Fabrique du Cinéma #13

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LA CARTA STAMPATA DEL NUOVO CINEMA ITALIANO PRIMAVERA

2016

Numero

13

OPERA PRIMA

LO CHIAMAVANO JEEG ROBOT

“Il genere è lo strumento con cui raccontare la contemporaneità”

ICONE

RUGGERO DEODATO

L’avventuriero del cinema italiano che ha ispirato Stone e Tarantino

FUTURES

VINCENZO ALFIERI

“Questo è decisamente il momento di stare in Italia”

DELL’ARTISTA DA GIOVANE

RITRATTO Oggi si esprime in teatro, nella pubblicità, in TV, sul web, al cinema. Come Stella Egitto



S

MOLTO ITALIANO

CORTINAMETRAGGIO 2016

GIPI

UNO

STELLA EGITTO

SOMMARIO

JACOPO RONDINELLI/MAX GAZZÈ

Pubblicazione edita dall’associazione culturale Indie per cui Via Francesco Ferraironi, 49 L7 (00177) Roma www.fabriqueducinema.it

Registrazione tribunale di Roma n. 177 del 10 luglio 2013 DIRETTORE RESPONSABILE Ilaria Ravarino SUPERVISOR Luigi Pinto DIRETTORE ARTISTICO Davide Manca GRAFICA E IMPAGINAZIONE Giovanni Morelli DIRETTORE EDITORIALE Elena Mazzocchi REDAZIONE Chiara Carnà, Giacomo Lamborizio STRATEGIC MANAGER Tommaso Agnese PARTNER ISTITUZIONALI Sonia Serafini PHOTOEDITOR Francesca Fago MARKETING Federica Remotti EVENTI Isaura Costa Consuelo Madrigali Simona Mariani SET DESIGNER Gaspare De Pascali AMMINISTRAZIONE Katia Folco UFFICIO STAMPA Patrizia Cafiero & Partners in collaborazione con Sara Battelli PUBBLICITÀ APS Advertising srl Via Tor de Schiavi, 355, 00171 ROMA www.apsadvertising.it STAMPA Press Up s.r.l. Via La Spezia, 118/C 00055 Ladispoli (RM) DISTRIBUZIONE SAC

IL NOSTRO ULTIMO / WAX

20 OPERA PRIMA LO CHIAMAVANO JEEG ROBOT IL CINEMA DI GENERE RISORGE E COMBATTE

IN COPERTINA Stella Egitto

LA CARTA STAMPATA DEL NUOVO CINEMA ITALIANO 2015

Numero

13

OPERA PRIMA

LO CHIAMAVANO JEEG ROBOT

“Il genere è lo strumento con cui raccontare la contemporaneità”

ICONE

RUGGERO DEODATO

L’avventuriero del cinema italiano che ha ispirato Stone e Tarantino

FUTURES

VINCENZO ALFIERI

“Questo è decisamente il momento di stare in Italia”

DELL’ARTISTA DA GIOVANE

RITRATTO Oggi si esprime in teatro, nella pubblicità, in TV, sul web, al cinema. Come Stella Egitto

GIOIELLI Paviè ABITI Aglini (thanks Redshowroom)

IL PRODUCT PLACEMENT HA COMPIUTO DIECI ANNI

THE CIDE / ESAMI

VINCENZO ALFIERI

DOPPIATORE

I VINCITORI DELLA PRIMA EDIZIONE

SALE CINEMATOGRAFICHE - II PARTE

NUOVA SERIALITÀ: UNA MAPPA PER ORIENTARSI

ADELE TULLI

SET THE STAGE!

I CANI

FORMARE UNA NUOVA GENERAZIONE DI PRODUTTORI

LORENZA INDOVINA

DEPRIVATION

LA CORRISPONDENZA

Finito di stampare nel mese di marzo 2016

PRIMAVERA

04 EDITORIALE FESTIVAL 06 RADIO COMICS 08 STREET ART 10 COVER STORY 14 VIDEOCLIP 18 OPERA PRIMA /2 23 FOCUS 24 NAZIONE WEB 26 FUTURES 28 SPECIALE MESTIERI 30 PREMI FABRIQUE 2015 34 SPECIALE 40 SERIE TV 42 ZONA DOC 46 DOSSIER ATTORI 48 SOUNDTRACK 54 MASTERCLASS 56 ATTRICE/AUTRICE 58 MAKING OF 60 EFFETTI SPECIALI 62 FUMETTO 66 DIARIO 68 DOVE 69

36 ICONE RUGGERO DEODATO IL CANNIBALE ODIA L’HORROR

CATWARS

GLI EVENTI DI FABRIQUE

COME E DOVE FABRIQUE

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E EDITORIALE

MOLTO ITALIANO di ILARIA RAVARINO foto ROBERTA KRASNIG

Si prova un piacere un pochino provinciale nello sfogliare le pagine di questo numero di Fabrique e pensare con sorpresa, entusiasmo, meraviglia: non sembra l’Italia. E subito viene in mente il tormentone di Stanis La Rochelle in Boris, quel suo bollare ogni vecchiume culturale, ogni pretesa intellettuale, ogni cliché stantio come “molto italiano”. E però, davvero, l’immagine che emerge da queste pagine è quella di un paese lontano dal racconto quotidiano che ne fanno gli (altri) giornali. Qui dentro c’è tutto un mondo, un piccolo esercito che si ricompatta lento dopo una lunga disfatta sociale. Protagonista di questo numero è il cosiddetto Bim Bum Clan, per rubare uno spunto alla nostra Opera Prima Gabriele Mainetti: eterni ragazzini i trentenni, letteralmente invisibili i ventenni, giovani adulti che cominciano solo oggi a riconoscersi e ritrovarsi nel panorama culturale del paese. Dove? In film come Lo chiamavano Jeeg Robot, in progetti come il gioco di carte di Gipi, in tutto quell’insieme sincretico di prodotti formato e prosperato attraverso il web. Per loro, per noi, non c’è nulla di strano: che in Italia si faccia un film sui supereroi, che un disegnatore si appassioni di fantasy, che una graphic novel ispiri una webserie e che il computer sia una

piattaforma efficace per raccontare. Che un regista “cannibale” con gli stivali sporchi di fango sia un’icona credibile, che uno scrittore che livella su World of Warcraft sia d’ispirazione emotiva e generazionale. E allora sbagliamo a sorprenderci, entusiasmarci, meravigliarci? È questa, davvero, l’Italia? Quasi. Perché leggendo questo numero scoprirete anche quanta fatica ha fatto Mainetti per realizzare il suo film, quanto difficile è stato per il nostro Futures Vincenzo Alfieri e per i nostri artisti del web convincere qualcuno a produrre le loro idee. Così difficile che si sono dovuti costruire da soli le proprie case di produzione: «I produttori – dicono – oggi hanno paura». Produttori vecchio stampo che “non si fidano”, registi con “il terrore del digitale” (leggete, a proposito, le testimonianze di chi lavora agli effetti speciali dei film), documentaristi che se ne vanno all’estero perché in Italia (ancora!) di sesso non si può parlare. E la rete come unica arena adatta a sperimentare. Quel “molto italiano” che ai giovani adulti fa orrore, per la generazione dei padri è uno scudo su cui far rimbalzare tutto ciò che è nuovo, diverso, non conforme. Sarebbe invece bellissimo che tutti quanti, giovani e meno giovani, facessero uno sforzo.

Cominciando magari a sfogliare questo numero pensando, con orgoglio: com’è italiano, il nuovo cinema italiano. stylist STEFANIA SCIORTINO gioiel i PAVIÈ abiti AGLINI (thanks REDSHOWROOM) 4


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Violante Placido

Ludovico Girardello

- Radio Festival -

S

Saranno quindici i corti di commedia presentati (all’organizzazione sono arrivati ben 400 prodotti), circa il 50 per cento in più rispetto allo scorso anno. Quattordici invece i booktrailer, i corti pensati per promuovere libri, finalisti. Cinque le webserie edite e cinque le inedite selezionate da Leonardo Ferrara (RAI) tra le 50 proposte. L’elevata partecipazione di artisti e di registi giovani e giovanissimi caratterizza da sempre una manifestazione definita non a caso “il festival talent scout per eccellenza”, contribuendo alla valorizzazione di giovani registi, molti passati dalle proiezioni dei corti al Cinema Eden alla realizzazione di lungometraggi di successo. Tra le altre iniziative in programma un’interessante rassegna degli allievi del Centro Sperimentale, il Premio del pubblico e una selezione di colonne sonore.

YOUNG ITALIAN YOUTH CORTINAMETRAGGIO 2016

di SONIA SERAFINI

Come ogni anno torna il festival talent scout per eccellenza: il “Cortinametraggio”. La manifestazione, organizzata e curata da Maddalena Mayneri e dal direttore artistico Vincenzo Scuccimarra, aprirà le sue porte dal 14 al 20 marzo nella cornice delle Dolomiti.

La manifestazione attribuirà riconoscimenti ai vincitori dei corti divisi nelle varie sezioni, sia in denaro come i Premi Franz Kraler di 1.500 euro al miglior corto in assoluto, sia di valorizzazione per l’originalità (Premi Good Weird – Migliore

in modo originale della Lenovo, riservati alle webserie); sia infine per la circolazione nelle sale (Premio ANEC e FICE dell’AGIS, che assicureranno in 450 sale la distribuzione del corto vincitore). A formare le giurie noti nomi dello spettacolo. La giuria dei

www.cortinametraggio.it 6

corti sarà composta da Fausto Sciarappa, Francesco Montanari, Anna Falchi, Cristiano Caccamo, Fabiana Cutrano, Emanuela Castellini, Jacopo Chessa; per i booktrailer Marcello Foti, Umberto Marongiu e Francesco Chiamulera; per le webserie Francesco Bruni, Chiara Fortuna, Annamaria Granatello, Leonardo Ferrara; per la colonna sonora Stefano Curti, Swan Bergman, Gabriele Amalfitano Mencacci, Violante Placido e Elena Zingali. La giuria del pubblico sarà presieduta da Paolo Spada e la giuria juniores da Armando Maria Trotta. Noi di Fabrique saremo inoltre presenti per rinnovare la nostra partnership e valutare il miglior regista emergente, che sarà premiato con la targa del nostro magazine. Cortinametraggio 2016 è dedicato alla memoria di Ettore Scola e ospiterà nella serata di apertura la proiezione di un suo corto.



IO NON SONO QUI

- Comics -

Gipi

Gian Alfonso Pacinotti, per tutti , in vent’anni di carriera da fumettista non si è risparmiato proficue divagazioni, come il film L’ultimo terrestre, in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia nel 2011. Ecco perché dopo il successo di Una storia, candidato al premio Strega, si è inventato un gioco di carte, Bruti, presentato a Lucca Comics & Games 2015. di GIACOMO LAMBORIZIO foto PAOLO PALMIERI Bruti: com’è nata la voglia di cimentarsi con un gioco di carte? La passione per i giochi da tavolo l’ho sempre avuta. Tre anni fa, per divertirmi, ho inventato un sistemino per far combattere due giocatori uno contro l’altro, una specie di arma bianca medievale. Quando ho iniziato a disegnare le illustrazioni e la grafica delle carte abbiamo provato (con La Bande Dessinée) a produrlo tramite crowdfunding, che è andato oltre le nostre migliori aspettative. Abbiamo stampato quasi 5.000 copie, andate esaurite in tre mesi. Ogni gioco necessita un conflitto. Guardando Bruti riemerge un tema che già attraversa la tua produzione, quello della guerra. C’è la passione per il combattimento, perché sono uno che si è fermato ai tredici anni. I disegni sono stati la parte più difficile, perché il fantasy è un genere estremamente codificato da decenni di cultura popolare. All’inizio pensavo che il mio stile non fosse adatto, poi ho accettato l’idea che i guerrieri fossero mezze seghe, storte e deficitarie come tutti i miei personaggi. E alla fine si sono creati da soli un’identità, un mondo fantasy più vicino a Brancaleone – che forse è il miglior fantasy di sempre – che a Conan. Bruti ti ha permesso di raggiungere un pubblico diverso, interessato prettamente al gioco?

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La cosa che mi ha fatto più piacere è stato sentirmi dire «io non ho idea di chi tu sia, ma il gioco è figo». Penso che i miei lettori siano una piccola minoranza dei giocatori. Si tratta di mondi completamente diversi. Alcuni dei lettori l’hanno presa come una perdita di tempo, mi era successo lo stesso col cinema. Che poi è vero che perdi tempo, ma impari anche cose nuove, e io non riesco a focalizzarmi su una cosa sola. Da dove si parte per inventare un gioco di carte? Dall’obiettivo finale o da quello che vuoi succeda nel frattempo? Volevo riprodurre una sensazione. Non si direbbe, ma per tanti anni ho fatto full contact, e la passione per le botte mi è rimasta. Volevo simulare tutto, dalla fatica alla paura di fronte all’avversario. Per prima cosa mi sono messo in una stanza con un bastone a menare colpi a destra e sinistra e a cercare di capire cosa succedeva al mio corpo. Questa cosa l’ho tradotta in carte, in mosse. Poi volevo che fosse facile, che i non giocatori potessero capirlo e divertirsi. Pensavo a tramutare un’emozione in un formato meccanico e matematico. Se ci pensi alla fine dare forma alle emozioni, inserirle in uno schema, è un lavoro che ben conosci. Esatto, è come raccontare una storia. La cosa bella dei giochi

è che tu ti togli di mezzo, non ci sei più. Passi tutto in mano a qualcun altro che è libero di interpretare, creare, cambiare. È esattamente ciò di cui avevo bisogno. Dopo tanti libri in cui c’ero sempre io, in un modo o nell’altro, l’idea di non esserci per niente mi faceva stare bene. Anche questo lavoro, come i tuoi libri, è fatto tutto da te. Come nascono i tuoi lavori? È un “buona la prima”, per usare un termine cinematografico? Dipende dalle esigenze della storia. Ho lavorato su almeno tre libri in improvvisazione completa (La mia vita disegnata male, S., Una storia). Succede quando sai cosa vuoi dire con certezza assoluta, devi solo fermarti e riflettere: qual è il motivo reale per cui starai un anno e mezzo a un tavolino? Ti butti in un


baratro, a pesce, solo se ti rendi conto che hai qualcosa che ti preme davvero raccontare, una domanda. Io non so rispondere alle domande senza mettermi a raccontare una storia, se mi metto su un divano a pensare a qual è la risposta non la trovo mai. Allora ti affidi, se ti senti abbastanza sicuro, a quel desiderio di trovare una risposta a quella domanda. E puoi improvvisare, perché se c’è un punto solo a cui arrivare la strada che prendi non è così importante. Ora sto lavorando su una storia che invece è il contrario, di finzione totale, per cui ho scritto un testo che se lo vedi è la sceneggiatura di un film. Questa storia l’ho scritta come se dovessi girarla. Siccome è una storia di trama, e la cosa mi spaventa perché non ci sono abituato, ho bisogno di sapere con precisione cosa succede. Poi c’è il disegno, ed è diverso dall’avere degli attori. Per quanto anche gli attori ti sorprendano, il disegno ha una componente magica, di mistero, più forte. Una volta scrissi una pagina intera di voce off, ma quando disegnai il personaggio questo cretino di carta fece una faccetta che mi fece spazzare via tutto il testo. Il disegno ti porta su vie impreviste. Per questo usavo uno stile in cui l’incoerenza era parte del lavoro. Infatti una cosa che colpisce è vedere quanto siano forti i tratti del disegno dei personaggi e quanto etereo il tuo modo di sfumare e stendere il colore. L’effetto è fortissimo. Per fare il paragone col cinema, a me manca la musica. Il cambio emozionale lo dai con i cambi di colore. All’inizio ero fissato sulla differenza di sostanza tra l’uomo e la natura che lo ospita, avevo una teoria, però ora me ne vergogno un po’. C’era un ordine.

«LA COSA BELLA DEI GIOCHI È CHE TU TI TOGLI DI MEZZO, NON CI SEI PIÙ. PASSI TUTTO A QUALCUN ALTRO CHE È LIBERO DI CREARE, CAMBIARE. DOPO TANTI LIBRI IN CUI C’ERO SEMPRE IO, IN UN MODO O NELL’ALTRO, L’IDEA DI NON ESSERCI PER NIENTE MI FACEVA STARE BENE».

stesso ordine, solo in un’altra forma. Questa volta invece ho fatto una pazzia: del libro precedente, Una storia, hanno scritto cose come “poeta”, “pittura bellissima”, “acquerello commovente”, così ho levato la pittura e la voce narrante. È un fumetto di puro racconto, ci sono solo i personaggi e quello che dicono. In bianco e nero. Quindi bisogna cambiare

sempre, per non annoiarsi. Quando ero più giovane e cattivo guardando autori che mi erano piaciuti pensavo “guarda com’era e com’è diventato”… Io sento sempre il rischio di suscitare una reazione simile. Non c’è nulla di peggio per me che vedere che sto ripetendo un meccanismo che magari è funzionato nel passato. Lo rifuggo sempre. Mi dà fastidio essere etichettato, scappo. Per quanto la fuga verso

un’altra tecnica mi faccia paura, è il motore per non invecchiare precocemente. Mi devo sempre dare delle regole, tipo samurai, che non posso infrangere, perché so che arriverà il momento in cui vorrò farlo. Il lavoro vale più di te, devi rispettare quello che stai facendo. Truffaut diceva che devi rispettare i tuoi errori. Se qui c’è l’errore strategico della mancanza del colore, lo devo tenere, perché il libro sarà quell’errore lì.

La natura è disegnata bene e gli esseri umani sono disegnati male. Esatto, allo stesso tempo però crescendo ti accorgi che quella stortura lì è sempre parte dello

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Street art

UNO Senza titolo (2011) 100 cm x110 cm

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UNO

Praga stickers (2008)

SALVATE IL PICCOLO

GÜNTER

Videoclip, TV commerciali, cartoni animati giapponesi e il sottofondo continuo e martellante della pubblicità. Ce n’è di materiale da intercettare e rielaborare in senso espressivo, se sei nato o cresciuto negli anni Ottanta.

di MARCO PACELLA

N

el 1981, per esempio, apre i battenti MTV. Nello stesso anno nasce lo street artist UNO, che proprio dal linguaggio pubblicitario trae quell’immagine iconica che si ritrova in mille modi, ritagliata, scomposta, continuamente rimescolata nel suo lavoro: il volto inconfondibile del piccolo Günter, personaggioemblema che ha svettato per anni sulla confezione delle barrette di cioccolato Kinder. Timidezza e modestia portano UNO a mimare con le mani due virgolette in aria se lo si chiama artista. È con lui che Fabrique inaugura una nuova rubrica dedicata alla street art. Lo abbiamo intervistato, birra alla mano, in un affollato locale del Pigneto.

