Fabrique du Cinéma #12

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LA CARTA STAMPATA DEL NUOVO CINEMA ITALIANO INVERNO

Numero

2015

12

FUTURES

ROBERTO DE FEO

Un corto sulla via dell’Oscar e le idee molto chiare

SOUNDTRACK

DIEGO BUONGIORNO

Quando il suono è immagine, arte, performance

ICONE

LINA WERTMULLER

“Della critica non m’importa niente. Ho fatto i film che volevo”

IS ON OUR SIDE Imparano, sfidano se stessi, diventeranno i nuovi maestri ALESSANDRO BORGHI



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SGARBATI, LIBERI E RIBELLI ROMA WEB FEST

RATIGHER

UNDER LAYERS

IL CENSIMENTO DELLE OPERE WEB

SOMMARIO

NASTRO AZZURRO E FABRIQUE

Pubblicazione edita dall’associazione culturale Indie per cui Via Francesco Ferraironi, 49 L7 (00177) Roma www.fabriqueducinema.it

ALESSANDRO BORGHI

APULIA FILM COMMISSION

Registrazione tribunale di Roma n. 177 del 10 luglio 2013 DIRETTORE RESPONSABILE Ilaria Ravarino DIRETTORE ARTISTICO Davide Manca SUPERVISOR Luigi Pinto GRAFICA E IMPAGINAZIONE Giovanni Morelli DIRETTORE EDITORIALE Elena Mazzocchi REDAZIONE Chiara Carnà, Giacomo Lamborizio STRATEGIC MANAGER Tommaso Agnese PARTNER ISTITUZIONALI Sonia Serafini PHOTOEDITOR Francesca Fago MARKETING Federica Remotti EVENTI Isaura Costa Consuelo Madrigali Simona Mariani SET DESIGNER Gaspare De Pascali AMMINISTRAZIONE Katia Folco UFFICIO STAMPA Patrizia Cafiero & Partners in collaborazione con Sara Battelli PUBBLICITÀ APS Advertising srl Via Tor de Schiavi, 355, 00171 ROMA www.apsadvertising.it STAMPA Press Up s.r.l. Via La Spezia, 118/C 00055 Ladispoli (RM) DISTRIBUZIONE SAC

TUTTE LE RAGAZZE/KLONDIKE

18 OPERA PRIMA PECORE IN ERBA QUANDO L’ODIO FA RIDERE

LA CARTA STAMPATA DEL NUOVO CINEMA ITALIANO Numero

2015

12

FUTURES

ROBERTO DE FEO

Un corto sulla via dell’Oscar e le idee molto chiare

SOUNDTRACK

DIEGO BUONGIORNO

IN COPERTINA Alessandro Borghi

Quando il suono è immagine, arte, performance

ICONE

LINA WERTMULLER

“Della critica non m’importa niente. Ho fatto i film che volevo”

IS ON OUR SIDE Imparano, sfidano se stessi, diventeranno i nuovi maestri ALESSANDRO BORGHI

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ROBERTO DE FEO

MONTATORE

SALE CINEMATOGRAFICHE

NETFLIX E I SUOI CONCORRENTI ITALIANI

NETFLIX/2

COLOMBIA

SIMONE ISOLA

INTO THE BLACK

DIEGO BUONGIORNO

CARTONI

DANIELE GRASSETTI/ZIO GIANNI

2NIGHT

Finito di stampare nel mese di novembre 2015

INVERNO

04 EDITORIALE FESTIVAL 06 RADIO 08 COMICS/1 10 COMICS/2 D’AUTORE 11 DIRITTO AWARD 12 TALENT COVER STORY 14 FOCUS 22 NAZIONE WEB 24 FUTURES 26 SPECIALE MESTIERI 28 SPECIALE 38 WORKSHOP 40 LA RECENSIONE 42 MONDO 43 ZONA DOC 44 DOSSIER ATTORI 46 SOUNDTRACK 52 MACRO 54 NUOVE SERIE 58 MAKING OF 60 EFFETTI SPECIALI 62 FUMETTO 66 DIARIO 68 DOVE 69 TEMPO INSTABILE CON PROBABILI…

34 ICONE LINA WERTMULLER IL RUGGITO DELLA LEONESSA

KAEMT

GLI EVENTI DI FABRIQUE

COME E DOVE FABRIQUE

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E EDITORIALE

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SGARBATI, LIBERI E RIBELLI


di ILARIA RAVARINO foto ROBERTA KRASNIG

Claudio Caligari aveva 28 anni quando mise per la prima volta la sua firma su un copione, quello del documentario Perché la droga, girato dall’allora 24enne Daniele Segre. E a 67 anni è morto, portando al cinema in tutto solo tre film. Dell’ultimo, Non essere cattivo, se ne parla in questo numero grazie alla testimonianza dell’eccellente Alessandro Borghi, uno degli ultimi attori a essere diretto dal regista di Amore tossico. Cioè: dall’improvvisamente grande regista di Amore tossico. Questo film, la sua genesi, le difficoltà nel produrlo e quelle nel gestirlo una volta terminato – con la morte di Caligari a fare da imbarazzante memento ai selezionatori dei festival – consegna ai giovani registi alcune importanti lezioni. La prima, la più scontata: i provocatori, i marginali e i ribelli hanno vita difficile nel cinema italiano. Non è una novita: finché sono vivi sono ritenuti ingestibili, inaffidabili, scomodi. Qualcuno molla e fa altro, qualcun altro cambia rotta, e chi resiste come Caligari deve accettare che non sarà il cinema a foraggiarlo. I provocatori piacciono solo da morti, quando non fanno più male a nessuno. Da tabù a cult nel giro di cinque parole, quel “lutto nel mondo del cinema” che riempie coccodrilli e pesta code di paglia. Perció se oggi Caligari insegna agli angeli dove mettere la macchina da presa, uno come Pasolini è un santo e la ricorrenza del suo martirio offre l’occasione per un nuovo giubileo. Osare metterne in discussione il mito (ci ha provato maldestramente Gabriele Muccino) scatena l’untuoso qualunquismo

degli adepti a scoppio ritardato: guai a toccare i maestri, con tutta la fatica che abbiamo fatto per imbalsamarli. Adoriamo mummie e disprezziamo i vivi, scambiando cinefilia per necrofilia. E allora viva chi, come il nostro Futures Roberto De Feo, rivendica la sua formazione su fumetti, videogiochi e film pulp, ammettendo con pudore: «Adesso chissà che idea ti farai di me, ma io i film di Antonioni e Fellini non li ho mai visti. Vittorio De Sica? Ho provato a guardare Ladri di biciclette, non ce l’ho fatta. Mi sono annoiato». C’è vita oltre la morte. Il caso di Caligari però dice anche qualcosa di nuovo sul nostro cinema, di nuovo e di incoraggiante. È legittimo pensare che uno come lui, oggi, forse non sarebbe così isolato. Forse il suo talento non sarebbe noto solo alla cerchia degli amici e dei collaboratori. Forse i suoi lavori viaggerebbero in rete, le sue ricerche creerebbero dibattito sui social e nei forum, il suo nome si accrediterebbe presso il pubblico senza bisogno di ulteriori presentazioni. Di film, magari, ne avrebbe fatti più di tre. Credete che non sia così? Date un’occhiata alle webserie di questo numero, fate un viaggio su Vimeo e su YouTube e tuffatevi nel loro universo scomposto, sgarbato, libero e ribelle.

Tra i nuovi talenti rigurgitati dal magma delle rete potrebbe nascere un giorno un nuovo Caligari: voltiamo pagina e cerchiamo di accorgercene, prima che sia troppo tardi.

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- Radio Festival -

ROMA WEB FEST, UN FESTIVAL PER IL FUTURO

È il web il terreno su cui si gioca il sospirato ricambio generazionale del cinema italiano? Ne è convinta Janet De Nardis, direttrice del Roma Web Fest, la cui terza edizione si è da poco chiusa con successo.

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di GIACOMO LAMBORIZIO

Sempre più solide le radici del Roma Web Fest, festival internazionale dedicato alle webserie e ai fashion film. Una vetrina per la produzione indipendente di contenuti audiovisivi che hanno internet come proprio principale bacino di coltura, rivolto al pubblico della rete, ideati e pensati da artisti e creativi che alla rete si rivolgono in prima battuta. C’erano oltre 100 webserie nel concorso di quest’anno, e 22 sono stati i pilota scelti per lo sviluppo produttivo. A vincere Klondike e Tutte le ragazze con una certa cultura (vedi articolo a pag. 24). Janet, un bilancio di questa terza edizione. Fin dalla selezione ci siamo accorti dell’incremento della

qualità media – tecnica e narrativa – dei prodotti, che stanno colmando ormai il gap con le produzioni tradizionali. È il segno di un aumento dell’investimento, anche economico, nel settore, sempre più non solo trampolino di lancio ma mercato alternativo con i suoi punti di forza. Una qualità più alta si misura anche nell’interesse dei distributori, dei broadcaster, degli acquirenti potenziali. Certamente di fronte a prodotti che contano milioni di visualizzazioni il settore viene finalmente visto con occhi diversi. Ma la sperimentazione è sempre importante, è la condizione per l’emergere dei nuovi talenti. Si gioca qui il tanto

sospirato ricambio generazionale per il cinema italiano, troppo spesso impegnato nella ripetizione di schemi sicuri, con risultati tutt’altro che positivi. Non è un caso che un paese che ha sperimentato molto come la Francia sia in prima fila nella produzione e nel sostegno istituzionale delle webserie. Il Marsiglia Web Fest seleziona i prodotti per i grandi broadcaster televisivi, per esempio. A tal proposito come si è mosso il vostro festival, quali sono state le occasioni di incontro tra artisti, produttori e distributori? Il Web Fest nasce come vetrina che seleziona e sceglie in un panorama enorme e diseguale, creando interesse e coinvolgendo i maggiori

produttori cinematografici e televisivi italiani. Vedere buoni prodotti, constatare la qualità di questa realtà parallela ha fatto crescere velocemente l’attenzione. Abbiamo dialogato con le istituzioni per inserire nella legislazione capitoli dedicati alle webserie. Abbiamo quindi uno spazio dedicato ai pitch, selezioniamo prodotti per lo sviluppo e tutti i panel e tavole rotonde danno la possibilità al pubblico di incontrare gli artisti e gli esperti del settore. Importante è anche lo sguardo all’estero, la collaborazione con altri festival che vengono a Roma per selezionare le opere. La crescita non prescinde da una circolazione anche fuori dall’Italia e da un’idea di pubblico più allargato.

«Di fronte a prodotti che contano milioni di visualizzazioni il settore viene finalmente visto con occhi diversi».

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TAVOLA ROTONDA DI FABRIQUE L A N U O V A S C R I T T U R A S E R I A L E | C O M B A T T E R E L’ O M O L O G A Z I O N E LA SFIDA DELLA SCRITTURA SERIALE IN ITALIA, IN UN MOMENTO DI ESPLOSIONE DELLA DOMANDA E DIVERSIFICAZIONE DELLE REALTÀ PRODUTTIVE, DALLE VOCI DEI PROTAGONISTI. ECCO QUEL CHE CI SIAMO DETTI ALLA TAVOLA ROTONDA DI FABRIQUE DU CINÉMA DEL 26 SETTEMBRE, OSPITE DEL ROMAWEBFEST. La serialità è solo un modo di fruizione: a puntate invece che in soluzione unica; ad albi invece che in volume; a sequel invece che in un film fiume. Ma è la forma di produzione più di successo e importante di questi anni, lo abbiamo visto in televisione e lo abbiamo visto al cinema. Lo vedremo ancora di più ora che Netflix si è aperto all’Italia, un momento più che altro simbolico visto che altri operatori – con la medesima finalità, più o meno gli stessi prezzi e un catalogo, almeno ad ora, superiore – sono già attivi da tempo. A Roma durante il Roma Web Fest il tema della serialità è stato affrontato dal punto

di vista di chi scrive i contenuti. Al centro c’è lo showrunner, fulcro creativo di un prodotto più lungo e (potenzialmente) meno omogeneo di un film, come ha spiegato Stefano Sardo (sceneggiatore di lungo corso, parte della squadra di 1992). Competenze diverse per un prodotto diverso: la parte più difficile del racconto seriale è tenere le redini, fissare uno stile e mantenerlo, anche per diversi anni, anche con diversi collaboratori. Del resto «sono sessant’anni che Tex vende in Italia molto più che Spider-Man in tutto il mondo» (parole di Mauro Uzzeo,

sceneggiatore di Dylan Dog e Zagor) grazie a uno stile coerente, a una mentalità produttiva tarata sulla declinazione di un medesimo mondo lungo le medesime direttrici. A volte poi sono i film a espandersi e a diventare serie, guadagnando in complessità. Ottavia Madeddu ha lavorato così per Sky su I delitti del Barlume, serie che aveva il compito di unire giallo e commedia ma che, per l’appunto,

seriale lo è dovuta diventare con il passare degli episodi e delle stagioni, “guadagnandosi” una struttura orizzontale. Serialità all’italiana che negli ultimi anni sta dimostrando di sapersi emancipare dalle maglie della “fiction”, il cui esempio più significativo è Non uccidere, a cui ha lavorato Viola Rispoli (già nel team di La squadra), in onda su Rai3. Perché anche là dove è più difficile innovare è indispensabile lottare contro l’omologazione. È questa la priorità in Italia e, stando a Tommaso Agnese che collabora con la produzione francese Elephant, anche

LA SERIALITÀ È LA FORMA DI PRODUZIONE PIÙ DI SUCCESSO E IMPORTANTE DI QUESTI ANNI, LO ABBIAMO VISTO IN TELEVISIONE E AL CINEMA. CON UN GRUPPO DI GIOVANI ESPERTI ABBIAMO AFFRONTATO QUESTO TEMA DAL PUNTO DI VISTA DI CHI SCRIVE I CONTENUTI.

all’estero: la sfida è capire lo spirito del proprio pubblico. La questione si allarga sul web, dove gente come Tommaso Renzoni sta cominciando ad ampliare il concetto di scrittura seriale. Non solo webserie ma anche curare interi canali, scrivere show che non ha più senso chiamare “show”. Quello che online cambia di certo è la tutela dell’opera intellettuale, per questo Umberto Francia prima e poi l’avvocato Giovanni Maria Riccio hanno parlato di ciò che la Writer’s Guild Italia sta facendo per iniziare a diffondere consapevolezza su come si può e si deve tutelare i propri prodotti online.

26 SETTEMBRE 2015

di GABRIELE NIOLA foto BRUNELLA IORIO «La parte più difficile è tenere le redini, fissare uno stile e mantenerlo, anche per diversi anni, anche con diversi collaboratori».

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- Comics/1 -

RATIGHER LA FINE È AZZURRA La fortuna di avere un padre che legge fumetti è che sin da piccoli ci si abitua a raccontare il mondo con i disegni. Il mondo, le storie, le persone, le amicizie. Francesco D’Erminio, in arte Ratigher, cresce così, nella sua natura il raccontare è imprescindibilmente disegnato. di PIERLUCA DI PASQUALE (Regista e sceneggiatore)

T

ra le letture di tutti i generi possibili quelle dei manga e dello Spiderman dei primi anni ’90 sono le influenze che aumentano la sua voglia di diventare un fumettista. Ma il mare è sterminato e si rischia di perdersi. A segnare una direzione nel suo viaggio sono stati gli anni dell’università, anni in cui divide la casa con Tuono Pettinato, altro fumettista di talento. Il confronto e lo scambio di letture aumenta la voglia di esprimere il proprio tratto.

Ratigher Ma quello che scrivo e disegno è dovuto a David Boring di Daniel Clowes. Un giorno ero a casa e, finito di leggerlo, salto sulla sedia, corro di là da Tuono e gli dico: «Qui dentro c’è tutto, se qualcuno ha fatto qualcosa di simile, anche noi allora dovremmo tentare». Gli artisti si incontrano, si parlano, si aiutano e a volte ufficializzano una collaborazione creativa che diventa qualcosa di indelebile nel panorama culturale.

Le ragazzine ha vinto quest’anno il premio Micheluzzi come miglior fumetto e il premio Boscarato per la miglior colorazione.

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Ratigher, Tuono Pettinato, Maicol & Mirco, Dr. Pira e LRNZ creano i Super Amici, poi diventati i Fratelli del Cielo. Un gruppo dove Ratigher trova nuovi stimoli in stili completamente diversi dal suo, caratterizzato da un’attenzione per i personaggi difficili, crudi e apparentemente poco affascinanti, antieroi che diventano grandi perché l’autore trova in loro un valore e un significato. Il suo fumetto parte sempre da una storia, un evento, un racconto piccolo, anche solo un dialogo accennato e poi cresce e diventa una storia lunga. La lunghezza delle opere va di pari passo con l’evoluzione della sua esperienza e le pubblicazioni: prolifico nei fumetti brevi in passato, ora pronto a disegnare lunghe storie. Dai racconti di Bimbo Fango a Trama, il suo primo libro a fumetti. R Partivo da storie brevi perché non ero in grado di gestire racconti più estesi, la tecnica e la lunghezza delle storie sono cresciute insieme. Non sentivo l’esigenza di lavori più corposi perché non sapevo come muovermi. Sono un avidissimo lettore di libri, ma ho iniziato tardi. È stata la lettura di libri più articolati che mi ha formato e stimolato nella costruzione di storie lunghe. In un mercato dove spesso il fumetto predilige un formato lungo Ratigher si è imposto con un’opera di 64 pagine. Le

ragazzine stanno perdendo il controllo. La società le teme. La fine è azzurra. È la storia delle adolescenti Castracani e Motta, e del loro modo di rispondere alle distanze e alle incomprensioni che vivono a scuola, nella società, in famiglia, con la loro arma più forte, l’amicizia. R È un lavoro in cui ho messo anima e corpo. Poche pagine, lo so, forse ha troppo poco respiro. Ma è il mio stile e mi piace questo formato. Amo le storie medie, anche se ora sto scrivendo un libro molto lungo. La necessità

diverse da me, modi di pensare lontani. Di questa canzone mi ha incuriosito il fatto che fosse stata scritta da un ragazzo e il ritornello era «sono più bella io o sei più bella tu». Un modo di raccontare l’adolescenza privo di cliché, che descrive i comportamenti fuori dagli schemi delle due protagoniste nel modo più naturale possibile, come se Ratigher volesse sottolineare che ognuno di noi agli occhi dell’altro può sembrare strano ma la nostra quotidianità ci

«UN MODO DI RACCONTARE L’ADOLESCENZA PRIVO DI CLICHÉ, CHE DESCRIVE I COMPORTAMENTI FUORI DAGLI SCHEMI DELLE DUE PROTAGONISTE NEL MODO PIÙ NATURALE POSSIBILE». di aumentare la mole è per dare respiro a tutte le sfaccettature. I miei fumetti sono molto ritmati e continuerò con questo passo, ma finora non mi sono mai permesso di dedicare dieci pagine a una scena sola. È quello che voglio fare adesso. I suoi racconti trattano situazioni quotidiane ma con uno sviluppo surreale. Le ragazzine nasce dal brano musicale degli X-Mary dove si parla di un’amicizia/ amore tra ragazze. R Mi piacciono i punti di vista non consueti che ti lasciano di stucco. Persone completamente

rende normali a noi stessi. La sua sensibilità racconta un finale dove una delle due ragazzine per una malattia sembra avere un destino segnato in modo emozionante e unico. E come parlare della fine? Un’unica parola, la fine è azzurra. La scena finale del fumetto, un momento drammatico, diventa per Ratigher un’occasione per caricare di significato tutta la nostra considerazione sull’amicizia. L’autore ribalta la morte dando un senso, un colore azzurro come il cielo ad avvolgere i ricordi di due amiche.

