, venendo dalla scuola del documentario,

trovo importanti e di ispirazione soprattutto i film che riescono a esprimere l’interiorità dei personaggi.

Oltre a Venezia ho partecipato in passato a diversi mercati anche esteri e a vari incontri con i produttori: per quanto riguarda il cinema documentario mi pare ci sia un numero crescente di registe donne, la situazione si sta sbloccando, ora ci sono molte più opportunità e bandi. Loris, come avete iniziato a collaborare e quali sono i vostri progetti futuri? Chiara e io abbiamo mosso i primi passi insieme, dagli studi alla decisione di fondare insieme una casa di produzione indipendente, la Lapazio Film. Questo ci ha permesso di distribuire e seguire i nostri progetti con l’attenzione che ci piace mettere nel lavoro, dall’inizio alla fine del processo. In particolare, la nostra politica è quella di mantenere una continuità artistica pur mescolando i linguaggi: usando il montaggio d’archivio, lo stile del documentario o anche l’animazione. Abbiamo appunto finito da poco di produrre un corto di animazione: la storia ruota intorno a una donna che si ritrova a vivere una vita molto ripetitiva… non posso dire altro.

«IL MONTAGGIO È SICURAMENTE LA COSA CHE SENTO PIÙ MIA, RIESCO A TROVARE UNA VENA DI SCRITTURA DIVERSA».

Quelle brutte cose, il precedente lavoro di Chiara Marotta con Loris Giuseppe Nese, è stato in concorso al Sundance Film Festival 2019.

13


- Futures/3 -

Un’enigmatica donna (Anna Della Rosa, La grande bellezza) vive in una villa che sorge sul confine tra la società civilizzata e un bosco selvaggio al quale è misteriosamente legata.

ANDREA CORSINI

NOAMO L’ALLA NOSTALGIA, HORROR CHE RACCONTA IL PRESENTE Il corto Ferine sta portando grande fortuna al suo autore Andrea Corsini. Dopo l’anteprima alla Mostra del Cinema di Venezia, nell’ambito della Settimana della Critica, Ferine sta girando il mondo e ha appena vinto il premio per il Miglior Corto al Nightmares Film Festival di Columbus, Ohio. di VALENTINA D’AMICO

A

desso tocca a Polonia, Argentina e di nuovo Stati Uniti, col prestigioso New York City Horror Film Festival frequentato, in passato, da George Romero, Roger Corman e Tobe Hooper. Il bresciano Andrea Corsini, classe 1980, si gode il pubblico riconoscimento del suo lavoro e confessa che fare il regista non è sempre stato nei suoi progetti: «Mi sono avvicinato alla regia da autodidatta. Facevo l’impiegato e scrivevo di cinema per passione su un forum. A un certo punto ho deciso di visitare la Mostra di Venezia e mi sono ritrovato a fare l’aiuto regista di Virus, programma di RAI Movie. Lì ho scoperto che dietro l’obiettivo ci stavo bene, anche se prima di allora non avevo mai visto una macchina da presa». Conclusa quest’esperienza, Andrea Corsini decide di realizzare un cortometraggio a livello professionale. Il risultato è Non nel mio giardino, interpretato da Paolo Briguglia

14

e Giorgio Carminati. «Per scriverlo ho impiegato un anno perché ho dovuto studiare il linguaggio e la tecnica. Volevo realizzare un progetto da proporre ai produttori e ho trovato dei professionisti interessati a Brescia. Sono andato a Berlino per una settimana per la post-produzione e ci sono rimasto due anni. Per me è stata la scuola più importante. Quando sono tornato in Italia, ho fondato una compagnia di produzione audiovisiva con alcuni soci. In sette anni ho trasformato un’esperienza transitoria in un lavoro». Sia Non nel mio giardino che Ferine gravitano nell’ambito dell’horror/thriller: il primo è un racconto distopico con una forte componente allegorica, mentre il secondo si avvicina molto di più all’horror classico. Il rapporto col cinema di genere, per Andrea Corsini, è una realtà complessa: «Non nel mio giardino è un lavoro spontaneo. L’ho scritto prima che uscisse Black Mirror. Avevo

scoperto da poco Brazil e la fantascienza distopica, mi interessava raccontare quel tipo di atmosfere. Rivedendolo, il corto funziona più a livello di storia che di forma, per via dei mezzi limitati. La mia attrazione per l’horror deriva dal fatto che a casa mia gli horror erano vietati, perciò li vedevo solo a casa della nonna, in vacanza o dai cugini. Ci sono film a cui sono legato come La cosa di Carpenter, Non aprite quella porta di Tobe Hooper, Robocop di Verhoeven o Beetlejuice di Tim Burton. Non si può prescindere dagli autori che hanno fatto grande il genere, ma questi riferimenti non sono legati all’idea di cinema che vorrei fare oggi». Andrea Corsini ammette di non subire

il fascino di operazioni nostalgia come la serie Stranger Things e preferisce guardare ai contemporanei che provano a dire qualcosa di nuovo: «Mi interessano autori come Ari Aster, Jordan Peele

o Mike Flanagan che hanno ridato linfa vitale al genere; Carlos Reygadas va ancora oltre». Quando si parla di modelli, lo sguardo di Andrea Corsini è rivolto al cinema internazionale, ma lui ci tiene a portare avanti la bandiera

del cinema di genere italiano e analizza con sguardo lucido la situazione che si trovano di fronte i registi emergenti. Per l’autore bresciano il vero problema non è trovare storie da raccontare bensì incontrare il produttore giusto: «La prima difficoltà è farsi ascoltare. Se proponi un film di genere pensano che tu sia di serie B o low budget. Io ho lavorato bene con chi non mi ha promesso i soldi del ministero, ma a volte passano anni prima di incontrare un produttore adatto». Questa è la ragione per cui Corsini non ha ancora esordito nel lungometraggio, anche se ha una sceneggiatura pronta nel cassetto da anni: «Di solito si realizza un corto per poi fare il lungo, nel mio caso è accaduto il contrario. Ho scritto prima il lungo, da quel mondo in seguito è derivato Ferine. Entrambi ruotano attorno al tema della lotta primordiale, mi interessava confrontarmi con la figura del mostro senza giudicarlo. Volevo raccontare un personaggio che agisce con ferocia per via della situazione che vive. Gireremo in inglese, ma per ora il progetto è in fase di sviluppo perché mancano ancora i produttori. Se tutti i pezzi andranno a combaciare, sarà una coproduzione tra Italia, Francia e Canada».

«MI INTERESSAVA CONFRONTARMI CON LA FIGURA DEL MOSTRO SENZA GIUDICARLO». Ferine è una produzione Oki Doki in coproduzione con Edi Effetti Digitali Italiani.

15


- Going Green /1 -

CINEMA SOSTENIBILE ISTRUZIONI PER L’USO Se ne comincia a parlare anche in Italia, ma il green shooting non è ancora abbastanza conosciuto e praticato dai nostri filmmaker. Fabrique ne ha parlato con un’esperta, Katrin Richthofer, che sull’argomento ha tenuto una masterclass durante l’ultima edizione del Castello Errante - Residenza Internazionale del Cinema. di ELENA MAZZOCCHI

A

bbiamo raggiunto Katrin via skype a Monaco, dove è direttrice della fotografia della Munich Filmschool e coordinatrice amministrativa di Imago-International Federation of Cinematographers. Katrin, il green shooting non è ancora molto noto e praticato in Italia. Puoi spiegarci che cos’è e quali sono i punti fondamentali? Il green shooting non è altro che un modo di fare cinema più sostenibile; perciò si basa sugli stessi accorgimenti che occorre osservare nella vita di tutti i giorni: tutto ciò che riguarda il muoversi, mangiare, impiegare energia si può fare in modo più o meno ecologico. È innanzitutto una questione di atteggiamento mentale. Detto questo, il primo pilastro di un

cinema più sostenibile è ridurre i viaggi in aereo: sappiamo bene che prendere l’aereo è molto costoso in termini ambientali e produce in particolare un grosso inquinamento da CO2. Qui in

Germania è un problema che cominciamo a porci fra gli addetti dell’industria cinematografica, e in molti ci chiediamo: dobbiamo davvero andare lontano per girare qualcosa che può essere ambientato anche più vicino? Dobbiamo davvero fare riunioni con colleghi che lavorano in altre città o in altri Paesi? Del resto, l’argomento che viaggiando in aereo si risparmia tempo è molto discutibile: spesso confondiamo la durata del volo con la durata complessiva di un viaggio che comprende anche raggiungere l’aeroporto, aspettare per l’imbarco, ritirare i bagagli, arrivare in un ufficio in centro per una riunione. Più che di reale convenienza spesso si tratta quindi di una questione di status symbol: lavoro nel cinema, sono una persona importante quindi prendo l’aereo. Ecco, anche questo è un ostacolo, di tipo culturale, che va superato. Il secondo punto è senz’altro la

riduzione del consumo di carne nel catering sul set, visto che gli allevamenti intensivi di bestiame

sono fortemente inquinanti per il pianeta: perché non provare a proporre un menu solamente vegetariano? Se i cuochi sono bravi un pasto senza carne può essere

buonissimo con pizza, pasta, verdure. Un’altra opzione è servirsi di ristoranti locali, con cibo a km zero: contrattando con i ristoratori si possono ottenere prezzi anche molto convenienti. Lo stesso vale per le bottiglie di plastica usa e getta, che sui set si usano in quantità industriali: meglio provvedersi di un serbatoio e fornire alla troupe bottiglie che possono riempire via via, senza dover avere poi tonnellate di plastica da smaltire, così come scegliere piatti e posate fatti in materiale compostabile. C’è chi potrebbe storcere il naso di fronte all’imposizione di regole così stringenti… Infatti è fondamentale sensibilizzare l’intera troupe sull’intento di girare un film in maniera ecologicamente consapevole, renderla totalmente partecipe del processo, perché non appaia una decisione calata dall’alto magari per far risparmiare il produttore, ma una scelta a cui tutti possono aderire con convinzione. Solo così si sentiranno parte di qualcosa di significativo. E che si tratti di scelte praticabili anche su larga scala ce lo mostra il caso di The Amazing Spider-Man 2: alla fine delle riprese del blockbuster Sony sono state riciclate più di 750 tonnellate di materiali vari e oltre 49 tonnellate di scenografie sono state vendute o donate. Un altro tema delicato è quello dell’illuminazione: le luci sul set consumano moltissima energia. Si può ridurre questo impatto? Certo, è possibile. Innanzitutto ponendoci sempre la stessa domanda: abbiamo davvero bisogno di creare un “sole artificiale” sul set? Oppure possiamo aspettare condizioni meteorologiche adatte? Dobbiamo per forza girare in interni o possiamo sfruttare la luce naturale, soprattutto ora che esistono videocamere che sono in grado di filmare in condizioni di luce scarsa? Certo, occorre essere più capaci e flessibili, ma consideriamo che oggi siamo facilitati dalle luci LED, che consumano infinitamente meno di quelle tradizionali. È vero che spesso non è facile reperire i LED in grande quantità, perché i fornitori hanno gli scaffali pieni di HMI e quindi approvvigionarsi di LED può essere più complicato e alla fine meno

«IL GREEN SHOOTING È INNANZITUTTO UNA QUESTIONE DI ATTEGGIAMENTO MENTALE».

16

17


«PERCHÉ NON MOSTRARE AL CINEMA PERSONAGGI CHE HANNO COMPORTAMENTI RISPETTOSI DELL’AMBIENTE?» economico, il che è un problema soprattutto per i film a piccolo e medio budget. Stesso discorso per i generatori: si trovano usualmente quelli da 100 kW: se usi i LED generatori da 20 kW vanno benissimo, ma appunto non è facile trovarli e alla fine costa di più. Tuttavia, per quanto possibile, è bene che i professionisti comincino a chiedere ai fornitori queste attrezzature affinché possano diffondersi. Mi sembra di capire che il minimo comun denominatore di questi accorgimenti è la pianificazione e dunque il tempo, risorsa che però scarseggia nel cinema. È vero, bisogna pensare attentamente a tutti i processi e avere il tempo per farlo. Ma soprattutto occorre essere inventivi: ad esempio, iniziare a pensare che quando si smonta un set tutto può essere riutilizzato, materiali come il legno in particolare possono servire anche per tanti altri progetti e quindi organizzarsi affinché chi ne ha bisogno sia lì il giorno concordato per portarselo via. Pensiamo inoltre alla cancelleria: non sono necessarie scatole di cartone con tanti singoli oggetti impacchettati uno a uno. In Germania esistono compagnie che vendono materiali da ufficio riciclabili e che si occupano anche di ritirare le cartucce dei toner e rigenerarle. C’è infine un esempio fantastico di pensiero innovativo che riguarda le aziende che si occupano di riprese virtuali, CGI, postproduzione. Ora, queste aziende lavorano con computer potentissimi che consumano grandi quantità di energia. Nel

centro di Parigi hanno pensato di usare il calore prodotto dai server di uno studio di animazione per scaldare l’acqua di una piscina comunale! Perché allora non seguire questa

strada e impiegare il calore prodotto in questo tipo di aziende, che saranno sempre più grandi e numerose, per riscaldare ad esempio interi edifici? È un tipo di

ragionamento in network che l’industria dell’audiovisivo può mettere in pratica, e anzi in qualche misura già lo sta facendo. Quali sono i Paesi più attenti al green shooting? La Francia è molto avanti, in Germania stiamo cominciando e anche l’America è profondamente coinvolta: a Hollywood si parla da tempo di

cinema sostenibile, si può dire che è da lì che è cominciato tutto. L’Italia è ancora indietro, ma va

ricordato l’esempio virtuoso della Fondazione Sardegna Film Commission che già da qualche anno ha stilato una puntuale Guida alla realizzazione di una produzione audiovisiva sostenibile che premia le produzioni green sulla base di cinque criteri: risparmio ed efficientamento energetico; alloggi e mobilità sostenibile; scelta dei materiali; cibo; gestione dei rifiuti. Accennavi al fatto che quando si parla di cinema sostenibile c’è anche un tema culturale e non solo economico. Sì ed è un punto importantissimo. Il cinema ha sempre creato dei modelli capaci di entrare in contatto profondo con gli spettatori: i grandi eroi dell’immaginario collettivo, ma anche tanti personaggi dalle vite più comuni che ispirano l’audience di tutto il mondo. Dunque, perché non mostrare personaggi che hanno comportamenti rispettosi dell’ambiente? Farli vedere ad esempio passeggiare non con la tazza di plastica di Starbucks ma con la loro mug personale? Magari James Bond sarebbe ridicolo a viaggiare sempre su una e-bike, ma in una scena potrebbe anche farlo. Si tratta sempre di cosa è cool: un tempo tutti gli eroi del grande schermo fumavano, adesso non è più di moda e dunque non fumano, perciò perché non sfruttare anche questa capacità del cinema per ispirare comportamenti più ecologici?