Partiamo dalle origini. Com’è iniziato il tuo percorso espressivo e come sei arrivato alla street art? Ho sempre disegnato. Mio padre ha fatto l’accademia, e mi ricordo che da ragazzino mi faceva disegnare spesso. Nei primi anni 2000 studiavo a Roma e mi guardavo molto intorno. Tramite gli studi universitari sono entrato in contatto con il Situazionismo, Guy Debord e Luther Blisset. In quel periodo cominciavo a fare i primi sticker a mano, in maniera ancora confusa. Erano disegni che facevo io o immagini pop rivisitate, ma

si vedeva che cercavo ancora una mia strada. Dal Situazionismo avevo ripreso il concetto di détournement, cioè prendere immagini, ricontestualizzarle, cambiarle di segno. Ero alla ricerca di un’icona, qualcosa che mi rappresentasse, influenzato in questo dalla street art americana.

nel momento in cui l’azienda ha bisogno di un restyling sostituisce il personaggio, come se nulla fosse. E io entro là come un “paladino della giustizia” a ridargli nuova vita. Quindi non solo utilizzo questa immagine familiare della mia generazione, ma anche altre figure, da David Bowie (e quindi il fulmine sull’occhio) ai Kiss…

A un certo punto quindi arriva Günter. Esatto. Per il Situazionismo la “società dello spettacolo”, dei mass-media, sta sostituendo l’essere con l’apparire. Lo stesso Günter rappresentava allora l’immagine svuotata di tutta la sua parte profonda:

Un incrocio di riferimenti. Sì, usare lo stesso linguaggio dei mass media, cambiandolo di segno a mio favore. Quella di Günter è un’immagine che, nonostante alcune modifiche, resta per anni sostanzialmente invariata, diventando un’icona. Il vero

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Idolatrya (2014) @ Siracusa Foreveryoung (2012) @ Laszlo biro Flop Shop (2015) @ Laszlo biro

Senza titolo (2015) @ Ortigia Sicilia Senza titolo (2015) @ Roma Poster smile (2016) @ Amsterdam

Günter invece cresce, diventa adulto, ormai lontano dai riflettori. Sì. Non so quanto sia vero, però si diceva addirittura che in quegli anni – intorno alla fine dei ’60 – pare fosse stato pagato in cioccolata… [ride] Iniziando a lavorarci intorno al 2004, la vera sfida è stata “non ripetersi ripetendosi”, usare quella stessa faccia modificandola e trovare una nuova icona da incrociare e ibridare con Günter. Un’ossessività costruttiva, creativa, che mi porta a chiedere sempre di più a me stesso. Due tecniche che impieghi spesso, lo stencil e il poster, hanno in comune la necessità di un lungo lavoro in studio prima che l’opera raggiunga la strada. Come vivi questa doppia vita del lavoro? Tutto è collegato. La scelta del poster è un trick, perché per lavorare sul muro avrei bisogno di molto tempo. Però all’inizio i poster derivavano dagli sticker,

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perché non accontentandomi ho iniziato a fare adesivi sempre più grandi. Quando invece lavoro in spazi autorizzati mi prendo tutto il tempo che voglio, e in quel caso difficilmente utilizzo solo una tecnica ma preferisco la tecnica mista. Ovviamente la carta è più effimera: succede che metti un poster e il giorno dopo

punzecchiando un po’ il dibattito che si è creato fra strada e galleria. Nel mio lavoro sono due momenti separati che hanno pari dignità. Non credo ci sia nulla di male nello street artist che va in galleria, secondo me il male è quando l’artista si spaccia per street artist per entrare in galleria. Ma non voglio fare il

«LA SCELTA DEL POSTER È UN TRICK, PERCHÉ PER LAVORARE ILLEGALMENTE SUL MURO AVREI BISOGNO DI MOLTO TEMPO». non c’è più, ci ho fatto il callo. Può sembrare retorico, ma questo carattere effimero ha il suo aspetto positivo, ti porta a fare sempre di più. Certo la conoscenza del posto influisce sulla durata del lavoro. Come vivi invece il rapporto fra lavoro in strada e le esposizioni in galleria? Tempo fa ho intitolato una mostra a Bologna Enjoy Agorafobia,

purista, essere chiamato da una galleria o vendere dei quadri è anche un riconoscimento per il tuo lavoro. Ho letto che ti definisci uno “street wrestler”. La cosa è nata da una vecchia intervista e dal fatto che non mi facevo vedere in volto. Ho pensato al wrestling, preferendo quindi nascondermi e, goliardicamente, mantenere una maschera.

Vivi a Roma ma spesso sei all’estero. Quali sono secondo te le differenze e le continuità fra la scena artistica italiana e le altre che hai avuto modo di osservare negli anni? Non conosco in prima persona la scena d’oltreoceano. Per quello che ho visto in Europa, devo dire che le capitali sono arrivate alla street art molto prima di Roma, per esempio con i primi festival. Torno da poco da Amsterdam e lì mettere alcuni lavori è stato davvero difficile. Il centro è tutto ripulito rispetto a dieci anni fa. Londra mi sembra un luna park, con enormi muri interamente coperti. Secondo me tutto il mondo della street art sta affrontando il fatto di essere diventato cool. C’è molta roba più istituzionale e questo mi confonde, ma in fondo non mi lamento. Spero comunque che anche se un domani dovessi fare diverse mostre in galleria o avere muri interi a disposizione la mia attitudine di strada rimanga invariata.



- Cover story -

STELLA EGITTO

DAL TEATRO 14


INCONTRO STELLA PER LA PRIMA VOLTA ALLE PRESE CON I CAMBI D’ABITO PER LO SHOOTING FOTOGRAFICO. FA MOLTO FREDDO E INDOSSA UN VESTITO ESTIVO CON INVIDIABILE DISINVOLTURA ED ELEGANZA. di FRANCESCA BIANCHINI foto ROBERTA KRASNIG stylist STEFANIA SCIORTINO assistenti fotografa TERRY AMODIO e SEAN ROBERTO FERRITTO hair and make up VERONICA CABONI gioiel i PAVIÈ abiti AGLINI (thanks REDSHOWROOM)

Decidiamo di rifugiarci in un bar per l’intervista. Stella ha una luce negli occhi particolare e un sorriso accogliente e generoso. Le dico che assomiglia a Natalie Portman con qualcosa di Keira Knightley, e nonostante sia un mantra che si è sentita ripetere mille volte per rompere il ghiaccio, arrossisce leggermente. Già mi è simpatica, penso. La conquista definitiva avviene con un piccolo gesto: cioccolata calda invece che la solita triste tazza di tè delle cinque. Una scelta insignificante solo in apparenza, ma che in realtà qualsiasi interlocutore di sesso femminile avrebbe apprezzato.

CON AMORE 15


«HO AVUTO L’OPPORTUNITÀ DI SPAZIARE MOLTO NEL MIO PERCORSO PROFESSIONALE». Stella, 28 anni, siciliana di Messina. Che rapporto hai con la tua terra? La Sicilia mi è stata vicina fino ai diciotto anni e in un momento delicato della mia vita. Ho un attaccamento molto forte con la mia regione, un po’ meno con Messina. Purtroppo Messina è stata distrutta dal terremoto del 1908 e oggi gode di quel poco che è rimasto, nonostante abbia un litorale nord incantevole. La Sicilia mi accompagna nel lavoro, a cominciare dalla lingua e dal dialetto, ma soprattutto mi nutre con il suo ricchissimo immaginario. Da Messina all’Accademia Silvio D’Amico di Roma. Raccontaci il primo approccio con la recitazione. Non sono figlia d’arte, il mio è stato un percorso assolutamente personale. Al liceo ebbi la fortuna di incontrare un insegnante che diventò il mio punto di riferimento. Grazie a lui ho cominciato ad avvicinarmi alla drammaturgia: leggere dei testi e immaginarli prendere vita attraverso un interprete mi emozionava e incuriosiva. Dopo il diploma ho sentito l’urgenza di trasformare la mia passione in un mestiere e così sono partita per la capitale. La tua è una formazione teatrale: dai grandi classici a molta buona commedia contemporanea. Com’è confrontarsi con linguaggi e stili così diversi? A quale dei due mondi ti senti più vicina? Ho avuto l’opportunità di spaziare molto nel mio percorso professionale. Penso allo stile quasi aulico de Le ultime sette parole di Caravaggio per la regia di Ruggero Cappuccio, oppure all’adattamento di Edoardo Erba di Un nemico del popolo di Ibsen. Mi piace il mio lavoro perché mi dà la possibilità di aderire sia a linguaggi e personaggi tanto distanti da noi che ad autori contemporanei. Sicuramente confrontarsi con quello che non è immediatamente vicino a noi è una sfida più complessa da affrontare, ma proprio per questo avvincente. Teatro ma anche molta televisione (Romanzo siciliano di prossima uscita, Questo nostro amore, Squadra Antimafia, Palermo Oggi 3): quali sono le peculiarità del piccolo schermo per un’attrice con la tua formazione? Stavo finendo l’Accademia quando fui selezionata da un’agenzia e da lì mi sono avvicinata alla TV. Il teatro si basa sul criterio

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dell’irripetibilità e ha ritmi molto più lenti, mentre la televisione è tutta un’altra cosa. Personalmente adoro i tempi del teatro perché è la mia formazione, la televisione ha un percorso di costruzione diverso ma altrettanto interessante ed è stata una piacevole scoperta. Tanta gavetta e poi il grande salto al cinema nell’attesissimo nuovo film di Pif: qual è il tuo ruolo in In guerra per amore? Avevo fatto un provino per il primo film di Pif La mafia uccide solo d’estate, ci tenevo particolarmente e mi ero molto preparata, ma non andò. Solo dopo avrei saputo che quel provino era piaciuto, infatti sono stata ricontattata per le selezioni di In guerra per amore. Qui interpreto una madre siciliana alla fine della seconda guerra mondiale. La cornice è suggestiva: Erice, un paese in mezzo alle nuvole vicino Trapani. Per il resto dovrete aspettare il 27 ottobre. Siamo tutti curiosi di sapere com’è lavorare con Pif. Straordinario, Pif è un regista poetico oltre che una persona di grande spessore e intelligenza. Ti sa prendere per mano e portare con leggerezza nel suo mondo. Che tipo di spettatrice è Stella Egitto? Quale cinema ti piace? Amo Garrone, Sorrentino e spero di lavorare con Crialese, che ho avuto la possibilità di incontrare recentemente girando uno spot dell’Averna. Come sai, da più parti si dice che il cinema innovativo oggi si fa con le serie TV o tramite il web: come la pensi a questo proposito, da attrice che conosce bene entrambi i mezzi? La sala per te resta al centro dell’esperienza cinematografica oppure il “mezzo” non fa sostanzialmente differenza? La sala cinematografica è un luogo sacro, un po’ come il teatro. Detto questo il web è una piattaforma più fruibile e libera che permette di emergere con maggiore facilità, per questo non va stigmatizzata. E poi il web può fungere anche da testimonianza e avere un alto valore etico, come in un progetto di cui sono parte, Voci di resistenza, pensato per i 70 anni dalla Liberazione. I monologhi, filmati al Furio Camillo di Roma, hanno tutti una matrice storica e lo scopo di far riflettere il pubblico.



- Videoclip -

la vita com’è MAX GAZZÈ

Per inaugurare Videoclip, la nuova rubrica nata dalla collaborazione con Roma VideoClip, abbiamo parlato con Jacopo Rondinelli, regista che si contraddistingue per il suo approccio originale e visionario nei confronti del linguaggio del video musicale. È lui che ha diretto il video de La vita com’è, singolo che ha lanciato l’ultimo album di Max Gazzè e che conta più di 16 milioni di visualizzazioni su Youtube. di ERIKA FAVARO

«Max ha saputo capire la necessità di inserire un racconto nel videoclip, si è messo in gioco e si è “incastrato” all’interno della storia come se fosse un personaggio».

Com’è nato il video de La vita com’è? Da cosa parti per lavorare a un videoclip? L’idea è nata in fretta e furia: quando il discografico di Max Gazzè – artista con cui avevo già collaborato – mi ha contattato, stavo per partire per la Sicilia con Valerio Zuccolo, un amico che spesso lavora con me come attore e che poi è diventato protagonista del video. Ho ascoltato il brano e subito mi è venuto in mente un personaggio che avevo cucito su di lui anni prima, ma

che avevo sempre tenuto nel cassetto. Quindi gli ho proposto di girare il video durante le vacanze e ho chiesto a Max cosa ne pensasse di quest’idea del tizio assurdo con la pelliccia. Entrambi mi hanno dato carta bianca e il bello del videoclip è stato proprio il fatto di trovare molte cose strada facendo, dalle location ai personaggi. Ad esempio il barbiere che suona la pianola esiste davvero, ha il suo negozietto a Catania dove ti fa la serenata mentre ti taglia i capelli. Più che un videoclip

per me è stato un viaggio antropologico. L’ambientazione in una Sicilia zigana ricorda le atmosfere dei film di Kusturica. Avevi dei riferimenti cinematografici per questo videoclip? Kusturica è sicuramente un punto di riferimento, ma l’influenza più grande è stata quella di Ciprì e Maresco di cui sono grande fan; i quadretti surreali e i personaggi assurdi che abitano La vita com’è riprendono molto il loro

Qui sopra Valerio Zuccolo, protagonista del clip di La vita com’è, singolo tratto dall’album Maximilian di Max Gazzè. CREDITS: Editor Andrea Otto

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immaginario. Qualcuno mi ha anche detto di aver trovato richiami al cinema dei fratelli Coen, sono tutti paragoni che accetto volentieri. Nell’universo del videoclip c’è l’eterno dibattito se sia più importante mostrare l’artista o raccontare una storia. Qual è il tuo equilibrio? È una questione delicata... Per prima cosa bisogna considerare che negli altri paesi esistono progetti musicali – penso ai Chemical Brothers – in cui l’identità visiva costruita dai videoclip risulta più importante rispetto all’immagine dell’artista. In Italia invece ci sono logiche discografiche diverse, l’artista è sempre l’elemento centrale. In ogni caso penso che ne La vita com’è ci sia un buon equilibrio. Max infatti è una persona che ha saputo capire la necessità di inserire un racconto nel videoclip, si è messo in gioco e si è “incastrato” all’interno della storia come se fosse un personaggio. Farlo entrare in una piscina con la band in mutande è stata una grande soddisfazione, non so quanti artisti avrebbero acconsentito a farlo. La musica in televisione è in crisi: i videoclip ormai si guardano su internet, non più sui canali musicali che stanno scomparendo; come hai vissuto questo passaggio? Quali i vantaggi e gli svantaggi di quest’evoluzione? Più che evoluzione o involuzione io parlerei di trasformazione. La musica c’è sempre stata e ci sarà sempre,

«KUSTURICA È SICURAMENTE UN PUNTO DI RIFERIMENTO, MA L’INFLUENZA PIÙ GRANDE È STATA QUELLA DI CIPRÌ E MARESCO DI CUI SONO GRANDE FAN». semplicemente ha trovato delle vie diverse per essere diffusa. Mentre prima i canali musicali e i supporti vincolavano l’ascoltatore, adesso viviamo in un’era in cui la musica è ovunque. È un cambiamento che ha pro e contro: sicuramente non ha giovato economicamente agli artisti perché le vendite sono crollate, da un altro punto di vista però il mercato si è aperto a prodotti e ad artisti che prima non si sarebbero potuti esprimere come stanno facendo adesso. Il web dà anche più possibilità di cercare la propria musica, di condividerla con una community; viviamo un rapporto più profondo con la scelta delle canzoni, prima invece subivamo di più la programmazione delle reti televisive. Credi che il cinema possa insegnare qualcosa al videoclip o viceversa? Sicuramente all’inizio è stato il cinema a influenzare il videoclip mentre ultimamente si sono un po’ ribaltati i ruoli. Un film in

cui c’è un linguaggio tipico dei videoclip ad esempio è Natural Born Killers di Oliver Stone, ma succede più spesso che registi di video musicali passino al cinema. Molti cineasti come Spike Jonze e Michel Gondry hanno infatti avuto la possibilità di sperimentare le loro tecniche con i videoclip per poi passare al cinema. Chi fa video musicali ha una padronanza tecnica che lo contraddistingue e ha quasi il dovere di sperimentare, è più capace di spaziare tra diversi linguaggi rispetto a un regista cinematografico che probabilmente è più bravo a dirigere gli attori e a raccontare una storia. Ovviamente ci sono anche registi che riescono benissimo in entrambe le cose, penso a David Fincher che ha fatto videoclip meravigliosi ed è anche un bravissimo regista. Cosa cerchi di inserire e di evitare nei tuoi video? Tento sempre di non essere didascalico e di raccontare un immaginario che sorprenda lo spettatore, secondo me è questo

che fa la differenza. Non mi chiamano per fare videoclip di playback perché gli artisti con cui collaboro vogliono che io dia una svolta inaspettata al loro lavoro. La cosa bella è riuscire a tirare fuori un’anima della canzone non essendo banali, lavorare su diversi piani di lettura. Due videoclip (uno tuo, l’altro no) a cui sei particolarmente legato? Mi sono divertito molto a lavorare a Space Invaders di Salmo. È un video di due anni fa che cita l’universo fantascientifico degli ultimi quarant’anni, dai B-movies fino al cinema contemporaneo; in quell’occasione ho potuto dar sfogo a una mia passione. Un altro video che tutt’ora per me è un punto di riferimento è quello di Judith – canzone dei Perfect Circle – diretto da Fincher. Mi piace perché, pur essendo un videoclip di playback, cosa che io solitamente non amo, ha un’estetica e delle inquadrature notevoli.

Stylist Fiamma Sanò Hair & Makeup Mariangela Nicastro, Angela Villanova Line Producer Ludovica Bonanno Production Company Jacopo Rondinelli.

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- Opera prima/1-

LO CHIAMAVANO JEEG ROBOT

IL CINEMA DI GENERE RISORGE E COMBATTE Il romano Gabriele Mainetti ha esordito nel lungometraggio con un film bizzarro e originale, capace di intrattenere fondendo felicemente generi e toni. E ha sorpreso un po’ tutti. di LUCA OTTOCENTO foto EMANUELA SCARPA

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«ALLA BASE, LA MIA È UNA CONCEZIONE DEL CINEMA COME INTRATTENIMENTO. NON HO NULLA CONTRO IL CINEMA D’AUTORE, ANZI, MA NON CONDIVIDO L’ATTEGGIAMENTO DI CHI PARTE CON L’IDEA DI FARE FILM D’AUTORE».

I

n Italia il cinema di genere e d’intrattenimento è il più delle volte sinonimo di commedie nazional-popolari che, più o meno riuscite a seconda dei casi, sono troppo spesso molto simili tra loro. In questo contesto, dopo il fortunato caso del 2014 di Smetto quando voglio (trovate l’intervista a Sibilia nel numero 6 di Fabrique), Lo chiamavano Jeeg Robot rappresenta un altro importante elemento di discontinuità. Al suo primo lavoro dietro la macchina da presa, infatti, Gabriele Mainetti ha realizzato un film di supereroi molto sui generis ambientato in una Tor Bella Monaca dominata dalla malavita. L’operazione è coraggiosa e risulta strettamente legata alla poetica portata avanti dal regista sin dai pluripremiati cortometraggi Basette (2006) e Tiger Boy (2012) . Con Gabriele, in passato anche attore per il cinema e per la televisione, abbiamo parlato della particolarità del suo progetto, delle sue passioni cinematografiche e di molto altro ancora. Come nasce l’idea alla base di Lo chiamavano Jeeg Robot e qual è il legame, per alcuni aspetti molto evidente, con i tuoi lavori precedenti da regista? La mia collaborazione con lo sceneggiatore Nicola Guaglianone va avanti da diverso tempo. Lui infatti, prima di scrivere insieme a Menotti Jeeg, si era occupato del soggetto e della sceneggiatura sia di Basette che di Tiger Boy. Entrambi siamo cresciuti con Bim Bum Bam, che è stato per noi una sorta di baby sitter, e ci piace spesso far riferimento al mondo dell’anime giapponese perché è come se ci offrisse l’opportunità di entrare di nuovo in contatto con i miti della nostra infanzia. Fin dai corti è nata così una formula che consiste nel contaminare

Ilenia Pastorelli (Alessia), alla sua prima prova d’attrice, e lo Zingaro Luca Marinelli, l’antagonista di Enzo.