R Se riusciamo a stringere legami forti e belli e senza compromessi, non è poi tanto importante la nostra fine, il finale di ognuno di noi è segnato, è scritto, lo sappiamo tutti, l’importante è il tempo che abbiamo a disposizione, riempirlo di cose emozionanti e vere. La protagonista forse un giorno morirà, ma c’è modo e modo di andarsene, e non era quella la fine della mia storia. Non a caso nel 2015 con questo lavoro vince due premi molto importanti: il premio Micheluzzi come miglior fumetto e il premio Boscarato per la miglior colorazione. Vincerli con un fumetto autoprodotto significa aver inciso davvero nel panorama del fumetto italiano. I progetti futuri sono legati alla collaborazione come sceneggiatore per alcuni numeri di Dylan Dog. R Scrivere per DYD è un lavoro di squadra: un altro disegnatore, in questo caso Alessandro Baggi, deve lavorare sul tuo testo e occorre accettare che lui cambi alcune cose o che addirittura le elimini. Nel 2016 usciranno altre pubblicazioni, sono storie di lunghezza media come La notte è dei fantasmi (48 pagine), legata al mondo degli adolescenti, degli spin off di alcuni personaggi di Le ragazzine, con la Saldapress. Successivamente uscirà una graphic novel lunga (2-300 pagine), ancora top secret.

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3D

G UA R DA L A V I DE OI NTE RV I STA SUL SI TO


SÌ AL DIRITTO D’A UTORE ANCHE SUL WEB Nasce finalmente il censimento delle opere web (COW), che mira a catalogare le opere nate sul web, “marchiando” i video con una carta di identità digitale che consenta la tracciatura delle opere e ne impedisca impieghi non autorizzati. di GIOVANNI MARIA RICCIO Avvocato, Studio Legale E-Lex Belisario Scorza Riccio & Partners

Gira voce che PewDiePie avrebbe guadagnato, nell’ultimo anno, oltre sette milioni di dollari con i suoi video pubblicati su YouTube. La vera notizia è però un’altra: il venticinquenne youtuber svedese ha 34 milioni di iscritti al suo canale. Una nazione, con oltre il triplo degli abitanti della Grecia. La favoletta che si possa diventare ricchi con internet sta diventando stucchevole. Quanti youtuber riescono a vivere grazie ai loro video? Le percentuali che YouTube paga agli autori per i passaggi pubblicitari prima dei loro video non sono note. Si sa, però, che dipendono da una molteplicità di fattori: non solo il numero delle visualizzazioni, ma anche quello delle sottoscrizioni e dei commenti, il contenuto del video. Le percentuali, però, non possono essere negoziate: i contratti che gli utenti fanno

con le piattaforme sono contratti per adesione e, quindi, vale il meccanismo “prendere o lasciare”. La posizione di forza degli operatori è acuita dall’operare in regime quasi monopolistico. YouTube detiene oltre il 70% del mercato delle piattaforme dell’audiovisivo: o si è distribuiti da YouTube o si decide di rinunciare alla fetta più grande di pubblico. Se le percentuali sugli introiti pubblicitari non consentono, nella maggior parte dei casi, di diventare ricchi, la situazione è anche peggiore sul versante del diritto d’autore. Molti autori del web non sono iscritti alla SIAE (o ad altre società di gestione collettiva) e, quindi, non percepiscono diritti d’autore sulla diffusione delle opere. SIAE, dal canto suo, non sembra aver compreso appieno le potenzialità delle

piattaforme e ha concesso in licenza a YouTube il proprio repertorio a un prezzo stracciato. Sembrerebbe, peraltro, che tali somme non sarebbero state ancora ripartite tra gli iscritti e che, quindi, al momento il diritto d’autore non sia remunerato a nessun autore italiano per i passaggi su YouTube. Come si può migliorare questa situazione? Difficile pensare a una risposta che metta d’accordo tutti. Serve, sicuramente, una maggiore consapevolezza da parte degli youtuber. Perché internet, che giovani e meno giovani usano già più della televisione, deve essere ancora relegato a un ruolo ancillare, quasi fosse un passatempo per pochi nerd? Continuare ad accontentarsi della visibilità che può dare la rete, ma essere costretti a migrare sui canali di distribuzione tradizionali (cinema, televisione ecc.) non incide anche sul linguaggio artistico e, quindi, sulla creatività?

Uno spiraglio potrebbe essere offerto dal progetto COW (censimento opere web), che verrà lanciato nelle prossime settimane dalla Writers Guild Italia, il sindacato degli scrittori di cinema, tv e internet. Il progetto mira a catalogare le opere nate sul web, “marchiando” i video con una carta di identità digitale che consenta la tracciatura delle opere e ne impedisca impieghi non autorizzati. Un passo importante anche per un’altra ragione: “contarsi” significa esistere come autori, poter reclamare la propria fetta dei proventi pagati da YouTube a SIAE e, coalizzandosi, provare a dialogare con maggior forza con i gestori delle piattaforme. Il web è un mercato ricco, ma non arricchisce gli autori. Sì, avete letto bene: autori. Perché Jackal, the Pills, Willwoosh e tanti altri sono autori. O preferite continuare a pensare che siano ragazzini che si divertono con la webcam nelle loro camerette?

YouTube ha oltre il 70% del mercato delle piattaforme dell’audiovisivo: o si è distribuiti da YouTube o si rinuncia alla fetta più grande di pubblico.

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TALENT AWARD FABRIQUE E NASTRO AZZURRO PREMIANO I TALENTI DEL VIDEO È Mattia Costa con il suo progetto Film-Live il vincitore del Nastro Azzurro Talent Award, la rassegna ospitata all’interno del Milano Film Festival. Un evento interamente dedicato al tema del video e del cinema 3.0 attraverso il web e i nuovi media, rivolto a filmmaker, youtuber, produttori, autori e creatori. Nella giuria del premio anche Fabrique du Cinéma.

Il Film-Live di Mattia Costa è un film che viene girato nello stesso Sabrina Fontana, brand manager di Nastro Azzurro, lo sponsor momento in cui viene trasmesso e che permette al pubblico di che sostiene con grande convinzione il Talent Award, ci spiega: vivere in prima persona le conseguenze della storia appena «Il videomaking è uno degli ambiti culturali (con moda, food, raccontata. Dopo la proiezione il pubblico si avventura in un technology) che riteniamo più promettenti. Nastro Azzurro è la happening nei luoghi dove il film è appena avvenuto. Il progetto birra italiana più bevuta all’estero, e in questo successo, ottenuto gioca sulla duplice realtà percettiva dello spettatore che si grazie a una rigorosa selezione delle materie prime, pensiamo di domanderà: quello a cui sto esprimere il talento italiano: ecco, assistendo è reale o fittizio? Si sta vorremmo essere portavoce della IL TALENT AWARD È UN’OCCASIONE PREZIOSA svolgendo ora o è già successo? creatività che contraddistingue il PER APPROFONDIRE CASE HISTORY, Quindi, se si sta svolgendo proprio talento italiano nel mondo». CONOSCERE NUOVE REALTÀ E FARE RETE. adesso, anche io sono presente Perché un brand come il vostro ha nella messa in scena? deciso di puntare proprio sull’idea Assegnata anche una Menzione Speciale a due progetti: Civico X di di talento? «Tutti i brand vorrebbero legarsi al talento, ma Eleonora Campanella, webserie ambientata a Milano, e Hybrid di bisogna avere delle affinità forti per riuscirci. Noi sappiamo di Martina Rosa, piattaforma che permette la raccolta e la condivisione possedere un valore che non tutti hanno, facciamo un prodotto di footage tra i membri di una community, con l’obiettivo di la cui qualità ci viene riconosciuta dai consumatori di tutto incentivare la rielaborazione del materiale girato prodotto, archiviato il mondo. È questo il legame che ci unisce all’inventiva e alla e non utilizzato da videomakers professionisti e amatoriali. sperimentazione dei giovani artisti italiani».

Nella giuria Beniamino Saibene (Milano Film Festival), Sabrina Fontana (Nastro Azzurro) e Davide Manca (Fabrique).

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- Cover story -

ALESSANDRO BORGHI QUANDO POI ARRIVA IL

SUCCESSO A SENTIRE LUI NON CAMBIA NULLA, È SOLO UNA QUESTIONE DI IMPEGNI E DI TEMPO CHE INIZIA A MANCARE.

?

Ma per uno degli attori più quotati del momento, protagonista dei film di punta dell’anno Non essere cattivo e Suburra, la cosa più importante è il successo del cuore, quello sì che dà alla testa. di SONIA SERAFINI foto ROBERTA KRASNIG abiti DAVID NAMAN

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O

Sfatiamo subito un mito: non inizi come stunt-man, ma, praticando da sempre le arti marziali, gli amici ti propongono ad alcuni provini per “guadagnarti la giornata”. Allora, una volta per tutte: come nasce la tua passione per il cinema? Nasce in realtà per caso, all’uscita da una palestra con quello che ancora oggi è il mio agente: insistette per farmi fare un provino per Distretto di Polizia 6, fui preso e da li è iniziato il percorso che mi ha portato fino a qui. Se non ti avesse notato sarebbe andata diversamente? Probabilmente farei il commercialista, pensa che noia! Dopo tante fiction e corti è arrivata la grande occasione con il cinema. Quante difficoltà si incontrano prima di emergere in Italia? Tantissime difficoltà ma non, come vuole il luogo comune, per via delle raccomandazioni, piuttosto perché da noi non ci sono progetti interessanti ai quali partecipare. E quando arrivano c’è troppa offerta rispetto alla domanda, a quel punto bisogna sgomitare parecchio oppure essere fortunati e trovarsi al posto giusto al momento giusto. Gli attori bravi quindi ci sono, ma sono troppi rispetto alle opere buone? Di attori bravi ce ne sono molti nel nostro paese, la differenza

è che ad esempio Francia e Spagna hanno fatto dell’industria cinematografia una parte importante del loro sistema economico. Evidentemente in Italia questo non accade, o meglio sta accadendo finalmente di nuovo grazie al coraggio di tante persone che si buttano in progetti indipendenti, riuscendo a portare a termine dei piccoli miracoli come Non essere cattivo. Che emozione si prova a far parte di un film che stentava a trovare una produzione e ora forse rappresenterà l’Italia alla notte degli Oscar? È un pensiero che cerco di rimuovere, è talmente assurdo, una cosa che non ci aspettavamo. Per i due giorni successivi alla notizia nessuno di noi si è parlato. Andremo a Los Angeles per fare la promozione del film, la forza della pellicola all’estero credo possa essere far

allora ci sarà una grandissima probabilità di arrivare nella cinquina. Se non fosse stato per Valerio Mastandrea noi non saremmo qui a parlare: Valerio è andato fisicamente a bussare alle porte dei produttori per cercare finanziamenti. E una volta che arriva il successo? Per ora semplicemente ho meno tempo del solito, per quanto riguarda il successo

«PER FARE L’ATTORE CI SI DEVE SEMPLICEMENTE NUTRIRE DI QUESTA ARTE, TOGLIERSI L’IDEA CHE SI DIVENTI RICCHI, È UN LAVORO CHE VA FATTO COME UNA SPECIE DI VOCAZIONE».

capire e raccontare cosa c’è stato dietro la sua realizzazione. Si devono innamorare del progetto, se comprendono la determinazione da cui nasce

“materiale” molti più impegni, ma se parliamo di successo interiore, quello che hai nel cuore è la più grande ricompensa che ci può essere per chi vuole fare questo lavoro, perché aver preso parte a film come Non essere cattivo e Suburra vale tutti gli sforzi. Cosa diresti a un ragazzo che vorrebbe fare l’attore? Prima di tutto bisogna essere sinceri con se stessi, riuscire a capire se davvero si è in grado di fare questo mestiere oppure no: io sapevo che non avrei potuto fare il calciatore e ho smesso. Per fare l’attore ci si deve semplicemente nutrire di questa arte, togliersi l’idea che si diventi ricchi, è un lavoro che va fatto come una specie di vocazione. Ti pone ogni giorno alla prova con te stesso e ti prepara a ricevere dei no, che sono molti più dei

sì nella carriera di un attore, d’altronde come i no che si prendono nella vita. C’è un personaggio che ti ha entusiasmato a tal punto da farti dire: “Caspita, avrei voluto farlo io”? Sono innamorato del Theodore interpretato da Joaquin Phoenix in Her di Spike Jonze, un personaggio di quelli che ti costringono a lavorare di fino, e non a caso hanno preso uno degli attori più bravi per farlo. Un ruolo simile sarebbe per me meraviglioso da interpretare perché si allontana moltissimo da quello che ho fatto finora, sarebbe una nuova sfida artistica. Quando hai preso coscienza di essere divenuto un attore? Quando Stefano Sollima mi ha chiamato per dirmi che sarei stato io Numero 8 [il suo personaggio in Suburra] dentro di me è scoppiato qualcosa, ho avuto la consapevolezza che questo per me era diventato un mestiere e non un hobby. Una volta che ho intrapreso questo cammino ho deciso che sarebbe stata la mia strada: altrimenti mi sarebbe piaciuto essere un atleta professionista di qualsivoglia sport, perché vedo negli atleti uno spirito di sacrificio e una dedizione che in qualche modo ritrovo nel mio mestiere. Programmi per il futuro? Ho lavorato a un film indipendente di un giovane regista del Centro Sperimentale che si chiama Michele Vanucci, non so che percorso farà ma è un altro piccolo miracolo. Per l’anno prossimo ci sono già diverse idee in ballo, bisogna solo avere il tempo di mettersi seduti e capire che strada prendere.

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- Opera prima -

PECORE IN ERBA

QUANDO

L’ODIO RIDERE FA

Basta con questo razzismo! Anche gli antisemiti hanno il diritto di esprimere se stessi! Su questo (folle) assunto si basa Pecore in erba, brillante mockumentary confezionato dall’esordiente Alberto Caviglia.

di VALENTINA D’AMICO

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Alberto Caviglia, romanissimo 31enne, dopo la laurea con una tesi su David Cronenberg ha frequentato corsi di regia presso la New York Film Academy e la London Film School. Collabora con Ferzan Ozpetek dal 2006.

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er riflettere sull’antisemitismo, il coraggioso Caviglia, che si è fatto le ossa sui set di Ferzan Ozpetek come assistente alla regia, ha deciso di esplorare le possibilità di un genere poco frequentato in Italia piegandolo a una romanità che trapela da ogni inquadratura. Pecore in erba (bisogna vedere il film per capire il titolo, diciamo che è un riferimento alla cultura

calcistica…) è un film politico e al tempo stesso un pazzo diario in cui il regista esplora le proprie radici, romane ed ebree, riflettendo sulla discriminazione, sulle deformazioni storiche e sulla violenza subita dal popolo ebraico. E cosa c’è di meglio di una bella risata per svecchiare un tema seminale e proprio per questo già ampiamente affrontato? «La scelta di usare la satira, nello specifico il

mockumentary, per parlare di antisemitismo è stata un punto di arrivo» ci racconta Alberto. «Volevo aggiungere un punto di vista nuovo all’argomento per dargli profondità. Sono consapevole che in molti prima di me hanno affrontato questo tema, perciò ho scelto di ribaltare la prospettiva trasformando il protagonista della mia storia, l’antisemita Leonardo Zuliani, in un eroe dei nostri giorni. A quel punto la scelta del mockumentary è stata automatica». Per amplificare ulteriormente la dimensione di follia con cui viene trattato il razzismo, Caviglia si è inventato addirittura una patologia sconosciuta dalla medicina tradizionale, l’antisemifobia, repulsione fisica all’ebraismo e alle sue manifestazioni. Basta, infatti, una

melodia ebraica per provocare a Leonardo un attacco convulsivo. Riflettendo sui modelli a cui si è ispirato per il suo originale progetto, il regista non può esimersi dal citare Zelig: «Lo humor è nel DNA ebraico e Woody Allen è un maestro. Ma oltre a Zelig, il mio punto di riferimento è stato Forgotten Silver, geniale mockumentary di Peter Jackson che in pochi conoscono. In Italia il falso documentario è un genere inesplorato, perciò sapevo di muovermi su un terreno delicato. Ero consapevole che chi non conosce questo linguaggio avrebbe capito il mio film più tardi rispetto agli altri, ma le reazioni in sala sono state buone. Il pubblico si è divertito e anche la critica lo ha accolto bene. Resta l’amarezza al pensiero che prodotti come il

«DAL FUMETTO ANTISEMITA BLOODY MARIO, ISPIRATO ALLE MOLESTIE NEI CONFRONTI DEL COMPAGNO DI SCUOLA EBREO, ALLA LINEA DI ABITI BACI EBREACCI, AL GRUPPO NEONAZISTA GRECO TRAMONTO DI BRONZO, PECORE IN ERBA È UN CALEIDOSCOPIO DI TROVATE SATIRICHE NONSENSE». 19


Per il suo film, prodotto da Luigi e Olivia Musini per On My Own, Alberto è riuscito ad avere la “partecipazione straordinaria” di personaggi come Tinto Brass, Elio, Fabio Fazio, Carlo Freccero, Gipi, Enrico Mentana, Vittorio Sgarbi, Kasia Smutniak e tanti altri.

«NEL FILM LEONARDO NON PARLA MAI PERCHÉ NON POSSIEDE UN’IDEOLOGIA. ODIA GLI EBREI, MA NON È IN GRADO DI SPIEGARE LA RAGIONE DEL SUO RIFIUTO. NON AVREI MAI VOLUTO SENTIRE LA SUA VOCE».