GREEN SHOOTING: WEBSITES Sardegna Film Commission www.sardegnafilmcommission.it/docs/sardegna_green_film_shooting.pdf Francia www.ecoprod.com/en Gran Bretagna www.calc.wearealbert.org/uk USA, Center for social media www.cmsimpact.org/resource/code-best-practices-sustainable-filmmaking USA, Green production guide of the American Producers Association www.www.greenproductionguide.com

18

Gli allievi della residenza Castello Errante sul set: quest’anno, alla terza edizione della manifestazione ideata da Adele Dell’Erario, hanno preso parte studenti provenienti dalle più importanti scuole di cinema dell’Italia, del Centro e del Sud America.


- Going Green /2 -

«CHI VUOLE COSTRUIRE DEI MURI ATTORNO ALL’ITALIA SI DEVE RICORDARE CHE UN GIORNO SARANNO FORSE I NOSTRI FIGLI A DOVER SUPERARE QUEI MURI». ANNA BRAMBILLA

THE CLIMATE LIMBO

HOTSPOT

Elena Brunello racconta il suo film documentario realizzato con i registi Paolo Caselli e Francesco Ferri: un punto di vista laterale sui cambiamenti climatici che rimette al centro le persone e le loro storie. di MIRCO RONCORONI

D

opo Bee My Job, sulla vicenda di un rifugiato senegalese diventato apicoltore in Piemonte, Elena Brunello torna a collaborare con Dueotto Film del duo Caselli-Ferri per raccontare la relazione tra migrazioni e cambiamenti climatici. Nasce così The Climate Limbo, documentario realizzato grazie a Frame, Voice, Report e prodotto dall’APS Cambalache attraverso un finanziamento dell’Unione Europea.

quanto questi fenomeni possano far spostare le persone. Le hanno sempre fatte spostare in realtà, ma oggi succede molto più velocemente e il tempo per adattarsi è limitato. A me interessava raccontare qualcosa che colpisse l’uomo, che riguardasse tutti quanti noi da vicino e che aiutasse a vedere la problematica da un’angolatura diversa.

ancora troppo diffusamente, la coscienza di ciò che comporterà una crisi climatica ormai irreversibile. Una crisi di cui potremo solo provare a contenere le conseguenze. E che ci riguarda da vicino.

Esatto, il punto era far capire alle persone come questo problema potrebbe impattare su di loro: non è escluso che dovrai lasciare casa tua, che pagherai il triplo per la bolletta di energia elettrica o per i prodotti sanitari. Volevamo comunicare cosa potrebbe succedere da qui ai prossimi anni. Poi facendo interviste in giro ci siamo accorti che tendenzialmente si crede che la relazione tra migrazione e cambiamento climatico appartenga a zone lontane, che sia l’isola del Pacifico o l’area della Nigeria da dove proviene Queen [una delle protagoniste

Limbo è il concetto-chiave. Nel limbo ci sono le storie di chi ancora non vede riconosciuto lo status di rifugiato climatico. In un limbo vaga,

Elena, perché un documentario proprio sulla relazione tra cambiamenti climatici e migrazioni? Si parla molto ormai di cambiamento climatico, di ghiacciai che si sciolgono e altre catastrofi naturali: tutto vero e importantissimo. Raramente però si parla di

20

Associazione studi giuridici sull’immigrazione

del documentario]. La verità è che, per la velocità con cui avvengono i cambiamenti climatici, tra non molto anche noi del primo mondo dovremo spostarci, o comunque saremo costretti a subire danni considerevoli. E le storie di Carlotta e Luigi, allevatrice e agricoltore piemontesi, sono emblematiche da questo punto di vista. Come li avete trovati questi due personaggi? Loro li abbiamo trovati per caso. Siamo andati in giro nelle campagne del Piemonte per fare delle riprese, per pranzo ci siamo fermati in una trattoria e abbiamo fatto amicizia con il proprietario. Proprio lui ci ha detto: «Dovete assolutamente parlare con il signor Luigi! Ha un campo di pomodori e un sacco di problemi con la siccità, col gelo d’inverno che non c’è più». Allora siamo andati dal signor Luigi, che a sua volta ci ha indicato un’allevatrice di mucche, Carlotta. Siamo stati contenti perché ci premeva trovare qualcuno del primo mondo, che fosse italiano, e quindi più vicino allo spettatore. Ciò che invece non è presente nel documentario è una riflessione critica sui modelli politici ed economici che sono causa dei cambiamenti climatici. Perché? Abbiamo cercato di mantenerlo apolitico perché spesso tutto ciò che comporta il cambiamento climatico è confutato o meno per una questione di appartenenza politica. A noi interessava esplorare la scienza, i dati, i metodi attraverso cui si arriva a quei dati. Come dice nel documentario Antonello Pasini del CNR, il grosso

problema è che, soprattutto in Italia, la scienza non è un argomento di conversazione e viene sempre visto come argomento astruso, inavvicinabile, non si conoscono i metodi con cui si arriva a certi risultati. Questo porta le persone ad aggrapparsi più facilmente alle bandiere politiche, o comunque a confutare dei dati e degli esperimenti reali semplicemente per appartenenza politica. Noi volevamo spezzare questo meccanismo. È interessante perché un movimento importante come Fridays For Future, ad esempio, ha rilanciato una critica al capitalismo e al neoliberismo facendola però convivere con un approccio apartitico, trasversale, ecumenico che, forse, rischia di depotenziarne il messaggio... Il mio punto di vista è che Fridays For Future sia un movimento un po’ “pop”, per quanto importantissimo. Poi tutti i fenomeni di massa sono abbozzati, poco raffinati dal punto di vista teorico e politico, se visti nella loro interezza. Ciò che interessava a noi in The Climate Limbo era parlare a chi non la pensa come noi, a chi nega i cambiamenti climatici, a chi pensa siano solo un cavallo di battaglia di sistemi politici diversi dai suoi. Per questo l’abbiamo definito così e abbiamo cercato di

mantenerlo apolitico, anche se poi l’argomento in sé non lo è per niente. Il nostro lavoro però è costruire delle belle immagini, raccontare una storia e farlo nel modo più efficace e chiaro possibile. Il fine è che lo spettatore ascolti questa storia.

Raccontare storie personali è interessante e imprescindibile: in fin dei conti sono le persone, prima ancora che il pianeta, a essere in pericolo...

Il Global Internal Displacement Database stima che tra il 2008 e il 2014 oltre 184 milioni di persone sono state costrette a cambiare paese per eventi legati al clima anche a “lenta insorgenza”, come la siccità.

21


- Icone Enrico Vanzina ha cominciato la sua lunga carriera di sceneggiatore nel 1976 con Luna di miele in tre, lavorando da allora con i più importanti nomi del cinema italiano.

«IL VERO CINEMA D’AUTORE ITALIANO È FONDAMENTALMENTE POPOLARE».

di LUCA OTTOCENTO

IL CINEMA SECONDO VANZINA

Dalla sceneggiatura di Febbre da cavallo firmata per il padre Steno fino a quella dell’opera prima del duo YouNuts! prodotta da Netflix, passando per cinepanettoni, commedie e incursioni in vari generi, Enrico Vanzina ha attraversato il cinema italiano degli ultimi quarant’anni. E ha deciso di raccontarsi a Fabrique.

E

nrico Vanzina ha lavorato come sceneggiatore a oltre cento film e con il fratello Carlo, scomparso lo scorso anno, ha formato una coppia indissolubile tra le più prolifiche del cinema italiano contemporaneo. I Vanzina di solito vengono immediatamente associati ai cinepanettoni, termine da loro non amato che identifica il filone dei film di Natale cui hanno dato il via con Vacanze di Natale nel 1983, e ad alcuni grandi successi di pubblico divenuti dei veri e propri oggetti di culto popolare come Eccezzziunale... veramente e Sapore di mare. Figli di Steno, uno dei massimi esponenti della commedia all’italiana, Enrico e Carlo però in quattro decenni hanno spaziato anche al di là della commedia e, attraverso l’esperienza del padre, hanno conosciuto in profondità la produzione degli anni ’50 e ’60. Incontrare Enrico Vanzina, dunque, ci permette di parlare non solo dell’attività portata avanti con il fratello, ma anche del cinema italiano di ieri e di oggi.

22

Quello dei fratelli Vanzina è sempre stato un cinema orgogliosamente popolare, rivolto al grande pubblico. Come descriverebbe il vostro modo di intendere la settima arte? Io e Carlo siamo cresciuti tra un gruppo di persone che nel dopoguerra ha inventato e codificato la commedia all’italiana. A casa, grazie a nostro padre, abbiamo avuto la fortuna di conoscere Monicelli, Risi, Age e Scarpelli, Scola, Comencini, Cecchi d’Amico. Ciò che poi abbiamo cercato di fare è proseguire nella direzione di quel tipo di cinema privo di moralismo caratterizzato da un’osservazione attenta, benevola e gentile della realtà, attraverso la quale era possibile raccontare in maniera buffa i difetti del nostro paese. Soprattutto a partire da Sapore di mare, abbiamo iniziato a capire che potevamo fare film che rimanessero nella scia della commedia all’italiana pur avendo una vena romantica molto forte e una tendenza più corale. Partendo dalla concezione del cinema come arte popolare e volendo attraverso di esso parlare dell’Italia,

Con il libro Mio fratello Carlo, edito da Harper Collins, Enrico racconta il rapporto con il fratello recentemente scomparso e ne ripercorre gli ultimi mesi di vita.

l’esigenza era quella di guardare a un pubblico che fosse il più trasversale possibile. Spesso il cinema popolare viene contrapposto a quello d’autore. Cosa ne pensa? Questa opposizione in realtà non ha senso di esistere. Si è sviluppata solo negli ultimi decenni, quando una deriva molto ideologica ha spinto una parte di giovani autori a rivolgersi esclusivamente a una nicchia, a un pubblico più da festival. A tutt’oggi il maggiore incasso della storia del cinema italiano rimane La dolce vita, film d’autore per eccellenza. Quando parliamo dei nostri autori più grandi come Fellini, De Sica, Visconti, Rosi e Petri, dobbiamo tenere presente che i loro lavori avevano un enorme impatto. Il vero cinema d’autore italiano, quello rimasto nella storia, è fondamentalmente popolare. La contrapposizione non veniva avvertita neppure dai diretti interessati: quando ero ragazzino, Antonioni usciva a cena con mio padre, Rosi con Corbucci, chi faceva il cinema popolare frequentava abitualmente chi faceva i film che vincevano i festival di Venezia o Cannes. Come vede oggi il cinema italiano e che differenze trova rispetto a quello conosciuto da ragazzo e in cui poi si è mosso? Dal mio punto di vista la grande difficoltà che vive attualmente il cinema italiano risiede nell’incapacità di offrire una testimonianza di quanto sta accadendo nel mondo giovanile, che tra l’altro dovrebbe costituire il traino maggiore per il successo di un film. L’ultimo giovane regista ad aver raccontato la propria generazione è stato il Gabriele Muccino di una quindicina di anni fa. L’unica gioventù a essere raccontata oggi sul grande schermo è un certo tipo di gioventù marginale che emerge da una serie di film minimali, spesso anche molto simili tra loro e generalmente ambientati nella periferia disagiata romana. Pur essendo prodotte in grande quantità perché ancora capaci di avere un qualche successo popolare, poi, le nostre commedie contemporanee sono spesso moraliste, ideologiche e politicamente corrette, agli antipodi della commedia all’italiana. Chi è rimasto un po’ attaccato a quel modo di immaginare il cinema, ripercorrendo per certi versi il modello incarnato da Totò del re degli ignoranti che guarda il mondo e lo svela con candore facendo ridere, è Checco Zalone. Come funzionava e si articolava il rapporto di lavoro con tuo