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la realtà quotidiana romana con l’immaginario e i protagonisti di alcuni anime molto noti. In Jeeg però abbiamo introdotto per la prima volta l’elemento “supereroico” (il Lupin di Basette e l’Uomo Tigre di Tiger Boy non lo erano): in questo modo abbiamo voluto proporre la nostra personale visione di un filone cinematografico con il quale gli americani negli ultimi anni ci stanno in qualche modo lobotomizzando. Il protagonista del tuo film in effetti è molto diverso dai supereroi che siamo abituati a vedere nel cinema statunitense. In che modo se ne differenzia? Enzo Ceccotti, oltre a essere associato a Jeeg Robot esclusivamente dalla fantasia della protagonista femminile Alessia (non a caso indosserà la maschera del supereroe, fatta a maglia, solo nel finale), non vuole aiutare gli altri perché li detesta. È un delinquente di periferia che decide di accettare le responsabilità legate ai propri poteri dopo un lungo arco di trasformazione, grazie allo svilupparsi del rapporto con lei. Stiamo quindi parlando di tutto un altro contesto rispetto a quello di celebri supereroi come Batman, Superman o Spiderman.

Uno degli elementi in assoluto più riusciti del film è l’alternanza dei toni drammatici e comici. In alcuni momenti i passaggi sono anche repentini ma, grazie all’apporto della sceneggiatura, della regia e delle interpretazioni, funzionano sempre. In effetti quella di fondere i registri della commedia e del dramma è un’idea che ho sempre perseguito. Per raggiungere il risultato che si vede nel film è stato fondamentale il lavoro sui personaggi. Affinché tutto funzioni è molto importante che risultino veri, anche nel caso abbiano tratti marcatamente surreali o fantasiosi. All’inizio ero preoccupato dal dover trovare il giusto equilibrio tra i due toni, ma poi tutto si è risolto ancorandomi alla semplicità della storia e alla verità dei personaggi. Gli attori hanno svolto un ruolo essenziale, in particolare i tre straordinari interpreti Claudio Santamaria, Luca Marinelli e l’esordiente Ilenia Pastorelli. Abbiamo lavorato davvero tanto insieme per ottenere quello che cercavamo. Claudio è un attore incredibile, oltre che un mio grandissimo amico, e ha preso venti chili per interpretare un personaggio che gli ha pemesso di fare qualcosa di

completamente diverso. Luca, più di ogni altra cosa, mi ha sorpreso per la capacità di far evolvere in continuazione il personaggio, anche sul set. Ilenia invece, pur non avendo mai recitato prima, ha dimostrato un notevole talento naturale sul quale poter continuare a lavorare. In altre occasioni hai affermato di essere interessato al cinema di intrattenimento e di genere più che a quello squisitamente d’autore. Ci puoi chiarire il tuo pensiero a riguardo? Alla base, la mia è una concezione del cinema come intrattenimento. Non ho nulla contro il cinema d’autore, anzi, ma non condivido l’atteggiamento di chi parte con l’idea di fare film d’autore. A mio avviso il vero autore, prima che qualcuno glielo faccia notare, non è neppure consapevole di esserlo. Personalmente non nutro particolari ambizioni di far riflettere lo spettatore. Quello che mi interessa è giocare con la commistione di più generi tentando di essere sensibile al contemporaneo, al mondo che ci circonda. Vedo quindi il genere come uno strumento con il quale raccontare la contemporaneità. Qual è il cinema a cui ti senti più vicino? Le tue principali ispirazioni cinematografiche? Da piccolo guardavo a ripetizione, insieme a mio padre, i film di Indiana Jones,

007 e quelli di Monicelli come L’armata Brancaleone, I soliti ignoti, Il marchese del Grillo e Amici miei. Poi, nel momento in cui ho iniziato a studiare storia e critica del cinema all’università, ho cominciato ad avere una conoscenza più ampia della settima arte. In più ho senz’altro una passione sfrenata per il cinema asiatico e, in particolare, per il cinema di Takashi Miike, Takeshi Kitano e Park Chanwook. Se di Miike mi diverte molto la modalità di messa in scena della violenza e Kitano in qualche modo mi ha proprio educato al cinema, Old Boy di Park Chan-wook è forse il mio film preferito in assoluto. Amo lo sguardo proposto dal cinema asiatico, contraddistinto da una messa in scena potente ed elegante, e la capacità di questi film di essere drammatici e comici allo stesso tempo. Hai già qualche idea sul tuo prossimo progetto? Sicuramente voglio continuare a lavorare sulla contaminazione di diversi generi. Attualmente ho due soggetti già pronti e un soggetto in via di sviluppo. Ne ho già parlato con alcuni possibili collaboratori e co-produttori. Una volta che tornerò con i piedi per terra dopo l’incredibile accoglienza ricevuta per Jeeg, sceglierò il progetto dei tre che mi stimolerà di più, anche se dovesse trattarsi di una cosa piccola e semplice.

Enzo Ceccotti, piccolo delinquente di periferia, diventa un vero supereroe dopo un lungo percorso di trasformazione anche interiore.

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- Opera prima/2Un lutto e un viaggio. Due fratelli. Un rapporto che non riesce a superare l’incomunicabilità dei caratteri: Ludovico Di Martino ha scelto una storia di crescita e di formazione per il suo esordio al lungometraggio. Debutto nel cinema “grande” per un regista giovanissimo (classe 1992) che racconta attraverso l’evento traumatico della malattia e della morte di una madre il saldarsi di un nuovo, più autentico rapporto tra due fratelli. Fabrizio e Guglielmo (interpretati da Fabrizio Colica e Guglielmo Poggi in maniera eccellente) sono diversi, in fuga dalla responsabilità di regalare affetto alla madre morente. Quando la donna viene a mancare i due decidono, quasi fosse l’unica cosa sensata da fare, di regalarle quell’ultimo viaggio al mare che avevano promesso e stupidamente rimandato. Si mettono in macchina con la bara sul portapacchi e puntano a Sud, ai luoghi di un’infanzia, intraprendendo un processo di conoscenza reciproca che diventa anche conoscenza della storia familiare. Come i suoi personaggi anche Ludovico Di Martino – allievo del CSC – scrivendo, dirigendo e producendo, in purissima indipendenza, Il nostro ultimo cresce di fronte ai nostri occhi di spettatori. C’è tanta urgenza di comunicare, tanto cinema – a cominciare dall’espediente narrativo “del viaggio col morto” – a cui fare riferimento con sincerità e pochissima voglia di strizzare l’occhio verso un citazionismo esasperato.

ON THE ROAD AGAIN: “IL NOSTRO ULTIMO” E “WAX”

di GIACOMO LAMBORIZIO

È un road movie anche WAX, esordio del leccese Lorenzo Corvino, interamente realizzato con la macchina da presa in soggettiva per raccontare le peripezie lavorativo-sentimentali di tre ragazzi, due italiani e una francese, interpretati da Jacopo Maria Bicocchi, Gwendolyn Gourvenec, Davide Paganini. Sul set, a tal fine, sono stati spesso impiegati gli smartphone, dando piena libertà d’espressione agli attori e sperimentando nuovi modelli di linguaggio e di fruizione per lo spettatore. A esordire in WAX non è stato solo il regista ma anche il produttore, il direttore della fotografia, lo scenografo, il musicista, il casting director. Ma, nonostante la giovane età, la factory che ha lavorato al progetto, dopo aver reperito sponsor nazionali e internazionali e finanziatori attraverso il tax credit, non ha rinunciato ad affrontare numerose sfide, come girare in quattro nazioni diverse e conquistare la stima di attori come Rutger Hauer e Jean-Marc Barr, che hanno accettato di prendere parte al progetto trascinati dall’entusiasmo di Lorenzo e colleghi.

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- Dossier -

PRODUCT PLACEMENT FILM CON OLTRE IL 95% DELLE PRESENZE IN SALA

Selezionando i film con almeno 10.000 presenze in sala, è stato individuato un campione di 590 film che ha totalizzato oltre il 95% delle presenze in sala realizzate dai 1326 film complessivamente prodotti

590

FILM DI NAZIONALITÀ ITALIANA

1.326

Hanno realizzato il 68,3% delle presenze registrate dal campione esaminato

FILM CONTENENTI 997 INSERIMENTI A TITOLO DI PP

222

466 MARCHE (76,4%) 1 PP

26 MARCHE IN 5 O + FILM (22,5%) 224 PP

1,6 PER MARCA

2005

HA COMPIUTO DIECI ANNI: UN BILANCIO di LUCA PATRUNO (avvocato, Studio della Ragione - Garofalo & Associati)

2007

2006

2009

2008

248

FILM PRODOTTI DAL 2010 AL 2013

187 PP IN 28 FILM

2011

2010

2013

2012

2014

127 PP IN 32 FILM

84 PP IN 21 FILM

Una recente ricerca* ha analizzato un decennio di product placement cinematografico in Italia (dal 2005 al 2014) a partire dalla sua istituzione, allo scopo di individuarne i protagonisti e delinearne i caratteri essenziali e le tendenze principali.

L’

analisi ha portato dapprima a identificare 1326 film di nazionalità italiana e successivamente, selezionando quelli con almeno 10.000 presenze in sala, a individuare un campione di 590 film che ha totalizzato oltre il 95% delle presenze in sala realizzate dai 1326 film. Tra questi sono stati, infine, identificati 222 film contenenti 997 inserimenti a titolo di PP, che hanno realizzato il 68,3% delle presenze registrate

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dal campione esaminato. Per ogni film sono stati rilevati i contributi statali erogati, nonché, limitatamente ai 248 film del campione dei film prodotti negli anni dal 2010 al 2013 (per i quali erano all’epoca disponibili i dati MIBACT), gli eventuali apporti finanziari da parte di soggetti esterni al settore cineaudiovisivo tramite lo strumento del cosiddetto tax credit esterno (TCE).

Lo studio ha permesso di evidenziare come il PP abbia compiuto un percorso evolutivo altalenante, con una progressiva crescita fino al 2008, anno nel quale sono stati registrati i valori massimi del periodo (187 PP in 28 film), seguita da un crollo nel 2009 in corrispondenza della crisi economica (84 PP in 21 film), con una lenta ripresa fino al 2011 (127 PP in 32 film) e un successivo e costante declino a partire dal 2012.

La ricerca ha rilevato la presenza di 610 diverse marche collocate nei 222 film, con una media di 1,6 inserimenti per marca, mettendo in luce con ciò l’estrema frammentazione del mercato italiano del PP. Infatti ben 466 marche (il 76,4% di quelle rilevate) hanno effettuato un solo PP nell’intero decennio, mentre solo 26 sono risultate inserite in cinque o più film, seppur con molta discontinuità temporale, per complessivi 224


INSERIMENTI A TITOLO DI PP NEGLI ANNI ANNO N. DI FILM CON PP 2005

N. COMPLESSIVO DI INSERIMENTI DI MARCHE

N. MEDIO DI INSERIMENTI PER FILM

N. DI MARCHE DIVERSE INSERITE

8 19 2,38 17

2006 15 71 4,73 54 2007 24 147 6,13 116 2008 28 187 6,68 152 2009 21 84 4,00 65 2010 25 118 4,72 103 2011 32 127 3,97 113 2012 25

103 4,12

85

2013 25 82 3,28 78 2014 19 59 3,11 52

222 997 4,49 610

placement (il 22,5% del totale). Tra i brand che appaiono nel maggior numero di film del campione emergono Telecom (Tim, Alice, Impresa Semplice) in 34 film, Intimissimi in 17 film, Fiat in 15, Blauer, Franciacorta e Pasta Garofalo in 10 film. Seguono nella classifica con 9 inserimenti l’acqua San Pellegrino e Coca-Cola, che precedono tre marchi automobilistici, quali Audi e Volkswagen con 8 placement e Lancia con 7. I prodotti del made in Italy (le cui categorie merceologiche rappresentano il 58,3% del mercato) si ritrovano in netta maggioranza nelle prime posizioni della classifica, evidenziando come alcune aziende nostrane abbiano adottato una vera strategia di comunicazione basata sul PP cinematografico, impiegandolo ripetutamente nel tempo. Tra queste, principalmente di nuovo Telecom, attivo per ben 8 anni, Intimissimi e Franciacorta, entrambe presenti nei film per 7 anni, seguite da Fiat e Lancia (rispettivamente 6 e 5 anni). Un caso a parte è rappresentato da Pasta Garofalo che, dopo essere stata significativamente presente in film sia commerciali che d’autore negli anni 2005-2008, nel mercato nazionale ha mutato approccio divenendo essa stessa produttrice di contenuti audiovisivi, mentre per quello internazionale è comparsa con operazioni di PP in diverse serie televisive d’oltreoceano.

Per quanto riguarda i generi cinematografici, per il collocamento del proprio logo/ prodotto le aziende hanno significativamente prediletto le commedie (75,2%), che hanno fatto realizzare in sala presenze più che triple rispetto ai film drammatici o di altro genere. Data inoltre la preferenza emersa in favore dei film 100% di nazionalità italiana rispetto alle coproduzioni, si è ipotizzato che la volontà delle aziende fosse stata quella di focalizzare la propria comunicazione sul

minore potere attrattivo nei confronti del pubblico, mentre, al contrario, le imprese inserzioniste preferiscono affidarsi a film con un appeal commerciale maggiore. Infine, la ricerca non ha riscontrato differenze significative in merito all’inserimento o meno di marche a titolo di PP tra il numero di film che dal 2010 al 2013 hanno beneficiato di apporti finanziari da parte di investitori esterni (TCE) e quelli che non ne hanno usufruito.

«LO STUDIO HA EVIDENZIATO UN PERCORSO EVOLUTIVO ALTALENANTE DEL PP E UN’ESTREMA FRAMMENTAZIONE DEL MERCATO». mercato interno e non quella di “internazionalizzare” il proprio brand, sfruttando le coproduzioni internazionali per raggiungere i mercati esteri. Se da un lato non sono state riscontrate differenze statisticamente significative tra il numero di film che hanno ottenuto il riconoscimento di opera di interesse culturale e il fatto che siano presenti al loro interno inserimenti di marche a titolo di PP, dall’altro le opere riconosciute di interesse culturale hanno registrato presenze medie in sala significativamente inferiori a quelle dei film che non hanno ottenuto tale riconoscimento. L’ovvia ragione è che lo Stato assiste anche i film con un

I dati analizzati hanno inoltre consentito di escludere una relazione diretta tra tutte le fonti di finanziamento filmiche (contributi statali, TCE e PP). La mancata correlazione tra le due diverse forme di intervento “privato” deriva del resto da caratteri e finalità totalmente diversi. Mentre il PP è uno strumento di comunicazione non convenzionale volto a promuovere il marchio attraverso specifici inserimenti all’interno del tessuto narrativo del film, il TCE è un beneficio fiscale che, riducendo del 40% il rischio effettivo dell’investimento, genera un vantaggio per l’investitore, con ciò stimolando l’apporto di capitali privati nei film,

recuperabili, laddove sufficienti, dai proventi del film, con la possibilità di conseguire eventuali utili e traendo inoltre dall’operazione possibili vantaggi comunicazionali. All’epoca della ricerca appariva scarsamente utilizzato dalle imprese il combinato utilizzo del PP e del TCE, consentito a determinate condizioni dalla normativa di riferimento. Una tendenza confermata dall’analisi degli ultimi dati in possesso, che evidenziano come le aziende che hanno a oggi effettuato operazioni di PP e quelle che hanno investito nei film attraverso la normativa TCE sembrano appartenere a mondi molto distanti, ma che tuttavia, in alcuni casi, potrebbero convergere, facendo propri i vantaggi di entrambi gli strumenti, in termini di comunicazione attraverso il film, di beneficio fiscale e di rendimento finanziario.

* L’evoluzione del product placement made in Italy tra il 2005 e il 2014, di Roberto Nelli e Luca Patruno, a cura dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, con la collaborazione di Fondazione Ente dello Spettacolo, pubblicata nel Rapporto 2014 Il mercato e l’industria del cinema in Italia.

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- Nazione Web -

WEB TO THE FUTURE

Innovazione, intrattenimento e passione sono le parole chiave della serialità world wide. Ne sono esempi The Cide ed Esami: due format narrativi insoliti raccontati dai loro produttori e autori. di CHIARA CARNÀ

«The Cide ci è sembrato subito un prodotto assolutamente nuovo» esordiscono Francesco Bruschettini e Francesco Cimpanelli di Kahuna Film. La serie, tratta da una graphic novel del 2007 ideata dal collettivo romano Videns Pictures, è diretta da Lorenzo Corvino e interpretata da un cast di giovani promesse. Accanto ai protagonisti Marco Rossetti e Margherita Laterza, non mancano guest star come Andrea Sartoretti, noto ai più come il Bufalo di Romanzo criminale - La serie. The Cide è un thriller caleidoscopico e misterioso, fatto di atmosfere torbide alla Sin City e di

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vicende complesse e avvincenti. «Il nostro procedimento è stato inverso a quello tradizionalmente alla base di una webserie. Noi abbiamo preso il target di quest’ultima e della graphic novel e lavorato per trasferire nel broadcast questi canoni. Ma The Cide è un prodotto atipico anche perché non nasce da un discorso autoriale. Al contrario, ogni aspetto è stato curato e organizzato sempre a partire da un confronto creativo tra il regista e la produzione. I due autori della graphic novel hanno curato la sceneggiatura e tutti i membri del collettivo Videns

hanno partecipato attivamente alla realizzazione della prima puntata. In Italia non è facile trovare mercato per progetti innovativi, ma abbiamo voluto crederci e pensare in grande, ottenendo un risultato di forte impatto dal punto di vista figurativo e qualitativo. È un prodotto tutto italiano ma di respiro internazionale, e siamo sicuri che il pubblico apprezzerà. Dobbiamo ringraziare i nostri partner tecnici, D-Vision Italia e Frame by Frame, e l’eccezionale cast tecnico. In particolare, il direttore della fotografia Emanuele Zarlenga». È il 2013 quando

Bruschettini e Cimpanelli decidono di fondare una società di produzione. La folgorazione arriva mangiando un hamburger a Piazza di Spagna e, non a caso, il nome Kahuna Film è un omaggio alla finta catena di fast food inventata da Quentin Tarantino: Big Kahuna Burger. Sin dagli esordi, il loro scopo è intrattenere con prodotti di qualità e rinnovare costantemente il linguaggio audiovisivo: «Nel 2015 abbiamo prodotto tre corti, due dei quali (Il fascino di chiamarsi Giulia e Monde Ayahuasca) sono stati presentati al Festival di Cannes. Stiamo preparando il terreno per il nostro lungometraggio


d’esordio: una dark comedy sul mondo del calcio, nostra grandissima passione, che vedrà l’attore Marco Giuliani per la prima volta nei panni di regista. Per quanto riguarda il web, noi, come tanti, stiamo cercando di capire se uno sviluppo di questo mercato sia possibile. Non è semplice creare progetti altamente qualitativi perché difficilmente c’è un ritorno economico immediato. Noi ci proveremo con Unisex, l’irriverente webserie, diretta da Francesca Marino e scritta da Tommaso Renzoni, fatta di esilaranti “pillole” sul sesso. Ci stiamo puntando moltissimo, siamo convinti che un prodotto che vale possa trovare la propria strada anche nel panorama italiano».