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mio rimangono in sala troppo poco tempo per sfruttare il passaparola, ma io ho fatto il film che volevo perciò sono soddisfatto». Anche se i modelli di riferimento cinematografici citati da Caviglia sono stranieri, guardando il suo film non può non venire in mente certa tv satirica italiana. Complice la presenza di Marco Ripoldi del Terzo Segreto di Satira, che interpreta il presidente della Lega Nerd (versione intellettuale della Lega Nord), i riferimenti al piccolo schermo si sprecano. «Uno dei temi trattati nel film è proprio la comunicazione, la relatività della verità esposta dai media» conferma il regista «e le webserie si prendono gioco della realtà, perciò sono state uno dei miei punti di riferimento. Ma è il mockumentary che, per sua natura, spinge a coinvolgere personaggi della cultura e della tv». Personaggi che non hanno tardato a rispondere all’appello. A sorpresa, in Pecore in erba compaiono Enrico Mentana, Carlo Freccero, Vittorio Sgarbi, Corrado Augias, Ferruccio De Bortoli, Linus, Mara Venier, Giancarlo De Cataldo, Giancarlo Magalli e tanti altri volti noti che si sono prestati al gioco interpretando se stessi. Nel raccontare di come sia riuscito a convincerli a partecipare al film, Alberto Caviglia non si sbilancia, tenendo per sé gli aneddoti più gustosi, ma ci svela che «alcuni, come Carlo Freccero, hanno dimostrato grande entusiasmo; altri, come Gipi e Sgarbi, si sono fatti pregare prima di dire di sì. Alla fine, però, tutti hanno accettato di farsi prendere in giro e di prendere in giro il


proprio ruolo». Un caso a parte è rappresentato dal cast di Paura d’odiare, dramma fictional ispirato alla vita di Leonardo Zuliani dai toni molti vicini alla soap più infima, i cui frammenti vengono genialmente incastonati tra le finte immagini di repertorio e le interviste. A interpretare Zuliani – a fianco del “titolare” Davide Giordano – è Vinicio Marchioni. Con lui vi sono Margherita Buy nei panni della madre, Carolina Crescentini in quelli della fidanzata, mentre il padre ha il volto severo di Francesco Pannofino. La coppia Crescentini-Pannofino, peraltro, rievoca quella grande satira dell’industria televisiva che è Boris. «È vero che ho riunito parte del team di Boris, ma non era voluto. Erano ruoli marginali, quasi mi vergognavo a proporre la sceneggiatura a Carolina. Ma lei e Vinicio, dopo averla letta, hanno accettato immediatamente. Quanto a Margherita Buy, era oltre ogni mia ambizione averla sul set,

ma anche lei ha dimostrato grande sense of humor». In questo gioco di specchi tra realtà e finzione, non sono però reali i membri della comunità ebraica che compaiono nel finale. Alberto ci tiene a puntalizzare di non aver subito veti o censure nella realizzazione del film, ciononostante ha deciso di non calcare troppo la mano. «Se è vero che l’umorismo ebraico ha radici antiche, è vero anche che la comunità ebraica di Roma, in passato, non ha brillato per ironia o autoironia. L’importante è che tutti abbiano compreso il messaggio del mio film. A Roma si sono verificati episodi di intolleranza, ma lo stesso è accaduto in altre parti d’Italia. Non è per questo che ho scelto di ambientare qui il mio film. Roma è la mia città. Trastevere è il quartiere che amo ed è stato naturale per me puntare la macchina da presa sui luoghi che conosco». E proprio a Trastevere vive e si muove Leonardo Zuliani. Qui il giovane affetto da

antisemifobia concepisce tutte le sue trovate razziste, accolte con successo dal pubblico. Dal fumetto antisemita Bloody Mario, ispirato alle molestie nei confronti del compagno di scuola ebreo, alla linea di abiti Baci Ebreacci, dalla New Bible Redux, edizione della Bibbia da cui sono stati espunti tutti i riferimenti agli ebrei, al gruppo neonazista greco Tramonto di Bronzo, Pecore in erba è un caleidoscopio di trovate satiriche nonsense. Come spiega il regista «in fase di scrittura, ho scoperto che il film si stava trasformando in una sorta di meraviglioso contenitore e ogni giorno inserivo nuove trovate. Il finale è una follia, ma ho scelto di concludere rivolgendomi all’unico personaggio sano del film, il nonno di Leonardo [Omero Antonutti]. L’importante era mettere in chiaro che il mio non era un film antisemita e non volevo che ci fossero ambiguità al riguardo». Ambiguità che invece

appartengono al personaggio di Leonardo Zuliani, in apparenza quanto di più lontano dai classici naziskin haters degli ebrei. Al posto del cranio rasato, Leonardo ha una chioma di riccioli fluenti, accompagnati dagli occhi sgranati e da un animo, in apparenza, sensibile. Ma nel fitto puzzle di testimonianze e interviste in cui si parla di lui, non sentiamo mai la sua voce. «Leonardo non parla perché non possiede un’ideologia» chiarisce Alberto. «Lui odia gli ebrei, ma non è in grado di spiegare la ragione del suo rifiuto nei loro confronti. Non avrei mai voluto sentire la sua voce». L’ultima curiosità riguarda Ferzan Ozpetek, con cui Caviglia ha collaborato per sette anni. Eppure la sua opera d’esordio è quanto di più lontano si possa concepire dal cinema del regista turco. La spiegazione è semplice: «Ozpetek mi ha insegnato tutto ciò che so sul mestiere del regista, ma stavolta la sfida era metterci del mio!».

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UN SUCCESSO CHE CONTINUA A CRESCERE

di GIANLUCA BIANCHI

Sono passati otto anni da quando nel 2007 fu costituita l’Apulia Film Commission. Otto anni nei quali, grazie alla competitività dei servizi, alla professionalità delle maestranze e all’abbattimento dei costi di trasferta, cast, troupe e location scouting, la fondazione è riuscita ad attrarre svariate produzioni audiovisive sul territorio pugliese. 22


A spiegarci il successo e i progetti di Apulia Film Commission è il direttore DANIELE BASILIO, che abbiamo incontrato nella sede principale di Bari.

Possiamo definire questa fine anno come il momento “caldo” dell’Apulia Film Commission, visti i tanti progetti che spaziano dalla fiction al cinema passando per l’Opportunity Tour dove la RAI incontra i territori alla ricerca di nuove idee da produrre. Come vi spiegate questa richiesta di Puglia? Il 2015 è stato molto importante per noi perché ci ha dato un segnale di conferma delle attività. Siamo riusciti addirittura a crescere, portando quest’anno a 54 le opere audiovisive realizzate in Puglia. Ma soprattutto abbiamo ampliato il range della tipologia dei progetti, da quelli più specificatamente d’autore a quelli più commerciali. Ad esempio abbiamo avuto a Cannes il film di Matteo Garrone Il racconto dei racconti che ci ha dato grande soddisfazione e orgoglio, e La prima luce di Vincenzo Marra in concorso a Venezia. Senza dimenticare film più recenti come Matrimonio al sud, Loro chi?, Belli di papà. Una cosa per noi poi molto importante è che stanno aumentando le coproduzioni straniere in inglese. Abbiamo prodotto il remake di Point break e stiamo collaborando con produzioni americane e cinesi per pianificare le attività per il 2016. Personalmente credo che i motivi principali di questo successo siano riconducibili alla competenza, alla conoscenza del mercato e alla familiarità con la quale ci poniamo nei confronti delle produzioni, incentivandole a usufruire di strumenti quali il tax credit.

Alla luce della diversificazione dei progetti nei quali siete impegnati, credi ci sia differenza tra sostenere un film d’autore e uno di “cassetta”? Dal nostro punto di vista direi di no. Del resto basta guardare i bandi con i quali selezioniamo i film per capire come per noi le differenze tra i progetti tendano ad assottigliarsi. Il cinema italiano con i suoi autori resta fortemente riconoscibile e apprezzato. Il decremento degli incassi del cinema italiano in sala credo sia dovuto al cambiamento delle richieste del mercato, che porta sempre di più in sala dei progetti simili alle serie televisive che la gente guarda in casa. Comunque i grandi autori, così come le nuove leve, ci stanno dando già un segnale di interesse nei confronti dei prodotti di genere. Credo che sempre di più vedremo progetti di questo tipo, orientati verso generi senza tempo come l’animazione. Cosa pensa della fiction italiana? È davvero in crisi di idee o spesso è solo più comodo non rischiare e produrre storie d’appendice? Sono anni che per noi la fiction rappresenta la possibilità di creare lavoro e sviluppo in maniera continuativa nel tempo. Diciamo che è anche un tipo di attività che permette ai talenti locali di crescere, creando quindi occupazione. Lo stesso Opportunity Tour RAI tende a creare continuità tra le

varie produzioni, abbattendo i confini tra chi finanzia e chi si occupa dell’ideazione. Ci piace sottolineare che siamo alla terza stagione di Braccialetti rossi, abbiamo poi aperto il Roma Fiction Fest con un lavoro di Marco Tullio Giordana, Lea. In TV Questo è il mio paese di Soavi ha avuto ottimi riscontri. In definitiva noi guardiamo alla fiction come un comparto unitario che ingloba sia il cinema che la televisione passando per le webserie. Credo inoltre che l’avvento di nuovi players come Netflix imporrà un cambio di rotta che ci indirizzerà verso una condivisione di progetti e commistione di attività decisamente più varia. Qual è la difficoltà più grande del vostro lavoro? Quanto c’è di creativo e quanto di burocratico? Il nostro ruolo è quello di attrarre produzioni in Puglia per creare occupazione e sviluppo. Per promuovere il territorio bisogna però saper parlare la stessa lingua dei produttori, dei broadcaster, dei registi. Bisogna dare risposte velocemente, è necessario essere anche veloci finanziariamente e soprattutto accogliere le produzioni e aiutarle nella ricerca delle locations. Le difficoltà per noi non sono più sul mercato nazionale, dove spesso c’è collaborazione, ma su quello internazionale, dove bisogna riuscire, attraverso i festival e gli incontri di settore, a convincere le produzioni estere a venire qui. Dobbiamo competere con realtà come la Romania, l’Irlanda, la Polonia dove gli incentivi fiscali sono incomparabili a quelli che può erogare una

piccola regione del Sud Italia come la Puglia. Tuttavia, puntando sulla competenza e sulla professionalità riusciamo comunque a fare tanto cinema internazionale. Quali sono i giovani pugliesi che avete seguito? Ci sono tanti giovani registi pugliesi che si stanno distinguendo per i loro risultati. Non voglio dimenticare nessuno ma sicuramente vanno citati Roberto De Feo e Vito Palumbo che vedono il loro cortometraggio tra i possibili selezionati per l’Oscar. Penso a Mattia Epifani e a Giacomo Abbruzzese che da anni tratta temi impegnati. Esiste una struttura didattica per formare nuove leve cinematografiche? Personalmente non credo nella creazione di una scuola fatta dalle varie film commission. La formazione va fatta dalla scuole specializzate in Italia e in Europa e poi, successivamente, le varie film commission possono aiutare queste scuole a realizzare i loro corsi specialistici per la professionalizzazione di determinate figure sul territorio. Tre aggettivi per definire il cinema italiano del futuro. Direi che il cinema giovane è in fermento, è internazionale ed è impaurito. In fermento perché lo scambio di idee e progetti è vivo e attivo. Internazionale perché sempre più il raffronto e lo scambio sono orientati verso altri paesi. Ma impaurito perché alla sfida dei contenuti non corrisponde una sfida sui modelli di business. Direi che la classe autoriale spinge la classe produttiva ad agganciare il mercato che si evolve, ma credo che questa scollatura durerà ancora per poco.

Nelle foto di apertura da sinistra i frames dei film Belli di papà, Matrimonio al sud, La prima luce e Il racconto dei racconti.

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- Nazione Web -

ALTO, BASSO, FRAGILE

Tutte le ragazze con una certa cultura e Klondike : le due webserie che hanno vinto il Roma Web Fest raccontate dai loro autori. di GIOVANNA MARIA BRANCA

Fino a una decina di anni fa sembrava che la generazione dei trentenni dovesse coincidere, nell’immaginario comune, con la rappresentazione del mucciniano Ultimo bacio. Bamboccioni, per usare un termine allora in voga, in difficoltà di fronte alle responsabilità poste dal giro di vite dell’ingresso nell’età adulta. Dal 2001 di quel film tutto, o quasi tutto, sembra cambiato, per coloro che trent’anni li hanno adesso ma anche nelle forme che prende la cultura di massa, sempre più legata al piccolo schermo e al web. E proprio dal web arrivano due serie che ci parlano di questa

generazione, attraverso il veicolo della commedia e da due punti di vista complementari: quello più drammatico del lavoro e quello esistenziale dell’amore. In comune hanno anche un trionfale passaggio al Roma Web Fest, di cui hanno conquistato i premi principali. La prima è Tutte le ragazze con una certa cultura – regia di Felice Valerio Bagnato, soggetto di Roberto Venturini – che ha vinto il titolo di Migliore opera italiana, e racconta la travagliata storia d’amore tra Luca, assistente universitario e correttore di bozze, e Silvia, studentessa. «La serie risale al 2013 – chiarisce

Roberto Venturini – Felice aveva letto un mio racconto e voleva farne un corto, per cui abbiamo lavorato insieme all’adattamento della storia, che essendo scritta per immagini era già una sceneggiatura a tutti gli effetti. Poi è esploso il fenomeno delle serie su internet, così Felice ha pensato di farne anche una webserie. Il titolo originale era Tutte le ragazze di una certa cultura tengono appeso in camera almeno un poster di un dipinto di Schiele, troppo lungo per questo tipo di formato...». Un titolo che inquadra però il mood di questa love story: Luca e

Silvia sono assidui frequentatori del quartiere Pigneto a Roma, emblema del coefficiente “radical chic” dei personaggi e delle situazioni. Insieme, i due protagonisti si compensano narrativamente, «fanno un personaggio a 360 gradi», spiega Roberto, con i loro momenti di leggerezza e depressione. E soprattutto Tutte le ragazze fa l’ironico catalogo di una serie di tipi umani che circola in quest’ambiente intellettuale o pseudo-tale: dai fanatici di David Foster Wallace a quelli degli orti biodinamici, fino ai frequentatori assidui delle mostre

«ABBIAMO CERCATO DI MESCOLARE L’ALTO E IL BASSO: DALLA PSICANALISI A BIM BUM BAM».

Due opere complementari geograficamente e per la precarietà che in una contraddistingue l’amore e nell’altra il lavoro.

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d’arte contemporanea che si svegliano nel cuore della notte per guardare in segreto Uomini e donne di Maria De Filippi. In questo collage che dà forma all’amore tra i due protagonisti ogni episodio è aperto da una citazione: «Abbiamo cercato di mescolare l’alto e il basso: dalla psicanalisi a Bim Bum Bam. Il protagonista è a tutti gli effetti un ragazzo cresciuto negli anni Novanta, quindi i riferimenti sono alla cultura di massa di quei tempi, dai cartoni alle pubblicità e soprattutto alla letteratura di allora, che è una mia passione». Perché in definitiva si tratta di un lavoro autobiografico, senza troppi complessi: «Luca sono io, che faccio il correttore di bozze e collaboro con delle case editrici. È una storia che vuole essere universale raccontando però un mondo particolare, quello dei radical chic del 2015». Una certa sfumatura di autobiografia c’è anche nell’altro lavoro che ha conquistato la giuria del Roma Web Fest, portando a casa il titolo di Miglior serie: Klondike – La corsa all’oro della Buoncostume, collettivo di autori formato da Carlo Bassetti, Simone Laudiero, Fabrizio Luisi e Pier Mauro Tamburini.

Non siamo più a Roma ma a Milano, capitale dei “creativi”, categoria alla quale appartengono i due protagonisti Carlo e Fabrizio, che tra uno spritz e l’altro cercano di portare a termine dei progetti che fruttino qualcosa al loro conto corrente sempre in rosso di lavoratori a partita IVA e regime dei minimi. A differenza di Venturini, che si affaccia sul mondo della narrazione per immagini proprio con Tutte le ragazze, i membri della Buoncostume hanno un fitto curriculum alle spalle. «La nostra prima webserie risale al 2009 – racconta Simone Laudiero – l’ultima prima di Klondike, Faccialibro, è stata una delle poche webserie fiction e non di sketch a superare il milione di visualizzazioni». Inoltre lavorano per la TV, avendo scritto tra l’altro Camera Cafè e Il Candidato. «La ragione per cui abbiamo realizzato Klondike – spiega ancora Simone – è che ci mancava un prodotto in cui anche la regia fosse nostra e più “evoluta”, dato che nei lavori precedenti era minima, al servizio dei momenti di comicità. Si possono anche trovare dei bravissimi registi, ma non sempre le sensibilità si allineano alla

perfezione: non a caso moltissimi comici finiscono per girarsi le cose da soli. È una questione di ritmi e di sguardo sul mondo». Come Tutte le ragazze, Klondike fa riferimento a una cultura condivisa, stavolta soprattutto cinematografica. Il citazionismo, per Simone, è infatti «un dato acquisito. Dai Simpson in poi è la norma: la nostra generazione è cresciuta con l’immaginario pop, non avrebbe senso raccontarla in un altro modo». Attraverso le avventure tragicomiche di Carlo e Fabrizio – che custodiscono in uno scrigno un video di loro stessi che giurano di non accettare mai più un lavoro non pagato con la promessa della fantomatica “visibilità” – Klondike getta una luce sul mondo dei precari, dei freelance e così via. «Sul tema del lavoro – prosegue Simone – ci sono due grandi narrazioni: quella dei ministri che ci chiamano bamboccioni, ci dicono che non dobbiamo essere choosy eccetera, a cui giustamente rispondiamo che ci diamo da fare e paghiamo le tasse

come se gestissimo un’azienda con decine di dipendenti. E poi c’è la nostra narrazione, per cui siamo degli eroi, degli esperti della sopravvivenza urbana, i nostri genitori hanno avuto la strada spianata mentre noi dobbiamo lottare con le unghie e con i denti. E anche questo è falso, perché alla fine nel grande calderone c’è anche molto fancazzismo. I nostri personaggi rispecchiano entrambe queste anime: di gente che non ha mai tregua e contemporaneamente non mette mai la quinta e non parte davvero». Carlo e Fabrizio incarnano la corsa all’oro di una generazione vessata e confusa, come gli avventurieri che andavano nel Klondike alla ricerca dell’oro e che per Laudiero ricordano tanto il mondo dei creativi: delle centinaia che partivano «uno trovava l’oro e gli altri prendevano la polmonite, buona metafora di questa generazione in cui si vuole contemporaneamente diventare il regista degli Avengers e Nanni Moretti, essere ricchi e non scendere a compromessi».

«CARLO E FABRIZIO INCARNANO LA CORSA ALL’ORO DI UNA GENERAZIONE VESSATA E CONFUSA».

Le webserie sono entrambe autoprodotte, e costituiscono un “biglietto da visita”, come lo chiama Venturini, per il futuro.

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- Futures -

ROBERTO DE FEO

SI È FATTO NOTARE CON ICE SCREAM, L’UNICO CORTO ITALIANO DA CUI È STATO TRATTO UN LUNGOMETRAGGIO HOLLYWOODIANO, E CHILD K, PRESELEZIONATO PER GLI OSCAR.

C’È CHI DICE NO

(A HOLLYWOOD)

Una sala cinematografica, proiezione in corso, sullo schermo scorrono le immagini di un corto. A un certo punto però qualcosa va storto. Si accendono le luci in sala, gli spettatori sono abbagliati dall’imprevista interruzione. Cos’è successo? Nel corridoio del cinema c’è una persona a terra. E un uomo la sta trascinando via, tenendola per i piedi. di ILARIA RAVARINO foto PAOLO PALMIERI Sembra una scena da thriller ma è successo davvero, a Milano, durante la proiezione del corto “splatter” Ice Scream di Roberto De Feo. Classe ’81, sei corti, un paio di lungometraggi in predicato, un’esperienza a Hollywood e la sua biografia già su Wikipedia, per comprendere il personaggio De Feo bisogna ripartire da quella scena. Perché l’uomo in piedi in mezzo alla sala, scoperto nell’attimo in cui sta occultando il corpo di uno spettatore svenuto, è proprio lui. E se scivolava via nel buio, in silenzio come un ladro, era solo per un motivo: evitare di interrompere la sacralità della

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proiezione del suo film. In una decina d’anni di lavoro sui set, fino alla consacrazione internazionale proprio con Ice Scream (per la cronaca: unico cortometraggio italiano da cui sia mai stato tratto un lungometraggio hollywoodiano) De Feo si è imposto tanto per il talento quanto per il carattere passionale e determinato (ma la sintesi la offre lui: «rompiballe»). Da Bari se n’è andato a Hollywood, e dopo un anno e mezzo è tornato. Con un corto sulla via dell’Oscar, una foto con John Carpenter in tasca e una causa aperta con i produttori americani di Ice Scream Remake.