fratello Carlo? Era molto più complesso rispetto a quanto emergeva dai titoli. Carlo si occupava della regia, ma io in diverse occasioni lo seguivo sul set, soprattutto quando facevo anche il produttore dei nostri film, e davo un contributo importante al montaggio, una fase in cui Carlo riconosceva la necessità di un distacco rispetto a quanto accaduto durante le riprese. Carlo poi, oltre a fare il regista, scriveva benissimo. In realtà, alla resa dei conti, facevamo quasi tutto insieme fin dalla nascita dell’idea del film, pur dedicandoci io più alla scrittura e lui alla regia. C’è un film in particolare che avreste voluto realizzare? Nel corso dei sessanta film fatti insieme, abbiamo avuto modo di lavorare a tanto di quello che avremmo voluto. Per quanto siamo rimasti nell’immaginario soprattutto per le nostre commedie, infatti, abbiamo realizzato diverse pellicole al di fuori di questo genere. Dopo i notevoli successi di Eccezzziunale... veramente, Sapore di mare e Vacanze di Natale, abbiamo acquisito un potere contrattuale che ci ha subito permesso di variare su altri temi e generi con thriller come Sotto il vestito niente e Mystère, melò come Via Montenapoleone, film storici come La partita con Matthew Modine e Faye Dunaway o film politici come Tre colonne in cronaca con Gian Maria Volonté. Una cosa però ci è rimasta sul gozzo: un nostro grande desiderio era quello di rivisitare lo spaghetti western e una decina di anni fa abbiamo avuto in mano l’ultimo bellissimo soggetto di Sergio Leone, Colt. Abbiamo scritto un soggetto lungo molto avanzato per farne un film, che alla fine non siamo riusciti a realizzare. Il secondo decennio degli anni Duemila è ormai alle porte. Qual è il futuro di Enrico Vanzina? Oggi sento di dover continuare a fare quello che in famiglia abbiamo sempre fatto tutti. Da quando Carlo se ne è andato ho scritto Natale a 5 stelle di Marco Risi e adesso ho da poco finito di lavorare come sceneggiatore e produttore esecutivo a Sotto il sole di Riccione, il film d’esordio del duo YouNuts! che è una specie di rivisitazione contemporanea di Sapore di mare. Per me si è trattato di un’esperienza stimolante perché mi ha permesso di lavorare con un gruppo molto giovane di persone di talento, cui spero di aver dato un valido contributo attraverso il mio bagaglio d’esperienza. Per il resto, continuo a scrivere tantissimo e probabilmente il prossimo anno debutterò come regista.

23


- Fabrique Awards -

IVAN COTRONEO

«QUELLO CHE È DIVENTATO PREZIOSO OGGI È L’ORIGINALITÀ».

IL PROBLEMA DEI GIOVANI SIAMO NOI ADULTI Ivan Cotroneo ha preso molto sul serio il suo ruolo di giurato nella quinta edizione dei Fabrique Awards. L’eclettico regista, sceneggiatore e scrittore si dichiara «contento e orgoglioso» e svela quali criteri ha adottato per valutare le opere e assegnare i riconoscimenti. di VALENTINA D’AMICO

24

Napoletano, classe 1968, Cotroneo ha lavorato come sceneggiatore per Ferzan Özpetek, Maria Sole Tognazzi, Luca Guadagnino, Renato De Maria, Riccardo Milani. Per la televisione ha scritto varie fiction e ha ideato fra l’altro le serie Tutti pazzi per amore, Una grande famiglia, È arrivata la felicità.

P

ersonalmente cerco film capaci di indirizzare il discorso su un piano personale, di raccontare qualcosa di intimo. Non mi interessa il compitino perfetto, voglio essere sorpreso», spiega. La capacità di Ivan Cotroneo di spaziare dal piccolo al grande schermo, dall’arte visiva alla letteratura, precorrendo mode e tendenze senza perdere di vista la centralità dei personaggi, gli ha permesso di costruire una carriera ricca e varia facendone un punto di riferimento nel panorama italiano. E visto che i Fabrique Awards celebrano il cinema giovane, chi meglio di Cotroneo, che ha messo i giovani al centro di tanti suoi lavori, può fornire consigli a chi oggi sogna di avvicinarsi all’industria? Per l’autore di Un bacio e La kryptonite nella borsa questo è «un momento propizio, si cercano sguardi nuovi. In passato aleggiava un pregiudizio sui giovani che ora non esiste più. L’importante è non seguire le mode, non scimmiottare a tutti i costi ciò che ha successo, ma proporre la

propria visione del mondo. Quello che è diventato prezioso oggi è l’originalità». A Ivan Cotroneo stanno tanto a cuore le nuove generazioni da aver posto l’adolescenza al centro di uno dei suoi ultimi successi, la serie televisiva La Compagnia del Cigno, andata in onda su RAI 1 e attualmente disponibile su RAI Play. Ambientazione atipica per la serie, che vede al centro della storia un gruppo di studenti del Conservatorio Giuseppe Verdi di Milano e i loro insegnanti. Tra piccoli e grandi drammi, amori, liti, problemi familiari, la musica è il filo conduttore dello show che ci riporta alla mente modelli illustri come la popolare serie degli anni Ottanta Saranno famosi. «Sicuramente è stato un punto di riferimento importante per me» ammette Cotroneo «così come Glee e Whiplash, ma ho preso questi modelli rovesciandoli in un ambito atipico come quello della musica classica. I miei protagonisti sono minorenni, all’epoca delle

25


FOCUS | ROSSANO MARCHI

Il costume racconta una STORIA di BARBARA LO CONTE Rispetto ad altre figure legate al mondo del cinema, può capitare a volte che quella del costumista passi un po’ in secondo piano. Niente di più sbagliato: si tratta di una professionalità che ha un’importanza fondamentale nella creazione di un personaggio e nella sua messa in scena. Lo sa bene Rossano Marchi,

«IO SONO STATO CAMBIATO DAI FILM CHE HO VISTO E DAI LIBRI CHE HO LETTO».

costumista di cinema e produzioni televisive che vanta anni e anni di esperienza in questo campo. Tra le sue tante collaborazioni, centrale è proprio quella con Ivan Cotroneo, per il quale ha curato i costumi di La kryptonite nella borsa e Un bacio.

riprese i più grandi avevano 16 anni, e studiano musica da 10 anni. Ne La Compagnia del Cigno il mio intento era quello di raccontare una generazione molto maltrattata. Si parla degli adolescenti come di persone incapaci di avere sogni e ideali, ma i miei personaggi sono determinati, abituati a una disciplina ferrea. Dopo Un bacio volevo tornare a parlare dei ragazzi mostrando quanto siano appassionati e attenti al mondo che li circonda, come ci stanno dimostrando con le lotte ecologiche. Il problema dei giovani siamo noi adulti». La scelta di rivolgersi ai giovanissimi, per Ivan Cotroneo, non significa cambiare il proprio stile di scrittura: «L’importante per me era descrivere gli adolescenti con rispetto. Volevo parlare direttamente a loro, mostrare il bullismo e i problemi quotidiani che sono costretti ad affrontare. L’unico accorgimento adottato è stato ricordarci come eravamo noi alla

loro età, ricreare quel sapore di prime volte evitando il paternalismo». L’approccio dello scrittore è diretto, privo

di filtri. D’altronde è lui stesso ad ammettere che il trait d’union tra tutte le sue attività è proprio il desiderio di raccontare storie, riconoscendone la capacità di influire sull’esistenza degli individui: «Io sono stato cambiato dai film che ho visto e dai libri che ho letto. Sento il bisogno di narrare per raccontare i problemi degli altri».

Il potere universale del racconto attraversa ogni creazione, ma dietro l’aspetto romantico c’è un’industria di cui Ivan Cotroneo sembra conoscere a menadito i meccanismi. Intervenendo nella polemica sull’egemonia dei cinecomic, l’autore di La kryptonite nella borsa ‒ cinecomic “ante litteram” ‒ spazza via i preconcetti e puntualizza: «Non sono un fan. Ho apprezzato la serie The Boys o i primi film sugli X-Men, che contenevano messaggi molto forti sulla diversità e l’accettazione, mentre ho trovato Aquaman molto deludente. Ma ogni film parla per sé. Il vero problema è legato all’invasione di questi film che tolgono spazio a tutto il resto. Per arginare questo marketing aggressivo serve un sistema che aiuti i film a restare in sala garantendo delle quote di mercato, come accade in Francia». Un discorso simile riguarda la diffusione delle piattaforme streaming che però «garantiscono una richiesta sempre maggiore di contenuti e nuove opportunità per gli autori. Il mercato è in continua evoluzione, fino a pochi anni fa alleanze come quella tra RAI ed HBO sarebbero state impensabili». In questo panorama così mutevole, che cosa riserva il futuro lavorativo di Ivan Cotroneo? «Sto preparando la seconda stagione de La Compagnia del Cigno, che dirigerò come ho fatto con la prima. Al momento ci stiamo occupando del casting dei nuovi personaggi».

Due i film che Cotroneo firma come regista per il grande schermo: La kryptonite nella borsa e Un bacio.

26

Qual è stato il tuo percorso professionale? Ho iniziato con studi legati alla moda e poi sono stato affascinato dai costumi d’epoca. Unendo queste passioni sono arrivato alla creazione del costume cinematografico. Prima di diventare costumista titolare però ho fatto una gavetta molto lunga: ho cominciato facendo le tinture per i tessuti, poi pian piano sono diventato assistente e ho ricoperto questo ruolo per vent’anni prima di diventare costumista titolare. È una cosa a cui tengo molto, perché oggi che il lavoro è cambiato non tutti i costumisti hanno la fortuna di fare una gavetta così lunga.

Nella tua carriera spiccano numerose collaborazioni con Ivan Cotroneo. Come è nata e come si è consolidata l’intesa creativa tra voi? L’incontro con Cotroneo è nato all’interno di una produzione Indigo. Avevo appena finito di lavorare a Il gioiellino e la produttrice Francesca Cima ha ben pensato di presentarmi a Ivan, che stava preparando La kryptonite nella borsa. Dopo questo incontro la nostra collaborazione ha preso forma e vita, ci siamo trovati subito d’accordo su molte cose anche perché abbiamo un gusto in qualche modo affine.

C’è un abito di scena o un lavoro la cui realizzazione ti ha dato particolare soddisfazione? Il bambino de La kryptonite nella borsa, Peppino, è un personaggio che secondo me è molto riuscito. Ma questo accade perché il nostro è un lavoro corale e riesce solo quando tutto procede al meglio: il cast, i costumi, la recitazione. Il costume serve a raccontare una storia, ma funziona soltanto se coadiuvato da tanti altri elementi. Si può preparare un abito bellissimo ma se il personaggio o l’interprete non sono quelli giusti il costume non svolge la sua funzione a pieno.


- Arts -

Una profonda consapevolezza espressiva e personale rende Cristina Portolano una delle fumettiste e illustratrici più interessanti nel panorama italiano. NAPOLETANA, classe 1986, ha da poco pubblicato per Centauria una biografia a fumetti del di MARCO PACELLA pittore irlandese Francis Bacon, ma, Tavole tratte dal volume Francis Bacon. La violenza di una rosa, edizioni Centauria, 2019.

(AUTOBIO)GRAPHIC NOVEL come la sua bibliografia dimostra, non ha problemi a raccontare sulle pagine disegnate anche la parte più intima di sé stessa. Com’è nato l’interesse per Francis Bacon e qual è più in generale il tuo rapporto con l’arte contemporanea? È nato in un viaggio che ho fatto a Dublino, un anno fa, dove ho visitato la ricostruzione del suo studio londinese alla Dublin City Gallery The Hugh Lane. Tornata in Italia ho “intercettato” l’interesse di Centauria nel commissionare una biographic novel su di lui. Il mio rapporto con l’arte contemporanea è buono ma discontinuo: mi affascinano tutti i movimenti nati durante i decenni del dopoguerra e ognuno ha qualche artista che mi ha lasciato qualcosa. Oltre Freud e Bacon, che ammiravo molto anche prima di fare il fumetto, mi piacciono Mario Sironi, Edward Hopper, ma anche Claude Cahun, César Manrique. Credo che chi fa fumetti debba nutrirsi di altre immagini, di altri disegni, performance, installazioni e di tutto ciò che alimenta un pensiero critico. Noi siamo soltanto il prodotto di tutte le opere del passato e non possiamo fare a meno di accettare questa condizione. Essere la somma di ciò che abbiamo visto e vissuto. Quali sono invece i tuoi riferimenti nel mondo del fumetto? Tantissimi. Sono cresciuta negli anni ’90 con i Manga giapponesi di autori come Ai Yazawa, Naoko Takeuchi, Akira Toriyama, Clamp, Masakazu Katsura. Poi fumetto dopo fumetto sono inciampata nella rivista Kappa Magazine che mi ha dirottata su Mondo Naif e da lì mi si è aperto un mondo di autori come Vanna Vinci, Davide Toffolo, Otto Gabos, Andrea Accardi, Marjane Satrapi. A Bologna, dove mi sono trasferita per frequentare l’Accademia di Belle