Chi nella webserie ha trovato con successo la propria dimensione è Edoardo Ferrario che con Esami (di cui è produttore, autore e interprete), ha dato vita a un vero e proprio fenomeno virale, ora alla seconda stagione. Ogni episodio, ambientato in una diversa facoltà universitaria, ha raccontato le tragicomiche

peripezie di studenti alle prese con professori improbabili e situazioni grottesche nelle quali, paradossalmente, pochi di noi hanno fatto fatica a identificarsi. «Tutto è nato proprio da chiacchierate e aneddoti sugli esami che scambiavo all’università con i miei amici… a ciascuno capitava sempre qualcosa di surreale». Edoardo, pur essendo molto giovane, vanta interessanti esperienze nel mondo dello spettacolo, tra cui la partecipazione a Un due tre stella, programma di Sabina Guzzanti andato in onda su La7, e a La prova dell’otto, condotto su MTV da Caterina Guzzanti. «Mi cimentavo anche in spettacoli comici dal vivo, ma l’idea di un prodotto tutto mio mi affascinava moltissimo e internet poteva offrirmi la libertà di contenuti che cercavo. Ho capito che dall’esperienza universitaria avrei potuto tirar fuori qualcosa di divertente. Così, basandomi su trascorsi miei (ho frequentato Giurisprudenza) e di amici, ho raccontato gli aspetti più assurdi di tutte (o quasi) le facoltà. Un esame, in effetti, somiglia a uno sketch sia nelle tempistiche che per il finale imprevedibile. Il mio obiettivo era una comicità basata sull’osservazione e sulla satira di personaggi». La regia di Esami è di Matteo Keffer e Maurizio Montesi, amici di vecchia data di Ferrario. «Abbiamo affrontato molte sfide: organizzare tutto da soli, gestire una troupe, lavorare gratis senza la certezza di un riconoscimento

in futuro. Ma il bello di Esami è proprio il suo esser nata dall’entusiasmo di un gruppo di giovani che, spinti dal divertimento, hanno creduto nel progetto. Abbiamo capito di aver fatto centro quando le visualizzazioni del primo episodio, caricato online nel 2014, sono schizzate alle stelle in pochissimo tempo. Gli studenti si rispecchiavano nelle vicende dei personaggi e lo condividevano a loro volta». Esami ha vinto il premio come Miglior serie italiana al Roma Web Fest e Miglior opera web al Taormina Film Festival. «Sono riuscito a dar vita a una serie scritta di mio pugno, a qualcosa che avrei voluto vedere online. Da studente passavo ore su Youtube e mancava

qualcosa che parlasse dell’università con ironia. Creare prodotti per il web sicuramente non è facile, ma la rete è una vetrina importantissima per contenuti originali. Le webserie sono lavori prevalentemente autoprodotti, ma possono offrire nuove opportunità. Il grande successo di Esami mi ha dato visibilità e aperto strade inaspettate». Cosa dovremo aspettarci, dunque, dalla seconda stagione? «Non seguirà il meccanismo delle facoltà ma approfondirà le storie dei personaggi della prima serie. Seguiremo le loro sorti due anni dopo. Dopo essermi laureato, avevo paura di non trovare più spunti freschi e divertenti. Credo, invece, di avere ancora molto da dire».

«UN ESAME, IN EFFETTI, SOMIGLIA A UNO SKETCH SIA NELLE TEMPISTICHE CHE PER IL FINALE IMPREVEDIBILE».

Marco Rossetti (pagina a fianco), protagonista di The Cide di Lorenzo Corvino, e qui accanto Edoardo Ferrario, one man band di Esami, ora alla seconda stagione.

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LA - Futures -

FARE

VINCENZO ALFIERI

Dopo aver recitato in film, fiction, film tv e webserie nel 2013 fonda Guinesia Pictures, casa di produzione indipendente con la quale realizza le sue opere da regista; prima Forse sono io, webserie trasmessa anche da MTV, poi due cortometraggi, Memories e, adesso, Il lato oscuro, una storia dark che mischia l’universo dei fumetti alle nostre mostruosità interiori.

di FLAVIO NUCCITELLI foto FLAVIO MANCINELLI

DIFFERENZA 28

«LE IDEE CI SONO, IL MERCATO SI STA APRENDO, CREDO SI DEBBA SOLO AVERE PAZIENZA: PRODUTTORI E DISTRIBUTORI SONO ABITUATI A UNO STILE CHE NON ESISTE PIÙ E NON SANNO BENE COME AFFRONTARE QUESTA SITUAZIONE».

30enne attore, regista di webserie e di spot pubblicitari, Vincenzo Alfieri ha da poco girato il corto Il lato oscuro, con Massimo Poggio e Gianmarco Tognazzi.


Perché questa evoluzione? In realtà io scrivo fin da quando sono piccolo: Forse sono io nasce come lungometraggio e ha fatto la solita trafila di produttori che mi dicevano “non si può fare”, “è troppo americano”, “è troppo sopra le righe”. Nel frattempo sono andato a New York per un corso, e mentre ero lì ho stravolto la sceneggiatura: mia sorella continuava a ripetermi che il web era il futuro e io avevo da poco recitato in Stuck, la webserie di Ivan Silvestrini; quando sono tornato le ho raccontato che avevo trasformato il film in una serie e, visto che lei continuava a

«I NUOVI FILM DI MAINETTI, ROVERE E SILVESTRINI SONO UNA GRANDE OCCASIONE DI APERTURA PER IL NOSTRO CINEMA: QUESTO È DECISAMENTE IL MOMENTO DI STARE IN ITALIA».

incoraggiarmi, le ho proposto di fare qualcosa insieme per cambiare le cose! Abbiamo fondato una società, Guinesia Pictures, e abbiamo iniziato a fare le cose come piaceva a noi, iniziando con la mia webserie. Hai attraversato il cinema, la televisione e il web; qual è il mezzo espressivo che meglio rappresenta quello che scrivi? Per come scrivo mi è molto difficile esprimermi brevemente, per questo non è stato facile fare due cortometraggi. Mi piace che le storie abbiano una profondità psicologica e questo richiede un tempo di assimilazione lungo; anche se poi mi rendo conto che non è quanto dura quello che guardi ma la qualità di com’è fatto a destare l’interesse. Qual è il lavoro del quale sei più orgoglioso? Forse sono io 2 è il progetto che ho amato di più, forse anche più del primo, perché stavolta la serie non ha un genere, ogni puntata prende una piega diversa! È stato un esperimento, se dovevo sbagliare tanto valeva provarci seguendo la mia ispirazione fino in fondo e divertendomi; ne vado molto orgoglioso proprio perché mi sono messo in gioco veramente. Il lato oscuro, invece, nasce da domande che mi sono sempre fatto sul tema delle conseguenze e delle possibilità, e senza dubbio è il prodotto che rappresenta di più quello che vorrei fare come autore.

Hai seguito due corsi di recitazione negli Stati Uniti, uno a New York e uno a Los Angeles, tornare è stata una scelta? La parentesi americana è stata stupenda. Come tutta la mia generazione sono cresciuto con il cinema USA: il problema è che dall’Italia se ne stanno andando tutti, quindi sì, ho scelto di tornare per fondare Guinesia Pictures e creare qualcosa di nuovo. È vero che ci sono tanti ostacoli, però è altrettanto vero che molta gente si lamenta e basta. In questo momento in Italia non c’è quasi niente, dunque c’è spazio per nuove idee: basta vedere alcuni film italiani in uscita, penso a Lo chiamavano Jeeg Robot di Gabriele Mainetti, a Veloce come il vento di Matteo Rovere o a Monolith di Ivan Silvestrini. Registi che hanno girato tre film che sono una grande occasione di apertura per il cinema italiano, quindi questo è decisamente il momento di stare in Italia. Mi auguro di poter essere qualcuno che fa la differenza qui. L’iter sofferto di Forse sono io è lo stesso di molte opere prime; di cosa credi ci sia bisogno, oggi, nel cinema italiano? Quello che purtroppo noto spesso è che i produttori hanno paura, perché il web ha complicato tutto. Ormai si pensa che se qualcuno fa migliaia di visualizzazioni sul web allora è in grado di girare un film, ma mi sembra solo un modo di portare al cinema le persone che stanno a casa a vedere la TV; alcune volte funziona, vedi I soliti idioti, ma non può essere la norma. Le idee ci sono, il mercato si sta aprendo, credo si debba solo avere pazienza: produttori e distributori sono abituati a uno stile che ormai non esiste più e probabilmente non sanno bene come affrontare questa situazione. Per

questo i produttori dovrebbero fidarsi di più di quello che vedono e di quello che gli arriva e gli artisti dovrebbero essere più pazienti e pronti a capire che non può funzionare tutto come nel web. Da autore di webserie, come vedi l’imposizione del web nel campo della produzione dell’audiovisivo e anche come principale canale di fruizione? La più grande opportunità del web per le persone talentuose è di venire fuori a prescindere dall’ambiente di provenienza. Quando ero piccolo ci si formava su quello che usciva in videocassetta o in DVD. Adesso un ragazzo di vent’anni ha avuto la possibilità di vedere talmente tante cose che è già formato quanto a gusto e cultura cinematografica. Grazie alla diffusione di internet e alla TV On Demand si è variegata l’offerta e la gente si è abituata a generi diversi e adesso vuole cose diverse. Ovviamente c’è il problema della pirateria, perché se io produttore spendo un sacco di soldi per fare un film e poi tutti lo guardano in streaming sono fregato e chiudo. I governi non fanno una reale politica di prevenzione e di protezione, ma d’altro canto non posso biasimare chi non può spendere 8,50 euro per andare a vedere tutti i film che escono, siamo un paese ancora in crisi e dove non c’è una cultura del cinema. Quali sono i tuoi piani per il futuro? Adesso sto girando Solo per amore 2 come attore, tra poco esce Forse sono io 2 e sono curioso di capire come reagirà la gente a un prodotto così fuori di testa. Poi vediamo cosa succede con Il lato oscuro che è un progetto nel quale c’è molto di me… Quanto ai lungometraggi, sono già sui tavoli dei produttori, come al solito [ride].

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- Mestieri -

SEN di CHIARA CARNÀ foto BRUNELLA IORIO

ADATTAMENTO, SINCRONIZZAZIONE, MISSAGGIO. RITMI FRENETICI E MASSIMA SEGRETEZZA.

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l doppiaggio italiano: croce e delizia dei telespettatori e argomento più che mai scottante nel dibattito sulle arti visive. Davide Perino, che da sempre presta la propria voce a volti arcinoti del grande schermo (tra cui Elijah Wood e Jesse Eisenberg), ci ha svelato i segreti di una pratica rinnegata dai puristi dell’interpretazione, eppure più meticolosa di quanto non si immagini. «Il doppiaggio di un film coinvolge un gran numero di tecnologie e di figure professionali: l’adattatore, l’assistente, il fonico, il sincronizzatore. Quando ho iniziato, per doppiare un film ci voleva anche un mese

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e mezzo. Si lavorava con la pellicola 35 mm e i turni, così come oggi, erano strutturati in “anelli”: segmenti di film di pochi secondi così chiamati perché, agli albori del nostro mestiere, si inseriva un anello di pellicola nel proiettore. Adesso le cose sono molto cambiate e i turni, che durano tre ore, sono zeppi di anelli. Se prima se ne facevano 15, oggi si arriva fino a 60 e per doppiare un film non ci vogliono più di un paio di settimane. Invece, per le serie TV, talvolta il materiale viene inviato in sincronizzazione non appena noi finiamo il turno! Spesso, poi, lavoriamo nella massima riservatezza. Nessun dettaglio dei prodotti su cui


DAVIDE PERINO ETÀ: 34 anni È LA VOCE DI: Elijah Wood, Jesse Eisenberg, Shia LaBeouf I geni del doppiaggio sono di famiglia e io appartengo alla quarta generazione. Tutto è cominciato, poco dopo l’avvento dell’audio nel cinema, con la mamma di mio nonno materno, a Hollywood. In Italia, infatti, non esistevano ancora le tecnologie appropriate. Quando Mussolini decise di far doppiare in italiano tutti i prodotti cinematografici provenienti dall’estero, mio nonno Gianfranco Bellini fu tra i fondatori di una delle prime società di doppiaggio

NTI IL MESTIERE DEL DOPPIATORE DAL PUNTO DI VISTA DEI SUOI PROTAGONISTI.

«I GENI DEL DOPPIAGGIO SONO DI FAMIGLIA E IO APPARTENGO ALLA QUARTA GENERAZIONE».

in Italia, e ne fu anche presidente per un periodo. Io iniziai a recitare dall’età di due anni e mezzo, in un film con Sergio Castellitto e Stefania Sandrelli. A circa sei anni ho imparato a leggere e iniziato con il doppiaggio. Da lì, non ho più smesso. Devo tantissimo a mia mamma, che smise di lavorare per aiutare me e mia sorella Elena a gestire la nostra frenetica vita professionale. Devo tutto quello che so a lei e ai miei nonni materni».

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PAOLO VIVIO ETÀ: 35 anni È LA VOCE DI: Dominic Monaghan (Merry nella trilogia de Il signore degli anelli), Jesse Plemons (Ed Blumquist in Fargo 2), Nelson ne I Simpson All’inizio degli anni Ottanta, mio fratello maggiore Marco, dopo aver doppiato se stesso in una fiction, iniziò la sua strada nel mondo del doppiaggio. Io all’epoca avevo quattro o cinque anni e lui e mia madre, non potendomi lasciare da solo a casa, mi portavano con sé. Da lì, fu un attimo: mentre distruggevo qualche stabilimento di doppiaggio giocando a calcio con palloni improvvisati con carta e scotch, qualcuno si chiese: «Chi è questo bambino? Ah, sei il fratello di Marco. Ma tu non hai il turno, vero? Dai, entra anche tu in sala, continua a far casino lì, che dobbiamo doppiare una scolaresca di bambini indemoniati!». Sono passati tanti anni, da bambino sono diventato uomo... ma sono ancora in sala a fare casino!

«UNA VOLTA, DOPPIANDO UNA SQUADRA DI HOCKEY, FACEMMO TANTO CHIASSO CHE CI CACCIARONO».

SIMONE CRISARI ETÀ: 34 anni È LA VOCE DI: Jonah Hill, Michael B. Jordan, Macaulay Culkin Ho iniziato a lavorare a sei anni; in quel periodo non c’erano molti bambini nel doppiaggio. Mio padre era un tecnico del suono e, nello studio in cui lavorava, chiesero se qualcuno aveva dei figli da far cimentare come piccoli doppiatori...

lavoriamo deve trapelare. Quando ho doppiato il primo capitolo della trilogia de Il signore degli anelli ho visto il film in tonalità di blu, con una banda rossa che ogni tanto attraversava lo schermo e una serie di scritte in trasparenza. Altre volte, vediamo solo le labbra dell’attore. Ma non pensate che non esista uno studio sul personaggio. In questi anni, ho assimilato la precisione e la complessità di Jesse Eisenberg, la velocità con cui cambia registro all’interno di un’unica frase… Per quanto riguarda Elijah Wood, poi, siamo praticamente cresciuti insieme, sono 25 anni che lavoro su di lui! L’ho anche conosciuto, è un ragazzo fantastico. Quella del doppiaggio è una vera e propria cultura artigianale, che è

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Io tentai e, da allora, non ho più smesso. Ricordo che una volta, avrò avuto nove anni, lavoravamo al doppiaggio di un film su una squadra di hockey. Saremo stati in tutto una decina di ragazzini e, durante un turno serale, spostammo i divani e improvvisammo un match con una palletta di carta, facendo talmente tanto chiasso che ci cacciarono!

importante divulgare e sostenere. Pensiamo agli spettatori disabili, che avrebbero difficoltà con i sottotitoli. La fretta e i ritmi forsennati di oggi ci stanno spingendo a trasformarci, da piccoli artigiani dello spettacolo, in ingranaggi di un macchinario per la produzione di massa. È un aspetto che, in parte, mi preoccupa. Il segreto del nostro lavoro è la curiosità, la continua spinta a migliorare e imparare da chi senti abbia tanto da dare artisticamente. La velocità non deve rischiare di far perdere entusiasmo e passione alle nuove generazioni di doppiatori. Dovremmo fare qualche passo indietro: allora, forse, potremo ritrovare la genuinità che abbiamo lasciato per strada» (www.davideperino.it).


«FACCIO ANCORA CASINO IN SALA COME QUANDO HO COMINCIATO DA PICCOLO…».

LETIZIA CIAMPA ETÀ: 29 anni È LA VOCE DI: Emma Watson, Vanessa Hudgens, Mia Wasikowska Mio padre lavorava nel mondo del cinema come rumorista; grazie a lui ho intrapreso questo percorso all’età di nove anni, con il film Un giorno per caso di Michael Hoffman. Ho prestato la voce al figlio di cinque anni di Michelle Pfeiffer: può succedere che siano le bambine a doppiare i maschietti, quando sono piccoli. Ricordo quando doppiai alcune scene inedite de L’esorcista, fu stranissimo vedere lo stupore negli occhi del direttore Mario Maldesi nel constatare che la mia voce era identica a quella

di Monica Gravina, che aveva doppiato Linda Blair trent’anni prima! Oppure la scena, in Harry Potter e la pietra filosofale, in cui Hermione incontra il troll gigante e inizia a gridare “aiuto”: un omone altrettanto gigante entrò in sala per farmi strillare nel modo più naturale possibile e non solo, mi prese in braccio scuotendomi! Succedono mille altre cose in questo lavoro: piangere sulla scena, insieme all’attore che doppi in quel momento; imbarazzarsi mentre si lavora, con un collega, a una scena d’amore o di sesso; ridere per una stupidaggine, tanto da dover interrompere il turno… perché la risata è contagiosa!

«SI PIANGE INSIEME ALL’ATTORE SULLO SCHERMO, CI SI IMBARAZZA PER SCENE D’AMORE O DI SESSO, SI RIDE».