Ci racconti come hai cominciato? Mi sono imbattuto per caso ai primi del 2000 in una scuola di cinema di Genova, la Scuola d’Arte Cinematografica, che mi ha convinto per due motivi: tutti i professori erano già inseriti nell’ambito lavorativo e c’era la possibilità di fare esperienza sui set in città. L’ho frequentata per quattro mesi, mi ha dato le basi.

fatto American Psycho e pensi che queste siano le ultime cose di cui devi preoccuparti. E invece... non solo abbiamo perso un anno di lavoro, ma piano piano hanno cominciato a farci pressioni per fare altri cambiamenti. Il film è diventato un’altra cosa. Sono andato fuori di testa. Ho abbandonato tutto minacciando una causa alla produzione.

Nel 2007 è arrivato H5N1, il corto apocalittico sull’aviaria: un piccolo caso... Avevo girato il mio primo corto, Vlora 1991, qualche anno prima. Era un piccolo film sullo sbarco degli albanesi sulle coste italiane. Con H5N1 sono andato in un’altra direzione. Il tema ha creato subito interesse e ha fruttato un budget importante, 100.000 euro. Abbiamo vinto la sezione sci-fi del festival di Rhode Island, ma... sono critico. Oggettivamente in quel corto ci sono parecchi errori. Però quel successo ha permesso a me e al co-regista Vito Palumbo di tentare l’avventura di Ice Scream.

Cos’hai imparato da questa esperienza? Per quanto tu possa credere di vivere in un sogno, prima o poi ti devi scontrare con la realtà. Avevamo una produzione che ha messo in mano il film alle persone sbagliate. Gente che ha fatto errori di valutazione incredibili, e poco conta che fra di loro ci fosse il produttore esecutivo di Killer Joe. Non si manda in final mix un film senza avere le garanzie sul primo blocco del girato. Fa rabbia pensare che siano stati sbagli dettati da un presuntuoso “siamo americani, lo possiamo fare”.

Ice Scream è arrivato fino a Hollywood. Doveva diventare un lungo: cosa è successo? Il lungo non credo che uscirà più. Io stesso remo contro. Perché? Il film era finito un anno e mezzo fa, pronto per essere distribuito. Solo che all’improvviso la produzione ha deciso che avremmo dovuto rimetterci le mani. La prima parte del film era stata costruita con una serie di video presi da YouTube, sui ragazzi vittime di bullismo. Peccato che nessuno si fosse premurato di chiederne i diritti. Cioè: vai in America a girare un film con gli stessi che hanno

Lavoreresti ancora negli Stati Uniti? Con le persone giuste sì... certo, vallo a capire prima. Come si conoscono le “persone giuste”? Attraverso i festival. L’importante è riconoscere il festival capace di darti credito agli occhi dei produttori, di farti curriculum. Negli Stati Uniti ci sono tanti festival del circuito degli Oscar che vale la pena provare. Lì arrivano migliaia di corti ogni anno, e se vieni preso vuol dire che una possibilità di fare il regista ce l’hai. Tutto sta poi nel sapersi vendere dopo che un festival ti ha selezionato.

Un consiglio pratico per questo vago “sapersi vendere”? Posso dire quel che ho fatto io. Ho scelto il tema di Ice Scream dopo aver fatto a tavolino un ragionamento strategico, quasi da psicopatico. Ho pensato: come posso fare qualcosa che faccia parlare di me, che non sono nessuno? Nei festival italiani per tanti anni ho visto sempre le stesse storie. Mancava uno splatter, un film diverso, dall’impatto emotivo violento. E allora mi sono detto: ci provo. Nel giro dei festival hanno cominciato a invitarci perché volevano il corto “estremo”. E dopo che un ragazzo è svenuto al cinema, a Milano, si è scatenato l’inferno: ottanta festival l’hanno preso senza nemmeno vederlo... Da fan del pulp: hai mai cercato di contattare Tarantino? Figuriamoci: Ice Scream si apriva con un’introduzione animata in cui Tarantino uccide Nanni Moretti. L’ho mandato a Nanni Moretti e... ... e come l’ha presa? Malissimo. Si è offeso, pare. Non sarebbe stato più strategico mandarlo a Tarantino? Tarantino l’ho incontrato a Venezia quando era presidente di giuria. L’ho incrociato fuori da una delle sale, era in ciabatte: un mito. Disse di lasciargli il film nella sua cassetta personale nell’hotel in cui alloggiava. L’ho fatto, ma quella cassetta era già gonfia di DVD. Dubito che l’abbia mai visto.

La diplomazia non è il tuo forte, ma con i colleghi della tua generazione come ti trovi? Mi piacerebbe fare gruppo, anche se caratterialmente sono un solitario. Il sistema cinematografico italiano purtoppo non invita a unire le forze: quando il rapporto è di due produttori per dieci registi... Il tuo corto Child K è in preselezione agli Oscar. Da dove arriva l’idea? L’idea è stata di Vito. Ha visto in tv un monologo di Paolini sulla storia di un contadino che scrive a Hitler per autorizzare l’uccisione del figlio disabile, e mi ha subito chiamato. Il soggetto è stato sviluppato da Colorado Film e finanziato anche da due case di produzione pugliesi. Circa 70.000 euro, tutti investiti nel progetto. Il produttore di Schindler’s List ci ha notati, chiamati al festival di Zagabria e sostenuti nell’uscita in sala a Los Angeles. Altri lunghi in cantiere? Colorado ha opzionato alcune mie storie. Avremmo dovuto girare il primo film questa estate, ma le riprese sono state rimandate. Ora ho appena finito l’esperienza con Biennale College, che mi ha selezionato insieme ad altri undici registi da tutto il mondo, e sto aspettando che scelgano i progetti da sviluppare. Il mio, Ngujuar, è un film da girare in Albania: parla di gente che vive segregata in casa per il timore di essere uccisa per vendetta. È la legge medievale del Kanun a stabilirlo: lo stesso testo cui si è ispirata Laura Bispuri per il suo Vergine giurata.

«TARANTINO L’HO INCROCIATO A VENEZIA QUANDO ERA PRESIDENTE DI GIURIA, FUORI DA UNA DELLE SALE, ERA IN CIABATTE: UN MITO».

Child K.

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- Speciale Mestieri -

CUT a cura di CHIARA CARNÀ foto BRUNELLA IORIO

Andrea Gagliardi

«Tutto quanto precede il montaggio è semplicemente un modo di produrre una pellicola da montare», dichiarò eloquentemente Stanley Kubrick. E basta riflettere qualche secondo per rendersi conto che, senza il montaggio, verrebbe meno qualsiasi coerenza narrativa o emotiva della rappresentazione cinematografica. La storia della settima arte ha visto tale pratica trasformarsi da semplice accostamento di inquadrature in prezioso contributo artistico e portavoce di una precisa istanza creativa. Ci limiteremo a citare il genio innovativo di pionieri quali D.W. Griffith o Sergej Ejzenstein; gli esperimenti di Jean-Luc Godard, all’insegna della discontinuità; il realismo magico di Federico Fellini. Troppo spesso, tuttavia, si commette l’errore di immaginare la professione del montatore come quella di un mero esecutore delle velleità registiche, relegato davanti al computer a fare taglia e cuci. Tra il montatore e il regista, ammesso che le figure non coincidano, s’instaura piuttosto un vivace e stimolante scambio dialettico per dar vita a stile, linguaggio e ritmo del film. Abbiamo intervistato cinque professionisti del settore, per saperne di più su come si costruisce l’ossatura di una pellicola.

Simone Manetti

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PASTE Il lavoro del montatore, a metà tra l’atto creativo e la perizia dell’artigiano. I cinque protagonisti del nostro dossier svelano i segreti del Final Cut.

Davide Vizzini

Paolo Landolfi

Marco Careri

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CHE PERCORSO HAI INTRAPRESO PER DIVENTARE MONTATORE? QUALI SFIDE S’INCONTRANO NEL MONTAGGIO DI UN’OPERA AUDIOVISIVA? QUALE ESPERIENZA PROFESSIONALE È STATA PER TE MAGGIORMENTE FORMATIVA E CHE TIPO DI CINEMA TI APPASSIONA? UN BRAVO MONTATORE QUALE CONTRIBUTO PUÒ OFFRIRE A UN FILM?

«LE IMMAGINI DEVONO CONNETTERSI CON LA SENSIBILITÀ DELLO SPETTATORE». ANDREA GAGLIARDI Mi occupo di montaggio dai tempi dell’università, quando mi divertivo ad assemblare corti miei e di alcuni compagni di studi. Poi ho incominciato a lavorare a documentari e programmi televisivi, frequentando parallelamente un master in montaggio audiovisivo. Sono approdato al cinema un paio di anni fa, dopo un lungo periodo in cui ho lavorato principalmente per la TV e la pubblicità. Lavorare a un film credo sia la sfida più affascinante e complessa per un montatore. Il montaggio, infatti, è un lavoro che si sviluppa su più livelli. In primo piano c’è l’aspetto narrativo: deve permettere che l’intreccio del film si dipani in modo chiaro e sensato. Poi c’è quello emozionale: è necessario che s’instauri una relazione empatica con lo spettatore, che permetta alle immagini di entrare in contatto con la sua sensibilità. Infine, quello meramente formale, estetico. Da spettatore e cinefilo prediligo il cinema indipendente, d’autore, sia americano che europeo. Come montatore, invece, non c’è un genere che preferisco. Le mie esperienze lavorative più importanti riguardano due film diametralmente opposti. L’esigenza di unirmi ogni volta con te, di Tonino Zangardi, è un’avvincente storia d’amore e di passione, interpretata da Claudia Gerini e Marco Bocci. L’altro è Bite, di Alberto Sciamma: un caleidoscopio di generi, personaggi e situazioni paradossali, che trascina con violenza lo spettatore in un immaginario visionario. Credo che nella creazione di un film il montatore si collochi in un’insidiosa “terra di mezzo”. Il suo ruolo cruciale è in bilico tra quella che è l’istanza narrativa, artistica e stilistica del regista e degli autori del film, le esigenze commerciali dei produttori e le aspettative del pubblico. A mio avviso, un bravo montatore dev’essere in grado, nei limiti del possibile, di rappresentare tutte queste differenti voci e farle confluire in modo organico e compiuto in un’opera cinematografica.


SIMONE MANETTI La prima passione visiva è stata la fotografia (statica), amore che persiste tutt’oggi. Il percorso che mi ha portato, o meglio, che mi sta facendo vivere questo periodo da montatore è iniziato assemblando le prime cose girate con vecchie telecamere; è passato dalla regia di videoclip che, con poco budget, si era costretti a montare da soli, per poi passare dal CSC. L’esperienza insegna tantissimo, ti migliora, ma credo che quello del montaggio sia un mondo più vicino all’istinto che alla tecnica. Spesso si tende ad accostare la figura del montatore a una persona che sa utilizzare i software, ma pensarla così è come valutare la bravura di uno sceneggiatore in base a quanti shortcuts conosce di Word. Le sfide sono sempre diverse e cambiano da film a film. Nella maggior parte dei casi sono questioni futili e noiose, come budget e tempistiche. In realtà il fulcro dovrebbe essere sempre e solo la narrazione. La sfida è quella di scovare nel materiale i suoi naturali incastri, affinché le emozioni che sono presenti possano prender vita con tutta la forza che riescono a esprimere. Il film che mi ha dato di più in assoluto a livello professionale coincide con il mio esordio cinematografico. Montare La prima cosa bella di Paolo Virzì, appena uscito dal Centro Sperimentale, è stata un’esperienza dura e bellissima. Quando si lavora fianco a fianco con menti brillanti c’è solo da cercar di assimilare il più possibile. Senza dubbio, lavorare solamente a un film alla volta.

«QUELLO DEL MONTAGGIO È UN MONDO PIÙ VICINO ALL’ISTINTO CHE ALLA TECNICA». DAVIDE VIZZINI Tutto è iniziato al CSC nel 2004. Il colloquio di ammissione, con Roberto Perpignani, è stato illuminante sull’importanza di dedicarsi con passione al cinema seguendo la propria inclinazione creativa. Sono contento di aver intrapreso questo percorso e di occuparmi di una fase creativa fondamentale e stimolante come quella del montaggio. L’unico rimpianto è di condurre una vita molto sedentaria. Le sfide sono tutte legate al concetto di possibilità, che nel montaggio sono praticamente infinite. Mi chiedo continuamente se ho fatto il miglior taglio possibile ai fini del racconto, delle esigenze del regista (con cui è necessario, o almeno auspicabile, lavorare in un rapporto simbiotico) o dello stile del montaggio stesso. Altre sfide sono capire quando contravvenire alla sceneggiatura, quando cambiare la linearità della struttura, fino all’estremo produttivo (e non creativo) di capire quando smettere di montare… È faticoso ma anche profondamente appassionante.

«CREDO CHE UN BUON MONTATORE SIA UN BUON NARRATORE».

La prima è un’esperienza di montaggio “domestica” per un folle cortometraggio molto ambizioso, quasi diciotto anni fa. L’approccio con le tecnologie di allora fu traumatico, ma mi costrinse a inventare soluzioni e mi insegnò a trattare con i registi. L’uomo giusto, il mio battesimo nel cinema di finzione, fu utile per accrescere il mio senso di responsabilità creativa di fronte a un film. Infine, il documentario Giallo a Milano mi ha permesso di confrontarmi con la mia idea di racconto, valorizzando la funzione del montaggio. Credo che un buon montatore sia un buon narratore, qualsiasi cosa racconti e qualunque sia il formato del racconto. Non meno importante è il contributo che il montatore dà non mimetizzandosi nel suo lavoro (mi piace vedere un cinema con forti sperimentazioni al montaggio) ma diventando una seconda voce, un controcanto armonioso.

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PAOLO LANDOLFI La mia passione per il cinema nasce all’ultimo anno delle superiori, quando il mio professore d’italiano affiancava allo studio della storia la visione di tanti film. All’università, contemporaneamente allo studio teorico, ho lavorato a molti progetti come videomaker. In quegli anni ho capito che mi appassionava la fase del montaggio, che ho approfondito al CSC confrontandomi con registi sempre diversi e imparando dai grandi professionisti. Il tutto supportato da un vero maestro, Roberto Perpignani. Credo che le sfide cambino in base alla propria esperienza e storia. Le mie sono: non cadere vittima degli schemi che, per un motivo o per un altro, tendi a crearti; trovare la dose più alta di entusiasmo (e di pazienza!) per ogni progetto a cui lavori; creare un rapporto limpido e confidenziale con il regista e un equilibrio (stilistico ed emotivo) interno alle scene e strutturale nel film. Risolvere le sfide alimenta la passione e genera risposte creative a cui non avresti mai pensato. Il terzo tempo ha rappresentato il mio primo vero impatto col mestiere. In quell’occasione ho capito che potevo e sapevo fare questo lavoro e ho acquisito consapevolezza delle mie capacità. Apprezzo i film, d’autore e non, che parlano di “cose semplici”, che raccontano l’uomo. Credo che saper raccontare e far emozionare con storie non artificiose sia una grande dote.

«OGNI SCENA DEVE TRASMETTERE UNA PRECISA EMOZIONE».

Un lungometraggio è diviso in momenti molto diversi tra di loro e ogni scena deve trasmettere una precisa emozione. Una delle parti più affascinanti del mio lavoro è proprio individuare e costruire la miglior gradazione d’emozione per ogni istante. Per fare questo si lavora sul ritmo, sulla storia, sulla musica ma soprattutto sulla recitazione.

MARCO CARERI Negli anni dell’università ho avuto l’opportunità di partecipare attivamente al laboratorio creativo La Sterpaia di Oliviero Toscani. Parallelamente spaziavo dal montaggio di programmi televisivi ai videoclip, passando per i cortometraggi e gli spot. Poi, a Roma, ho iniziato a lavorare con registi e produzioni che hanno investito nelle mie qualità affidandomi progetti sempre più impegnativi e stimolanti. Ho partecipato a numerosi concorsi (ultimi il 48th Film Project e il Roma Creative Contest) ottenendo tre premi per il miglior montaggio. È l’inizio di un nuovo progetto il momento che più mi appassiona. Trovarmi di fronte alle immagini per la prima volta, “ascoltarle” e individuare la giusta linea d’azione, plasmando un materiale che appare, a prima vista, disorganico e sconnesso. Il montaggio offre la possibilità di esprimere la propria creatività in idee inedite, in cui mettere alla prova anche l’esperienza professionale acquisita. Ogni esperienza arricchisce la scatola degli attrezzi che ci portiamo dietro. Con il regista instauro uno scambio creativo e formativo, di fiducia e rispetto, che ha come obiettivo finale, ovviamente, il miglioramento della qualità del lavoro. Amo tutto il cinema, o quasi, e in quanto montatore mi sono sempre appassionato all’opera di Hitchcock e di Scorsese, che hanno saputo fare del montaggio un punto di forza indiscutibile. È una quadratura del cerchio: distinguersi attraverso un proprio personalissimo punto di vista, un approccio e uno stile riconoscibili e, al contempo, saper farsi invisibile: nascondere allo spettatore l’artificio del montaggio accompagnandolo nell’illusione della realtà. Allo stesso tempo, deve assecondare l’andamento emotivo del racconto cinematografico. Oltre ad avere una propria sensibilità, occorre saper connettersi con quella di chi ha scritto la storia e di chi l’ha messa in scena.

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«CON IL REGISTA INSTAURO UNO SCAMBIO CREATIVO FATTO DI FIDUCIA E RISPETTO».



- Icone -

IL RUGGITO DELLA LEONESSA

INCONTRARE LINA WERTMULLER NON È CERTO UNA QUESTIONE DA POCO. IN PRIMO LUOGO PER LA SUA ATTIVITÀ ARTISTICA DALLO STILE FORTEMENTE PERSONALE, COME GLI ORMAI CELEBRI OCCHIALI BIANCHI, E, POI, PER QUEL CARATTERE VOLITIVO CHE, FUORI E DENTRO IL SET, HA CONTRIBUITO A COSTRUIRE IL MITO DI “UN OSSO DURO” DA AFFRONTARE.

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LINA WERTMULLER di TIZIANA MORGANTI foto FRANCESCA FAGO

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l fatto è che Lina (87 anni vissuti tutti con passione), restia a raccontarsi e a celebrarsi, prova molto più interesse per le vicende altrui che per le proprie. Per questo motivo, dopo avermi accolto nella sua casa a pochi passi da Piazza del Popolo tra meravigliose lampade tiffany e sotto lo sguardo vigile del gatto Nerone, sembra preferire i miei racconti ai suoi ricordi. Eppure, nonostante tanta riservatezza, qualcuno è riuscito a guadagnare la sua fiducia, tanto da convincerla a consegnargli i momenti e le sensazioni più importanti di un’intera vita, professionale e non. Si tratta di Valerio Ruiz, giovane aiuto regista della Wertmuller, che ha firmato il documentario Dietro gli occhiali bianchi. Presentato all’ultimo festival di Venezia, questo docufilm rappresenta un viaggio nei luoghi che hanno caratterizzato la carriera della prima regista a ottenere una nomination agli Oscar per Pasqualino Settebellezze. Così, dai primi passi cinematografici accanto a Fellini, che le insegnò il valore della leggerezza e del divertimento, passando poi per l’indimenticabile coppia Giannini/Melato, con la quale è stata “travolta da un’insolito destino”, Valerio ha cercato di tratteggiare il carattere e gli elementi fondamentali di un’icona dallo stile dissacrante. Tuttavia, da parte sua Lina Wertmuller non si riconosce come maestra di cinema. Anzi, con uno sguardo tra lo scettico e il divertito, risponde: «Il segreto è sempre stato non crederci troppo».