28

Arti, ho conosciuto altri illustratori del calibro di Igort, Gipi, Lorenzo Mattotti, Gabriella Giandelli, Daniel Clowes, Phoebe Gloeckner, Rutu Modan, David.B e negli ultimi anni ho scoperto il Gekiga con Yoshihiro Tatsumi, Shin’ichi Abe, Tsuge, ripubblicati in Italia da Canicola. Con Bacon ti sei occupata della biografia di un personaggio celebre, ma il tuo lavoro dimostra anche una grande capacità nel raccontare te stessa, da Quasi signorina a Non so chi sei. Quali sono state le difficoltà nell’affrontare il racconto autobiografico? A vent’anni mi hanno segnata molto autori autobiografici nordamericani come Seth, Joe Matt e Chester Brown, quindi per me è naturale raccontarmi. Anche quando si tratta delle vite degli altri c’è sempre un po’ di te, o almeno questo è lo spirito con cui affronto le biografie. Nel raccontare me stessa, invece, il procedimento è semplice ma complesso allo stesso tempo, poiché il materiale da selezionare è tanto e spesso la realizzazione è una sorta di terapia, di psicoanalisi. Le difficoltà che ho riscontrato, nell’autobiografia ma non solo, sono relazionali. Devi stare attento a non offendere nessuno se decidi di raccontarlo/rappresentarlo, e questo vale sia per i personaggi principali sia per le “comparse”. Poi spesso in pubblico ti ritrovi a spiegare che se per te non è un problema raccontare determinate cose della tua vita non deve esserlo per gli altri. Non avrei mai raccontato qualcosa che non volevo si sapesse. Sono consapevole dell’uso che faccio dei personaggi e delle conseguenze che questo può avere e me ne assumo ogni responsabilità. Nel corso del tempo, oltre a un ampliamento dei contenuti, i tuoi libri sembrano essere mutati anche nell’aspetto grafico, in un

percorso che mi sembra più legato all’essenzialità del segno e alle precise scelte cromatiche. Come è cambiato, se è cambiato, il tuo approccio al lavoro nel corso del tempo? Ogni libro ha bisogno di un suo stile grafico specifico. Faccio molta ricerca prima e mi sforzo di trovare il giusto compromesso tra un segno e una colorazione veloci ma funzionali. Bisogna trovare anche uno stile che rimandi a una certa sensazione che è quella che vorresti emergesse dalla storia. L’approccio ovviamente è cresciuto insieme a me ed è cambiato nel tempo. Prima usavo matite, fogli e china (perché per i progetti e libri lunghi voglio sempre qualcosa di “tangibile”), mentre adesso mi ritrovo a usare anche solo il digitale. La tua storia breve per Post Pink. Antologia di fumetto femminista conferma il tuo interesse nel raccontare, senza censure né timori, tematiche di genere, sessualità, aspetti intimi ma senza dubbio universali. Pensi che da questo punto di vista ci sia una maggiore attenzione nel panorama editoriale del fumetto, sia negli autori che nei lettori? Assolutamente sì. Sono molto contenta che siano nate altre voci che si sono distinte e sono riuscite a emergere in questo senso. Che ci sia attenzione da parte dei lettori lo dimostra sicuramente il grande successo di due giovani fumettiste come Fumettibrutti e Zuzu: entrambe non hanno paura di mostrarsi, raccontarsi e rappresentare il sesso, i sentimenti, i corpi e tutte quelle cose che fino a qualche

anno fa erano tabù. La mia paura è che vengano percepite solo come fenomeni passeggeri e non voci autorevoli da cui, magari, imparare anche qualcosa. C’è qualche progetto interessante in questo senso (Post Pink ne è un esempio) ma sono sempre troppo pochi e isolati. C’è un problema di “percezione”: si ha troppa paura del giudizio degli altri e troppo poco coraggio per dire ciò che si vuole o trattare argomenti scomodi senza demonizzarli o offrire soluzioni facili. Mi piacerebbe un mondo dell’editoria a fumetti italiana con più autrici coraggiose e più editrici temerarie. Da un po’ di tempo hai aperto un canale Youtube in cui parli del tuo lavoro e dai suggerimenti sull’illustrazione e il fumetto. La scelta di comparire in video non è scontata per un disegnatore, come è nata questa esigenza? Il tutto è partito dall’esigenza – e qui ritorniamo all’arte contemporanea – di fare qualcosa di performativo. Mi piace il mio corpo, mi piace interagire con spazi e corpi diversi e sentivo che il disegno, per lasciare la mia testimonianza nel mondo, non bastava. Un giorno mi sono detta che avevo già tutto quello che mi serviva per raccontare agli altri le mie esperienze e dare consigli: una webcam e un canale Youtube! Per questo ho deciso di lasciare le briciole del mio sapere nel tubo e chissà che magari possano servire davvero a qualche aspirante autrice o autore. Ora questa strada mi ha aperto tante possibilità. Ho creato una vera sinergia tra reale e digitale e viceversa.

A sinistra un’immagine da Quasi signorina e a destra illustrazioni per Storie della buonanotte per bambine ribelli 2.

29



CHICKENBROCCOLI È UN SITO PER CHI “AMA ODIARE IL CINEMA”. DAL 2009 RECENSISCE FILM SENZA PIUME SULLA LINGUA. IL CHICKEN È IL FILM BELLO, IL BROCCOLO È IL FILM ORRIPILANTE. CHICKENBROCCOLI CONCILIA IL CINEMA CON L’ILLUSTRAZIONE REALIZZANDO POSTER, MAGAZINE E MOSTRE ITINERANTI. www.chickenbroccoli.it

di SEBASTIANO BARCAROLI

ECCO UN REGALO DI NATALE DIRETTAMENTE DAL MONDO SOTTOSOPRA DELLA SERIE TV PIÙ ACCLAMATA DEGLI ULTIMI ANNI. RITAGLIATE LA PAGINA ACCANTO E IMPACCHETTATECI IL VOSTRO “STRANGER PRESENT”, A CHI LO RICEVERÀ SCOPPIERÀ LA TESTA!

STRANGER THINGS GIFT PAPER (2016) DI MATT E ROSS DUFFER CON WINONA RYDER, DAVID HARBOUR, FINN WOLFHARD, MILLIE BOBBY BROWN

L

e prime parole che ho mai scritto su ST sono state: «Ragazzi. Davvero. Calmiamoci». Oggi, a distanza di tre anni, le riscrivo, le sottoscrivo, le tatuo in fronte al Demogorgone e gli do pure una schicchera su quella capoccia d’orchidea dentata che si ritrova: «Testa sottosopra, che qui fuori è un brutto mondo». Alla sua terza stagione Stranger Things definisce ‒ fierissimo di farlo, e non dovrebbe esserlo ‒ in maniera tracotante tutta la sua smaccata innaturalezza. Non c’è passaggio, non c’è canzone, non c’è outfit (DIO. MIO. LA. SCENA. DELLO. SHOPPING.), non c’è frase, non c’è personaggio, non c’è ammicc ammicc agli anni ’80 che non risulti lezioso e stucchevole. Creato per farne una gif, un post su FB (qualcuno usa ancora FB?), un commento tipo “vorrei che i fratelli Duff controllassero il mondo” MACCOSA?! Ci sono diversi problemi che schiacciano definitivamente ST. Il primo, e più lampante, è che GLI ANNI ’80 HANNO ROTTO I COGLIONI. Ma davvero. Li hanno polverizzati come lo snap di Thanos. Stesso effetto di ceneri che si disperdono al vento, solo che con i nostri coglioni. Gli anni ’80 sono finiti. Sono finiti il 31 dicembre 1989, pensa un po’. E averli riportati in vita così prepotentemente nel 2015 è stato di un egoismo folle. Egoisti noi 40+1enni che vinti dalla nostalgia ci siamo fatti gettare fumo negli occhi e abbiamo assaporato la falsa felicità di mangiare il gelato a forma di pipa, mettere lo scubidù come portachiavi, ascoltare Jovanotti che grida seicoomelamiamotooseipropriocomelei e cercare in cantina la collezione degli Exogini, dei Paciocchini.

Stranger Things è la summa di un egoismo adulto perpetrato ai danni di una generazione che gli anni ’80 non li ha neanche sfiorati. Non è un male assoluto amare un’altra epoca, ma se, come nel caso di ST, il fenomeno diventa di massa, allora sale la preoccupazione. La massa ha decretato il successo di ST e ST ormai non può che darle quello che vuole. È un diabolico uroboro. Un demo-uroboro. Ovviamente me lo sono chiesto anche io: ma la bravura dei fratelli Duff non sta proprio nell’aver creato un prodotto così perfetto? Non è

bravura anche quella? Dare alla gente quello che vuole?

In realtà no. Perché se c’è una cosa che definisce la qualità, l’immortalità, la stupendevolezza, quella cosa è lo stupore. E ST non stupisce mai. Non stupiscono le citazioni ormai insopportabili (Terminator, La storia infinita, Explorers, Magnum P.I.), non i ragazzini marionette nelle mani dei loro agenti e dei loro fashion coach, non la storia horror che si ricorda di essere horror solo nell’ultimo episodio (almeno quello, bello, ma arriva troppo tardi). Madonna, CB, non ti piace mai un cazzo: e fattela una risata. Mi pare di sentirvi.

Ma come posso ammirare un telefilm che NON CRESCE di una virgola, i cui protagonisti sono criogenizzati alla prima

apparizione. 11 fa la stessa mossa con le mani da 24 episodi e gli altri 5 ragazzini hanno vissuto una quantità di traumi che già solo sapere che esiste un Sottosopra, anche senza mostri, basterebbe per essere internati a vita, ma loro, serie dopo serie, resettano tutto quanto visto e vissuto e a ogni nuovo inizio: «Oh. Guarda. Un mostro». Ok che si chiama “serie”, ma insomma… Preparo i guantoni e v’aspetto fuori, lo so che vi ho fatto uscire il sangue dal naso!

LIVIA MASSACCESI Livia Massaccesi ha studiato moda e design specializzandosi in grafica editoriale. Dal 2008 ha lavorato per sei anni come art director nello studio Falcinelli&Co. collaborando con importanti case editrici italiane. Nel 2015 ha aperto il suo studio: si occupa di grafica editoriale, illustrazione, scenografia e art direction di videoclip soprattutto nell’ambito musicale e fashion. Dal 2011 porta avanti il progetto illustrato di ritratti di musicisti. Nel 2019, per la 69esima edizione del Festival di Sanremo, le sono stati commissionati i ritratti dei 24 artisti in gara a corredo della grafica ufficiale di tutte le serate. www.liviamassaccesi.it / IG @ liviamassaccesi

32


- Teatro -

Un intreccio di linguaggi che porta il segno materico dei corpi e ha il coraggio spietato di una scrittura ironica, morbosamente onesta, profondamente umana.

DANTE ANTONELLI

DANTE E MISHIMA

di DORALICE PEZZOLA

Le immagini di queste due pagine sono tratte dallo shooting per la pièce Atto di adorazione, presentata in prima assoluta al Romaeuropa Festival. Ph: Corrado Murlo.

«PER ME IL CORPO SCRIVE LA SCENA, SECONDO PER SECONDO, IN OGNI SUO DETTAGLIO».

A

utore e regista di Atto di adorazione che ha debuttato in ottobre al Romaeuropa Festival, il 35enne Dante Antonelli è una personalità artistica fra le più interessanti della sua generazione: vincitore del Fringe Festival 2015 con lo spettacolo FAK FEK FIK – Le tre giovani (miglior spettacolo, migliore drammaturgia, migliori attrici ex aequo), Antonelli ha fatto del teatro la sua occasione di ricerca per esplorare le obliquità di un presente fortemente contraddittorio. Come hai incontrato il teatro? Da bambino, con la scrittura. Passavo interi pomeriggi a scrivere delle storie che poi volevo mi fossero lette ad alta voce prima di andare a dormire. E con la danza: tutto è cominciato con una porta. Era in legno, decorata con dei vetri colorati, e sopra c’era scritto “danza classica”. Non avevo idea di cosa fosse, ma tornai a casa e dissi ai miei genitori che io avrei «fatto danza classica». Ho continuato fino ai diciannove anni, quindi alla fine dei conti fu un’intuizione! Poi ho iniziato a lavorare come attore. Ero sempre insoddisfatto, così dopo qualche anno ho deciso di rischiare e proporre qualcosa di mio. Ho frequentato l’Accademia Nazionale d'Arte Drammatica Silvio D’Amico come regista, ma ero uno studente difficile: per me la regia è sempre stata soltanto una delle funzioni che creano l’opera. Ti sei formato come danzatore: che ruolo ha il corpo nel tuo lavoro? Per me il corpo scrive la scena, secondo per secondo, in ogni suo dettaglio. Penso che il corpo dell’attore racconti nella sua interezza, dalla postura dei piedi a come interagisce con il luogo del palco, che è sempre un palco-mondo. Facciamo determinati

pensieri se siamo al chiuso e pensieri diversi se stiamo camminando, il cervello è parte del corpo, si muove con esso. I miei primi contatti con il teatro di prosa furono traumatici, mi sembrava che gli attori non facessero niente, stavano seduti per