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2015

«QUEST’ANNO È STATO UN ANNO PAZZESCO, DOPO TANTI ANNI DI NO, IN CUI IN MOLTI MI HANNO DETTO DI LASCIAR PERDERE: QUESTO PREMIO LO DEDICO A CHI HA CREDUTO IN ME, MA ANCHE A QUELLI CHE MI HANNO DETTO DI LASCIAR PERDERE PERCHÉ… NON LI HO ASCOLTATI!». Un bozzetto del premio disegnato per Fabrique da Federico Baciocchi.

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ono passati tre anni da quando Fabrique ha cominciato a raccontare il nuovo cinema italiano e ben 12 numeri a cadenza trimestrale. Abbiamo deciso di festeggiare questo traguardo non da soli, ma premiando gli artisti che nel 2015 hanno acceso di nuova luce il giovane cinema italiano. Così, durante la serata che si è svolta l’11 dicembre scorso alla Pelanda

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Da sinistra: Alessandro Borghi, Pietro Messina e Matteo Garrone.

Come celebrare i talenti che stanno proiettando il cinema italiano verso il futuro? Fabrique ha risposto creando un premio per gli artisti più innovativi: i vincitori della prima edizione sono gli attori Miriam Leone e Alessandro Borghi, e i registi Pietro Messina e Matteo Garrone. foto RICCARDO RIANDE

PREMI 2015 presso il Macro di Testaccio a Roma, il regista Massimiliano Bruno ha consegnato i primi Premi Fabrique, disegnati dall’artista Federico Baciocchi, a Alessandro Borghi come Attore rivelazione 2015 e a Miriam Leone come Attrice rivelazione 2015. Il premio Fabrique per la migliore Opera prima 2015 è andato al giovane regista Piero Messina, autore de L’attesa, con Juliette Binoche, mentre il premio

Creatività e innovazione 2015 non poteva che andare a Matteo Garrone, che ha regalato al nostro cinema un fantasy fiammeggiante e sui generis come Il racconto dei racconti. Miriam Leone, reduce dal successo delle serie TV 1992 e Non uccidere, ritirando il premio ha dichiarato ridendo: «Quest’anno è stato un anno pazzesco, dopo tanti anni di no, in cui in molti mi hanno detto di

lasciar perdere: questo premio lo dedico a chi ha creduto in me, ma anche a quelli che mi hanno detto di lasciar perdere perché… non li ho ascoltati!». Alessandro Borghi ha invece scherzato sulla credibilità con cui ha interpretato un drogato in Non essere cattivo, e Pietro Messina ha ringraziato in particolare Juliette Binoche che, pur attrice di statura internazionale, ha accettato di recitare nel film d’esordio di un

filmmaker italiano. Alla presentatrice della serata Martina Catuzzi, che gli chiedeva quale consiglio avrebbe voluto dare ai giovani autori, Matteo Garrone ha infine risposto: «Il consiglio che penso sia giusto dare è quello di fare dei film non omologati, trovare una propria strada, un proprio sguardo, prendere dei rischi». Chi saranno i vincitori dell’edizione 2016 del Premio?

SEGUITE COME SEMPRE FABRIQUE E LO SAPRETE IN ANTEPRIMA… 35


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- Icone -

RUGGERO DEODATO RIDE ALL’APPELLATIVO DI “MONSIEUR CANNIBAL”, CON CUI FIRMA ANCHE UNA RUBRICA SU UNA RIVISTA, ODIA LA SUA FOTO DI WIKIPEDIA E SGRIDA I GIOVANI CRESCIUTI NELLA BAMBAGIA CHE SI SCANDALIZZANO PER UN FILM, MA NON PER GLI ORRORI CHE PASSANO OGNI GIORNO AL TELEGIORNALE.

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eme di essere ricordato più per I ragazzi del muretto che per la sua trilogia sui cannibali, ma soprattutto detesta essere definito un regista horror. Parliamo di Ruggero Deodato, 76 anni e un nuovo film fresco di riprese. Si chiama Ballad in Blood ed è un noir realizzato tra gli studi romani della De Paolis, la rampa Prenestina e il Pozzo di

San Patrizio a Orvieto, una storia ispirata a un noto episodio di cronaca nera con protagonista un gruppo di studenti Erasmus. Come avrete capito, questo filmmamker di culto trasuda ancora tanta energia e passione per il suo mestiere, con cui ha ispirato autori come Tarantino e, probabilmente, buona parte dei found footage oggi tanto in voga nelle sale. Noi preferiamo però

presentarvelo come un vero artigiano del cinema, impegnato in prima linea nelle riprese dei suoi film, a piedi nella jungla e in luoghi esotici dove pochi dei suoi colleghi più blasonati avrebbero osato addentrarsi. Lo intervistiamo poco dopo il 36° anniversario dell’uscita di Cannibal Holocaust. Lo sappiamo perché Ruggero ci fa sentire il messaggio vocale

di “auguri” che gli ha mandato uno dei suoi più grandi fan, Eli Roth. Se ve lo state chiedendo, non c’è assolutamente alcun rancore per quella faccenduola della trama di The Green Inferno che assomiglia troppo a quella di Ultimo Mondo Cannibale. Dopo l’iniziale disappunto del regista italiano, i due si sono più che riconciliati e si scambiano i messaggini di cui sopra.

IL

ODIA L’HORROR di LAURA CROCE foto FRANCESCA FAGO

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Andiamo subito al punto: perché non ti piace essere definito un regista horror? Sono anni che lo ripeto: non sono un regista horror, faccio film realistici. Anzi, odio i film horror e specialmente gli splatter. Anche i miei colleghi come Bava e Argento non mi hanno mai considerato un cultore del genere. Personalmente apprezzo solo quei film che fanno davvero paura come The Others e Shining, ma gli altri non li guardo proprio. Qual è il tocco “alla Deodato”? Metto sempre l’anima nei miei film, qualcosa che fa capire chiaramente che li ho girati io. Ad esempio in Un delitto poco comune ho mandato Donald Pleasence a urlare come un forsennato in mezzo a corso Vannucci a Perugia, in cerca dell’assassino, con la gente che non capiva cosa stesse succedendo. Il film ruota intorno alla progeria, una malattia rara che causa l’invecchiamento precoce e dunque il volto del killer cambia in continuazione rendendolo irriconoscibile. Il vero tocco alla Deodato però è la scena in cui c’è il malato, un vecchiobambino, che dondola sull’altalena con il cigolio delle catene che rende tutto molto inquietante. Anche una buona dose di avventura fa parte del tuo stile, almeno a giudicare dalle foto

del set di Cannibal Holocaust. Cannibal Holocaust è stato più semplice rispetto a Ultimo Mondo Cannibale, dove stavamo in una jungla malese che è molto peggio di quella amazzonica. Ma mi sono sempre divertito. Vedevo le foto di questi posti fantastici su National Geographic, scrivevo una storiella e andavo da un produttore: così sono nati i miei film sui cannibali. Una di quelle riviste ce l’ho ancora in buone condizioni, ma solo grazie a un mio fan tedesco che l’ha trovata e mi ha regalato la sua copia. La mia l’avevo portata con me durante le riprese e con tutta l’umidità che ha preso era praticamente da buttare. Nel ’75, quando ho cominciato a girare in quei posti, nessuno viaggiava e non potevano credere che esistessero indigeni che vivevano a quel modo. Loro invece erano proprio così, allo stato primitivo, ed era difficilissimo trovare il modo di comunicare perché non parlavano nessuna lingua e non capivano nemmeno i gesti. L’unica cosa che si poteva fare era un suono, una sorta di “gha gha” per farli muovere. Hai girato questi film anche con un intento documentaristico? No, direi piuttosto che mi piaceva Mondo Cane di Jacopetti. Era molto innovativo sia nella fotografia di un’Africa

stupenda, sia nell’elemento di verità che aggiungeva alla storia. Ma lui era un delinquente, nel senso che se sapeva che ci sarebbe stata, che so, una fucilazione, faceva in modo che si organizzasse davanti alla macchina da presa. Pagava anche per decidere il luogo e l’orario in modo da avere l’ambientazione più scenografica. I film erano stupendi ma odiavo questo modo di mistificare la realtà per fare degli scoop: Cannibal Holocaust nasce proprio da questa repulsione. Era una denuncia, e finalmente l’hanno capito anche gli inglesi. Il film è uscito per la prima volta sul grande schermo solo due anni fa, mi hanno anche invitato per presenziare all’evento, a Londra. Tutto merito di un censore che si è accorto del valore di accusa del film e lo ha riabilitato, così finalmente non mi sono trovato davanti solo un pubblico di gotici coi tatuaggi e coi piercing. C’era perfino Vanessa Redgrave. Come hai raccontato altre volte, il film è nato anche dalla rabbia contro la TV. Sì, mio figlio all’epoca era piccolo e a un certo punto mi ha pregato di cambiare canale perché al TG c’erano troppi morti e gli facevano impressione. I miei film invece venivano censurati e tagliati, ci mancava poco che li bruciassero. Rispetto a Jacopetti ho anche girato in modo più “cialtrone”, senza teli e senza curare troppo la fotografia, ma anche perché volevo più

Deodato ha esordito nel cinema come aiuto regista di Roberto Rossellini sul set di Era notte a Roma (1960).

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verità. Una volta sviluppata la pellicola l’ho graffiata e sporcata proprio per aumentare questo effetto. Quando Sergio Leone ha visto il film mi ha avvertito: «La seconda parte è un capolavoro, ma passerai tanti guai». E infatti: quattro mesi con la condizionale… Mi hanno anche accusato di aver ucciso gli attori. In Spagna presero addirittura per vero un finto reportage della rivista Photo, fatto con le foto di scena, ma almeno quando si è saputo che era un falso il film è esploso ed è diventato un successo. Al realismo nello stile corrispondeva però un reale impegno nelle riprese, nel mezzo di luoghi davvero selvaggi. Abbiamo girato circa un mese nella jungla: la prima settimana mi volevano ammazzare tutti perché mi sono rifiutato di girare dove era previsto all’inizio, a Kuala Lumpur, dove avevano fatto il Sandokan di Sollima. Era un parco pieno di cartacce dove la gente andava a fare i picnic… A me serviva la jungla! Così siamo andati in un posto che si poteva raggiungere solo con sei ore di piroga. Ce li ho portati, anche il direttore della fotografia che era lo stesso di Sollima e che all’inizio voleva andarsene. Poi ci siamo abituati e ci siamo divertiti moltissimo. Qualche aneddoto? Ho sempre avuto troupe molto paurose, i romani poi sono tremendi, così di solito andavo avanti battendo le mani per scacciare i serpenti. Con le piogge alte i serpenti non ci sono, ma quando cala l’acqua se ne trovano tantissimi.


Lamberto Bava, con cui siamo ancora amici, sul set di Ultimo Mondo Cannibale è stato morso proprio da uno dei serpenti che stavamo mettendo in una fossa per girare una scena. Anche se erano senza veleno non lo voleva fare nessuno, e così ho convinto Lamberto ad aiutarmi. Bisognava prenderli per la testa senza stringere troppo, ma lui deve essersi agitato un po’ e così un serpente lo ha morso sulla mano, allora lui l’ha strappato via e quello lo ha morso sull’altra. Sanguinava tantissimo: lo hanno dovuto portare in elicottero a Kuala Lumpur. La domenica con Stefano Rolla, aiuto regista, facevamo a gara a chi si staccava dalle caviglie più sanguisughe con le sigarette. Stefano era un avventuriero come me. È il regista che è morto in Iraq, nell’attentato di Nassiriya.

«UNA VOLTA SVILUPPATA LA PELLICOLA L’HO GRAFFIATA E SPORCATA. QUANDO SERGIO LEONE HA VISTO IL FILM MI HA AVVERTITO: "LA SECONDA PARTE È UN CAPOLAVORO, MA PASSERAI TANTI GUAI». Ti infastidisce essere ricordato come Mr. Cannibal? O ti diverte? A me diverte tutto. Non mi importa nemmeno quando mi insultano. Nella mia carriera ho variato così tanto che ce n’è per tutti i gusti. Se non ti piace Cannibal Holocaust puoi vedere

Uomini si nasce poliziotti si muore. Se preferisci il genere fantastico c’è The Barbarians, se vuoi qualcosa da teenager vatti a vedere I ragazzi del muretto. Vuoi piangere? C’è L’ultimo sapore dell’aria, che è carinissimo. Quest’ultimo che ho fatto, Ballad in Blood, è un

noir puro, seppur girato sempre con realismo... E con qualche tarantinata. Ho anche un altro progetto, di cui però non posso parlare, che se riuscirò a realizzare sarà qualcosa di completamente nuovo per me.

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FABRIQUE

CINEMA ADVISOR 2

ROMA E MILANO: le “due capitali” a confronto nella mappa delle sale cinematografiche targate Fabrique

FONDAZIONE CINETECA ITALIANA

Prosegue il nostro viaggio attraverso la penisola alla ricerca delle sale cinematografiche d’avanguardia nelle quali viene distribuita la nostra rivista cartacea. Si tratta di strutture in cui a una programmazione attenta e variegata si unisce la cura nei confronti dell’aggiornamento tecnologico e dello spettatore, “coccolato” con ressegne speciali, festival ed eventi.

Nella foto grande una sala dell’area Metropolis 2.0 della Fondazione Cineteca Italiana di Milano.

Se nella prima puntata (numero 12) abbiamo illustrato le caratteristiche delle sale Fabrique romane (Casa del Cinema, Cinema Trevi, Nuovo Sacher), fiorentine (Stensen e Spazio Alfieri), torinesi (Massimo) e bolognesi (Lumière), in questa seconda parte approfondiremo l’analisi di altri cinema della capitale e di quelli milanesi, con una significativa puntata a Pisa. Ringraziamo Margherita Giusti Hazon.

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(MILANO) La Fondazione Cineteca Italiana, oltre a svolgere dal 1947 un’ininterrotta attività di conservazione e valorizzazione del patrimonio filmico e di diffusione della cultura cinematografica, svolge nelle sue tre sale un’intensa attività di proiezioni cinematografiche. Lo Spazio Oberdan (sala Alda Merini, 200 posti – proiettore 2K, 35 mm e 70 mm) predilige film d’essai e in lingua originale; il MIC – Museo Interattivo del Cinema (sala MIC, 100 posti – proiettore 2K e 35 mm) fa una programmazione più varia per un pubblico che spazia dal cinefilo appassionato di cinema a tutta la famiglia; Area Metropolis 2.0 (sala Chaplin 185 posti e sala Pasolini 124 posti – proiettori 2K) è un cinema di prima visione che programma soprattutto film europei.


ANTEO

(MILANO) L’Anteo ha 4 sale (sala 50, sala 100, sala 200 e sala 400, i nomi delle sale corrispondono più o meno al numero dei posti, tutte con proiettori varco 2K, la sala da 100 posti ha anche un proiettore 35mm) e propone una programmazione di film di prima visione prediligendo il cinema europeo. Oltre

ARSENALE

(PISA ) Aperto nel 1982, l’Arsenale effettua da allora la proiezione di circa 220 film all’anno, privilegiando all’interno della propria programmazione il cinema di qualità, sia nella scelta delle prime visioni che nella riproposizione dei grandi classici della storia del cinema. Le proiezioni sono raggruppate in cicli, elaborati per fornire agli spettatori uno sguardo critico e una selezione attenta del panorama cinematografico mondiale, suggerendo percorsi e collegamenti tematici. Incontri e dibattiti con autori, maestranze e teorici del cinema arricchiscono la programmazione e costituiscono momenti di riflessione e dibattito sulla storia e sui mestieri del cinema; la riproposizione dei grandi classici del muto con accompagnamento musicale dal vivo fornisce lo spunto per riscoprire la visione del cinema delle origini.

alla programmazione di prima visione, il cinema Anteo offre tante iniziative e rassegne tematiche, come “Colazione all’Anteo”, ogni mercoledì mattina colazione&film, “Senza doppiaggio”, che propone film in lingua originale, anteprime e tanti incontri con gli autori.

INTRASTEVERE

(ROMA) Situato nel cuore di Trastevere, a pochi passi da Piazza Trilussa, il cinema è incastonato in uno dei suggestivi vicoli di uno dei quartieri più amati dai turisti nella capitale. Anche per questo la sala propone spesso proiezioni di film in lingua originale. Con Lux, Odeon e Tibur forma il network Cinema di Roma proponendo film d’autore, documentari e cinema italiano senza disdegnare il cinema commerciale di qualità. Gli abbonamenti “Amor di cinema” del network Cinema di Roma permettono di vedere i film ogni giorno a 5,50 euro.

MADISON EDEN

(ROMA) È un luogo ben noto a tutti i cinefili del quartiere Prati (in Piazza Cola di Rienzo) con la sua programmazione ricercata, attenta alle suggestioni provenienti dai grandi festival internazionali e legata alla distribuzione di film d’autore. Il cinema, affiliato a Europa Cinemas e FICE, ha cinque sale, tutte attrezzate con impianti audio Dolby Digital. La sala 1 ha 226 posti ed è dotata di un proiettore Sony 4k. Le sale 2, 3, 4, 5 hanno rispettivamente 100, 70, 70, 42 posti. L’Eden propone prezzi scontati per le proiezioni pomeridiane nei giorni feriali, oltre a una scelta di abbonamenti.

GREENWICH

(ROMA) Per i cinefili romani è un must: al centro del quartiere Testaccio, da 23 anni il Greenwich multisala offre al pubblico romano un’offerta di alta qualità, con un occhio rivolto da sempre al cinema d’autore internazionale e specialmente europeo. Tre sono le sale che compongono il cinema, la più piccola un vero salotto per pochi intimi: tutte e tre sono dotate di proiettore 4k, l’impianto sonoro è Dolby Digital per le sale 1 e 2 mentre per la sala 3 è 4.0. Il Greenwich riserva inoltre agli studenti universitari una promozione con biglietto a 5 euro.

TIBUR

(ROMA) Nel cuore di San Lorenzo, centro pulsante della vita universitaria della capitale, il Tibur possiede il fascino del luogo in cui il tempo si è fermato, del cinema “come una volta”. Sarà per il legno, materiale dominante nell’arredamento, o per la programmazione, orientata prevalentemente su titoli di nicchia ma non per questo meno ricercati dal pubblico.

Dopo la ristrutturazione, nel 2000, le due sale – di 199 e 127 posti – sono attrezzate con schermi grandi e impianto audio Digital, Dolby e Stereo, garantendo un’esperienza audiovisuale di buon livello. Tra i punti di forza del Tibur, le vantaggiose promozioni che offre a studenti e non solo, incentivando l’avvicinamento alla cultura cinematografica.

(ROMA) Sorto nel quartiere San Paolo nel 1967 come cinema d’essai, il Madison è gestito da sempre dalla famiglia Ilari. Nasce come monosala, ma nel 2003 le sale a disposizione del pubblico diventano otto (presto saranno nove), offrendo una programmazione variegata ma costantemente con un occhio di riguardo verso il cinema d’autore. Il Madison, sempre al passo con le moderne tecnologie audiovisive, punta a soddisfare ogni tipo di esigenza spettatoriale. Le sale sono attrezzate per proiezioni in 3D e 4k. Attento alla formazione culturale del pubblico giovanile, applica riduzioni per studenti universitari e organizza proiezioni per gli studenti di scuole elementari, medie e superiori. Il Madison offre anche la possibilità di ospitare conferenze ed eventi.