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Flora Carabella, moglie di Marcello Mastroianni, e Federico Fellini sembrano essere stati due presenze fondamentali nella sua vita, soprattutto per quanto riguarda i primi passi nel cinema. In che modo hanno contribuito alla sua formazione? Flora è stata l’amica per eccellenza. Ci siamo conosciute sui banchi di scuola e a lei devo il mio avvicinamento al teatro e al cinema. Inoltre, insieme a Mastroianni, mi ha introdotto a Cinecittà facendomi conoscere Fellini, tanto che ho lavorato come suo aiuto regista in 8 e 1/2. Cosa dire di Federico, poi. Lui era la vita. Una meraviglia assoluta. Grazie a lui ho appreso un segreto fondamentale, ossia l’importanza di divertirmi sempre e comunque facendo cinema. Molte sono le storie legate a lui e che possono raccontare il suo modo completamente libero di lavorare, oltre che l’uomo. Una di queste riguarda l’affetto nato tra lui e una bambina su un set mentre stavamo lavorando in Piemonte, se non sbaglio. Federico stava girando Boccaccio ’70 e con lei nacque un legame fortissimo, che io e la madre guardavamo da lontano con grande stupore. Ha mosso i suoi primi passi professionali in televisione con Gian Burrasca, poi ha frequentato il teatro leggero di Garinei e Giovannini, quello più impegnato di Giorgio De Lullo e, infine, è approdata al grande schermo. Tutte queste esperienze, questi diversi linguaggi, come hanno influenzato il suo modo di fare cinema? Onestamente non lo so. Non ho mai fatto alcuna differenza. Per me l’intrattenimento e l’arte hanno un valore universale e non importa in che luogo si esprimono. La mia generazione ha avuto, però, un grande

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vantaggio, ossia quello di poter fare riferimento a dei maestri, dei capifila da seguire e da cui imparare. C’erano Fellini, Monicelli, Visconti, che seguivamo con attenzione e passione. Oggi, invece, chi sono i punti di riferimento? Ce ne sono ancora? Questo, secondo me, è il grande problema delle nuove generazioni di registi. Oltre a dei produttori che non sembrano avere il coraggio di rischiare. Lei è riuscita in un’impresa molto difficile. Pur non girando film di cassetta, le sue storie sono entrate nell’immaginario popolare. In sintesi ha fuso un cuore narrativo intelligente e colto con una forma diretta e facilmente riconoscibile dallo spettatore. Una strada che il cinema italiano attuale sembra non aver seguito. E ha fatto male. In questo momento nel panorama del nostro cinema mi sembra di vedere un deserto. Apprezzo il lavoro di Matteo Garrone, mentre non amo particolarmente Paolo Sorrentino. Non ho visto La grande bellezza, ma credo che Roma, in particolare, non sia una materia adatta a lui e al suo cinema. In anni in cui la commedia all’italiana aveva grande forza, lei si è ritagliata uno spazio del tutto personale utilizzando l’arma del grottesco. In che modo questa scelta ha definito il suo cinema? È un po’ come se avesse inventato un nuovo genere, la commedia grottesca alla Wertmuller. Non so. In verità non mi sono mai soffermata a pensare quale fosse lo stile e la forma narrativa da impiegare. Più di una volta il mio cinema è stato definito grottesco, anche se non comprendo bene gli elementi che hanno portato a questo giudizio. Semplicemente ho fatto delle scelte. Ho scelto le storie e

i personaggi che mi piacevano e mi divertivano. Lo stesso vale per lo stile, se così possiamo dire. Però non ho mai applicato delle definizioni al mio lavoro. Il suo amore per il Sud è sempre presente. Lo troviamo nei luoghi, sicuramente nei personaggi e nel linguaggio. Per quanto riguarda il dialetto, poi, come ha lavorato per renderlo un elemento credibile e fondamentale del suo cinema? Senza dubbio il Sud Italia è nel mio cuore. Al Nord credo

Dopo essere stata aiuto di Fellini, Lina esordisce al cinema con I basilischi (1963), ma è agli inizi degli anni Settanta che nasce il duraturo sodalizio con Giancarlo Giannini e Mariangela Melato (pag. accanto). Sotto: Lina con Sophia Loren.

di aver lavorato veramente poco. Ho girato una parte di Mimì Metallurgico, poi Tutto a posto e niente in ordine e Metalmeccanico e parrucchiera. Il bello dell’Italia è che ci sono molte culture e il loro incontro crea sempre magia. Il dialetto, poi, è fondamentale. Quando collaboravo con il Centro Sperimentale imponevo ai ragazzi di studiarne due, uno del Nord e uno del Sud. E lo fanno ancora oggi. Vedete, non è che gli italiani parlino l’italiano. Prima viene il proprio dialetto. Per questo motivo ho sempre avuto particolare attenzione per questo linguaggio e l’ho

costruito per i miei personaggi con amore. Giannini, poi, è stato un interprete meraviglioso di questa lingua. Il suo cinema, pur avendo questo cuore così regionale, è stato molto amato dal pubblico e dalla critica americani. Com’è il suo rapporto con i critici? A me della critica non è mai importato nulla. Ho fatto i film che volevo. Questo è stato importante. Poi, il caso ha voluto che io sia stata molto amata da John Simon, all’epoca spietato critico cinematografico del New York Magazine. Era lo spauracchio di tutti i registi


«IL GROTTESCO? SEMPLICEMENTE HO FATTO DELLE SCELTE. HO SCELTO LE STORIE E I PERSONAGGI CHE MI PIACEVANO E MI DIVERTIVANO. NON HO MAI APPLICATO DELLE DEFINIZIONI AL MIO LAVORO». www.behindthewhiteglasses.it

e le attrici. Le cronache delle serate mondane raccontavano dei piatti e bicchieri gettati in faccia a Simon dalle star che aveva criticato. Per questo motivo il suo amore assoluto per Pasqualino Settebellezze è risultato strano perfino al suo

editore, tanto da pagargli la trasferta in Italia per venire a intervistarmi. Ricordo che suonò alla mia porta un pomeriggio ma io non lo volli incontrare. Ha provato altre volte, fino a quando è diventato molto amico di mio marito, Enrico Job.

Dopo che Pasqualino Settebellezze ricevette quattro nomination agli Oscar, i produttori americani le fecero una corte spietata. In momenti come quelli, come si resiste alle lusinghe del successo? Quel periodo è stato intenso. Ero stata nominata come miglior

regista dall’Academy e i cinema a Times Square proiettavano i miei film. L’America mi ha amato e io l’ho riamata con entusiasmo. Per quanto riguarda la pressione del successo, poi, è molto facile; basta non ascoltare. Anzi, meglio sarebbe non crederci troppo.

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FABRIQUE

CINEMA ADVISOR

ROMA, FIRENZE, BOLOGNA, TORINO inaugurano la prima mappa delle sale cinematografiche italiane targata Fabrique: nella prossima puntata Milano e Pisa. di SIMONA MARIANI

Luoghi espositivi e d’incontro, archivi filmici, spazi polivalenti e molto altro, è questo lo scenario che dipinge di effervescenza culturale la mappa delle sale cinematografiche italiane. In un momento di assoluto rinnovamento per l’entertainment si fa strada un’idea di sala cinematografica del tutto innovativa, supportata da tecnologia all’avanguardia e da un’offerta culturale variegata. Diverse sono le strutture in cui viene distribuita la rivista di Fabrique, che si distinguono per eccellenza nella programmazione e nella tecnologia. Abbiamo preso in esame sette di queste e abbiamo chiesto ai direttori, ai responsabili tecnici e ai programmatori di ciascuna sala di parlarci di alcuni aspetti del loro lavoro.

Quali sono le caratteristiche tecniche che distinguono la sala? Quali le specificità della programmazione? Le rassegne, gli omaggi previste nella struttura? E quali sono le agevolazioni? In alto da sinistra: Spazio Alfieri, Stensen, Cinema Massimo, Cinema Trevi, Casa del Cinema, Arena Nuovo Sacher.

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STENSEN CINEMA

Non possono mancare nella nostra mappa le due sale che affiancano e coadiuvano il lavoro rispettivamente del MUSEO DEL CINEMA DI TORINO e della CINETECA DI BOLOGNA, due delle istituzioni più importanti in termini di valorizzazione del patrimonio filmico nazionale, conservazione e conoscenza della settima arte.

(FIRENZE) Si distingue per i suoi particolari percorsi tematici che contestualizzano i film proposti, che diventano spunto e strumento di riflessione per un incontro successivo con gli ospiti. La programmazione è sempre attenta a proporre film in prima e seconda visione di qualità. La Sala ha 242 posti ed è provvista di un sistema di proiezione per pellicole a 35mm e 16mm.

SPAZIO ALFIERI

CINEMA MASSIMO

(TORINO) Multisala all’avanguardia a pochi passi dalla Mole, è una delle più importanti vetrine del Museo del Cinema, perché è il punto di arrivo dei tanti documenti esposti. Gestito dal Museo Nazionale del Cinema dal 1989, è stato ristrutturato sotto il profilo tecnologico. La sala Uno e Due, rispettivamente da 453 e 147 posti, sono sale di prima visione d’essai e sono destinate alla programmazione di film europei, italiani, indipendenti americani e film delle cinematografie emergenti. La sala 3 (147 posti) invece organizza un’attività di approfondimento e divulgazione del cinema di tutto il mondo, con retrospettive, eventi speciali, anteprime, incontri con personalità della cultura, dibattiti, conferenze, presentazioni di libri. La Multisala Cinema Massimo, inoltre, ospita i principali festival cinematografici torinesi.

(FIRENZE) È uno spazio polivalente dove si incontrano cinema, teatro, musica, gastronomia, design e arti visive, per questo grande cura è prestata al sistema audio e alle luci. Sostiene la distribuzione del cinema di qualità in accordo e collaborazione con i festival e l’esercizio toscano. La sala conta 170 posti in platea e 60 in galleria. Le proiezioni avvengono in 2K.

CINEMA TREVI

((ROMA) È la sala presso cui la Cineteca Nazionale svolge dal 2003 la propria programmazione di retrospettive, omaggi, incontri con gli autori, offrendo al pubblico il patrimonio del suo archivio e ospitando festival e rassegne. Ha una capienza di 91 posti, lo schermo è di media grandezza, 6.02m x 2.80m. Si distingue per il sistema di proiezione in pellicola, supportato da un sistema audio che permette di ricreare il sonoro dei vecchi film. Un luogo magico e imperdibile per i cinefili nostalgici.

CINEMA LUMIÈRE

(BOLOGNA) Svolge un’importante funzione culturale: diffondere la conoscenza della storia del cinema in tutte le sue articolazioni, recuperando alla visione opere non più presenti nel panorama distributivo. Attivo dal 1984, dotato di moderni impianti di proiezione per pellicole e video, il Lumière propone una politica dei prezzi d’ingresso tesa a favorire la più ampia partecipazione di pubblico. La sala Mastroianni/Officinema (142 posti) è dedicata ai programmi del repertorio internazionale e propone retrospettive e omaggi, recuperando classici in edizione restaurata e produzioni contemporanee d’autore inedite. La sala Scorsese (175 posti) è invece dedicata alla programmazione di film d’essai ed è particolarmente attenta alla produzione europea.

NUOVO SACHER CASA DEL CINEMA

(ROMA) Ideata nel 2004 da Felice Laudadio, ha in breve tempo costruito una solida tradizione di rassegne, eventi, incontri. Ospita da sempre festival, rassegne a tema, retrospettive, omaggi e appuntamenti di storia e critica del cinema. Le proiezioni dei film vengono sempre fatte in lingua originale con sottotitoli. La struttura è anche spazio polivalente adatto per convegni,

congressi e mostre. Le sale sono tre: la sala Deluxe (124 posti), dotata dei più moderni sistemi di proiezione e sonori ma anche di apparecchiature per la videoproiezione in alta definizione digitale 2K; sala Kodak (64 posti) ideata per videoproiezioni su grande schermo; sala Volontè (35 posti) ideale per presentazioni, dibattiti, seminari e convegni. La Casa del Cinema nel periodo estivo dispone inoltre di un teatro all’aperto da 200 posti che ospita rassegne cinematografiche ed eventi teatrali e musicali.

(ROMA) Inizia la sua storia nel 1991 quando viene acquistato dalla Sacher Film, casa di produzione cinematografica di Nanni Moretti e Angelo Barbagallo, con l’intento di rilanciare la sala con una programmazione di qualità basata su film d’autore scelti direttamente dal direttore Nanni Moretti. Propone film internazionali selezionati dai migliori festival cinematografici, opere di autori indipendenti e/o emergenti, grandi autori poco conosciuti in Italia. La sala, 362 posti, è dotata delle più moderne tecnologie e nel periodo estivo viene allestita anche un’arena con 570 posti.

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- Workshop -

GUIDA ALLA SOPRAVVIVENZA Arriva Netflix e spariglia le carte. Come rispondono e quali opportunità offrono gli operatori del mercato audiovisivo italiano? Anticipando i tempi, allo scorso Festival di Venezia Fabrique ha invitato protagonisti dell’industria cinematografica italiana a dire la loro, insieme ai rappresentanti delle più giovani realtà produttive. di CHIARA CARNÀ foto BRUNELLA IORIO

A

Apre il confronto Damiano Ricci, responsabile marketing di BIM Distribuzione: «L’arrivo di Netflix in Italia condurrà certamente a un riposizionamento dei mezzi di comunicazione. La sala cinematografica è il mezzo più resistente al mutamento ma anche il più difficile da cambiare: andrebbe completamente reinventata e ricostruita. Cosa accadrà nel momento in cui le sale si ritroveranno a competere contro un prodotto che arriva in maniera facile, digitalmente, e a un prezzo competitivo nelle case di chiunque? Io le immagino diventare luoghi di aggregazione, in cui consumare un prodotto cinematografico all’interno di

un’esperienza più complessa. La competizione, quindi, dovrebbe giocarsi sul terreno esperienziale e noi, in quanto distributori, cercheremo d’intuire in che modo offrire al meglio il prodotto. Ad esempio, con l’avvento del servizio on demand, si potrà sopperire al problema della distribuzione dei film d’essai». Gioca sullo stesso terreno della corazzata americana Chili TV che, nelle parole di Alessandro Schintu, co-founder e responsabile dell’offerta e del business development, «è nata con lo spirito di soddisfare l’esigenza, già esistente, di godersi un film a casa propria. Vediamo l’avvento di Netflix

come un’opportunità ulteriore di allargare il mercato digitale. La piattaforma americana propone un servizio ad abbonamento orientato verso la produzione televisiva seriale. Noi ci concentriamo sui film e offriamo al cliente un catalogo molto esteso di titoli, che può noleggiare o acquistare. Stiamo perfezionando motori di ricerca sempre più evoluti, che riescano a comprendere i gusti personali del cliente. La nostra politica è lavorare sull’offerta e sulla tecnologia, con la quale le nuove generazioni hanno grandissima dimestichezza. Netflix parte da un mercato fortissimo per approdare su quello europeo,

molto più frammentato. Una maggiore flessibilità aiuterebbe operatori e consumatori». MyMovies nasce 15 anni fa come guida e database italiano, e moltissimo è cambiato in questi anni. Il direttore responsabile Giancarlo Zappoli spiega che «adesso offriamo una sala virtuale i cui dati, estremamente soddisfacenti, parlano di persone che accedono non cercando il blockbuster, ma per vedere da casa un tipo di cinema diverso, autoriale. È un pubblico che si è costruito col tempo: tutto è iniziato nel 2010 con La bocca del lupo di Pietro Marcello. Abbiamo rischiato, ma il lancio in streaming del film servì

Sopra da sinistra: il produttore indipendente Gianluca Arcopinto, Alessandro Schintu (Chili TV), Giancarlo Zappoli (MyMovies).

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LA RISPOSTA DI NETFLIX NON PIACERÀ FORSE AI PIÙ NOSTALGICI E CINE-ROMANTICI, MA GRAZIE ALLA FLESSIBILITÀ CONSENTITA DA INTERNET E DAL MOBILE, LE ABITUDINI DEL PUBBLICO STANNO CAMBIANDO, E VICINO AI COLOSSI DELLA VECCHIA TV STANNO EMERGENDO NUOVI OPERATORI PRONTI A CAVALCARE L’ONDA DELLO STREAMING (LEGALE) E SODDISFARE TUTTE LE ESIGENZE DEL NUOVO SPETTATORE CONNESSO. Forte di 69 milioni di utenti a livello mondiale, Netflix è il portabandiera di questa rivoluzione: in Italia la compagnia californiana ha aperto i battenti il 22 ottobre ed ha già annunciato una collaborazione con Cattleya e RAI per produrre la serie TV ispirata a Suburra di Stefano Sollima. Come farà Netflix a insediarsi nel nostro mercato, facendo fronte alla competizione di Sky Online e Infinity di Mediaset Premium? E, soprattutto, quanto l’azienda è interessata davvero a investire sul prodotto italiano? Ecco cos’ha risposto

in esclusiva a Fabrique Joris Evers, responsabile della comunicazione per l’Europa di Netflix.

In che tipo di contenuti siete interessati a investire? Cerchiamo grandi storie da ogni parte del mondo. Devono essere storie avvincenti che trascendano i confini di un singolo Paese e capaci di attrarre gli spettatori di qualsiasi provenienza.

Ci sono speranze che Netflix investa nel cinema italiano? Cosa vi aspettate dal vostro primo film da distributori Beasts of No Nation?

Di sicuro c’è la possibilità che Netflix investa nel cinema italiano, ma non abbiamo nessun progetto concreto da condividere in questo momento. Beasts of No Nation è il nostro primo lungometraggio originale. Su Netflix offriamo una grande varietà di contenuti e, grazie alla nostra tecnologia, troviamo il pubblico adatto a ciascuno di essi. Pensate a Netflix come a una TV cucita a vostra misura: se siete il tipo di spettatori cui potrebbe piacere Beasts of No Nation, saremo lì a suggerirvelo.

Il vostro arrivo sul mercato italiano è stato preceduto dal debutto delle piattaforme di video on demand delle principali pay-TV italiane, come vedete la competizione nel settore italiano dello SVOD?

Cosa ne pensate del progetto dell’Unione Europea di costruire un Mercato Unico Digitale, dove, ad esempio, un utente italiano potrebbe essere libero di abbonarsi alla piattaforma on demand di Sky UK?

I giorni della TV su Internet sono appena iniziati. Siamo convinti che, col tempo, tutta la TV tradizionale sarà sostituita da quella sul web. Anche in Italia saranno diversi canali che offriranno una programmazione di tipo televisivo sulle reti informatiche, noi intendiamo essere uno di questi.