34

ore e parlavano. Per me, che venivo dalla danza, era impensabile: creare un lavoro aveva sempre voluto dire sudore, lividi, ore di prove sul palco. Credo che, più di qualsiasi soluzione estetica, della danza mi sia rimasto questo: l’approccio al lavoro. Il tuo nuovo spettacolo, Atto di adorazione, è ispirato alle opere dello scrittore giapponese Yukio Mishima. Come ti sei rapportato al suo universo letterario? Quello di Mishima è un universo enorme. Quando ho iniziato e mi sono trovato ad affrontare la marea di testi che ha scritto prima di morire a soli 45 anni, mi sono sentito innanzitutto perso. Poi durante un mio laboratorio ho incontrato due attori molto giovani, Claudio Larena e Giovanni Onorato, che assieme a Pietro Turano e Arianna Pozzoli sarebbero diventati gli interpreti dello spettacolo. Lì è nato quel qualcosa che mi ha portato a scrivere questo lavoro, per loro e con loro. Per me funziona sempre così: gli attori con cui lavoro diventano fonte di ispirazione, motore della mia penna. Sono le persone ad accendermi più che le idee. Atto di adorazione non contiene una sola frase che venga da un testo di Mishima. Penso che oggi mettere in scena dei testi originali sia antistorico. Allo stesso tempo, però, penso che gli autori dovrebbero conoscere la letteratura teatrale a memoria. Il senso di perdita e la questione dell’identità sono temi che ricorrono nei tuoi lavori. Sì. In Atto di adorazione i quattro protagonisti vivono una sorta di esilio. L’esilio in patria è stato un tema portante dell’intero progetto su Mishima, e lo spettacolo è il tentativo di racconto di una generazione che io sento essere molto avanti rispetto ad alcune questioni del sentimento. C’è una rabbia nei protagonisti, soprattutto nei racconti riguardanti la sessualità, che mi sembra fuori dalla narrazione mainstream: sono quattro giovani molto reali perché non molto stereotipati. In questo senso una questione che mi preme

35


©Claudia Pajewski

- Teatro/2 -

«PENSO CHE OGGI METTERE IN SCENA DEI TESTI ORIGINALI SIA ANTISTORICO». molto è quella dell’identità maschile: ho cercato di parlare di ragazzi che raccontino mascolinità diverse, e credo che infine il lavoro sia pieno di un rimosso maschile che ha la sua importanza portare in scena oggi. È un argomento spinoso, tanto più che Mishima è stato accusato, fra le tante cose, di misoginia, ma credo che come società dobbiamo con urgenza affrontare il tema del maschio. Non nel senso di una riaffermazione del patriarcato, ma in quello di una proposta di modelli maschili differenti, esistenziali e identitari. Una proposta di contraddizioni, che sono ciò che rende le persone autentiche, anche in scena. L’identità per me non sta nell’affermazione sistematica: nel finale c’è una separazione, e quello che cerco di raccontare è che i sentimenti più profondi non hanno paura di perdersi. Non temono la fine, ma accettano la fine. È difficile essere un giovane regista in Italia? È bellissimo. Tante persone sono costrette a rinunciare, quindi è bello sentire di essere riuscito a costruire qualcosa. Ma in Italia abbiamo un problema: manca completamente un teatro intergenerazionale che ha fatto grande il teatro in altri momenti della sua storia. Siamo molto divisi per generazioni, e non solo a teatro.

importante che il teatro abbia la sua dimensione specifica e non rincorra il cinema. La commedia dell’arte e la tragedia greca, per citare due fra i più grandi esempi di linguaggi teatrali della storia, non sono cinematografici. Non lo possono essere: hanno bisogno del coro, della presenza fisica, del corpo nella sua integrità che racconta dalla testa ai piedi, degli spettatori là davanti. Forse per questo motivo ho una passione segreta per tutti i registi che lavorano molto con gli attori. Un esempio? Sidney Lumet: quando ho letto di come lavorava sono rimasto incantato dall’idea che anche gli operatori, i macchinisti, tutti stessero per mesi in un capannone a fare le prove con gli attori. Certo, la soluzione nasceva per poter girare infine tutto in una settimana e risparmiare una quantità di pellicola incredibile, ma alla fine dei conti quel film diventava una performance unica. A cosa serve il teatro, nel 2019? La risposta, atroce, è che se anche tutti noi rinunciassimo a farlo, resisterebbe. Come ha detto qualcuno meglio di me, il teatro è

una dimensione dell’umano. Noi potremmo anche decidere di smettere di fare teatro tutti quanti, tutti insieme, domani mattina: il teatro non cesserebbe comunque di esistere.

©Piero Tauro

Qual è il tuo rapporto con il cinema? Sono uno spettatore seriale, posso vedere anche due o tre film al giorno. Per quanto riguarda il lavoro, però, credo sia molto

©Valentina Mameli

©Ugo Salerno

FRANCESCO DI LEVA

Optatem. Foto degliIta spettacoli voluptatem che re, compongono quos etur magnihilit la Trilogia mi, Werner tem accatius Schwab: estion FAK FEK cullanis FIK –verem le tre giovani rehent., Duet e Santo subito.

36

HO PRESO EDUARDO A CAZZOTTI Espressione di una personalità artistica multiforme, Francesco Di Leva si fa portavoce di un modo di rapportarsi al lavoro attoriale concreto e impegnato. Per questo, il protagonista de Il sindaco del Rione Sanità mantiene vivo il rapporto con i suoi luoghi d’origine grazie anche all’esperienza coltivata con il NEST – Napoli Est Teatro. di CARLOTTA GUIDO foto di MARIO SPADA Quanto hai portato al cinema dell’esperienza teatrale con il NEST per la messinscena de Il sindaco del Rione Sanità? Il sindaco del Rione Sanità ha visto la partecipazione di alcuni dei ragazzi che si stanno formando al NEST al fianco di attori professionisti fra i quali Adriano Pantaleo e Giuseppe Gaudino, che fanno parte della compagnia NEST. Il Napoli Est Teatro nasce il 7 gennaio di dieci anni fa a San Giovanni a Teduccio, dove sono nato e cresciuto, ed è stato frutto dell’occupazione di una palestra abbandonata della mia ex-scuola – dove guarda caso avevo cominciato a fare teatro – per far sì che questo diventasse luogo di aggregazione culturale e teatrale. Per questo devo ringraziare in special modo gli abitanti del mio quartiere che mi hanno sempre supportato e soprattutto Ciro Zinno che ha reso possibile la creazione di quella che io chiamo alternativa. Questa alternativa si proponeva la creazione di una compagnia vera e propria nata dall’esperienza dello spettacolo firmato da Roberto Saviano e Mario Gelardi Gomorra (2007). Radunati Pantaleo, Gaudino, Giuseppe Miale Di Mauro e Andrea Vellotti andammo in scena con il nostro primo spettacolo Bianco polvere nel 2009. Il primo intento che ci eravamo prefissati era certamente quello aggregativo, una necessità che andasse anche oltre il concetto del fare teatro: un posto per conoscersi, dialogare e allontanarsi – dico questo senza alcuna retorica – dalla strada e da luoghi che non mettessero le persone in relazione pacifica tra loro. Sono molto soddisfatto dell’attività del gruppo perché grazie al NEST molti ragazzi hanno deciso di intraprendere la carriera teatrale e hanno avuto l’occasione di entrare finalmente nel mondo del lavoro.

Qual è il tuo rapporto con Mario Martone dopo le numerose esperienze teatrali e cinematografiche condivise? Ho incontrato per la prima volta Mario Martone venti anni fa quando lavoravo ancora come panettiere, in occasione di un corso di formazione a Ischia. Abbiamo subito cominciato

a collaborare e da quel momento non ci siamo più lasciati. Ultimamente siamo diventati ancora più affiatati e, devo dire la verità, non mi piace raccontare di Mario Martone come è oggi, perché oggi è un amico, un artista, un padre artistico, un collega che stimo moltissimo. Mi piace parlare di quello che lui è stato per me soprattutto all’inizio: si è rivelato fondamentale per la mia crescita artistica e personale, per la realizzazione del NEST, un vero punto di riferimento. Come ti relazioni con la tradizione teatrale napoletana? I grandi autori sono dei profeti per noi, ma a me interessa renderli con un’ottica diversa, innovativa, vedere quello che volevano raccontare in quel momento storico e scoprire se ha un’attinenza con il mondo che mi circonda. Nel Sindaco del Rione

Sanità si vede benissimo: abbiamo scelto il testo di Eduardo De Filippo e cominciato a prenderlo letteralmente «a cazzotti». Per questo penso che ogni forma d’arte sia un atto politico: se con Martone abbiamo deciso di mettere in scena Il sindaco è perché c’è un fenomeno enorme che attanaglia la nostra civiltà, la nostra città e la nostra società che è, ad esempio, l’abbassamento dell’età dei criminali.

Francesco Di Leva sarà a breve protagonista dell’opera prima di Paolo Cipolletta, con la produzione di Alessandro Riccardi per Vargo Film.

37


- Zona Doc -

Il documentario ricostruisce la tragica avventura delle truppe italiane mandate allo sbaraglio in Unione Sovietica da Mussolini, con la promessa di tornare presto vincitori.

IL VARCO

UNA MACCHINA DEL TEMPO

P

resentato alla scorsa edizione della Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia, nella nuova sezione Sconfini, e uscito in sala con Cinecittà Luce a metà ottobre, Il varco è il secondo lungometraggio che Federico Ferrone e Michele Manzolini dirigono insieme dopo Il treno va a Mosca. Il progetto del film nasce intorno al gruppo bolognese

attivo tra Home Movies, Archivio Nazionale del Film di Famiglia, e la cooperativa di produzioni cinematografiche Kinè, in special modo al suo principale

animatore, Claudio Giapponesi. Ferrone e Manzolini ‒ entrambi poco meno che quarantenni ‒ si conoscono negli anni dell’università e pur avendo chiare fin dal principio aspirazioni cinematografiche legate alla sperimentazione estetica e narrativa, al termine degli studi (Scienze Politiche e Storia per Ferrone, Scienze della Comunicazione per Manzolini) iniziano a collaborare lavorando sul cinema documentario d’impegno sociale (Merica!, 2007). Il primo lungometraggio è già una netta deviazione: Il treno va a Mosca ‒ anch’esso prodotto da Kinè e distribuito da Cinecittà Luce nel 2013 ‒ usa le immagini di un cineamatore per costruire un racconto che tenta la suggestione, l’allusione, la stratificazione, considerando i filmati d’archivio nell’ottica dell’artista che crea reimpiegando materie e materiali di recupero. Quasi quattro anni fa all’Archivio Home Movies giunge da parte dell’Istituto Luce la proposta di lavorare a una coproduzione nella

Il secondo lungometraggio di Ferrone e Manzolini torna a lavorare sugli archivi costruendo un racconto poetico che mette in risonanza le spirali della Storia. di SILVIO GRASSELLI

«UN RACCONTO SULLA GUERRA COME AVVENTURA “NORMALE” E TRAGICA, IRRAZIONALE E LANCINANTE». Il varco è liberamente ispirato alle vite e ai diari dei militari Guido Balzani, Remo Canetta, Enrico Chierici, Adolfo Franzini, Nuto Revelli, Mario Rigoni Stern.

38

39


Il protagonista è un soldato italiano di madre russa la cui memoria individuale diventa memoria collettiva che accomuna le sorti di tutti i soldati in guerra.

quale si versino le immagini delle due immani raccolte. Ferrone e Manzolini, che sono già all’opera in cerca del nuovo progetto da realizzare, vengono contattati da Giapponesi per lavorare al progetto. Così prima di condensare qualsiasi traccia narrativa, qualsiasi suggestione precisa, inizia una ricerca lunga due anni guidata da un solo riferimento certo: il periodo storico delle riprese da visionare, dagli anni Venti ai Quaranta. Al termine di questo lungo periodo di scavo e raccolta Ferrone e Manzolini decidono di concentrarsi su alcuni elementi che emergono dalla loro indagine aperta: sarà

un film sulla guerra; sarà centrato sui materiali scoperti nei fondi Franzini e Chierici, due soldati cineamatori scampati alla campagna di Russia e tornati in patria con un cospicuo bagaglio di pellicole girate lungo il viaggio e nei luoghi dell’avanzata verso il fronte russo; non sarà un documentario su questo

o quell’episodio storico precisamente rievocato e ricostruito, ma un racconto intimo dai contorni sfumati e dalla forma libera, non vincolato al calco pedissequo e pedante dei dati storici. Inizia allora la lavorazione vera e propria che segue tre diverse direttrici operative, quasi perfettamente sincrone, reciprocamente influenzate e guidate l’una dall’altra: i materiali raccolti vengono lentamente ordinati in una forma-racconto da un lavoro di montaggio, messo in opera insieme alla montatrice Maria Fantastica Valori, che si sviluppa come un primo processo di (ri)scrittura; Wu Ming2 ‒ già coinvolto, come sceneggiatore, in altre due recenti produzioni Kinè, Formato ridotto e L’uomo con la lanterna ‒ inizia ad abbozzare il profilo coerente di un personaggio immaginario che sintetizzi le storie raccolte e selezionate setacciando decine e decine di diari di guerra; infine il musicista e sound designer Simonluca Laitempergher compone, per lo più senza neppure conoscere la traccia visiva sulla quale saranno sovrapposte, le discrete linee musicali che innervano e sorreggono il film finito. Il filo esile del racconto ripercorre ‒ dal punto di vista di un vago presente ‒ fasi diverse di un passato di guerra e di pace non meglio specificato, nel quale il protagonista ricorda la sua partecipazione alle guerre coloniali in Africa, prima della sua avventura lungo le

rotte verso il Donbass. A cadenzare, e quasi incorniciare una volta di più, mettendo in un ulteriore abisso di tempo distante, i racconti del protagonista, due serie diverse di materiali: da una parte le immagini girate negli anni Venti dal pittore Guglielmo Baldassini, rovinate dal tempo e ridotte allo sfarfallio di vaghe indistinte figure, sovrapposte all’unica voce femminile, la voce putativa della madre del protagonista che racconta una fiaba tradizionale russa (Il soldato o disertore e il diavolo); dall’altra le riprese “nuove”, raccolte nel tempo presente nei luoghi attraversati dal viaggio dei soldati del passato verso il fronte, di nuovo travagliate, oggi, dalla guerra (il conflitto del Donbass tra autonomisti ucraini e secessionisti filorussi). Il varco è un diario intimo che contempera in un equilibrio perfetto densità e intensità letterarie della parola con la forza evocativa e suggestiva delle immagini; aperta e fatta per così dire fiorire nell’immaginazione dello spettatore grazie a una colonna sonora essenziale ma finemente tessuta di musica e di suoni. Sul resto domina la voce del protagonista invisibile, un fantasma che sembra viaggiare nel tempo oltre che nello spazio; a interpretare il testo frutto del lavoro svolto insieme a Wu Ming2 il musicista, cantante, scrittore e attore Emidio Clementi.