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- Serie TV -

NUOVA SERIALITÀ UNA MAPPA PER ORIENTARSI

Sulle serie TV si è scritto tantissimo in questi ultimi anni. Per evitare di ripetere cose che probabilmente avrete già letto altrove, su Fabrique abbiamo deciso di guardare il fenomeno da un’altra angolazione.

di ALESSIO GIAQUINTO

L’

idea è stata quella di provare a disporre sul foglio come tante pedine le serie più viste dal pubblico, quelle più acclamate dalla critica e quelle che hanno fatto più discutere, con l’obiettivo di capire se unendo i puntini, e trovando similitudini anche dove non pensavamo, si potesse riuscire a tracciare una mappa dei gusti del pubblico e delle tendenze creative emerse di recente. OLTRE ALLE SERIE PRODOTTE IN ITA-

LIA, ABBIAMO SCELTO DI GUARDARE SOLTANTO AI PAESI ANGLOSASSONI perché sono quelli che oggi esportano più serie in generale e comunque quelli che ne esportano più da noi. Quello che faremo in sostanza è un viaggio a tappe seguendo degli itinerari tematici che possano creare affinità elettive tra le varie serie TV. Doverosa precisazione: sono stati evitati spoiler per tutti coloro che devono ancora vedere le serie citate...

«MONDI NARRATIVI CON MOLTI INTERPRETI E TANTI PUNTI DI VISTA, CON EVOLUZIONI PSICOLOGICHE LUNGHE E SFACCETTATE, E PIÙ AUTENTICHE AGLI OCCHI DI CHI LE GUARDA».

Francesco Montanari e Vinicio Marchioni (Romanzo criminale), Marco D’Amore e Salvatore Esposito (Gomorra).

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IL CINEMA E LE SERIE TV

In questo primo approfondimento cerchiamo di capire che tipo di legame esiste oggi tra cinema e serialità televisiva. Innanzitutto vediamo quanto è corretto affermare che le serie TV sono “figlie del cinema”. Molti hanno detto che con le loro storie forti, con protagonisti complessi, corrotti e ambigui, le serie TV hanno superato il politically correct dei vecchi cari telefilm raccogliendo l’eredità cinematografica di quella New Hollywood di Scorsese, De Palma, Coppola ecc. che tanto

cambiò il cinema americano in favore di una forte autorialità. La differenza sta nel fatto che le serie TV possono contare su un grande numero di ore lungo le quali sviluppare le loro storie: ed è qui che molti hanno visto piuttosto una similitudine con il romanzo. Il vantaggio risiede nella possibilità di proporre discorsi più ampi, mondi narrativi con molti interpreti e tanti punti di vista, con evoluzioni psicologiche lunghe e sfaccettate, e più autentiche agli occhi di chi le guarda.

DAL FILM ALLA SERIE

È interessante notare cosa è accaduto a livello di sceneggiatura quando un film ha dato vita a un adattamento seriale per la TV (un trend molto in ascesa negli ultimi tempi). Pensiamo ad esempio a Romanzo criminale e a Gomorra. In entrambi i casi la scrittura della serie sembra sia voluta ritornare ai rispettivi romanzi di partenza ancora più che ai film, proprio con lo scopo di ritrovare un mondo più complesso e più “nero”, e soprattutto popolato da personaggi con una maggiore tridimensionalità. Romanzo criminale ha potuto raccontare una storia più ricca di comprimari e ispirata più fedelmente alle gesta criminali della Banda della Magliana. Nella serie Gomorra l’arco temporale lungo, più che dispiegare le storie viste nel film di Garrone, ha permesso agli sceneggiatori di concentrarsi sul racconto fortemente orizzontale delle successioni dinastiche

all’interno del clan. Altri importanti punti in comune tra le due serie: sono state dirette dal regista Stefano Sollima, partivano da romanzi e film corali (come tra l’altro Suburra, che diventerà presto una serie distribuita da Netflix e RAI) e figurano tra i pochi prodotti di genere scripted che sono stati venduti molto bene anche all’estero. Caso differente è quello di Fargo. La serie americana in onda da due stagioni è nata dal film cult dei fratelli Coen, che in quest’occasione invece si sono limitati al ruolo di produttori esecutivi. La cosa più interessante è il gioco di rimandi che la serie sembra fare con il film: lo cita continuamente pur parlando di un’altra storia. Del film è rimasto più che altro il mood della provincia americana del Minnesota, del crimine a ciel sereno e del registro tragicomico dei Coen. Più aderenti alla

GLI ATTORI

Altro discorso interessante riguarda la recitazione. Sono molti gli attori di cinema che si sono cimentati in serie TV. Solo per citare alcune delle ultime produzioni, pensiamo a Kevin Spacey, Kevin Bacon, Matthew McConaughey, Woody Harrelson, Colin Farrell nelle due stagioni di True Detective, Dustin Hoffman nella prossima serie coprodotta da RAI sulla famiglia fiorentina de I Medici ma anche i nostri Sergio Castellitto, Claudio Santamaria o Stefano Accorsi. La sensazione è che, passando dal

film alla lunga serialità, l’attore cerchi di essere più controllato, gestire le emozioni e le evoluzioni del personaggio nel rispetto della loro progressività, tenendo conto che si crea con il pubblico un rapporto molto più lungo e delicato rispetto alla durata di un film. Le chiavi interpretative cambiano completamente se devi recitare un personaggio in un film di 90 minuti che spesso vive un solo grande cambiamento o se devi calarti nei panni di Walter White in cinque lunghe stagioni di Breaking Bad.

storia del film (e ancora di più ai romanzi di partenza), seppur con modalità opposte, sono Hannibal e Limitless. Più precisamente nel primo caso la serie fa cominciare la storia prima di quanto visto nel film Red Dragon mentre in Limitless siamo in un vero e proprio sequel dell’omonimo film, che amplia il mondo narrativo e soprattutto propone un altro protagonista.

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I GRANDI REGISTI

«LA SENSAZIONE È CHE, PASSANDO DAL FILM ALLA LUNGA SERIALITÀ, L’ATTORE CERCHI DI ESSERE PIÙ CONTROLLATO, GESTIRE LE EMOZIONI E LE EVOLUZIONI DEL PERSONAGGIO NEL RISPETTO DELLA LORO PROGRESSIVITÀ».

In questa massiccia ondata migratoria di professionisti del cinema verso le serie TV non potevano mancare all’appello ovviamente i registi. Qui va fatto innanzitutto un discorso sul ruolo. Le serie TV hanno segnato la rivincita della scrittura e l’ascesa della figura dello showrunner, con la conseguenza che il regista è diventato spesso una figura interscambiabile tra un episodio e l’altro, una sorta di gestore della continuità visiva della serie. Per questo va notato come grandi registi siano stati

chiamati a dirigere le primissime puntate così da impostare lo stile visivo di tutta la serie. Dopo qualche resistenza soprattutto sui prodotti a lunga serialità, negli ultimi anni abbiamo visto avvicendarsi al timone di nuove serie TV nomi come Martin Scorsese (Boardwalk Empire, Vynil), Paul Haggis (Show me a hero), Steven Soderbergh (The Knick) e David Fincher (House of Cards). E prossimamente vedremo nuovi lavori diretti da Paolo Sorrentino, Woody Allen e Lars Von Trier.

GLI SCENARI

Finora sembra che molte serie TV abbiano quindi puntato sul mondo del cinema soprattutto con lo scopo di volersi legittimare presso il grande pubblico. Ma la storia è tutta da scrivere. Basta notare i recenti casi di titoli, attori e registi che hanno compiuto il percorso inverso ovvero che, dopo aver riscosso molto successo con le serie TV, sono stati ingaggiati da Hollywood. Dalla serie inglese Sherlock che è diventata anche

un film a Cary Fukunaga, il regista di True Detective, che ha da poco diretto Beasts of No Nation, il primo lungometraggio prodotto da Netflix, o a Bryan Cranston che dopo Breaking Bad è protagonista al cinema del film Trumbo. Una relazione molto fluida e sempre più a due direzioni, insomma. Ma non è che andrà a finire che molto presto ci ritroveremo tutti in sala per vedere le première delle nostre serie TV preferite?

(1- continua)

Stefano Accorsi, ideatore e protagonista di 1992, e Sergio Castellitto, lo psicoterapeuta Giovanni Mari al centro di In treatment.

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- Zona Doc -

FEMMINILE PLURALE Uno spettro si aggira nelle interviste alle registe: è lo spettro del gender. “Una donna gira diversamente da un uomo?”, “È più difficile emergere?”, “Perché le registe sono così poche?”. Una tripletta difficile da scansare, e molto insidiosa: domande che rischiano il paternalismo, risposte in bilico tra lagna e rancore. di ILARIA RAVARINO

Sopra, immagini dal doc 365 Without 377 e, a pagina accanto, la protagonista di Rebel Menopause, la femminista Thérèse Clerc, da poco scomparsa.

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Poi incontri una come ADELE TULLI, documentarista dall’approccio politico («Dillo, dillo. Politico. È una parola che rivendico»), due film in curriculum che parlano da soli: 365 without 377, sui movimenti LGBT in India, e Rebel Menopause, sul tabù della vecchiaia femminile.

F

ilm girati fuori dall’Italia, circolati nei festival, abbastanza potenti da scacciare, come un esorcismo, qualsiasi domanda di genere. Femminista e attivista, Tulli sfugge alla trappola del gender mettendolo al centro della sua ricerca artistica. E sfugge anche a un altro tranello, di natura generazionale: perché Tulli è figlia d’arte, sua madre è Serena Dandini, e l’ascendenza in Italia ha un peso che nessuno può negare. Quanto forte sia stata questa influenza, noi non glielo chiediamo. A rispondere ci pensano i suoi lavori, la sua biografia nomade. E la sua ricerca appassionata sull’identità. Di genere, e personale.

per fare un film.

Come sei arrivata al cinema? Partendo da tutt’altro. All’università ho scelto studi orientali perché ero appassionata di indologia e di filosofie dell’India. Mi sono specializzata soprattutto sui movimenti e sulle lotte femministe dell’India contemporanea, un argomento che mi interessava in prima persona.

Cosa hai imparato da questa prima esperienza? Le protagoniste erano persone che conoscevo bene, amici. Non avendo avuto con loro un approccio freddo, da casting, anche durante le interviste l’intromissione della telecamera non era vissuta in maniera violenta. L’importanza delle relazioni è la cosa più significativa che ho imparato

Un conto è la ricerca, un conto il lavoro sul campo. Come è scattata la scintilla? A Roma facevo parte di alcuni gruppi femministi, mi interessavano le lotte e le rivendicazioni delle donne e le politiche LGBT. Poi ho scoperto cosa accadeva nell’attivismo indiano, quali erano i loro temi e le loro battaglie. La prima volta che sono andata in India il movimento LGBT era invisibile, non se ne accennava neanche nel contesto della lotta femminista. Era come un tabù. Poi, a un certo punto, qualcosa è cambiato. E tu ti ci sei trovata in mezzo. Ero là quando nel 2009 è stata depenalizzata l’omosessualità. Ho vissuto il primo anno di libertà, si sentiva l’energia fenomenale di un mondo sommerso che veniva fuori all’improvviso. Così mi è venuta l’idea di realizzare un documentario per registrare quel momento. Ma non ero andata là

Al tempo cosa sapevi del mezzo? Davvero poco. Ero appassionata di documentari, li trovavo da sempre un bel modo per raccontare storie importanti. Ma avevo poca esperienza pratica: mi hanno aiutato sia un vecchio amico del liceo che studiava cinema in India, Andrea Iannetta, sia il direttore della fotografia indiano con cui ho lavorato, Kush Badhwar. E fondamentale è stato il produttore Ivan Cotroneo, che ci ha creduto fin dall’inizio rischiando su un’esordiente.

Spesso bisogna andare lontano per imparare qualcosa su se stessi... In India, poi. Un grande classico. Oddio, in realtà non intendo “cercare se stessi” in quel senso lì. Anzi, sono sempre stata piuttosto cinica nei confronti del “turismo spirituale” in India. No, intendo che conoscere e studiare una realtà lontana dalla tua ti porta a decostruire le tue certezze, le tue categorie di pensiero. E poi, dopo otto anni fuori dall’Italia, il paese mi terrorizzava. Ci ho messo un po’ a tornare e a mettermi a lavorare qui, ma certamente ci sono temi di tragica attualità su cui lavorare. Nemmeno il tuo secondo progetto è sull’Italia. Dopo il primo film, che ha girato tanto soprattutto all’estero, ho capito la forza del mezzo. E allora ho deciso di studiare, sono tornata a Londra e ho fatto un master in documentario. Ne è venuto fuori un film, fatto tutto senza produzione.

«SPESSO BISOGNA ANDARE LONTANO PER IMPARARE QUALCOSA SU SE STESSI». e ciò che ho continuato poi a cercare nei miei lavori. È la fiducia che rende il film così naturale. La domanda sorge spontanea: perché non hai cominciato con un film sull’Italia?

Come hai individuato la storia? Ho scelto un altro tema che mi è molto a cuore: l’invecchiamento femminile e l’invisibilità della donna post-menopausa. Un altro tabù. E quando ho incontrato la protagonista me ne sono innamorata subito.

Era una donna straordinaria, era facile fare un film su di lei, una femminista molto attiva sul tema della rivendicazione della vecchiaia. Volevo che fosse un film sulla terza età, in cui la vecchiaia non fosse raccontata come luogo del passato e della memoria, ma come potenzialità. Thérèse aveva aperto una casa per donne che vogliono essere attive, La Maison des Baba Yaga, che collaborano con il quartiere e le associazioni, lavorano con i migranti, fanno corsi di francese, asili autogestiti. Cosa puoi dire del progetto italiano? Sono all’inizio, ho una prima stesura e delle idee, sto facendo i sopralluoghi. Sarà un lavoro sulla normatività di genere in Italia, su come veniamo indottrinati a ripetere un copione antico ma tenace, quello dell’universo maschile e femminile. Come curatrice dei documentari dell’associazione Cinema Italia UK hai modo di vedere molti lavori italiani: emerge una linea comune tra i giovani autori? C’è una linea di documentari sociali e politici molto interessante. E anche il linguaggio mi pare stia cambiando: da un documentario più convenzionale di osservazione e non intervento si sta passando a un documentario in cui la distinzione tra finzione e realtà è messa in discussione. Si cercano linguaggi ibridi in cui la manipolazione del reale sia evidente e lo sguardo di regia più forte. Penso a Minervini, Marcello, Rosi. Film di finzione: ne farai? Per ora non ci penso. Mi piacerebbe che si desse più spazio al documentario in Italia, spero in un cambio di trend nella distribuzione e nella produzione. Oggi bisogna ringraziare soprattutto il lavoro eroico dei festival, che riescono a dare agli autori un minimo di visibilità.

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IL PALCOSCENICO: TEATRO DI SOGNI E ASPIRAZIONI CHE DIVENTANO REALTÀ. foto ROBERTA KRASNIG Stylist STEFANIA SCIORTINO Assistenti fotografa RAMY EL KOT e CLAUDIA FAGIANI Hair and make up VERONICA CABONI Per gli abiti si ringrazia EQUIPMENT FR, JBRAND, CURRENT ELLIOTT, GSTAR, HOSIO Si ringrazia la Sala Umberto e il Direttore Artistico ALESSANDRO LONGOBARDI per la gentile ospitalità

SET STAGE the

SEI TALENTI EMERGENTI, UN OUTFIT SOBRIO E RICERCATO, TRA SIPARIO, QUINTE E RIFLETTORI. 48


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VALENTINA MELIS

Età e luogo di nascita: 31 anni, nata a Milano ma di origini sarde. Mi avete vista in: Horror Vacui, la webserie, vincitrice dell’Infinity Film Festival, della quale sono ideatrice e protagonista. Al cinema in Loro chi?, Amici come noi e Asfalto Rosso. E poi in tante fiction come Don Luca, Medici miei, Piloti. Il ruolo che vorrei fosse stato scritto per me: Catherine in Jules et Jim, film che adoro; Antonietta in Una giornata particolare, perché avrei avuto il privilegio di lavorare su un personaggio straordinario diretta da un maestro come Ettore Scola; ma anche Holly in Colazione da Tiffany: sarei diventata un’icona!

VALERIA PERRI

Età e luogo di nascita: 24 anni, nata a Roma. Mi avete vista in: Che strano chiamarsi Federico di Ettore Scola e Belli di papà di Guido Chiesa. Il primo lavoro in cui ho avuto più spazio è stato però Tutti insieme all’improvviso, serie TV di Francesco Pavolini, con il ruolo di Viola. Il ruolo che vorrei fosse stato scritto per me: quello di Silvia Calderoni in La leggenda di Kaspar Hauser di Davide Manuli. Un ruolo difficilmente paragonabile ad altro già visto e, per questo, particolarmente stimolante. Mi sarebbe piaciuto anche interpretare Christiane F. e confrontarmi con una storia realmente accaduta e con la Berlino degli anni Settanta.

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FEDERICO LEPERA

Età e luogo di nascita: 26 anni, nato a Roma. Mi avete visto in: nelle fiction Tutti pazzi per amore e È arrivata la felicità. Negli ultimi anni sono stato in scena con Dignità autonome di prostituzione di Luciano Melchionna e con Enrico IV (ma forse no) di Matteo Tarasco, in cui ho recitato insieme a Brenno Placido. Il ruolo che vorrei fosse stato scritto per me: Travis Bickle in Taxi Driver, un personaggio eclettico e complesso. Partecipare alla realizzazione di questo capolavoro di sceneggiatura ed essere diretto da Martin Scorsese sarebbe stato un sogno!

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ANDREA LATTANZI

Età e luogo di nascita: Nato a Roma, 23 anni fa. Mi avete visto in: Dopo essere stato scelto da Carlo Verdone, Daniele Luchetti, Lina Wertmüller e Roberto Bigherati come vincitore del casting de Il Gioco del Lotto e RB Casting al Festival di Roma nel 2014, il regista Sergio Colabona mi ha diretto nel suo film Attesa e cambiamenti, di prossima uscita. Nel 2015 ho girato il cortometraggio Un’altra storia, per la regia di Dario Piana, in cui recito accanto a Valeria Golino e Valeria Solarino. Il ruolo che vorrei fosse stato scritto per me: Non miro a un ruolo in particolare, credo che in generale sia più difficile far ridere che commuovere, ma adorerei interpretare personaggi come quelli delle serie Romanzo criminale o Gomorra.

TERESA ROMAGNOLI

Età e luogo di nascita: 24 anni, nata a Fiesole (Firenze). Mi avete vista in: Sono stata diretta da Paolo Sorrentino nel corto The Dream, poi da Ivan Silvestrini in Under e da Lanfredi e Parolini nella commedia La bouillabaisse. Il mio primo ruolo importante è stato quello di Sara, coprotagonista della serie TV Tutti insieme all’improvviso, diretta da Francesco Pavolini. Il ruolo che vorrei fosse stato scritto per me: Antonietta, interpretata da Sophia Loren, in Una giornata particolare di Scola, in maniera intensa, elegante e sublime. Ma anche perché è stato il film che mi ha portata a pensare che avrei voluto intraprendere il percorso di attrice.