Ci piace l’idea di un mercato unico, il nostro obiettivo è proprio quello di sviluppare un’offerta di livello globale e quello che stiamo cercando di fare è ottenere i diritti per distribuire film e serie TV on demand in tutto il mondo.

di LAURA CROCE // responsabile del panel tecnologico della tavola rotonda

“NETFLIX IN ITALIA E I SUOI COMPETITOR EUROPEI”, QUESTO IL TITOLO DELLA TAVOLA ROTONDA CHE FABRIQUE HA ORGANIZZATO ALLO SCORSO FESTIVAL DI VENEZIA.

da passaparola mediatico tra quelle poche sale in cui veniva proiettato. Da allora, il percorso non è stato senza intoppi, come in ogni sperimentazione, ma è proseguito. E film che avrebbero avuto una minore penetrazione, essendo passati prima attraverso di noi, hanno riscosso un po’ più di risonanza». In questo quadro non si può sottovalutare il peso della pirateria, avverte Gianluca Arcopinto, produttore indipendente: «Oggi un ragazzo ha tutti gli strumenti a disposizione per guardare film in maniera legale. Eppure mio figlio, quando vuole vedere un film... lo scarica! Un produttore

indipendente come deve porsi nei confronti di questa situazione? Deve capire qual è il linguaggio giusto da adottare e incontra enormi difficoltà. Perché la forma di fruizione che imperversa tra le giovani generazioni cancella non solo l’idea che si debba pagare per vedere un film, ma anche che questo debba avere le regole narrative che aveva quindici anni fa. Bisogna combattere la pirateria e cercare di continuare a girare film e a farli vedere. Io sono aperto a qualsiasi strategia, purché legale». I giovani esponenti delle nuove realtà produttive italiane guardano a Netflix Italia con

curiosità e speranza, ma senza farsi illusioni. «Oggi i fondi pubblici sono l’unica risorsa per le piccole case di produzione – ha dichiarato Emanuele Moretti di Alberini Films – Netflix che aiuto può dare ai giovani produttori italiani, dal momento che non finanzia neanche prodotti americani, se non in rarissimi casi?». Decisamente propositivo l’intervento di Lorenzo Corvino, regista della miniserie web The Cide, prodotta da Kahuna Film: «Quando con la Nuova Hollywood, negli anni Settanta, crollavano le major americane, i broadcast cinematografici si reinventarono come televisivi. Netflix oggi può essere l’ariete

di sfondamento per un dialogo con distributori ed esercenti cinematografici, in modo che tra loro ci sia pacificazione, non guerra». Infine c’è chi, come Valerio Bergesio, regista della webserie 140sec, prodotta da Cross Production, si augura che la rivoluzione digitale spiani la strada alla produzione di prodotti di qualità: «Chiunque voglia realizzare la sua serie, web e non, ha bisogno di produttori ed editori. Magari Netflix riuscirà a dare il via a un mercato di vera concorrenza, che farà bene alle piccole produzioni e alle proposte vincenti, consentendo alle idee migliori di emergere».

Nel tondo Laura Croce, coordinatrice del workshop per Fabrique.

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NETFLIX & CO

UN LIBRO PER APPROFONDIRE Netflix in Italia e il big bang di cinema e TV di Stefano Zuliani nasce da un’esperienza professionale di venticinque anni nei settori media e telecomunicazioni, propone analisi e scenari sul settore audiovisivo e offre chiavi di lettura delle sue dinamiche evolutive, anche legate all’arrivo di Netflix in

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Italia. Il testo di Zuliani dialoga su modelli organizzativi e di business con moltissimi protagonisti fra produttori, distributori, docenti universitari (tra cui Francesca Cima - ANICA Produttori, Andrea Occhipinti ANICA Distributori, Roberto Cicutto - Istituto Luce, Piera Detassis - Fondazione Cinema per Roma), e con gli artisti Ferzan Ozpetek,

Maurizio Nichetti, Luca Argentero, Andrea Purgatori. Stefano Zuliani, specializzato in economia e management

dei media, ha lavorato per varie società di produzione cinematografica. Ha collaborato inoltre con l’Università di Roma La Sapienza, l’istituto di ricerca Censis e la Confindustria occupandosi di ricerca economica, media e comunicazione. Da diversi anni opera in una primaria azienda di telecomunicazioni nella quale si è occupato di

marketing strategico, business development e contenuti per Internet, Mobile e TV. Nel 1991 il suo cortometraggio Libertà ed emarginazione ha vinto il primo premio della giuria e il primo premio del pubblico al concorso indetto dal cineclub romano Azzurro Scipioni. Nel 2015 ha coprodotto il film psycho-thriller Lucy in the sky.


- Mondo -

IL CINEMA COLOMBIANO: DA DOVE VIENE E DOVE VA?

La maggior parte dei colombiani, pensando ai nomi dei grandi che hanno fatto la storia del cinema, cita nomi stranieri. Per questo, mi chiedo: dove sono gli eroi del nostro cinema nazionale? Forse non ne abbiamo? No, è che aspettano impolverati negli archivi nella sede della Fundación Patrimonio Fílmico Colombiano. di JUAN PABLO CHAJIN* a cura di ROBERTA ETTORI * Giornalista di The End, magazine di cinema colombiano partner di Fabrique www.theendmag.com

L’“epoca dorata” del cinema colombiano (1970-1990) è quasi sconosciuta alle nuove generazioni. Film come Cien Años de Infidelidad (1980) di Eduardo Sáenz, Pura Sangre (1982) di Luís Ospina, Carne de tu Carne (1983) e La Mansión de la Araucaima (1986) di Carlos Mayolo sono invece solo alcuni dei film di valore girati in quel periodo. Gli anni Ottanta hanno segnato un importante momento artistico per il cinema di Bogotà. È allora che, proprio grazie all’abilità di alcuni registi come Mayolo e Ospina, si è riusciti a uscire dalla cosiddetta Pornomiseria, genere il cui tema principale era l’ostentazione della povertà. Con il supporto della Compañía de Fomento Cinematográfico (FOCINE) furono prodotti allora una trentina di lungometraggi e un gran numero di corti e documentari; purtroppo nel 1993 la FOCINE venne chiusa per difficoltà amministrative, lasciando un vuoto produttivo enorme, dato che l’appoggio statale era fondamentale per la nascente industria. Negli anni Novanta il paese vive uno dei momenti più critici, in preda al

narcotraffico e alla violenza. Ma è proprio allora, in un panorama cinematografico dominato da commedie banali e brutalità sensazionalistica, che appare uno dei film (se non “il film”) che ha raggiunto la maggior notorietà internazionale: La strategia della lumaca (1993) di Sergio Cabrera. Allo stesso modo, il nome di Victor Gaviria comincia a farsi largo fra i nuovi talenti, con film come La Vendedora de Rosas (1998) e Rodrigo D. No Futuro (1990). Ma è con il nuovo millennio che le cose cambiano davvero. La legge del cinema e il Fondo di Sviluppo Cinematografico sono lo stimolo per la progressiva crescita del cinema nazionale. Pur dando ampio spazio ai film di tipo commerciale, non si trascura il cinema d’autore. Per qualcuno è una novità, per altri è ritrovare finalmente una tendenza artistica già sperimentata qualche decennio prima. Contemporaneamente, la Colombia acquista fama

internazionale per il Festival di Cartagena, la rassegna cinematografica più antica in America Latina. Ormai alla sua 55a edizione, è un appuntamento obbligatorio per i cinefili di tutto il mondo. Con più di 170 film, 300 ospiti d’onore, tra cui Darren Aronofsky e Kim Ki-duk, il festival ha dimostrato la sua importanza e il suo costante sostegno al cinema colombiano. Spira un’aria nuova, non c’è dubbio. Film vibranti, con visioni profonde raccontano la società e la cultura colombiana. Los Viajes del viento (2009), La Sirga (2012), Tierra en la lengua (2014), La Sociedad del Semáforo (2010), El vuelco del Cangrejo (2010) e Los hongos (2014) sono un chiaro esempio di questo rinnovamento. Tuttavia, la distribuzione di questi film è stata tormentata, pochi hanno avuto il privilegio di vederli al cinema. Ciò che si nota nella produzione cinematografica colombiana è lo sforzo individuale da parte

di registi, scrittori e produttori nel portare un’idea sullo schermo, ma siamo ben lontani da essere un’industria. Non potremo stabilire mai un’identità nazionale cinematografica se non avremo il supporto vero da parte di tutti gli elementi della produzione. Oggi comunque siamo ben incamminati verso il futuro. Per la prima volta nella storia, quest’anno la Colombia ha partecipato con quattro film al festival di Cannes. Con il sostegno del Fondo di Sviluppo, il paese si fa spazio nel cinema mondiale: Alias María, El Abrazo de la Serpiente premiato alla Quinzaine des Réalisateurs, La Tierra y la Sombra [uscito con ottimi riscontri nelle sale italiane col titolo Un mondo fragile] che ha vinto la Camera d’Or, e El Concursante compiono un’impresa senza precedenti, dimostrando la progressiva crescita del cinema colombiano. Ogni anno che passa c’è una maggior competitività sul mercato internazionale, e finalmente la Colombia si sta forgiando un’identità, un volto che sarà riconosciuto nel mondo. È solo questione di tempo.

Due immagini dal set di El Abrazo de la Serpiente, girato nell’Amazzonia colombiana e premiato a Cannes. In alto il regista Ciro Guerra, al suo terzo film.


- Zona Doc -

ALFREDO BINI, OSPITE INATTESO UNA STORIA DI CINEMA E AMICIZIA Simone Isola ci ha raccontato genesi e sviluppo del suo documentario passato allo scorso Festival di Venezia, che propone uno sguardo originale sul produttore che fece esordire Pasolini con Accattone, sostenendone la carriera fino a Edipo Re.

N

di LUCA OTTOCENTO

Ne ha fatta di strada Simone Isola (33 anni) da quando Fabrique lo ha intervistato un paio di anni fa, a pochi mesi dalla presentazione alle Giornate degli Autori del Festival di Venezia de La mia classe di Daniele Gaglianone, prodotto con la Kimerafilm. Quest’anno infatti la stessa società, da lui fondata nel 2009 insieme a un gruppo di ex compagni del corso di produzione del Centro Sperimentale, ha prodotto Non essere cattivo di Claudio Caligari, selezionato come titolo italiano in corsa per l’Oscar al miglior film straniero. Già nel maggio del 2013 Simone ci aveva parlato di un suo progetto legato a un documentario su Alfredo Bini, produttore poco noto al grande

pubblico nonostante sia stato una figura molto importante del cinema italiano degli anni Sessanta. Alfredo Bini, ospite inatteso, questo il titolo, è stato proiettato a settembre al Lido nella sezione Venezia Classici ed è un documentario coinvolgente che racconta la storia di Bini attraverso l’inedita testimonianza di Pino Simonelli, l’uomo che lo ha conosciuto quando in tarda età era in grandi difficoltà economiche, dandogli un lavoro e una casa dove vivere. Tra Bini e Simonelli negli anni è nato un rapporto intimo e intenso che ha profondamente cambiato le vite di entrambi, portando tra l’altro il secondo ad appassionarsi alla storia del cinema.

Alfredo Bini e Pier Paolo Pasolini: il sodalizio fra il regista e il produttore durò fino alla fine degli anni Sessanta.

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Come nasce l’idea alla base del documentario e come sei venuto a conoscenza di questa storia così incredibile e commovente? Quando ho iniziato a fare le mie ricerche per la tesi di dottorato su Alfredo Bini, tramite delle amicizie, ho scoperto che viveva a Montalto di Castro. Così, a cavallo tra il 2009 e l’inizio del 2010, sono andato a trovarlo. Dopo la morte, avvenuta alcuni mesi più tardi, ho pensato di tornare nella provincia di Viterbo per vedere se fosse possibile rintracciare documenti utili per la mia tesi. Così ho conosciuto Pino, con cui è nato un vero e proprio rapporto di amicizia e che mi ha raccontato il suo rapporto con Bini, aprendomi la porta della casetta di campagna dove il produttore ha vissuto gli ultimi anni di vita e facendomi vedere tutti gli scritti e gli oggetti che Bini gli ha lasciato in eredità. La scoperta dell’incontro tra questi due uomini l’ho vissuta come un dono e mi sono detto che avrei dovuto a tutti i costi provare a raccontare questa storia. Del tuo lavoro mi ha colpito molto la struttura narrativa solida e circolare, che si avvale di un’alternanza particolarmente felice di riprese dal vivo (le conversazioni con Pino e le letture di Mastandrea), foto d’archivio e immagini tratte dai film. Mi fa piacere che hai notato queste cose perché di solito dei documentari, anche legittimamente, si parla soprattutto del contenuto e della storia che viene raccontata. Ad eccezione dei momenti in cui parlo con Pino, tutti gli altri passaggi sono stati scritti e ho sempre cercato di condurre il film dove volevo io, nel senso

Due foto del backstage dell’Ospite inatteso. Nel tondo, uno scatto di Alfredo Bini anziano.

un’autobiografia di Bini. Pino, inoltre, ha in mente di creare una fondazione che si occupi dell’eredità culturale di Bini e di far nascere a Montalto di Castro un museo del cinema.

che avevo trovato una chiave nel racconto moltiplicando tre piani: il piano della letture di alcuni brani del diario di Bini, che non volevo fosse continuo ma coprisse tre momenti fondamentali (i primi anni di vita e la formazione; l’incontro con Pasolini; la pagina letta nel finale, che è stata scritta da Bini pochi mesi prima di morire); il piano delle interviste d’archivio; il piano più squisitamente umano che emerge attraverso la testimonianza di Pino. Per me era assolutamente fondamentale che tutto quanto passasse attraverso il racconto di quest’uomo, riportando così l’aneddotica cinematografica alla chiave umana. Quale sarà la distribuzione del documentario? Dopo l’esperienza veneziana, a novembre dovrebbe riprendere il giro dei festival e, poco dopo, uscire al cinema con l’Istituto Luce seguendo il percorso di tutti i documentari da loro distribuiti. Spero che verrà

trasmesso anche in tv perché credo che, anche grazie alla storia umana che emerge, possa aiutare a fare luce su una figura tutto sommato poco conosciuta. Certo, se un documentarista non trova un’istituzione o una produzione che lo supporti fin dall’inizio è veramente difficile arrivare a un risultato finale. Io il film l’ho finito unicamente grazie alle persone che hanno creduto nel progetto e mi hanno dato una grossa mano, come il montatore Mario Marrone, Luca Lardieri, Edoardo Rebecchi, Gianluca Arcopinto, la stessa Kimera e associazioni culturali come Factory10. Contestualmente alla distribuzione del documentario, comunque, stiamo lavorando a delle iniziative parallele cui tengo molto: c’è già pronto il progetto di una mostra e di un libro fotografico e poi vorremo pubblicare il diario e

Pensi di portare avanti anche in futuro il lavoro di regista, oltre a quello di produttore? Pur essendo complesso ricoprire entrambi i ruoli, vorrei provare ad andare in questa direzione. Come produttore adesso la cosa che mi sta a più cuore, oltre a continuare a seguire Non essere cattivo, è realizzare un film tratto da Il contagio di Walter Siti, un romanzo sulle periferie romane profetico per quanto sta succedendo in questi mesi. Ci sono già varie stesure della sceneggiatura e i registi Matteo Botrugno e Daniele Coluccini dopo Et in terra pax meritano assolutamente di fare il secondo film. Vorremo iniziare le riprese il prossimo anno. Come regista, invece, mi piacerebbe scrivere e dirigere un documentario su Totò. Tra un anno e mezzo sarà il cinquantennale della morte e la sua è una di quelle figure che credo debba essere riproposta alle nuove generazioni attraverso una chiave particolare, un po’ come ho fatto con Alfredo Bini, per evitare che vada persa.

Tre immagini da film di PPP prodotti da Alfredo Bini: Accattone, Edipo Re e La ricotta, episodio tratto dal film collettivo Ro.Go.Pa.G.

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«PER RECITARE, BISOGNA VIVERE INTENSAMENTE».

R.M.

INTO THE

BLACK Sono la generazione di Gomorra e Romanzo criminale, irresistibilmente attratta dal lato oscuro del palcoscenico. I nostri giovani protagonisti sfoggiano un look dark e chic, pronti a balzare sotto i riflettori. foto ROBERTA KRASNIG Stylist STEFANIA SCIORTINO Assistente fotografa FEDERICA DIAMANTI Hair and make up COTRIL SPA Le ragazze indossano total look PATRIZIA PEPE I ragazzi indossano total look ANTONY MORATO

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«NON AVREI MAI IMMAGINATO DI FARE L’ATTORE». A.L.

«RECITARE TRASFORMA LA MIA TIMIDEZZA IN CURIOSITÀ». G.E.G.

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GIULIA ELETTRA GORIETTI

FEDERICO RUSSO

(ROMA) Ho 18 anni e sono nato a Roma nel 1997. Ho scoperto l’amore per la recitazione quando ho capito che, grazie a quest’arte, avevo l’occasione di essere qualcun altro, qualcuno che non sarei mai nella vita, e soprattutto mi piace poter trasmettere emozioni anche solo con un semplice sguardo. Probabilmente in molti si ricordano di me per il ruolo di Mimmo nella fiction I Cesaroni. Per la TV ho recitato anche in Incantesimo, Provaci ancora prof, la serie su Alcide de Gasperi diretta da Liliana Cavani e in molti spot pubblicitari. Sono anche Sam Costa in Alex & Co, una serie attualmente in onda su Disney Channel. Sono apparso in due videoclip musicali, uno di Max Pezzali e uno dei Pquadro, e ho partecipato al reality Ballando con le stelle. Per quanto riguarda prospettive future, ci sono proposte che spero si concretizzino il prima possibile.

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ALESSIO LAPICE

(NAPOLI) Ho 24 anni e Napoli è la mia città. Non avrei mai immaginato o sognato di diventare un attore, anzi! Ero molto volubile, passavo da una passione all’altra in tempi record: volevo diventare un meccanico, di quelli che lavorano in una scuderia di Formula 1. Tutto è cambiato quando un giorno degli amici mi hanno portato a vedere, quasi costringendomi, le loro prove a teatro. Alla fine dello spettacolo rimasi per alcuni minuti a guardare il palco, folgorato da ciò che avevo visto, incollato a quella poltrona. Mi avete visto nella miniserie di RAI 1 Sotto copertura nel ruolo di Rudy: è stata un’esperienza molto forte per me che, da napoletano, ho vissuto tanto di quello che raccontavamo giorno per giorno sul set. Ho concluso recentemente le riprese di Task Force 45, con Raoul Bova. Vesto i panni di un giovane soldato napoletano, fifone e molto legato alle sue radici. Sto finendo di girare Gomorra 2: sono un grande fan della serie, è stato come entrare nel mito. Apparirò in un piccolo ruolo ma significativo.

(ROMA) Ho 27 anni, sono nata a Roma e mi sono appassionata alla recitazione perché mi ha dato la possibilità di trasformare la mia ritrosia e la mia timidezza in voglia e curiosità di dialogare con il pubblico attraverso dei personaggi sempre diversi e stimolanti. Il mio primo film è stato Caterina va in città di Paolo Virzì, ero davvero una bambina. Poi ho recitato nel cult Tre metri sopra il cielo di Luca Lucini, a 15 anni. Il mio primo ruolo da protagonista è stato in Ti amo in tutte le lingue del mondo di Leonardo Pieraccioni, dopo sono venuti Ho voglia di te, diretto da Luis Prieto, Gli ultimi della classe e Almeno tu nell’universo di Luca Biglione, Bakita di Giacomo Campiotti e molte serie TV. L’incontro con Stefano Sollima mi ha dato la possibilità di partecipare a Suburra, con un eccezionale cast di attori e un’ineguagliabile opportunità di essere conosciuta. Ho tanti progetti per il futuro e sogni nel cassetto, ma vorrei scegliere con saggezza, aiutata dalle persone che lavorano con me.