Il varco è questo complesso congegno cinematografico e molte altre cose ancora. È una macchina del tempo che incessantemente mostra il mondo come cumulo di strati d’immagini e di Storia, di storie, collegati in un vortice che non smette di girare su se stesso. È un racconto sulla guerra come avventura “normale”

e tragica, irrazionale e lancinante che segna la corsa del mondo e squarcia dal di dentro le vite di chi l’attraversa suo malgrado. È una partitura audiovisiva che esplora le sterminate potenzialità del cinema, del documentario inteso come approccio libero all’arte che monta le altre arti. È un saggio sul raccontare oggi riscrivendo, riformulando, rimodellando pezzi di tempo incisi nel passato, facendoli rivivere dentro una seconda forma, una seconda vita, mettendoli in risonanza e facendoli vibrare delle universali emozioni nelle quali gli occhi dei soldati di ieri si specchiano in quelli dei soldati di oggi.

«UNA PARTITURA AUDIOVISIVA CHE ESPLORA LE STERMINATE POTENZIALITÀ DEL CINEMA».

Ferrone e Manzolini si interrogano sulle sorti dell’Ucraina, tuttora teatro di scontri bellici, e istituiscono un interessante parallelo tra il presente e il percorso seguito dal corpo di spedizione italiano nel ’41.

40


a non scrivere, ma sai com’è con l’ispirazione… No. Non puoi fermarla. Soprattutto quando di mezzo ci sono gli uomini. Ecco. Io sono stata fortunata con le storie d’amore, anzi, forse sono stata più stronza io di loro. Ma come autrice e cantautrice mi ritrovo a essere una portavoce. Amiche e conoscenti mi raccontano i loro vissuti, le loro relazioni, spesso finite male per colpa dei comportamenti di voi uomini.

OLIVIA >>> Olivia ha un caschetto nero deciso, un taglio netto che inquadra la sua faccia e la sua personalità. Un tatuaggio sullo sterno, come un campanello di allarme per gli sguardi indiscreti, e i suoi occhi che ti guardano con un sorriso amaro, come a dire: “Voi maschi…”. Si ha immediatamente la percezione di una cantautrice in grado di registrare tutto quello che vede e capta, per poi riproporlo in melodia, armonia e testi. E che il tema “uomini” è uno delle sue principali fonti di ispirazione. Per questo lo evito. Quando ti sei accorta di scrivere canzoni in grado di toccare altre persone? È stato tanto tempo fa a un concerto all’Asino Che Vola [storico locale di Roma, ndr]. Ero ai primi live e alle prime incertezze come cantautrice. Finisco il concerto con un mio brano, Cara Stella, il primo che

42

Un formidabile talento nella scrittura di canzoni con un debole per gli “inutili”uomini.

abbia mai composto, e appena toccata l’ultima nota, una signora che era nel pubblico si alza e viene verso di me con le lacrime agli occhi. All’inizio non sapevo come interpretare il suo stato d’animo, poi mi abbraccia dicendomi che quella canzone le aveva evocato un ricordo potentissimo e che non era stata in grado di trattenere le lacrime. E non era un’amica o una parente! Non mi sembri una compositrice che si alza la mattina e scrive dalle 9 alle 17, con annessa pausa pranzo. Come funziona la tua ispirazione? Arriva sempre, sempre, sempre nei momenti meno opportuni. Se mi metto al pianoforte, come hai detto tu dalle 9 alle 17, non esce nulla; poi scendo e vado al mercato, ed ecco che mi arriva una melodia, e sono lì in mezzo, con i carciofi da una parte e i pomodori dall’altra. Scrivere

canzoni è un bisogno, come la pipì; quando arriva lo stimolo la devi fare. Quello del mercato è un esempio inventato? Una volta io e una mia amica abbiamo organizzato una festa, abbiamo invitato tuti i nostri amici e siamo andate a fare la spesa. Tra uno scaffale di biscotti e uno di conserve leggo una frase su una confezione, ho fatto un’associazione di idee ed ecco che mi arriva una botta di calore alla testa: l’ispirazione! Mollo la mia amica al supermercato con tutte le buste, scappo a casa per tradurre il lampo in musica. Quando ho finito è già notte e raggiungo la mia amica alla festa con la canzone già pronta intitolata Leggera. E dove ti ha portato quell’associazione di idee? A un testo autobiografico, molto intimo, che forse avrei fatto meglio

Ma hai detto di essere stata fortunata con gli uomini. Adesso non sto soffrendo, vero, ma perché non ho nessuno, quindi sto bene. L’altro giorno una mia amica mi ha raccontato che è stata lasciata dal proprio ragazzo e l’ho odiato, tantissimo, come fosse accaduto a me. Quindi per te gli uomini sono come le zanzare. Da qualche parte ho letto che le zanzare, almeno, servono a qualcosa.

Styling: Stefania Sciortino

©Ph: Foodarly

Ma non volevo… Sembra che il mondo vada in una certa direzione, ben precisa. E io mi ci riconosco; e anche se non lo vivo in prima persona è qualcosa che mi fa arrabbiare.


- Focus / Diritto d'autore -

IL PLAGIO

«Non vedo l’utilità di scrivere canzoni tue quando puoi fregare quelle degli altri». Così Noel Gallagher rispondeva a chi lo criticava di “rubare” dai Beatles. Non tutti hanno la prontezza ed il sarcasmo dell’ex leader degli Oasis per controbattere accuse di plagio e, soprattutto, non tutti hanno il suo buon gusto nella scelta degli autori da copiare. di CATERINA NICCOLAI*

C

ritiche di plagio non hanno riguardato solo figure eccellenti della musica, ma anche del cinema. Uno su tutti Steven Spielberg, il cui E.T., a parere del regista e scrittore indiano Satyajit Ray, non sarebbe stato possibile senza la sua sceneggiatura di The Alien (film mai realizzato) tratta dal suo racconto Bankubabur Bandhu (L’amico di Banku Babu) che descrive l’amicizia tra un ragazzo bengalese e un extra-terrestre.

Ma quando un’accusa per quello che è il più screditante illecito per un artista può dirsi fondata? Il termine plagio ha origine antiche, deriva dal latino plagium (riduzione in schiavitù o furto di schiavo altrui). Il primo ad averlo utilizzato in ambito letterario, con il significato di appropriarsi di un’opera altrui, pare essere il poeta latino Marziale nel I secolo d.C., quando si lamentava di un rivale che avrebbe letto in pubblico i suoi versi spacciandoli per propri. Oggi il termine plagio ha acquisito un significato più ampio, identificando sia l’appropriarsi della paternità di un’opera altrui, copiandola in tutto o in parte (plagio in senso stretto), ma anche riproducendola in modo sostanziale apportando differenze di mero dettaglio, frutto non di una elaborazione creativa, ma del mascheramento di una imitazione per rendere irriconoscibile l’opera originaria (plagio/ contraffazione). Pertanto, quel che configura il plagio è l’esistenza in un’opera dei tratti essenziali caratterizzanti un’opera antecedente, anche se l’opera successiva presenta differenze marginali, ossia tali

da non stravolgere la natura, la struttura drammaturgica e le finalità dell’opera originaria. In sostanza, si ha plagio quando l’opera

successiva riprende l’originale idea di fondo dell’opera originaria, facendone proprio il concetto e il senso generale e la

sviluppa in forme analoghe di rappresentazione con la creazione di somiglianze, talora puntuali, negli elementi essenziali quali: i personaggi, la loro caratterizzazione psicologica e sentimentale, la sequenza degli eventi, lo svolgimento temporale del fatto, l’atmosfera, le inquadrature, i dialoghi e così via. Non si ha, invece, plagio e/o contraffazione quando un’opera presenti in comune con altra preesistente il solo motivo ispiratore o abbia alla base la medesima idea o tema. Ammettere il contrario significherebbe, ad esempio, non poter scrivere commedie sentimentali perché tutte basate sul medesimo tema dell’amore, o non si potrebbe avere più di un film tratto da fatti di cronaca realmente accaduti. Tali temi sono invece appropriabili da chiunque, a patto che vengano sviluppati nell’opera successiva con significato, struttura e finalità differenti da quella precedente. Ne è testimonianza la tragedia del Titanic, la cui storia è stata raccontata in ben diciotto film, tutti leciti, in quanto diversi. Non è

vietata la riproduzione e/o la rielaborazione dichiarata e/o comunque esplicita di un frammento di un’opera altrui se costituisce una citazione. Di questo è maestro Quentin Tarantino, la cui immensa conoscenza cinematografica

* Avvocato, specializzata in diritto della proprietà intellettuale e industriale, con principale attenzione al diritto d'autore in ambito cinematografico e televisivo. caterina@niccolai.eu

44

gli ha permesso di omaggiare nei suoi film alcune scene di opere di cui è appassionato o che lo hanno influenzato. Anche nel suo ultimo film C’era una volta a … Hollywood non sono mancati omaggi alle sue passioni. Lo stesso titolo è un chiaro rimando al C’era una volta in America di Sergio Leone e, nella colonna sonora, sono state inserite alcune musiche provenienti da b-movie western. Esclude l’illecito anche l’elaborazione di un’opera effettuata con intenti parodistici. La parodia consiste nella ripresa di un’opera altrui di cui si conserva, in modo più o meno ampio, la forma esteriore, ma se ne stravolge il senso per finalità comiche o satiriche, conferendo all’opera successiva un significato completamente diverso dall’opera parodiata. L’opera parodistica non è quindi una rielaborazione creativa, ma un’opera autonomamente tutelata, la cui liceità prescinde dal consenso del titolare dei diritti dell’opera originaria. L’illecito di plagio è molto difficile da dimostrare, incombendo sul danneggiato l’onere di provare non solo la riproduzione abusiva della propria opera, ma anche che l’autore dell’illecito aveva avuto conoscenza di quest’ultima. Per questo motivo sono pochi i casi che finiscono in tribunale e in cui un giudice ne ritiene provata la sussistenza. Ne sanno qualcosa i fratelli Duffer, creatori

dell’acclamata serie Stranger Things, che hanno rischiato di essere trascinati in tribunale dal regista Charles Kessler con l’accusa di aver copiato il suo cortometraggio del 2012 dal titolo Montauk ispirato al cosiddetto Montauk Project: una presunta serie di esperimenti governativi volti a sviluppare una guerra psicologia che si sarebbero tenuti nella località di Montauk, negli Hamptons. Il processo non ha mai avuto inizio. Kessler ha ritirato la denuncia, avendo i Duffer dimostrato di aver iniziato i lavori della loro serie prima del 2012; inoltre, sebbene la stessa fosse originariamente intitolata Montauk, i Duffer hanno sempre sostenuto che chiunque conoscesse un po’ di leggende metropolitane aveva sentito parlare del Montauk Project, venuto alla ribalta proprio in quegli anni ’80 omaggiati in Stranger Things. In conclusione, chiunque venga accusato di plagio si troverà in buona e più che autorevole compagnia. Del resto, che ciascun artista, nel realizzare i propri lavori, venga fortemente ispirato dai riferimenti culturali che lo hanno segnato, è naturale: tuttavia deve fare attenzione a rielaborarli nella propria opera conferendole un significato autonomo e diverso rispetto alle proprie ispirazioni. Come infatti disse una volta Albert Einstein, «il segreto della creatività è nel saper nascondere le proprie fonti».

FABRIQUE HA CHIESTO A UN’ESPERTA DEL SETTORE DI SPIEGARE CON CHIAREZZA QUALI SONO LE COSE DA SAPERE SUL DIRITTO D’AUTORE: QUESTO È IL SECONDO ARTICOLO DELLA SERIE. SECONDA PARTE / continua nel prossimo numero di Fabrique

45


- Attori -

CITTÀ ETERNA Celebriamo Roma, il suo fascino antico e sempre nuovo, in un modo davvero speciale: nella location dei teatri di posa di Cinecittà. Qui, dove si girano i kolossal di Hollywood, tra gli scorci di un colonnato e di un tempio più veri del vero, i giovani talenti di Fabrique giocano con la storia e con il ricordo dei favolosi peplum anni ’60. fotografo RICCARDO RIANDE stylist ALLEGRA PALLONI trucco: SARA CAMPILI@IDLMAKEUP capelli: EDOARDO LUISINI@HARUMI brand ROI DU LAC (uomo); RECLOSED (abiti donna), DAMIANO MARINI (scarpe donna) special thanks ISTITUTO LUCE - CINECITTTÀ SRL

46

47


FRANCESCO DI RAIMONDO Ho 26 anni e sono nato a Roma. Mi avete visto in: Belli di papà di Guido Chiesa, Romanzo famigliare di Francesca Archibugi, I Medici - seconda stagione. Mi vedrete in: Made in Italy regia di Luca Lucini e Ago Panini.