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LUCA DI GIOVANNI

Età e luogo di nascita: 35 anni, nato a Velletri (Roma). Mi avete visto in: The show must go off, programma di Serena Dandini su La7; nei cortometraggi Quando a Roma nevica di Andrea Baroni, Zinì e Amì di Pierluca Di Pasquale e Il palloncino di Riccardo Rabacchi; su YouTube, con campagne virali e webserie (CoglioneNO e Piantali degli ZERO, Il vecchio col cappello di Pierluca Di Pasquale); su Radio 2, con Stai Serena di Serena Dandini. Il ruolo che vorrei fosse stato scritto per me: il personaggio di Dustin Hoffman in Cane di paglia di Sam Peckinpah e quello di Philip Seymour Hoffman in Happiness di Todd Solondz. Rispettivamente, il ruolo drammatico più leggero e imprevedibile e il ruolo comico più tragico e sofferto che mi vengono in mente. Entrambi intensi e mai patetici, struggenti e violenti come piace a me.

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- Soundtrack -

i cani

Niccolò Contessa, cantautore, polistrumentista

(«Nel senso che suono tutto male!»), e leader della band romana de I cani, un eccellente esempio di come la musica nata dal web riesca a emergere.

IN CON IL MONDO di ROBERTA FORNARI

N

iccolò è ora impegnato nel tour promozionale del suo nuovo album Aurora, da cui è tratto il brano Questo nostro grande amore per Sempre meglio che lavorare, l’esordio al cinema dei The Pills. Parliamo di Questo nostro grande amore: com’è nato il brano? È nato indipendentemente dal film. «Dovremmo monetizzare questo nostro grande amore» è una frase che ho detto alla mia ragazza in una conversazione un po’ surreale su come ricavare soldi dalla propria storia d’amore. Mi sembrava una cosa che risuonasse col mondo che ci circonda. Ad esempio, qualche giorno fa ero a Termini, e vedendo Fedez con la sua vera ragazza sul cartellone della pubblicità della Sisley, ho pensato che in fondo forse il mondo è cambiato a un punto tale che questa cosa non ha più nulla di provocatorio, e quindi è interessante per me raccontarla. In effetti, spicca dai tuoi testi una particolare attenzione alla società di oggi, soprattutto nei

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riguardi della generazione tra i venti e trent’anni. Se uno racconta le cose della propria epoca parte avvantaggiato perché parla di qualcosa che non è mai stato raccontato prima, qualcosa di ancora fresco. Se parlassi, come De André, della prostituta, dell’assassino, mi sembrerebbe di trattare temi appartenenti a un altro mondo, un altro immaginario, cosa potrei aggiungere io di nuovo? Mentre se osservo un fenomeno che sta accadendo ora e che non posso ancora categorizzare mi viene da scrivere una canzone. Quando c’è, un cambiamento della realtà è sempre qualcosa che vale la pena raccontare. Credi che il tuo successo derivi da questo? Come se facessi da specchio alle nuove generazioni? Difficile da dire. Non so se me la sento di assumermi la responsabilità di un ruolo del genere! Io semplicemente prendo ispirazione dal mondo che mi circonda e non vado a copiare il modo in cui scrivevano le canzoni trent’anni fa. Questo credo sia il mio segreto. Se

qualcuno poi si riconosce in quello che scrivo, è una fase successiva, è consequenziale. Parlando dei The Pills, com’è nata la collaborazione con loro? Ci conosciamo da tanti anni, soprattutto con Luigi e Matteo da prima del mio e del loro successo, quindi c’è da sempre un rapporto privilegiato. Ad esempio, Luigi appariva nel mio primo video ancora prima di stare con i The Pills. Roma nord che incontra Roma sud! [Ride] Ma manco tanto! Alla fine ormai siamo tutti sparsi per la città! Hanno scelto loro quel brano o gliel’hai proposto tu? L’hanno scelto loro. In fase di post produzione del film Luca mi ha chiesto se avessi dei brani nuovi, e ascoltandone diversi, gli è sembrato che quello fosse il più adatto per il discorso dei soldi: la monetizzazione è il tema del film. Così come i The Pills anche tu sei partito dal web per poi raggiungere il pubblico di massa. Secondo te internet riuscirà un giorno ad avere la stessa forza mediatica che hanno la TV e i talent oggi? È già così. Ci sono artisti usciti

da internet che, senza passare per i meccanismi discografici tradizionali, hanno molto più successo di alcuni che vincono un talent e quando va bene resistono magari sei mesi, ma poi scompaiono, a parte le eccezioni come Marco Mengoni. Io personalmente non ho nessuna invidia nei confronti di chi esce dai talent perché appunto è una vetrina molto intensa per qualche mese ma poi si spegne. Per molti versi fare un percorso indipendente paga di più soprattutto nel medio-lungo termine. Quindi sei un ottimista. Sì, preferisco le cose come sono ora piuttosto com’erano negli anni Novanta, con le case discografiche, le radio e la TV che dettavano legge. Tornando al cinema, hai lavorato anche con altri registi? Ho scritto la musica originale per il film di Zanasi La felicità è un sistema complesso. Il film aveva già 45 minuti di musica non originale scelta dal regista, però c’erano momenti in cui servivano musiche originali di cui mi sono occupato io. Come ti sei rapportato a questa esperienza? È molto diverso da scrivere canzoni, perché è qualcosa che


SINTONIA Nella pagina accanto la copertina del nuovo album Aurora, terzo lavoro della band romana dopo Glamour e Il sorprendente album d’esordio de I cani.

«MENTRE COMPONI MUSICA PER FILM DEVI RAFFIGURARTI LO SPETTATORE MESSO DI FRONTE ALL’IMMAGINE E ALLA MUSICA, E SAPERE CHE UNA NOTA PUÒ CAMBIARE RADICALMENTE LE SUE ASPETTATIVE E LA SUA INTERPRETAZIONE DELLA SCENA». ti mette di fronte alla natura della musica. Mentre componi devi raffigurarti lo spettatore messo di fronte all’immagine e alla musica, e sapere che una nota, piuttosto che un’altra, può cambiare radicalmente le sue aspettative e la sua interpretazione della scena. Tutto questo ti fa rendere conto davvero del potere della musica. Oltretutto si tratta anche di

“accontentare” le richieste del regista, giusto? È una grande responsabilità, perché spesso è difficile riuscire ad azzeccare l’atmosfera che il regista vuole trasmettere, ma è anche molto bello. Contribuire a realizzare la visione di qualcun altro invece di essere l’unico responsabile è una bella palestra. Ti piacerebbe proseguire su questa strada o temi che

ti allontanerebbe dalla tua identità di cantautore? Mi piacerebbe moltissimo, trovo che sia un’attività complementare a quella di cantautore, non si danno fastidio a vicenda proprio perché sono molto diverse. Che genere di film va a vedere al cinema Niccolò Contessa? Ultimamente non sono andato molto al cinema… Ahimè, le serie TV hanno occupato quello spazio

nella mia vita, ma l’ultimo film che mi è piaciuto molto è stato Mad Max, davvero bello, avrebbe dovuto vincere l’Oscar per la migliore sceneggiatura. C’è un regista in particolare con cui vorresti collaborare? Volendo puntare veramente in alto, uno che stimo tantissimo in Italia è Garrone. Ovviamente poi vorrei essere coinvolto nel prossimo film di Zanasi.

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- Masterclass -

L’IMPEGNO DI AGPCI - ASSOCIAZIONE GIOVANI PRODUTTORI CINEMATOGRAFICI INDIPENDENTI NELLA FORMAZIONE: MEETING INTERNAZIONALE DEL CINEMA INDIPENDENTE, MASTERCLASS FOR PRODUCERS E MASTERCLASS TO PRODUCERS. di GIACOMO LAMBORIZIO

Per fare il giovane cinema italiano c’è bisogno anche di giovani produttori indipendenti. Produttori che

devono essere pronti e pienamente in grado di reagire e intercettare le sollecitazioni di un mercato dell’audiovisivo in costante mutamento. Anche per questo nel 2007 è stata fondata l’AGPCI (Associazione Giovani Produttori Cinematografici Indipendenti), associazione di categoria e network di imprese che ha rapidamente raccolto decine di adesioni, andando a colmare un vuoto nel panorama del cinema italiano.

Una sigla che sempre più sta legandosi a un’attività di formazione di alto livello per i suoi iscritti e non solo: da qualche tempo, grazie alla partnership con LUISS Guido Carli Business School, sono infatte nate le Masterclass

di alta formazione per i professionisti del cinema.

FORMARE UNA NUOVA GENERAZIONE DI PRODUTTORI 56

MARTHA CAPELLO,

presidente AGPCI, ci racconta l’attività dell’associazione e i progetti diversi e diversificati in cui è coinvolta: «Nasciamo per

ovviare al blocco legislativo che di fatto impedisce l’ingresso nel settore di nuove realtà, giovani imprenditori e startup. Per questo abbiamo trovato subito un largo seguito». Oggi però la vostra attività non si riduce solo a questo. La prima mission è l’affermazione dell’urgenza di un ricambio generazionale, ma col tempo la necessità di formazione di imprenditori e produttori, e la mancanza di scuole preposte, ha portato l’associazione a prendere una nuova forma, che assomiglia più a un network professionale. Partiamo dal presupposto che laddove c’è microimpresa, se si crea rete si raggiungono obiettivi molto più velocemente. Ad esempio, la nascita del Meeting nazionale del cinema indipendente (e successivamente internazionale) permette agli associati e non solo di venire a contatto con la categoria ed essere sollecitati a scambiare e confrontare idee e progetti.


Tre dei relatori della Masterclass for Producers, che si è tenuta a gennaio: Graziella Bildesheim, Fabrizio Ferrari, Alfredo Borrelli.

Un Meeting che ha celebrato a metà marzo la sua quinta edizione a Matera. Un’edizione che ha visto ospiti internazionali, tra produttori, distributori, esercenti e finanziatori e, pur mantenendo la sua anima di incontro, si è caratterizzato anche come un vero e proprio mercato, con anteprime di nuovi film italiani indipendenti. Come interviene AGPCI nel campo della formazione professionale? Dall’inizio ci siamo posti come scopo quello di formare i nostri iscritti, anche con l’obiettivo di proporci come un marchio di garanzia, non solo etica ma anche professionale, per tutti i referenti istituzionali e imprenditoriali. A gennaio la Masterclass for Producers ha coinvolto oltre duecento tra produttori e lavoratori del settore che desideravano ampliare la propria conoscenza. Attraverso moduli dedicati a temi molto specifici abbiamo fornito informazioni a nostro avviso indispensabili per chi oggi voglia fare il produttore in maniera consapevole: dal business plan, cioè come si racconta un progetto attraverso i numeri, una cosa su cui molti ancora non hanno le idee chiare; passando per i rapporti con le banche – dal modo in cui una banca legge un bilancio aziendale fino ai parametri che costituiscono il rating –, il

product placement e i criteri con cui le aziende scelgono un progetto da sponsorizzare; per terminare con la distribuzione dei film nelle sale. Abbiamo cercato di dare una panoramica su tutti questi aspetti, anche se ogni modulo meriterebbe una masterclass dedicata. Perciò l’associazione sta lavorando per i prossimi appuntamenti di formazione con in mano una mappa del gradimento e della richiesta formativa degli iscritti.

crediamo molto. I produttori devono capire che non sono artigiani, che devono ragionare con approccio industriale, che sono imprenditori. Ci siamo resi conto però che anche chi sta dall’altra parte della scrivania spesso non ha una formazione adeguata. Vorremmo creare un ponte tra i produttori e chi presenta i progetti, perché questi vengano proposti nel modo giusto e al giusto livello di maturazione e sviluppo.

In tal senso a Matera c’è stata l’occasione di mettere in pratica le conoscenze acquisite. Infatti i famosi pitch che spaventano tanti registi e produttori sono stati oggetto di studio nella masterclass, dove si è spiegato come adattare il progetto in base al proprio interlocutore, perché un film non si può presentare allo stesso modo a un distributore o a un finanziatore. Durante il meeting i relatori invitati sono stati coinvolti in appuntamenti individuali in cui i produttori hanno presentato i loro progetti, sia in fase di sviluppo che pronti per la distribuzione. Ci è sembrato un buon modo di rendere concreto quello che a volte rischia di rimanere su carta.

In tal senso abbiamo parlato anche con

Quali sono quindi le linee guida per il futuro di AGPCI in tema di formazione? Il settore deve crescere anche a livello di preparazione, in questo

ALESSANDRO TARTAGLIA POLCINI, il responsabile formazione di AGPCI, per farci raccontare a cosa si sta lavorando in questo momento, dove si concentrerà nello specifico l’Associazione nei prossimi appuntamenti.

di conoscenza nei riguardi del settore. Per questo abbiamo stabilito di andare avanti. Ad aprile comincia il corso Cinemanagement 3.0 con quattro docenti esperti di cinema a livello economicofinanziario, rivolto a manager interessati a entrare nel settore cinematografico, con un approccio non artistico ma industriale. Ci vogliamo poi rivolgere a tutti coloro che devono avere a che fare con i produttori e non sanno quali strade percorrere: da questa idea è nata la Masterclass to Producers, in programma a maggio. Andiamo così a completare l’intera filiera rivolgendoci a registi che intendono proporre progetti, attori e maestranze che vogliono presentarsi per ottenere ingaggi e lavori. Cerchiamo di far capire come tutte le professioni si muovano intorno al produttore; come, quando, perché si presenta un progetto.

«CI VOGLIAMO RIVOLGERE A TUTTI COLORO CHE DEVONO AVERE A CHE FARE CON I PRODUTTORI E NON SANNO QUALI STRADE PERCORRERE: DA QUESTA IDEA È NATA LA MASTERCLASS TO PRODUCERS».

La Masterclass for Producers con i docenti della LUISS Business School – con cui continueremo a collaborare per i prossimi corsi di alta formazione per il cinema – è stata un grande successo. L’interesse generato ha dimostrato la grande “fame”

Una tre giorni che sarà tenuta ancora alla LUISS. L’obiettivo è quello di mantenere costante e ad alto livello l’offerta formativa, per generare interesse ma soprattutto preparare chi si avvicina all’industria cinematografica.

Nel tondo Martha Capello (a destra) con la vicepresidente AGPCI Marina Marzotto.

www.agpci.weebly.com

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LORENZA INDOVINA

LA LIBERTÀ

DI RACCONTARE

PER IMMAGINI Dietro e davanti alla macchina da presa: Lorenza Indovina è un’attrice affermata, ma dal 2004 è anche autrice di due cortometraggi. Oggi sta lavorando al terzo, tratto da un racconto di Niccolò Ammaniti. di GIOVANNA MARIA BRANCA foto ROBERTA KRASNIG

IN COLLABORAZIONE CON

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L

a storia del tradimento di una notte, l’angoscia di coprire le tracce dell’amante a causa dell’improvviso ritorno a casa della moglie: Un uccello molto serio, cortometraggio di Lorenza Indovina del 2013, è una storia senza tempo, la più classica delle commedie (o tragedie a seconda del punto di vista). Presentato con grande successo a molti festival – vincendo il premio come migliore commedia, tra gli altri, al Budapest Short Film Festival – il cortometraggio è tratto da un omonimo racconto del marito della regista, lo scrittore Niccolò Ammaniti, contenuto nella raccolta Il momento è delicato. Commedia classica e al contempo atipica perché, spiega la regista, «è un genere che in Italia non viene molto praticato: il tono è surreale e grottesco ma anche realistico. Sta sempre in bilico tra le due cose». «Nella cinematografia italiana – continua Lorenza – sono più diffuse le commedie di situazione, o di battute, ma è difficile trovare un film basato sul grottesco, sul paradosso. Volevo provare a vedere se funzionava, a mettermi alla prova io stessa: si trattava di una sfida anche dal punto di vista tecnico». Era infatti solo la seconda volta che si trovava dietro alla macchina da presa invece che davanti. Attrice affermata, ha esordito sul grande schermo nel 1992 con Il richiamo di Claudio Bondi, ottenendo la prima candidatura al David di Donatello come miglior attrice non protagonista solo cinque anni dopo con La tregua di Francesco Rosi. Nel 2000, invece, arriva la nomination come miglior attrice per Almost

Blue di Alex Infascelli, mentre un anno prima ha inizio la sua lunga collaborazione con Antonio Albanese con La fame e la sete, poi continuata in Qualunquemente e Tutto tutto niente niente. L’esordio da regista avviene invece nel 2004, con Ad occhi aperti, il racconto – ancora una volta tra sogno e realtà – dell’incontro di un uomo e una donna a Roma, in cui Lorenza è anche la protagonista. Un’altra storia “classica”: «Mi era venuta in mente e l’ho raccontata a una mia amica. Così ho trovato una produttrice entusiasta e senza quasi accorgermene mi sono trovata a dirigere il corto... E questo mi ha aiutata perché c’era un po’ di incoscienza in un passo così importante. Ma mi è piaciuto». Ad occhi aperti viene presentato nella sezione Corto cortissimo del Festival di Venezia di quell’anno, ma poi passano quasi dieci anni fino al corto successivo. Come mai? «Non c’era niente che mi appassionava al punto da mettermi in gioco – riflette – nessuna storia che mi facesse venire voglia di raccontarla. Lo faccio solo quando me la sento e mi va, una libertà secondo me bellissima». Almeno finché non “arriva” Un uccello molto serio – «essendo la moglie di Niccolò ho la fortuna di leggere i suoi scritti in prima battuta» – storia del maldestro tradimento di Matteo (Rolando Ravello): «È un racconto che mi aveva divertita tantissimo, e più di una volta, leggendolo, mi sono chiesta se anche per immagini si sarebbe ottenuto lo stesso effetto». La scommessa sembra ripagata dal momento in cui il film viene

selezionato in tante rassegne e, soprattutto, per la proiezione in un circuito di cinema d’essai, scampando alla sorte comune fra i corti di rimanere creature da festival, senza la possibilità di incontrare il grande pubblico. «La soddisfazione maggiore – ricorda Lorenza – è stata sedermi in sala e vedere la gente che rideva moltissimo. È molto difficile far ridere, lo dico anche come attrice: è più facile commuovere». I limiti del cortometraggio restano comunque importanti: la povertà delle sovvenzioni e degli investimenti, la distribuzione ridotta, l’obbligo di fare ricorso a collaborazioni gratuite o comunque pagate poco e soprattutto la conseguente

pochi minuti, per cui bisogna trovare un’idea semplice e non farsi prendere dalla voglia di dire troppe cose perché rischia di non passare niente». Una predilezione per la divisione dei ruoli che è probabilmente dietro alla decisione di non interpretare i corti che dirige, ad eccezione del primo, in cui la scelta è stata però dettata da una necessità pratica: la protagonista si doveva gettare nel Tevere, e «non me la sentivo di chiedere a qualcuno di fare una cosa del genere, per giunta gratis!». Motivo, inoltre, per cui al suo fianco come co-regista, in quel suo debutto del 2004, c’è Giulio Manfredonia: «È bravissimo, mi ha aiutata parecchio, soprattutto nel darmi la misura delle cose.