VINCENZO VIVENZIO

(NAPOLI) Ho 24 anni e sono nato a San Gennaro Vesuviano, in provincia di Napoli. Ho sempre l’amato l’idea che noi fossimo reincarnazioni di vite precedenti e la recitazione è l’unica arte che concede la possibilità di vivere emozioni o storie completamente nuove. Ecco perché, sin da piccolo, ne ho intrapreso lo studio. Mi sono diplomato presso la Ciak Academy e poi ho frequentato la scuola Voice Art Dubbing a Roma. Tra i miei ruoli più importanti, quello di Maurizio in Un posto al sole. Ho recitato in Indovina chi viene a Natale di Fausto Brizzi, a dicembre mi vedrete nel film Il professore Cenerentolo, per la regia di Leonardo Pieraccioni. Ci sono progetti futuri in vista ma, da buon napoletano, sono scaramantico e non mi pronuncio. Attualmente frequento l’Hollywood Tecniques Studio, diretto dall’unica insegnate certificata in Italia con il metodo Chubbuk, Patrizia De Santis, e sto valutando il percorso giusto da intraprendere. Incrociamo le dita!

MARIA VITTORIA BARRELLA

(NAPOLI) Ho 24 anni e sono nata a Napoli. La mia “strada per Damasco” fu un’interpretazione per bimbi della Turandot. Oltre alla storia, mi colpì la sua messa in scena: non capivo bene se fosse una finzione o un gioco ma, qualsiasi cosa fosse, volevo farne parte. Poi, grazie allo studio e all’impegno, ho capito che il palcoscenico era il luogo per me. Il mio primo film da protagonista è stato Aquadro di Stefano Lodovichi. Ho recitato poi ne Il bacio di Enrico Mazanti, che ha vinto a Cannes nella sezione Young Directors World. Sono adesso nei cinema con In fondo al bosco, ancora per la regia di Lodovichi, persona per me importantissima, che mi aiuta a crescere e a conoscermi come attrice di cinema. Sto lavorando alla prima produzione teatrale curata da me. Ci tengo molto, perché dovrebbe debuttare l’anno prossimo a Trento, città in cui sono cresciuta, con una sceneggiatura scritta da mio fratello Renato. Per il futuro, mi auguro di imparare a raggiungere ogni pubblico dando il meglio.

ROBERTA MATTEI

(ROMA) Sono nata a Roma 32 anni fa. Ho scoperto la mia passione per la recitazione e intrapreso questa carriera perché, per farlo, bisogna vivere intensamente, conoscere e mettere in connessione più livelli di se stessi e del mondo che ci circonda. È un universo incredibilmente affascinante e tutto da scoprire. Mi avete vista in Non essere cattivo di Claudio Caligari, ho lavorato in numerosi spettacoli teatrali e fiction e, prossimamente, sarò in Italian Race di Matteo Rovere. Attualmente lavoro con i ragazzi, aspettando proposte interessanti.

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«SUL FUTURO, DA BUON NAPOLETANO, NON MI PRONUNCIO E INCROCIO LE DITA!». V.V.

«VOGLIO IMPARARE A RAGGIUNGERE OGNI PUBBLICO DANDO SEMPRE IL MASSIMO». M.V.B.

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«MI PIACE TRASMETTERE EMOZIONI ANCHE SOLO CON UNO SGUARDO». F.R.

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© Fabrizio Cestari

- Soundtrack -

DIEGO BUONGIORNO

CREATORE DI SOGNI Com’è nata l’idea di The Bush? Ero in Sudafrica su un pulmino sgangherato di ritorno dalle Victoria Falls, delle cascate meravigliose. Su questo pulmino pensai per prima cosa al titolo della favola, appunto The Bush. Sono sempre stato affascinato dalla natura e dalla possibilità che ha l’uomo di cambiarla e per me anche in quell’occasione è stata una grossa fonte di ispirazione. Ma nonostante l’idea sia nata in Africa, non c’è niente di africano, lo stile musicale è tutto sopra l’equatore.

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Polistrumentista, compositore e produttore, Diego Buongiorno ha presentato di recente il suo concept album The Bush nella suggestiva location degli Horti Sallustiani a Roma, dove abbiamo avuto il piacere di incontrarlo e ripercorrere con lui questa favola in cui si fondono musica, immagini e sogno.

di ROBERTA FORNARI


Immagini dai backstage della mostra-concerto When We Dream We Are All Creators e dal live in teatro My Heart is a Forest.

Che cosa rappresenta per te questo progetto? Tante cose. È una favola che volevo raccontare attraverso dei brani strumentali che inizialmente erano solo 10, e alla fine sono diventati 25 di cui 16 cantati da eccellenze della musica alternativa internazionale. Il disco ha avuto una gestazione lunghissima di circa tre anni, questo anche perché si tratta di un progetto indipendente: i brani sono stati quasi tutti scritti, arrangiati e prodotti da me e l’album vede la partecipazione di più di 60 ospiti da tutto il mondo (California, Groenlandia, Irlanda, Francia ecc.). È un progetto trasversale, che passa per la fotografia, l’arte contemporanea, la performance e il multimediale. È un sogno rappresentato da una foresta scura piena di creature dove la bambina protagonista si perde e crea dei mondi immaginari. Spesso si ha l’idea dell’artista come un genio dal vissuto non proprio sano; invece ritengo che esista una fisiologia del pensiero creativo che è pura e sana. Da qui il tema dell’infanzia e la dimensione onirica: il bambino è l’artista più potente che puoi incontrare ed è nel sogno che siamo tutti creatori. Ascoltando l’album sono evidenti la cura e la ricerca sul suono. Possiamo dire che per

te ha un ruolo rilevante ai fini della produzione? Per me è nel suono che c’è l’immagine. Il disco è arrivato nel corso degli anni alle orecchie di miei punti di riferimento come Matteo Garrone e Michel Gondry se parliamo di cinema, piuttosto che Denna Thomsen per la danza, e a tanti altri musicisti come John Michael Anderson dei Banks, John Grant, Eros Ramazzotti e Natalie Imbruglia con cui sto collaborando in questo periodo.

tanto e mi piace lavorare con i registi teatrali per vedere come mettono in scena gli spettacoli. Quando lavoro per il teatro, non leggo quasi mai il copione. Mi interessa invece tantissimo l’incontro con il regista e parlare con lui dello spettacolo, mi piace dar conto a chi ha scritto l’opera. Per il cinema non ho ancora fatto moltissimo, ma da tempo collaboro con Brando De Sica per vari spot, corti e mediometraggi e con lui ho un

«IMPARARE A DIRE TANTI NO, È COSÌ CHE TI DEFINISCI COME ARTISTA». Il mio ingegnere del suono, Addi 800, è lo stesso di Bjork, Sigur Rós e Blur e il mio mastering enginneer, Mandy Parnell, anche lei ha collaborato con artisti come gli XX e Paul McCartney. Sono onorato di poter lavorare con persone di questo livello, non smetto mai di imparare. Quali sono state le tue collaborazioni nel cinema e nel teatro? L’ultimo spettacolo teatrale che ho musicato è Io sono Misia per la regia di Francesco Zecca. Poi ho collaborato per molti spettacoli con Marco Calvani e con la compagnia Industria Indipendente. Il teatro me lo porto sempre dentro, mi stimola

modo di lavorare unico e irripetibile: nonostante nascano molte discussioni e confronti, ognuno ascolta sempre l’altro. È unico anche il lavoro che facciamo da un punto di vista di costruzione e sviluppo musicale: lui viene da una scuola americana e quindi ha quell’imprinting, quel modo di pensare la musica o il cinema a 360 gradi perché conosce bene il linguaggio di entrambe le arti. Ritengo che entro i prossimi dieci anni Brando sarà uno dei registi più grandi. Cosa pensi dei compositori italiani per musica da film? In questo momento non so

quanto il cinema italiano riesca a ottenere un valore aggiunto con la musica che viene composta. Credo sia sempre una musica di servizio. Infatti spesso nei trailer sentiamo le musiche di altri film stranieri, per esempio Outro degli M83, e questo accade perché brani così emozionali in Italia non vengono scritti. Mi chiedo spesso perché. In passato, con le musiche di Morricone e Rota era diverso: quando vedevi quelle scene entravi in un mondo. Quello che manca oggi nella musica del cinema italiano è qualcosa che sia più forte delle immagini che vedi. Vorrei assistere al momento musicale che scavalca l’immagine, in cui la musica diventa l’attrice di quella scena. Quali suggerimenti daresti ai compositori emergenti? Chiedere sempre! Non vergognarsi mai a chiedere. Le collaborazioni sono alla base del processo creativo: se stai chiuso in casa a fare musica è come non farla, se non condividi e non ti scontri non migliori mai. E imparare a dire tanti no, è così che ti definisci come artista.

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- Macro -

STORIE DI TESTATE

Abbiamo chiesto a Elisabetta Cartoni come si diventa leader mondiali nel settore delle testate per ripresa cinematografica. Una storia che nasce nel 1935, all’Istituto Luce.

Appena mi siedo nel suo ufficio, la prima cosa che mi dice Elisabetta Cartoni, amministratrice delegata della Cartoni Spa, è che loro sono gli unici fabbricanti di teste nodali al mondo, le famose Lambda. E fa una pausa, probabilmente aspettandosi una mia qualche reazione tipo “wow”. Purtroppo il massimo che riesco a dire è: «Ah…». A quel punto, forse sospettando che la mia mancanza di entusiasmo dipenda sostanzialmente da una totale ignoranza in materia, comincia pazientemente a illustrarmi il concetto di

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centratura nodale della macchina da presa. Mi spiega che si parla di centratura nodale quando il centro di rotazione e il centro ottico della camera coincidono. In genere non coincidono, quindi teoricamente per raggiungere la posizione nodale bisogna far scorrere le varie slitte di aggiustamento, ma facendo così la camera si sbilancia. «Mio padre – aggiunge – ha risolto il problema applicando dei contrappesi alle rosette delle testate che permettono di ottenere una centratura nodale senza sbilanciare la macchina.

Tutto chiaro?». Credo che la mia faccia sia stata abbastanza eloquente: assolutamente no! Sorvolando sull’ostico concetto di testata nodale, cerco di scoprire quantomeno a che cosa serva. Così mi spiega che è utile quando si riprendono degli edifici facendo una panoramica perché senza centratura nodale sarebbero deformati. Ed è fondamentale per i VFX quando si deve inserire un’immagine virtuale all’interno di una ripresa reale su green. Specialmente se si tratta della ricostruzione di un elemento architettonico con


di GIULIA FORGIONE foto PAOLO PALMIERI

E ALTRI RACCONTI

cui l’attore deve interagire in qualche modo. Esistono quattro modelli di Lambda. C’è la Lambda originale che regge fino a 50kg. C’è la Lambda 10 pensata per le macchine da presa più leggere fino a 10kg e poi nel 2016 uscirà sul mercato anche la nuova Lambda 25 che supporta fino a 25kg creata con allumini e altri materiali super leggeri e con uno scheletro molto più duttile rispetto alle sue precedenti versioni. Infine c’è la celebre Lambda Twin 3D, la prima testata al mondo per riprese tridimensionali. Riprende il concetto ergonomico

della Lambda e lo declina verso le applicazioni 3D per riprese stereoscopiche sia con camere affiancate e parallele, che con camere disposte a 90° tra di loro e che utilizzano un beam splitter per l’allineamento reciproco. Le chiedo com’è nata l’idea della Lambda Twin 3D: «Chiacchierando con James Cameron e Vince Pace. Cercavano un supporto per girare Avatar e noi gliel’abbiamo inventato». Capito? La filosofia Cartoni è quella di lavorare a stretto contatto con gli addetti ai lavori, perché sono loro che ispirano le maggiori

innovazioni. È sempre stato così, Renato Cartoni inventò la prima testata nel 1935 quando lavorava come operatore per l’Istituto Luce perché gli serviva qualcosa che desse più stabilità all’immagine filmata ma senza rinunciare a un movimento fluido. E poi suo figlio Guido ha continuato la tradizione di famiglia. Elisabetta mi racconta di suo padre: «È stato lui a creare il primo supporto loupe per il suo amico Fellini quando girava E la nave va, per avere una loupe ferma anche quando la testata faceva su e giù per seguire il rollio della nave».

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Diagramma esploso della testata Focus.

C’È SEMPRE UNA STORIA DIETRO UN’INVENZIONE

Una storia che, nel loro caso, li ha portati a vincere l’Oscar del settore nel 1992. Ma come si arriva da Roma ad Hollywood? Elisabetta spiega che inizialmente suo padre costruiva le testate solo per i cineasti di Cinecittà. Poi un giorno vengono in visita agli studi August Arnold e Robert Richter, i fondatori dell’Arri, che vedono la testata e capiscono che è un supporto perfetto per la loro Arriflex. Quindi incontrano Guido

Cartoni e gli propongono di produrre per loro, però vogliono che la testata sia targata Arri. Guido accetta ma in cambio si fa dare l’agenzia dell’Arri per l’Italia, quindi Cartoni vende le Arri in Italia, mentre l’Arri vende le testate Cartoni nel mondo intero. Ora non è più così, ma è stato un ottimo sodalizio. La nostra chiacchierata continua in giro per l’azienda. Elisabetta mi porta a vedere il laboratorio di assemblaggio e l’officina dove vengono costruiti i componenti. La Cartoni è ancora una ditta artigianale che produce qualche centinaio di pezzi l’anno. Non c’è mai una produzione industriale

Elisabetta Cartoni con la collezione di testate antiche e la straordinaria Mitchell impiegata per girare Roma Città Aperta.

se non per i supporti piccoli come la Focus, la loro best seller, che è prodotta in serie da 1000 pezzi. Una tipica serie di Lambda comprende al massimo 50 pezzi che vanno lavorati a mano uno per uno. Per competere quindi con le grandi aziende che producono migliaia di supporti l’anno, sono costretti a cercare costantemente cosa manca nella tecnologia, fare apparecchi performanti e unici che siano appetibili per l’utilizzatore sofisticato.

E poi, mi confessa, i nostri prodotti costano forse un po’ di più, ma durano tantissimo. Allora meglio comprare una buona testata una volta nella vita, che cambiarne una ogni due anni. Ma se le vostre testate durano così tanto, poi non avete ricambio… «In effetti siamo i peggiori nemici di noi stessi» mi confida il direttore commerciale Luciano Belluzzo «però ci guadagniamo in immagine». E mi spiega che a livello di marketing lavorano al concetto di “Customer for life”. Stanno contattando le scuole di cinema e televisione per sensibilizzare le nuove generazioni sul concetto di qualità e che “Una Cartoni è per sempre”. Parlano tutti con un incredibile orgoglio della loro azienda e quando Elisabetta mi dice che alla fine sì, guadagnare è importante, ma quello che fanno lo fanno soprattutto per passione, io le credo: «La cosa più bella di questo lavoro è risolvere il problema a qualcuno e sapere che una cosa è stata girata in un certo modo perché tu gli hai dato lo strumento». E sorride.

«LA COSA PIÙ BELLA DI QUESTO LAVORO È SAPERE CHE UNA COSA È STATA GIRATA IN UN CERTO MODO PERCHÉ TU HAI FORNITO LO STRUMENTO». Testata nodale Lambda, supporto per telecamere fino a 50 kg.

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www.cartoni.com



© Aliocha Merker

DANIELE GRASSETTI C’È QUALCOSA DI NUOVO IN

TV

Fabrique continua a rivolgere la propria attenzione ai giovani autori: questa volta tocca a Daniele Grassetti, regista ormai affermato grazie al successo della sketch comedy targata RAI Fiction Zio Gianni. 58

IN COLLABORAZIONE CON

di GIACOMO SABELLI foto ANDREA PIRRELLO

Daniele è un artista a tutto tondo che ha dimostrato di sentirsi a proprio agio sia davanti che dietro la macchina da presa. Studia recitazione al Centro Sperimentale, scrive e dirige vari spettacoli teatrali e cortometraggi, recita nell’horror indipendente Il bosco fuori (2007) mentre nel 2013 è dietro la macchina da presa del suo primo film, Tre giorni dopo. La consacrazione giunge per lui proprio con l’enorme riscontro di pubblico ottenuto grazie a Zio Gianni, una serie che oltre ad avere come sfondo la Roma di oggi (con i problemi scaturiti dalla crisi e dal confronto/scontro generazionale), incentra la propria struttura narrativa sulla comicità innovativa tipica dei racconti provenienti dal web.


«IL PUBBLICO È DESIDEROSO DI QUALCOSA DI NUOVO, È DUNQUE PRONTO PER QUESTO E MOLTO DI PIÙ».

Come nasce Zio Gianni? Nasce da un’idea di Luca Ravenna e Luigi Di Capua (che assieme ai restanti The Pills cura anche il soggetto) e prodotta da Ascent Film di cui fa parte Matteo Rovere. Matteo mi ha chiamato a curare la regia e la sceneggiatura dei 27 episodi che vanno a comporre Zio Gianni. Il processo di lavorazione di questa webserie può essere diviso in due parti. Nella prima, dove vengono girati i primi episodi, c’è un lavoro di co-regia tra me e Sydney Sibilia, mentre la seconda parte vede me come unico regista dei restanti episodi. Il successo riscosso dalla serie ha portato alla fusione di due linguaggi, quello del web e quello televisivo. Pensi che il pubblico italiano sia pronto a questo nuovo approccio con l’intrattenimento? A mio avviso è più che pronto. Spesso si tende a sottovalutare il pubblico, si preferisce rimanere fermi su un prodotto classico piuttosto che tentare qualcosa di nuovo perché erroneamente convinti che gli spettatori non

capiscano, ma non è affatto così. Il pubblico è molto sfiduciato nei confronti del prodotto italiano ed è desideroso di qualcosa di nuovo, è dunque pronto per questo e molto di più. Dunque pensi che questo linguaggio possa continuare a vivere? Assolutamente sì, però va tutto ampliato. Va bene farlo in via sperimentale, ma bisogna progredire. Qual è la visione che RAI ha di questo progetto? Molto positiva direi. Sono stati proprio loro che hanno puntato sulla sua massima diffusione dandogli, come spesso hanno ribadito, uno “spazio sperimentale”. Sono dunque interessati anche a questo modo di raccontare? Certamente. La centralità che hanno riservato a Zio Gianni è servita ad attirare nuovi spettatori verso un prodotto diverso e il grande riscontro di pubblico ha dato l’ennesima conferma che bisogna puntare sul ricambio generazionale.

Parliamo invece un po’ di te. Tu nasci inizialmente come attore, poi decidi di passare dietro la macchina da presa. Ho iniziato a vent’anni, prima facendo un corso di teatro e poi iscrivendomi al Centro Sperimentale, ma nel frattempo avevo anche iniziato a scrivere e con il crescere si sono evolute anche le mie

capacità, che mi hanno portato poi a “tastare” anche altri terreni nell’intrattenimento. Sono del parere che in questo ambiente bisogna mettersi in gioco e fare un po’ di tutto, per me almeno è stato così; poi è anche vero che ho molti amici che, ad esempio, da sempre fanno gli attori e nel tempo sono voluti rimanere tali. Diciamo, ecumenicamente, che ognuno ha la sua strada. Idee per il futuro? Intanto vorrei che uscisse Tre giorni dopo, la mia opera prima girata nel 2013 e che vede tra gli interpreti Alessandro Roja e Paolo Sassanelli, poi ho intenzione di girare almeno un secondo film e una vera e propria serie.