«THE MAGIC MOMENT IS COMING».

Il mio rito scaramantico: Faccio tre respiri profondi a occhi chiusi ed entro in scena.

LIA GRIECO Ho 25 anni e sono nata a Roma. Mi avete visto in: Gabbia d’amore, cortometraggio vincitore al Roma Web Fest, nel videoclip Tommaso del cantautore Fulminacci, nel Cyrano de Bergerac al Teatro Eliseo e negli spettacoli diretti da Fabrizio Arcuri La riunificazione delle due Coree e One day. Mi vedrete in: Luna nera, serie Netflix, e a gennaio in uno spettacolo per la regia di Andrea Collavino al Teatro India e al Teatro di Bolzano. Il mio rito scaramantico: Di solito mi guardo allo specchio e faccio una faccia particolarmente brutta e agguerrita; più che un rito è un modo per darmi coraggio e soprattutto mi aiuta a non prendermi troppo sul serio.

MICHELE MORRONE Ho 29 anni e sono nato a Bitonto. Mi avete visto in: Nella serie Sirene e nel film Bar Giuseppe di Giulio Base in concorso alla Festa del Cinema di Roma. Mi vedrete in: Un progetto internazionale, una trilogia ancora top secret, nella quale ho il ruolo di protagonista. A gennaio sarò al cinema con Duetto di Vicente Amorim, una coproduzione internazionale accanto a Giancarlo Giannini. Il mio rito scaramantico: Non ho un vero e proprio rito, ma prima di entrare in scena mi torna sempre in mente la frase che Marlon Brando ripeteva prima del ciak: The magic moment is coming.

48

49


ELENA RUSCONI Ho 27 anni e sono nata a Milano. Mi avete visto in: Ho lavorato principalmente in America perché a diciotto anni mi sono trasferita a New York dove mi sono diplomata alla Stella Adler. Ho fatto tanto teatro e un paio di film indipendenti e ho preso parte alla serie di ABC The Catch. Ho anche una piccola parte nella seconda stagione de I Medici. Mi vedrete in: A fianco di Ryan Reynolds in 6 Underground, il nuovo film di Michael Bay su Netflix. Il mio rito scaramantico: Ne ho tanti e cambiano spesso a seconda del contesto. Ultimamente quando sono agitata guardo un video di mia nonna che balla Blurred Lines di Robin Thicke; la filmo spesso, è un’attrice nata. I suoi video mi mettono grinta e positività e mi ricordano che non ci si può prendere troppo seriamente.

GIULIA TODARO Ho 22 anni e sono nata a Palermo. Mi avete visto in: Nella serie L’isola di Pietro, nei film Loro di Paolo Sorrentino, Nessuno come noi e L’agenzia dei bugiardi di Volfango De Biasi. Mi vedrete in: Lettera H di Dario Germani, nel mio primo ruolo da protagonista, e in un nuovo lungometraggio come coprotagonista insieme a Daniela Poggi. Il mio rito scaramantico: Per i provini ho un capo d’abbigliamento portafortuna che indosso sempre; prima del set invece mi rilasso ascoltando della musica ed è quasi sempre Nuvole bianche di Ludovico Einaudi.

RICCARDO MANERA Ho 25 anni e sono nato a Genova.

«NON CI SI PUÒ PRENDERE TROPPO SERIAMENTE».

Mi avete visto in: Incompreso nel 2001, poi sono passati un po’ di anni prima che tornassi a recitare per la televisione nella serie Il silenzio dell’acqua e poi in Volevo fare la rockstar. Mi vedrete in: Vivi e lascia vivere e nella seconda stagione de Il silenzio dell’acqua. Il mio rito scaramantico: Spero sempre ci sia un bar nelle vicinanze per prendere un caffè al vetro e liberarmi di ogni pensiero negativo.

50

51


- Making of Gli uomini d’oro è l’opera seconda di Vincenzo Alfieri, dopo l’esordio con I peggiori.

«HO CAPITO CHE AVREI DOVUTO RACCONTARE QUESTA INCREDIBILE STORIA VERA QUANDO L’HO LETTA SU UN ARTICOLO DI GIORNALE».

Fabio De Luigi nella parte dell’impiegato di poste Alvise, tutto casa e famiglia e con una vita apparentemente senza scosse.

VINCENZO ALFIERI

GLI UOMINI D’ORO A cura di DAVIDE MANCA foto di EMANUELE BASILE

Boutique (Gian Marco Tognazzi), couturier con un’insospettabile doppia vita.

52

Matilde Gioli nella parte di Anna.

SINOSSI Torino, 1996. Luigi, impiegato postale con la passione per il lusso e le belle donne, ha sempre sognato la baby pensione e una vita in vacanza in Costa Rica. Quando il sogno si dissolve scopre di essere disposto a tutto, persino a rapinare il furgone portavalori che guida tutti i giorni, con una banda messa su alla bell’e meglio assieme ad alcuni amici. Il piano prevede niente armi e niente sangue: ma il crimine non è per tutti e per degli uomini qualunque si rivelerà un gioco troppo pericoloso.

dei loro piccoli sogni. Soprattutto, quello che mi ha affascinato, è stato scoprire come questi “chiunque” siano stati in grado di mettere a segno un colpo incredibilmente redditizio, armati solo ed esclusivamente della loro astuzia, scoprendo però un’amara verità: il crimine non è per tutti, anche se tutti possono essere criminali. Ed è da questa tesi che io e i miei co-sceneggiatori siamo partiti quando abbiamo cominciato a pensare al film. Volevamo riuscire a creare nello spettatore un riconoscimento immediato con i

NOTE DI REGIA «Ho capito che avrei dovuto raccontare questa incredibile storia vera quando l’ho letta su un articolo di giornale, che parlava di persone comuni, fragili, vittime della loro epoca e

semplice per ottenere dei risultati».

problemi e le aspirazioni dei personaggi, la loro voglia di rivalsa e il desiderio di emancipazione dalla propria condizione economico-sociale, la ricerca della via più

CAST & CREDITS Actors FABIO DE LUIGI, EDOARDO LEO, GIAMPAOLO MORELLI, GIUSEPPE RAGONE, GIAN MARCO TOGNAZZI Regia VINCENZO ALFIERI Sceneggiatura VINCENZO ALFIERI, ALESSANDRO ARONADIO, RENATO SANNIO e GIUSEPPE G. STASI Fotografia DAVIDE MANCA Scenografia ETTORE GUERRIERI Costumi PATRIZIA MAZZON Montaggio VINCENZO ALFIERI Musiche originali FRANCESCO CERASI Produzione ITALIAN INTERNATIONAL FILM CON RAI CINEMA

Fabio De Luigi è un ormai un consolidato interprete delle commedie italiane, fra i suoi ultimi successi 10 giorni senza mamma regia di Alessandro Genovesi.

53


1

2

3

4

5

6

«IL COLORE È STATO GESTITO CON UNA RICERCA CONTINUA DEI TONI FORTI E SATURI».

Nella banda anche un ex pugile, il Lupo (Edoardo Leo), tanti muscoli e poche parole.

7

NOTE DEL DOP Gli uomini d’oro è stato girato con due macchine da presa, un’Alexa mini e un’Alexa XT in Arriraw su formato anamorfico 1:2,39. Si è deciso di impiegare ottiche anamorfiche vintage di fabbricazione americana per riprodurre allo stesso tempo l’estetica di un’epoca passata, quella dell’Italia del nord anni ’90, e la forza espressiva dei western. Il colore è stato gestito con una ricerca continua dei toni forti e saturi il più possibile in scena e poi di riflesso sui corpi dei

protagonisti. I pochi giorni a disposizione per le riprese (6 settimane) hanno imposto di trovare delle soluzioni di ripresa veloci, costruendo artigianalmente alcuni proiettori a luce riflessa il più morbidi possibile ma facilmente posizionabili fuori il fotogramma. Il numero elevato di notti ha reso

indispensabile l’uso delle piattaforme aeree e la costruzione di pannelli riflettenti di grandi dimensioni, in particolare per la scena di inseguimento nel bosco.

8 Foto 1 Robin Crane 9mt con testata remotata miniscorpio. Foto 2 Dolly in con skypanel s60 in asse macchina per macro su occhio “meroni”. Foto 3 Astaboom con flathead tubi freddi, M90 da fuori le finestre su parete. Foto 4 Ultimi ritocchi sul personaggio di Boutique prima della scena. Foto 5 Il Lupo e Alvise al locale Balla coi Lupi. Foto 6 Sequenza a mano nella scena del litigio fra la Gina e il Lupo. Foto 7 Polaris con steadycam a precedere in low mode. Foto 8 Allestimento scena della pioggia esterno alba al Balla coi Lupi, M90 su gru per controluce.

54

Foto 9 Scena del ballo in discoteca con steadycam, controluce con gelatina Full Pink e 5kw riflesso su poliboard per incarnato.

Foto 10 Camera Car a due macchine.

55


- VFX -

«LA PIÙ MASSICCIA PRODUZIONE MAI REALIZZATA CHE ABBIA FATTO USO DELLA REALTÀ VIRTUALE».

IL RE LEONE

LA REALTÀ VIRTUALE HA ORA IL SUO RE

Con un trionfo al box office internazionale da oltre 1 miliardo e mezzo di dollari, Il re leone è il maggiore incasso di tutti i tempi per un film d’animazione, anche se molti lo considerano un vero e proprio feature film per il realismo delle immagini e per l’impiego di riprese reali. di BARBARA LO CONTE foto SI RINGRAZIA LA DISNEY e JONNY VALE DI MPC 56

Ducita acepelit quo mo omnis del minctatquis ulparibus ipsam, quam assit quasperum quiandanditi aut omnihit in prorit quidelia duntem suntias duntibu

Il direttore della fotografia Caleb Deschanel (al centro) e il VFX supervisor Rob Legato (a destra) durante le riprese virtuali.

Gianluca Dentici ha lavorato al film in MPC, azienda leader nei VFX che è dietro anche al successo di Maleficent, Dumbo, X-Men-Dark Phoenix, con il ruolo di Senior Compositor Key Artist. Gianluca, cosa significa girare un film impiegando sistemi di realtà virtuale? Il re leone rappresenta attualmente la più massiccia produzione mai realizzata che abbia fatto uso della realtà virtuale come strumento per la navigazione di un ambiente immersivo per la pianificazione delle riprese. Le riprese virtuali hanno avuto inizio nel giugno 2017, quando Adam Valdez, supervisore effetti visivi di MPC, Rob Legato, VFX Supervisor per Disney, e il direttore della fotografia Caleb Deschanel, insieme ai tecnici di Unity e di altri game engine si

sono riuniti in uno studio di Los Angeles per indossare i caschi virtuali. Il regista Jon Favreau e i suoi collaboratori hanno potuto impostare

le inquadrature definendo la posizione della macchina da presa, le ottiche e i movimenti, osservando l’animazione dei personaggi già presenti all’interno dell’ambiente virtuale. Ovviamente anche tutti gli strumenti di ripresa come cavalletti, carrelli, droni e crane erano “encodati”, cioè facevano anche loro parte dell’ambiente virtuale e ogni loro movimento corrispondeva effettivamente a una variazione del punto

di vista di ripresa. In pratica era come girare su un set reale con attori in carne e ossa, ma in un ambiente controllato e con la possibilità di ripetere il ciak quante volte si desiderava o di modificare in poco tempo il set up di ripresa. Basti pensare che su uno dei primi test che sono stati realizzati il personaggio di Rafiki è stato testato con sei differenti approcci di illuminazione diversi, nel tentativo di trovare quello più corrispondente alla luce che ci sarebbe stata nella location reale in Africa. Come si è svolto il lavoro di creazione degli asset necessari per il film? MPC ha gestito un enorme lavoro di creazione di tutti gli asset, tra personaggi e ambientazioni. Tra questi 17 personaggi principali, 63 specie uniche (in 365 variazioni, dalle zebre ai formichieri) e in totale ha

animato 9063 personaggi e 31421 personaggi di folle virtuali. Relativamente alle ambientazioni

il lavoro è stato davvero massiccio, considerando che, ispirandosi alla documentazione di riferimento registrata in Kenya, sono state create 66 ambientazioni naturali che si è calcolato potrebbero coprire una superficie totale di 150 km quadrati, circa 11 volte la città di Los Angeles. Questi ambienti sono stati popolati da un vero e proprio ecosistema popolato da circa 921 di specie verdi tra piante, alberi e fiori, senza contare le diverse variazioni per ciascuna tipologia!

57


Fasi di pianificazione e ripresa virtuale con il regista Jon Favreau.