Protagonista della serie è Gianni (interpretato da Paolo Calabresi), un cinquantenne rimasto senza lavoro e senza casa, costretto a vivere assieme a tre coinquilini di venticinque anni più giovani di lui.

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- Making of -

2NIGHT

CAST Matilde Gioli, Matteo Martari, Giulio Beranek REGIA Ivan Silvestrini SCENEGGIATURA Antonio Manca, Antonella Lattanzi, Marco Danieli PRODUTTORE Alessandra Grilli, Serena Sostegni PRODUTTORE ASSOCIATO Cristiano Gerbino ORGANIZZATORE GENERALE Laura Petruccelli FOTOGRAFIA Davide Manca SCENOGRAFIA Federico Baciocchi COSTUMISTA Sara D’Angelo

a cura di DAVIDE MANCA foto MARTINA MONACO, VIDEO DESIGN - IED ROMA CINEMA E NEW MEDIA

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Lightpanel 30X30 con deep amber e doppio telaio 250 frost e astaboom con mini Lightpanel con deep amber di controluce.

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Night for day: astaboom con 200 hmi.

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Astaboom con lightpanel 30x30 con deep amber.

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Fotogramma dell’effetto notte per giorno.

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Deep amber e fumo diegetico.

Macchina a mano con easyrig, monitor assistente con peaking attivato.


SINOSSI Durante una notte due giovani sconosciuti si attraggono in una discoteca di Roma. Nelle loro intenzioni solo sesso, come tante altre volte. Ma c’è traffico di sabato sera e, in macchina verso casa, inaspettatamente la conversazione si amplia. Dapprima diffidente, diviene poi provocatoria, spregiudicata e a poco a poco le maschere cadono, scoprendo un’intimità che costringerà i protagonisti a cambiare il loro programma.

del corteggiamento, senza sentirsi in dovere di attendere che sia l’uomo a compiere il primo passo. Tuttavia, in Italia, sono ancora pochi gli esempi che hanno affrontato quest’aspetto dell’evoluzione sessuale e culturale. Il punto di vista dell’auto in viaggio nella notte consente inoltre di mostrare anche una capitale inedita, fatta di murales di giovani artisti e di angoli che non assomigliano alla Roma da cartolina.

IL FILM 2Night si ispira all’omonimo film israeliano di Roi Werner, un esperimento di cinema indipendente low budget perfettamente riuscito. La produzione Controra nasce con il proposito di realizzarne una nuova versione ambientata in una città come Roma, attraverso uno sguardo che racconta ed esplora la contemporaneità del mondo giovanile italiano ed europeo. L’intento è approfondire i cambiamenti che si stanno affermando nelle relazioni tra uomo e donna: sempre più spesso, infatti, oggi la donna assume le redini

IL REGISTA Ivan Silvestrini, classe 1982, diplomato al Centro Sperimentale, con 2Night firma il suo secondo lungometraggio per il cinema dopo l’esordio salutato con grande favore dalla critica, Come non detto del 2012. Attivo anche nella scrittura seriale, ha firmato le serie web Stuck - The Chronicles of David Rea, prima webserie italiana girata interamente in inglese, Under e Una grande famiglia - 20 anni prima, primo prodotto web di RAI 1, spin-off della serie Una grande famiglia. Attualmente sta lavorando a un nuovo lungometraggio, Monolith, tratto dall’omonima graphic novel di Roberto Recchioni.

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Camera car su “violino” con lightpanel 30x30.

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Night for day: 1.2kw hmi riflesso su poli 1x1 per background; 200 hmi di controluce e lightpanel 30x30 su poli 2x1.

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Fotogramma durante la ripresa.

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Assistente operatore e direttore della fotografia con easyrig per Red Dragon.

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Camera car su piattina; 2650w arri su dimmer con frost 216.

Elefantino con lightpanel deep amber, 2 king 2k per piazzale.

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- Effetti speciali -

TEMPO INSTABILE CON PROBABILI SCHIARITE

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GIOCO DI SQUADRA

Trent’anni e oltre il doppio delle produzioni all’attivo sul suo curriculum tra pubblicità, cortometraggi, lungometraggi, film tv e video arte. Pasquale Di Viccaro e la sua Metaphyx, fondata sei anni insieme a Luca Saviotti, sono gli autori degli effetti visivi digitali di Tempo instabile con probabili schiarite, ultimo film di Marco Pontecorvo. di FLAVIO NUCCITELLI foto PANORAMA FILMS 62


Spiega Pasquale che «oggi gli effetti visivi hanno costi molto ridotti rispetto al passato ed è per questo che entrano sempre più spesso anche nel cinema indipendente, permettendo ai registi di fare cose che prima erano impensabili in un film low budget».

«ABBIAMO RAGGIUNTO UN LIVELLO TECNICO MOLTO ALTO CHE CI HA AVVICINATO ALLE POSSIBILITÀ DI STUDI AMERICANI O INGLESI, CON BUDGET CHE LORO USEREBBERO PER UNA SOLA INQUADRATURA». Con Metaphyx in pochi anni avete già fatto tante cose, qual è il lavoro del quale sei più orgoglioso? Venti Sigarette è sicuramente un ottimo traguardo, ci ha fatto anche vincere il David di Donatello. Ma sono molto contento anche di quest’ultimo di Marco Pontecorvo, Tempo instabile con probabili schiarite, perché abbiamo raggiunto un livello tecnico e realizzativo molto alto che ci avvicina alle possibilità di studi americani o inglesi, con budget che loro userebbero per una sola inquadratura. Come si costruisce un effetto digitale? Per costruire un effetto bisogna sempre, innanzitutto, capire a cosa serve, qual è l’obiettivo del regista: può essere realizzare cose che nella realtà avrebbero un costo eccessivo, cose che sarebbe difficile affrontare ... oppure cose che nella realtà non esistono. Poi ci sono gli effetti

correttivi, a volte ci si accorge in fase di montaggio che c’è la necessità di cambiare una scena girata di giorno in una notturna; il nostro in fondo è un lavoro di servizio. Gli effetti visivi di Tempo instabile sono qualitativamente impressionanti: che tipo di lavoro avete fatto? Abbiamo dovuto realizzare delle trivelle, una richiesta decisamente nuova; per farlo siamo entrati in contatto con una società che produce trivelle, ci siamo fatti mandare i loro modelli e le scansioni con il laser per poi transcodificare il tutto con nostri software. Stessa cosa per l’animazione: abbiamo analizzato migliaia di video che sfruttavano i movimenti delle

trivelle e abbiamo tentato di riprodurli a mano, con tutte le variazioni tecniche che questo comporta. Anche quando si realizza una creatura vivente, un animale o un drago, ad esempio, prima di poterla modellare c’è un complesso studio di anatomia e poi un lungo lavoro di reference visive per capire come muoverlo. Ne passa di tempo prima di poterlo presentare al regista! Marco Pontecorvo è stato, tra l’altro, direttore della fotografia per tre episodi del Trono di spade, non è quindi nuovo agli effetti digitali: vi ha fatto richieste più specifiche del solito? No, non direi, sicuramente lavorare con Marco è stato più semplice che con un altro

regista. Marco ha una grande esperienza come direttore della fotografia, è un regista che viene dalla tecnica e ne conosce i limiti, coglie prima le problematiche e può darti lui stesso delle soluzioni. Una richiesta particolare però me l’ha fatta: un giorno arriva sul set e dice che deve chiedermi un grosso favore. Ho cominciato a preoccuparmi, pensando a una scena complessa appena inserita in sceneggiatura o a qualcosa di costosissimo fuori dal preventivo, invece mi spiega che John Turturro gli aveva chiesto una spalla per supportarlo in alcune scene, gli serviva un ingegnere, possibilmente nerd… e quindi per tre scene del film ho recitato nel ruolo dell’assistente di John Turturro. Sicuramente è stata una richiesta molto più semplice di quanto mi aspettassi, ma tanto quelle difficili sono venute comunque, mi riferisco a un’inquadratura in CGI dove la ripresa di base era solo uno sfondo, tutto quello

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che vediamo sullo schermo non esiste, è digitale. Sono inquadrature impiegate per grandi film tipo Transformers. E in che modo ci siete riusciti? Ci sono voluti quattro computer e cinque giorni di rendering. Com’è stato lavorare a una commedia? Ci capita spesso di lavorare a delle commedie, la novità questa volta è che Tempo instabile con probabili schiarite è una commedia che fa un uso intensivo, ma intelligente, di effetti digitali. Di solito nelle commedie lavoriamo principalmente per sopperire ai problemi di set: rimuovere una troupe riflessa su un vetro o impiegare green screen semplici; in questo caso c’è addirittura un protagonista del film che è

interamente digitale, la trivella, questo ci ha permesso un uso molto creativo degli effetti e non è una cosa che capita tutti i giorni. I software che utilizzate sembrano difficilissimi da maneggiare, è così? Allo stato attuale della

tecnologia si può creare veramente di tutto, questo significa che la curva di apprendimento è sicuramente molto alta; matematica e logica sono indispensabili, ma l’industria sta cercando di rafforzare sempre più anche il lato artistico. Non dobbiamo dimenticarci l’importanza

«C’È UN’INQUADRATURA IN CGI DOVE LA RIPRESA DI BASE ERA SOLO UNO SFONDO, TUTTO QUELLO CHE VEDIAMO SULLO SCHERMO NON ESISTE, È DIGITALE».

della componente umana che è dietro la tecnologia, a Hollywood parliamo di migliaia di persone, tra le dieci e le quindici per singola inquadratura, ognuna con un compito molto specifico. Lavorare con gli effetti visivi richiede grande sensibilità, perché il risultato è pur sempre un prodotto artistico, anche se di derivazione tecnologica, e soprattutto è un gioco di squadra formidabile. Avete usato tecnologie specifiche per Tempo instabile? In realtà no, i tool sono gli stessi che usiamo sempre, ma stavolta ci siamo concentrati sulla costruzione delle dinamiche. Nel caso della trivella di cui parlavo, ad esempio, abbiamo dovuto lavorare singolarmente su ogni ingranaggio e calcolare i pesi

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specifici di ogni componente meccanica, tutto questo solo per poterne ricostruire i movimenti. Poi abbiamo dovuto costruirne due versioni, una pulita e una sporca di petrolio. La pioggia di petrolio invece è stata fatta davvero, noi abbiamo solo dovuto rinforzarla. Tenersi al passo con le nuove tecnologie non sarà semplice… La cosa più bella di questo lavoro è che si parla tutti la stessa lingua e internet ci permette di comunicare con le case di produzione dei software stessi che, oltre ad aiutarci in casi di malfunzionamento, spesso ci chiedono aiuto per testare le versioni beta. Questo ci rende parte di un processo di ricerca e sviluppo costante. Io stesso, in quanto coordinatore del corso di computer grafica

allo IED, alcuni prodotti li uso con i ragazzi come testing per decidere se implementarli durante le produzioni. Guardando al futuro, tra 3D e realtà virtuale, in che direzione stanno andando gli effetti visivi? Oggi gli effetti visivi hanno costi molto ridotti rispetto al passato ed è per questo che entrano sempre più spesso anche nel panorama produttivo del cinema indipendente, permettendo ai registi di fare cose che prima erano impensabili in un film low budget. Anche nelle serie tv stiamo assistendo a un incremento esponenziale di personaggi con super poteri o di eventi straordinari, perché la tecnologia è sempre più accessibile. Inoltre ormai a

registi, produttori e direttori della fotografia è richiesta una conoscenza di base degli effetti visivi per poter interagire con i tecnici, sia nella preparazione che nella post produzione del film. Guardando al vostro di futuro, mi hai parlato di questo film come qualcosa di nuovo nell’orizzonte dei vostri lavori precedenti, cosa vi è rimasto? Su questo film ci siamo accorti che collaborando strettamente con il regista e il direttore della fotografia, pianificando bene le inquadrature, viene fuori un lavoro eccellente. Durante la lavorazione, ogni volta che finivamo un effetto lo portavamo subito in color correction per una proiezione con regista e dop, perché spesso ciò che è perfetto sul

monitor del computer non lo è sul grande schermo; se ci rendevamo conto che qualcosa non andava o non ci soddisfaceva tornavamo a lavorarci sopra. Purtroppo non sempre è facile collaborare così bene; su questo film abbiamo fatto davvero un ottimo lavoro di squadra, che è alla base per ottenere ottimi risultati. Sempre.

www.metaphyx.com

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HISTOIRES DU CINÉMA

*

Lucrezia Battelli, 21enne di Torino, è iniziata al linguaggio del fumetto da Barbucci leggendo W.i.t.c.h. Frequenta la Scuola Internazionale di Comics e quest’anno ha vinto il premio Loading di verticalismi. it. Mirko Oliveri nasce a Catania, ha 29 anni, è autore di webcomics, blogger, CEO di Verticomics e direttore di verticalismi.it.

* ‘Alchimia’ in lingua egizia

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DIARIO GLI EVENTI DI FABRIQUE

VENEZIA ‘72

UN CAMPER PIENO DI CINEMA Per il terzo anno consecutivo Fabrique ha presentato il suo numero autunnale, l’undicesimo, durante la 72esima edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. Per l’occasione è stata organizzata una presenza stabile al Lido con un camper griffato Fabrique, un salotto itinerante dove gli accreditati, i cinefili e i curiosi hanno potuto sfogliare in anteprima il nuovo numero, recuperare gli arretrati, incontrare la redazione, gli amici della rivista e i protagonisti del giovane cinema italiano presenti alla Mostra e sulle nostre pagine. La nostra settimana veneziana ha avuto il suo culmine il 5 settembre quando, con il patrocinio della Regione Veneto, è stata organizzata negli spazi della Regione all’Hotel Excelsior una tavola rotonda sulla rivoluzione digitale nella distribuzione dei contenuti cinematografici in Italia. L’occasione è l’arrivo anche da noi di Netflix, cosa cambia, quali

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opportunità si aprono e come si sono preparate le realtà che in Italia già da tempo sono attive nel settore della distribuzione online, streaming, video on demand. Dopo l’affollato workshop è stata la volta della presentazione ufficiale del numero 11. E, fin dai nostri esordi, ogni nuovo numero è anche l’occasione per festeggiare a dovere, con il consueto menu di presentazioni in anteprima, cortometraggi, musica live e dj set. Protagonisti questa volta gli autori di due dei film italiani del cartellone veneziano: Banat di Adriano Valerio e Arianna di Carlo Lavagna, che hanno presentato le loro opere prime. Gli amici di Artisti 7607 hanno organizzato un info point sulla tutela del diritto d’autore per artisti, interpreti ed esecutori. Sul lato musicale, hanno calcato il palco Mimosa Campironi, Tymbro, Complesso Plutone e i Dj veneziani Ometto & Scanda.


NEWS 19 SETTEMBRE 2015

NASTRO AZZURRO TALENT AWARD PREMIA I TALENTI DEL VIDEO È Film Live di Mattia Costa il progetto vincitore della prima edizione del Nastro Azzurro Talent Award. Il concorso dedicato a progetti di videomaking sperimentale è stato promosso dal Milano Film Festival e Nastro Azzurro con la collaborazione di Fabrique.

20 OTTOBRE 2015

SHORTS FOR FEATURES Shorts for Features è un concorso internazionale promosso da Prem1ere Film e AncheCinema che prevede un premio in denaro di 2.000 € per cinque sceneggiature di cortometraggi. Fabrique, media partner del progetto, era presente all’evento con la direttrice editoriale Elena Mazzocchi.

23 OTTOBRE 2015

UNA CASA PER FABRIQUE Il 23 ottobre alla Città dell’Altra Economia in Lungotevere Testaccio a Roma ha finalmente aperto le porte la nuova sede della redazione di Fabrique, uno spazio per il lavoro dei redattori e collaboratori, ma soprattutto un luogo da riempire con eventi, presentazioni, spettacoli, musica e tanto cinema. Ci piace definirlo il “round zero” di un percorso di riqualificazione di uno spazio meraviglioso e da valorizzare, per aprirlo ai giovani, agli addetti ai lavori dell’audiovisivo, alla cittadinanza, e renderlo casa di idee e realizzazioni, culture e arti, sogni e realtà.

DOVE

Come e dove Fabrique

ROMA CINEMA CASA DEL CINEMA | 06.423601 | Largo Marcello Mastroianni, 1 CINEMA TREVI | 06.6781206 | Vicolo del Puttarello, 25 EDEN FILM CENTER | 06.3612449 | Piazza Cola di Rienzo, 74 GREENWICH | 06.5745825 | Via G. Battista Bodoni, 59 INTRASTEVERE | 06.5884230 | Vicolo Moroni, 3 MADISON | 06.5417926 | Via G. Chiabrera, 121 NUOVO CINEMA AQUILA | 06.70399408 | Via L’Aquila, 66 NUOVO SACHER | 06.5818166 | Largo Ascianghi, 1 TIBUR | 06.4957762 | Via degli Etruschi, 36 LOCALI BIG STAR | Via Mameli, 25 CAFFÈ LETTERARIO | Via Ostiense, 95 CIRCOLO CARACCIOLO | Via F. Caracciolo, 23a DOPPIO ZERO | Via Ostiense, 68 GIUFÀ | Via degli Aurunci, 38 KINO | Via Perugia, 34 KINO MONTI | Via Urbana, 47 LE MURA | Via di Porta Labicana, 24 MAMMUT | Circonvallazione Casilina, 79 SCUOLE CENTRO SPERIMENTALE DI CINEMATOGRAFIA | Via Tuscolana, 1520 CINE TV ROSSELLINI | Via della Vasca Navale, 58 GRIFFITH | Via Matera, 3 ROMEUR ACADEMY | Via Cristoforo Colombo, 573 SCUOLA D’ARTE CINEMATOGRAFICA GIAN MARIA VOLONTÉ | Via Greve, 61

MILANO CINEMA CINEMA APOLLO | Galleria de Cristoforis, 3 CINEMA ANTEO | Via Milazzo, 9 SPAZIO OBERDAN | Viale Vittorio Veneto, 2 LOCALI OSTELLOBELLO | Via Medici, 4 PIADE IN PIAZZA | P.zza Meda, 5 SCUOLE NUOVA ACCADEMIA DI BELLE ARTI | Via C. Darwin, 20 Milano

TORINO CINEMA CINEMA MASSIMO | Via Giuseppe Verdi, 18

BOLOGNA CINEMA CINEMA LUMIÈRE | Via Azzo Gardino, 65

FIRENZE FABRIQUE DU CINÉMA LA CARTA STAMPATA DEL NUOVO CINEMA ITALIANO SCARICA GRATUITAMENTE TUTTI I NUMERI DAL SITO 0 SCRIVICI A REDAZIONE@FABRIQUEDUCINEMA.COM

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CINEMA CINEMA STENSEN | Viale Don Giovanni Minzoni, 25 CINEMA ALFIERI | Via dell’Ulivo, 6

PISA CINEMA CINEMA ARSENALE | Vicolo Scaramucci, 2

FESTIVAL

Cortinametraggio Festival Internazionale del Film di Roma Ischia Film Festival Maremetraggio - International Shorts Film Festival Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia Roma Creative Contest Roma Web Fest Rome Independent Film Festival Visioni Italiane Cineteca di Bologna

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