Qual è stata la tua personale esperienza durante la lavorazione? Dal primo giorno ci era stato detto che il film mirava ad assomigliare più a un documentario che a uno standard film full-CG, ma devo ammettere che non avevo immaginato che ci saremmo potuti spingere così avanti. Io ho lavorato nel dipartimento di compositing come Senior Compositor Key Artist, con il compito di creare l’inquadratura finale mettendo insieme tutti i personaggi, ambientazioni ed effetti provenienti dagli altri dipartimenti e renderla fotorealistica. Già mentre ricevevo i rendering dei personaggi in CG dal reparto di lighting (che è quello che si occupa appunto di illuminare ed effettuare il rendering dei fotogrammi CG), il realismo dei personaggi, i loro occhi, il pelo erano davvero impressionanti, e quando un compositor ha del materiale di partenza di così alta qualità il lavoro è molto più eccitante. Eravamo divisi in due e, a un certo punto, anche in tre unità di lavoro in base alle sequenze del film e alle ambientazioni. Io ho lavorato nella seconda unità che si è occupata, tra le altre cose,

di creare le inquadrature notturne e più atmosferiche. Un compito molto complesso, visto che di notte in una foresta l’unica luce plausibile è quella lunare, e quindi bisogna riuscire a mostrare gli elementi più importanti dell’inquadratura e i suoi dettagli senza però eccedere a tal punto da far sembrare la luce lunare come quella di un mega-riflettore. Il film è stato realizzato in stereo, ciò significa che per ogni inquadratura MPC ha dovuto generale un doppio flusso di dati, cioè le immagini per il canale sinistro e destro; questo ha comportato tecnicamente il raddoppiamento dei tempi di calcolo della computer grafica e per noi di compositing anche un’ulteriore step da superare per l’approvazione finale. Una volta che l’inquadratura era stata approvata dai supervisori interni ‒ da Valdez ‒ poi successivamente da Legato e Favreau, si passava infatti alla finalizzazione con il secondo canale e questa fase può avere degli imprevisti, in quanto per alcune inquadrature lo spazio tridimensionale in cui avviene l’azione può risultare troppo estremo e invasivo per lo spettatore,

«I PERSONAGGI SI MUOVONO CON UN REALISMO IMPRESSIONANTE». o magari anche semplicemente un ramo o una pianta potrebbe fuoriuscire eccessivamente dallo schermo; quindi si procede, in base alle indicazioni dello stereo supervisor, alla modifica della

«NON AVEVO IMMAGINATO CHE CI SAREMMO POTUTI SPINGERE COSÌ AVANTI».

convergenza dei due flussi di immagini, che si traduce in uno spostamento della scena più in profondità nello spazio tridimensionale. A volte anche i punti luce molto forti, se presenti in aree di netto contrasto, possono creare un fastidioso effetto di “ghosting”, che assomiglia a uno sdoppiamento del punto luminoso: ecco che anche in quel caso bisogna intervenire per limitare al minimo il problema. Hai lavorato anche al Libro della giungla, sempre in MPC: quali sono le differenze sostanziali tra i due film? Dal punto di vista visivo è stato da subito evidente il salto della qualità nella computer grafica che era comunque già elevatissima nel Libro della giungla; c’è da dire a nostro vantaggio che sul Re leone, non essendoci alcun personaggio in carne e ossa, non abbiamo ovviamente affrontato la fase di estrazione di chiave blue screen dei personaggi o di coesione fotografica tra il girato e la CG. Stessa cosa per la parte stereoscopica: sul Libro della giungla una delle difficoltà era stata proprio quella di amalgamare la stereo CG con il setup stereografico impiegato sul set e che ha richiesto al reparto stereo una rigorosa lavorazione di triage, cioè il ritocco e perfezionamento delle caratteristiche stereografiche delle riprese

reali prima ancora di poter calcolare e inserire la computer grafica. Altra sostanziale differenza che ho riscontrato è stato l’incredibile lavoro svolto dal reparto di animazione: i personaggi si muovono con un realismo impressionante, le espressioni e i piccoli movimenti ‒ ad esempio la lieve torsione di un orecchio tipico di quando un animale cerca di scrollarsi di dosso un moscerino ‒ hanno reso i personaggi ancora più credibili. Ci puoi dare alcuni numeri? Immagino siano imponenti… Relativamente al dipartimento di compositing si è calcolato che abbiamo mandato in visione 6182 versioni di compositing:

quindi, considerando che le inquadrature nel film sono 1490, significa che ognuno è stato revisionato in media 4.1 volte prima di giungere all’approvazione finale.

Considerando invece anche tutti gli altri reparti tra animazione ed environment, sono state prodotte 847013 versioni, equivalenti a 46 giorni di materiale visivo prodotto, di cui solo il 3.6% è stato inviato alla Disney, ai supervisori e al regista per la revisione. Qualche altra piccola curiosità: nel film appaiono 676578 tra moscerini e insetti e sono stati generati circa 100 miliardi di ciuffi d’erba, la cui simulazione dinamica è stata ottenuta attraverso PaX, un sistema proprietario di MPC per la simulazione dinamica sugli ambienti virtuali. Gli artisti coinvolti nella produzione sono stati circa 1250, tra cui 650 solo a Londra, 550 a Bangalore e 50 a Los Angeles.

Location scouting del set virtuale insieme al regista.

58

59


©Frida Miranda

DIARIO

GLI EVENTI DI FABRIQUE

NEWS 14 DICEMBRE 2019

DOVE

Come e dove Fabrique

FABRIQUE AWARDS: LA QUINTA EDIZIONE

Uno spazio suggestivo gremito di folla, l’entusiasmo di una serata record che racconta l’inarrestabile viaggio verso il nuovo intrapreso da Fabrique. di ANDREA PASSERI foto BRUNELLA IORIO

Sergio è nervoso, cerca di respirare con un ritmo che non gli faccia girare la testa. Arriva a bordo palco con aria tormentata e occhio sgranato, i suoi musicisti sono intorno a lui, si scambiano poche parole. Sono passate le 22, l’affluenza non ha ancora toccato il suo massimo quando il primo giro di chitarra attacca sulla scena, dalle scale d’ingresso del locale scendono ancora decine di persone, che arriveranno a toccare l’affluenza record di 5200 presenze. Non si fermano gli occhi di Sergio nemmeno sul palco, quando guarda finalmente dall’alto la folla che sta riempiendo India Estate, il meraviglioso spazio che ospita ancora una volta la festa di Fabrique nella sua versione settembrina. Sergio Andrei è la rivelazione di giornata, la scommessa musicale su cui Fabrique ha deciso di puntare, prima di accogliere gli Ex-Otago, vere star della serata; Sergio è la gioventù che si affaccia, che bussa sicura, che si fa spazio. E lo fa con personalità e con mani che si agitano, mentre canta i due inediti dell’album d’esordio ancora in lavorazione, Brigitte Bardot e Lo spreco del piombo, che anticipano la proiezione del suo unico video ufficiale già in circolazione, Pienodipanico. Sergio è giovanissimo, ed è un artista eclettico, cantante, autore e attore, dall’aria anacronistica e dalle mille cose da dire contro l’appiattimento generazionale, per riesumare una coscienza d’una società, con un vulcano di idee e una dialettica pimpante. La bella presentatrice Claudia Tosoni se lo coccola un po’, prima di presen-

tare i volti e gli argomenti dell’ultimo numero della rivista, i giovani attori, la presentazione de Il colpo del cane di Fulvio Risuleo, il video messaggio della cover Linda Caridi. C’è anche Vinicio Marchioni con Simone Catania, regista di Drive Me Home, il loro nuovo film in uscita: Vinicio ci saluta con una preghiera laica, un consiglio, quello di andare a vedere le nuove pellicole al cinema nei loro primi giorni di distribuzione, per farle rimanere in vita, per non lasciare che dei “criminali” al comando cannibalizzino il cinema, sotto la mannaia del tempo e degli incassi. Gli Ex-Otago in versione soft accarezzano l’aria tardo estiva della serata con le loro tracce più note, Maurizio è influenzato e si lascia aiutare dal coro delle centinaia di fan accorsi, tutti cantano La nostra pelle, Solo una canzone, Questa notte, fino a Quando sono con te, tra baci, abbracci e ringraziamenti, nel cuore della festa, prima che Diego de Gregorio prenda il suo posto in consolle, ad accompagnarci fino alla fine. Già dalle ultime ore del pomeriggio il party era nato sotto i migliori auspici, con le proiezioni di 7 corti e l’incontro con i rispettivi registi e le mostre fotografiche di Camilla Dazzi Non luogo e di Carola Blondelli Emozioni, realizzata in collaborazione con Nicolas Vaporidis. La fila davanti al bancone ristorante non si

V

ZIO NE

Abbiamo illuminato la notte

EDI

13 SETTEMBRE 2019

È l’ex caserma Guido Reni l’affascinante location prescelta per la serata di premiazione dei Fabrique Awards 2019, durante la quale sono assegnati gli undici trofei per ciascuna delle categorie destinate a premiare il nuovo cinema italiano e internazionale. Quest’anno la giuria è davvero d’eccezione: presidente il regista due volte premio Oscar Paul Haggis, e come giurati l’attrice icona del cinema italiano Isabella Ferrari, il regista e sceneggiatore Ivan Cotroneo, l’attore Stefano Fresi, il critico cinematografico Claudio Masenza. Centinaia di autori provenienti da più di 80 Paesi nel mondo hanno iscritto anche quest’anno i loro lavori al concorso che più di tutti premia il talento e la sperimentazione.

SETTEMBRE-OTTOBRE 2019

MILANO CINEMA CINEMA ANTEO | Via Milazzo, 9 SPAZIO OBERDAN | Viale Vittorio Veneto, 2 LOCALI OSTELLOBELLO | Via Medici, 4 NUOVA ACCADEMIA DI BELLE ARTI | Via C. Darwin, 20

BERGAMO

Due gli appuntamenti festivalieri autunnali in cui era presente anche Fabrique: l’ottava edizione dell’International Tour Film Festival presieduto da Piero Pacchiarotti, con madrina l’attrice Ester Vinci, e l’Adriatic Film Festival ideato e diretto da Guido Casale, che anche per questa seconda edizione è stato presentato dal critico Francesco Di Brigida.

CINEMA CINEMA MASSIMO | Via Giuseppe Verdi, 18

TORINO BOLOGNA CINEMA CINEMA LUMIÈRE | Via Azzo Gardino, 65

FIRENZE FABRIQUE DU CINÉMA

LA CARTA STAMPATA DEL NUOVO CINEMA ITALIANO INVERNO

Numero

27

FUTURES

MAROTTA, D’IGNOTI, CORSINI

Timide, innamorate, terrificanti: declinazioni del femminile

GOING GREEN

GREEN SHOOTING

Che cos’è, perché è necessario e istruzioni per farlo (anche casa vostra)

FABRIQUE AWARDS

IVAN COTRONEO, GIURATO

“Non mi interessa il compitino perfetto, voglio essere sorpreso”.

SENZA LIMITI SPAVALDI? SÌ. SICURI DI NOI? ANCHE.

Dopo sette anni possiamo permettercelo. Saul Nanni, ventenne in irresistibile ascesa, docet.

LA CARTA STAMPATA DEL NUOVO CINEMA ITALIANO SCARICA GRATUITAMENTE TUTTI I NUMERI DAL SITO 0 SCRIVICI A REDAZIONE@FABRIQUEDUCINEMA.COM

WWW.FABRIQUEDUCINEMA.IT Like us www.facebook.com/fabriqueducinema

60

SCUOLE CENTRO SPERIMENTALE DI CINEMATOGRAFIA | Via Tuscolana, 1520 CINE TV ROSSELLINI | Via della Vasca Navale, 58 GRIFFITH | Via Matera, 3 IED | Via Giovanni Branca, 122 ROMEUR ACADEMY | Via Cristoforo Colombo, 573 SCUOLA D’ARTE CINEMATOGRAFICA GIAN MARIA VOLONTÉ | Via Greve, 61

FABRIQUE CON INTERNATIONAL TOUR FILM FESTIVAL E ADRIATIC FILM FESTIVAL

2019

©IorioCreativeStudio / Brunella Iorio / Alice Ciccola

LOCALI BIG STAR | Via Mameli, 25 NECCI | Via Fanfulla da Lodi, 68

CINEMA LAB 80 FILM | Via Pignolo, 123

esaurisce fino a notte inoltrata, segno evidente di un successo oltre ogni aspettativa.

«AFFLUENZA RECORD DI 5200 PRESENZE».

ROMA CINEMA BARBERINI | 06.42010392 | Piazza Barberini, 24/26 CASA DEL CINEMA | 06.423601 | Largo Marcello Mastroianni, 1 EDEN FILM CENTER | 06.3612449 | Piazza Cola di Rienzo, 74 GREENWICH | 06.5745825 | Via G. Battista Bodoni, 59 INTRASTEVERE | 06.5884230 | Vicolo Moroni, 3 MADISON | 06.5417926 | Via G. Chiabrera, 121 NUOVO SACHER | 06.5818166 | Largo Ascianghi, 1 TIBUR | 06.4957762 | Via degli Etruschi, 36 TREVI | 06.6781206 | Vicolo del Puttarello, 25

CINEMA CINEMA STENSEN | Viale Don Giovanni Minzoni, 25 CINEMA ALFIERI | Via dell’Ulivo, 6

PISA CINEMA CINEMA ARSENALE | Vicolo Scaramucci, 2

FESTIVAL Cortinametraggio Festa del Cinema di Roma Ischia Film Festival Maremetraggio - International Shorts Film Festival Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia Roma Creative Contest Roma Web Fest Rome Independent Film Festival Visioni Italiane Cineteca di Bologna

61




Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.