«IN UN CORTO HAI POCHI MINUTI, PER CUI BISOGNA NON FARSI PRENDERE DALLA VOGLIA DI DIRE TROPPE COSE PERCHÉ RISCHIA DI NON PASSARE NIENTE». necessità, come regista, di “fare un po’ tutto”, come nota lei stessa. «A me invece piace molto lavorare con figure professionali e non dovermi improvvisare qualcosa che non sono». E sarebbe questo il motivo principale per cui alla regista e attrice piacerebbe un giorno fare il passo verso il lungometraggio: «Ma non perché pensi che ci sia una grande differenza, è come per i racconti rispetto ai romanzi. Penso che i cortometraggi siano loro stessi dei film, il respiro della storia è semplicemente più breve. E da certi punti di vista è anche più difficile: in un film hai un’ora e mezza per poter raccontare la rotondità del personaggio, delle eventuali svolte. Invece con un corto hai

Non ho ancora la sicurezza, soprattutto come regista, per stare davanti e dietro al monitor». Protagonisti del suo prossimo cortometraggio saranno così di nuovo Rolando Ravello ed Elena Arvigo, l’amante di una notte in Un uccello molto serio. E il punto di partenza è di nuovo un racconto di Ammaniti, La medicina del momento, a cui però verrà cambiato il titolo: «Non mi suonava» spiega «si chiamerà Ego, mi sembrava più chiaro così». Il genere però è tutt’altro rispetto al lavoro precedente: «Non è drammatico ma sicuramente neanche comico. Si tratta di un racconto molto sospeso, e la cosa che mi ha colpita è che riesce a raccontare una dinamica di rapporti che ritrovo nelle persone che frequento, negli amici, guardandomi attorno».

Tra i tanti film in cui Lorenza Indovina ha recitato ricordiamo La tregua (Rosi), Almost Blue (Infascelli), Un amore (Tavarelli), Il passato è una terra straniera (Vicari).

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- Making of -

DEPRIVATION

CAST Dominique Swain, Costas Mandylor, Gianni Capaldi, William Mcnamara, Holly Lynch, Selim Bayraktar, Charlotte Beckett REGIA Brian Skiba SCENEGGIATURA Brian Skiba PRODUZIONE Alberini Films, Skiba Vision, Explorer Entertainment ORGANIZZATORE GENERALE Giuseppe Andreani SCENOGRAFIA Gianni Peduzzi COSTUMISTA Susanna Ferrando

a cura di DAVIDE MANCA foto GOLIA PRESENTE

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Macchina a mano Red Dragon: radio fuochi, e telaio 2x1 216 frost.

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Fotogramma di una scena: illuminazione con luci led par 64 con colore blu e Kinoflo 1x60 a 5.600K.

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Totale per VFX still camera con 15 mm (senza paraluce).

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Scena illuminata con bank al neon 5.600K - Kinoflo 4x60 3.200K. Filtro di conversione 1/2 orange, quarzo 800w.

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Dolly Fischer, obbiettivo 24mm, testata fluida Sachtler.

Il regista Brian Skiba dà indicazioni all’attore Costas Mandylor al lavoro su una scena: Red Dragon in HDR mode.


IL FILM Se la suspense da brivido del fantascientifico 28 giorni dopo incontrasse le atmosfere apocalittiche di World War Z, il tutto all’ombra del Colosseo? Deprivation, girato in lingua inglese e interpretato da un cast internazionale, è un horror sci-fi ispirato agli esperimenti di privazione del sonno realmente condotti da scienziati russi su cavie umane. Alla fine degli anni Quaranta cinque uomini, prigionieri politici della seconda guerra mondiale, furono segregati in un ambiente ermeticamente chiuso e tenuti svegli per due settimane, usando un gas sperimentale a base di stimolanti. Nella camera c’erano libri, brandine, acqua corrente, un bagno e abbastanza cibo per un mese. Deprivation racconta le terribili e inimmaginabili conseguenze dell’esperimento sulla psiche e sull’attività cerebrale delle vittime. Il film, coproduzione tra Italia e Stati Uniti, è in fase di riprese a Roma.

IL REGISTA Brian Skiba è un prolifico regista, produttore e sceneggiatore. Ha frequentato, contemporaneamente all’università, la Scottsdale Film School: una delle ultime scuole che ancora utilizza il 16mm per insegnare. Dopo la laurea presso l’Arizona State University fonda la società di produzione Victory Angel Film. In seguito, parte per la Costa dei Mosquito (Honduras) per la produzione del documentario Families Helping Families, dedicato a un’organizzazione no profit che costruisce case per persone colpite da uragani. Il suo primo lungometraggio è la commedia horror Blood Moon Rising (2009), premiato da un tale successo che a Brian viene chiesto di dirigere altri due film: Crushed Velvet e Dirty Little Trick. Quest’ultimo, interpretato da Dean Cain e Michael Madsen, gli vale, nel 2011, il prestigioso Arizona Filmmaker of the Year al Phoenix Film Festival. Tra i suoi progetti più recenti, il cancer movie The Jonas Project (2013), selezionato all’undicesimo Festival di Cannes, e il lungometraggio per la TV Christmas Truce (2015). Per molti film, Brian ha supervisionato colore, effetti visivi, sound design e missaggio sonoro.

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Neon Kobold a pioggia con fondale rosso. Colore su iris a 1.250w.

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Scena in ascensore: lightpanel a pioggia 3.200K.

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L’assistente operatore segna le distanze su Follow Focus.

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Un fotogramma delle riprese: HMI 575w attraverso telaio 250 frost, floppy a copertura del fondo e lightpanel 30x30 a 5.600K.

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Skiba dà indicazioni agli attori durante le prove per la scena di combattimento finale.

Laboratorio dietro le quinte: par 64 a pioggia su lettino, ledpanel 30x30 in controluce, 5kw riflesso attraverso la finestra.

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- Effetti speciali -

LA CORRISPONDENZA

Nell’ultimo film di Giuseppe Tornatore Olga Kurylenko interpreta Amy, studentessa di astrofisica che per mantenersi agli studi lavora come stuntwoman.

L E S S M R E IS

MARIO ZANOT

è un regista, giornalista, documentarista, nonché visual effects supervisor per il cinema. Membro dell’EFA (European Film Academy), ha curato fra gli altri i VFX degli ultimi film di Giuseppe Tornatore, di Habemus papam di Nanni Moretti e Diaz di Daniele Vicari, per il quale nel 2013 ha vinto il David di Donatello. di ANDREA DI IORIO foto STORYTELLER

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L’

ultimo progetto per il quale ha supervisionato gli effetti visivi è La corrispondenza sempre di Tornatore, con Jeremy Irons e Olga Kurylenko. Un film dal respiro internazionale, che come tutti quelli del regista di Bagheria apre una porta su un universo fatto di amore, nostalgia, senso della distanza e della perdita.

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«CON TORNATORE SI TORNA OGNI VOLTA A SCUOLA, LA ROUTINE È BANDITA».

AFTER

Questa è la tua terza collaborazione con Giuseppe Tornatore dopo Baarìa e La migliore offerta. Com’è lavorare con lui? In realtà è la quinta collaborazione: assieme abbiamo girato anche un film per Esselunga e un documentario, bellissimo, sulla vita di Goffredo Lombardo, storico produttore di grandi film per il cinema. Ce ne fossero ancora di produttori così… Lavorare con Tornatore è un’esperienza totalizzante. È un regista estremamente scrupoloso, con le idee chiare e che non fa sconti sulla qualità delle immagini. Nella Corrispondenza abbiamo affrontato problemi nuovi, come aggiungere fuoco nelle inquadrature di un incendio e intervenire sul viso della protagonista Olga Kurylenko nelle scene di azione. Con Tornatore si torna ogni volta a scuola, la routine è bandita.

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BEFORE

Gli effetti visivi in questo film sono delicati e in un certo senso minimalisti, adatti allo spirito romantico dell’opera (eccetto un’esplosione e un incendio). Credi che l’approccio italiano/ europeo agli effetti visivi sia diverso da quello del cinema americano a cui siamo più abituati? Sostengo da tempo che gli effetti digitali meglio riusciti sono quelli che non si vedono. La nostra massima soddisfazione (un po’ masochista, lo ammetto) è quando qualcuno dice: ma come, avete lavorato per mesi, giorni, sere, weekend e non si vede niente! Negli Stati Uniti l’approccio è opposto: ormai le sceneggiature nascono attorno agli effetti digitali, a ciò che la tecnologia di software sempre più sofisticati permette di realizzare in quel dato momento. Film di guerra, catastrofici, sci-fi, fantasy, cartoon, esistono grazie

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all’evoluzione della tecnologia digitale. Da noi, una cosa del genere è semplicemente impensabile, perché quello che manca è soprattutto il tempo. Io lavorerei volentieri in un film di fantascienza “made in Italy”, posto che vi sia qualità nello script e quell’identità italiana che risiede nella ricerca e nello studio prima ancora che nella spettacolarità. Sarebbe un bene, anche perché non si può continuare a fare commedie per sempre. Però bisognerebbe avere gli strumenti adatti: non si può lasciare agli effetti i rimasugli del budget, perché questa quota va divisa tra decine di persone (per Baarìa ne avevamo 70 al lavoro in tutta Europa). Se si leggono i titoli di coda americani, si trovano anche 400 persone impiegate nei VFX. In Italia non accade, perché non riusciremmo mai a pagare un numero simile di addetti ed è per questo che perdiamo tanti talenti.

In che direzione credi che stia andando il mondo degli effetti visivi in Italia? Un ritorno del cinema di genere, che si comincia ad avvertire nell’aria, potrebbe contribuire a far espandere questo settore? In Italia succede esattamente il contrario di quello che accade negli Stati Uniti e nel resto del mondo. A parte rari casi, noi del digitale veniamo chiamati a pre-produzione chiusa, oppure a film girato, per rimediare a errori e magagne venute fuori sul set. Non c’è verso di far capire ai produttori che, se venissimo coinvolti già in fase di sceneggiatura, si risparmierebbero tempo e soldi e si potrebbero realizzare idee che magari rimangono chiuse in un cassetto per paura dei costi. Noi ci offriamo di dare questa consulenza gratuitamente, ma è difficile, a parte rari casi, fare breccia in questo “terrore del digitale” che porta via

lavoro a tutti. Una piacevole sorpresa da questo punto di vista è stato Nanni Moretti: per Habemus papam Nanni, che odia la tecnologia digitale, ha comunque preteso che lui, io, direttore della fotografia e scenografo ci confrontassimo ben prima di cominciare a girare. E secondo me i risultati si vedono, nella nostra ricostruzione digitale di San Pietro. Ecco, Habemus papam è un esempio di film che, senza 3D, non si sarebbe potuto fare. Entriamo un po’ nel dettaglio degli effetti visivi per La corrispondenza: quali software avete impiegato? Usiamo parecchi software di modellazione 3D e compositing, non ce n’è uno in particolare. Ogni persona che lavora qui ha le sue preferenze. Ora stiamo usando Fusion e Blender, che sono open source e danno molte soddisfazioni. Ma alla

«USIAMO PARECCHI SOFTWARE DI MODELLAZIONE 3D E COMPOSITING, NON CE N’È UNO IN PARTICOLARE. OGNI PERSONA CHE LAVORA DA NOI HA LE SUE PREFERENZE. ORA STIAMO USANDO FUSION E BLENDER, CHE SONO OPEN SOURCE».

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fine, più che il software, per la qualità delle immagini che produciamo conta la sensibilità artistica delle persone. Gli esseri umani vengono prima e dopo di qualsiasi tecnologia. Sono gli esseri umani che fanno il cinema. Chi lavora su queste macchine è un artista. Sicuramente tra le scene più complesse de La corrispondenza su cui siamo intervenuti c’è l’incendio del castello: le fiamme della primissima inquadratura, quando Olga Kurylenko esce dal castello, non c’erano affatto, sono state aggiunte. Un lavoro durissimo. Abbiamo dovuto prima procurarci un calco di Olga che ci è servito a creare un modello digitale animato in 3D, per registrare frame by frame i suoi movimenti, cosicché sopra di esso potessero essere applicate delle fiamme digitali. Poi quelle digitali sono state fuse con quelle vere. Il tutto tenendo presente anche regole fisiche come quella secondo cui un corpo si muove in direzione opposta al vento. La scena, poi, in cui la Kurylenko è “intrappolata” all’interno di un calco è stata ritoccata digitalmente. Il calco era in realtà più largo di come appare, ed è stato reso un pezzo unico da noi, perché si trattava di due gusci (per permettere all’attrice di respirare) che abbiamo digitalmente unito. Nella scena in cui la protagonista recita un’impiccagione, nel campo largo si tratta di una stunt alla

quale abbiamo applicato il volto della Kurylenko. Stesso meccanismo è stato usato nella scena in cui Olga corre sfuggendo a un’esplosione: in realtà, a parte un paio di inquadrature girate con l’attrice che correva su un tapis roulant, le acrobazie che vediamo sono state effettuate da una stuntwoman a cui è stato “incollato” digitalmente il viso di Olga. Che cos’è Storyteller? Storyteller nasce nel 2011 e al suo interno lavorano molti giovani. Più è grande il progetto, più persone vi lavorano, e molte di queste non superano i venticinque anni. Si tratta di un impegno faticosissimo ma l’entusiasmo della gioventù ci aiuta a farlo bene. Quando, infatti, organizziamo delle proiezioni dopo aver lavorato agli effetti, magari è proprio uno dei più giovani a far notare un difetto che era sfuggito. Abbiamo formato tantissimi talenti che sono andati poi a lavorare in giro per l’Europa e per il mondo, in aziende come la ILM di Lucas o la Pixomondo. Talenti che non potevamo permetterci di trattenere qui perché purtroppo le produzioni italiane non riconoscono economicamente a sufficienza il nostro lavoro. Nei titoli di coda, infatti, veniamo dopo chiunque. Questa è una mentalità che, ahimé, non permette di dare ancora il giusto peso al nostro lavoro.

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- Histoires du cinéma -

ANDREA “OSCAR” CARENZI, nasce a Milano nell’anno 0043 dell’era spaziale. Si diploma al Liceo Artistico di Lecco in grafica e successivamente in digital animation presso Scuole Civiche Fondazione Milano. Tanti storyboard, illustrazioni e clamorose perdite di Action Figure di Batman dopo inizia a fare fumetti, la sua passione segreta che adesso però non è più segreta perché ve l’ha appena svelata oscarenzi.weebly.com. MIRKO OLIVERI nasce a Catania, ha 29 anni, è autore di webcomics, blogger, CEO di Verticomics e direttore di verticalismi.it.

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DIARIO GLI EVENTI DI FABRIQUE

11 DICEMBRE 2015

TRE COMPLEANNI In occasione dell’uscita del dodicesimo numero e dell’anniversario per i primi tre anni di attività di Fabrique, lo scorso 11 dicembre il consueto appuntamento con la

grande festa di lancio, ospitata questa volta negli storici e suggestivi locali del Macro – La Pelanda, è diventato l’occasione per consegnare per la

prima volta i Premi Fabrique ai protagonisti del cinema italiano (vedi pag. 34). Nel diversificato programma delle feste made in Fabrique, ad aprire le danze è stata la tavola rotonda “Italian Cinecomic’s”, che ha esplorato le opportunità per autori e produttori dell’industria cinematografica in Italia in relazione alla fumettistica e alle nuove tendenze di questo settore. Sono intervenuti, tra gli altri, i registi Gabriele Mainetti per Lo chiamavano Jeeg Robot, Ivan Silvestrini per Monolith,

ALLA PELANDA UNA SERATA ALL’INSEGNA DI PERFORMANCE MUSICALI DAL VIVO, COREOGRAFIE E PROIEZIONE DI CORTI, CON TANTI OSPITI VIP.

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Vincenzo Alfieri per Il lato oscuro e Marco Pecchinino per Saint Seiya. A moderare l’incontro l’esperto di fumetti, cinema e televisione Mauro Uzzeo. Hanno guidato il pubblico alla scoperta di una scaletta fatta di performance musicali dal vivo, proiezioni e presentazioni i conduttori Martina Catuzzi e Daniele Tinti, con il contributo degli Actual. Nell’ambito della collaborazione tra Fabrique e il Roma Video Clip Award è stato presentato Perché, il brano scritto da Alex Britti in occasione della Giornata internazionale contro la violenza sulle donne: tutti i diritti del singolo sono destinati a WeWorld, una Ong mondiale che lavora per difendere i diritti di donne e bambini in Italia e nel mondo. A presenziare, il regista del videoclip Ivano De Matteo e parte del cast. Sempre nell’ambito della collaborazione con il Roma Video Clip Award, è stato consegnato il premio alla carriera a Federico Zampaglione. Si è passati poi a presentare i protagonisti del dodicesimo numero di Fabrique: l’uomo copertina Alessandro Borghi, rivelazione di Non essere cattivo e Suburra, l’Icona Lina Wertmuller, Roberto De Feo (Ice Scream e Child K) il regista del futuro, e l’Opera Prima Pecore in erba di Alberto Caviglia. Inoltre gli effetti speciali curati da Metaphyx, Nastro Azzurro Talent Award, i fumetti di Ratigher e la straordinaria street art di Alice Pasquini e Stefano Montesi; e ancora la musica di Diego Buongiorno, il dossier attori con Maria Vittoria Barrella, Roberta Mattei, Vincenzo Vivenzio, Alessio Lapice, Giulia Elettra Gorietti, Federico Russo. A fare da colonna sonora della serata la musica di Mokadelic, Hedy Lamarr, e i dj set di Diego De Gregorio, ATO, e quello curato dal dipartimento di Sound Design di IED Roma.


NEWS

DOVE

28 FEBBRAIO 2016

I DOLORI DEL GIOVANE OSCAR IL PRIMO LIVE SHOW DI FABRIQUE

Cosa c’è di meglio che seguire un grande evento con gli amici? Nel

grande salotto della redazione di Fabrique abbiamo deciso di ospitare i nostri amici e i nostri lettori per seguire la diretta degli Oscar 2016. I dolori del giovane Oscar è stato il live show che domenica 28 febbraio ha accompagnato in diretta streaming – e in presenza per i tanti che ci sono venuti a trovare in redazione – la cerimonia di premiazione degli 88esimi Academy Awards con una maratona non-stop di comicità, musica, performance e informazioni sui film candidati, commentati in studio da una platea di registi, attori, comici, sceneggiatori e altri professionisti del miglior cinema italiano emergente. Oltre che sul sito della rivista, la diretta streaming dello show è stata trasmessa anche da una delle piattaforme leader del video on demand in Italia. La videoteca online CHILI ha reso

infatti disponibile l’intero spettacolo sul suo canale, offrendo al proprio pubblico di appassionati di cinema e serie TV la possibilità di seguire live lo spettacolo organizzato da Fabrique, compresa la “telecronaca” del red carpet e dell’attesa consegna delle statuette. Nella redazione presso la Città dell’Altra Economia riallestita come un vero e proprio studio/salotto televisivo, a fare gli onori di casa è stata la commedia degli Actual, insieme alla stand-up comedian Martina Catuzzi, accompagnati dal gruppo teatrale Pedigrì composto da Giuseppe Ragone, Josafat Vagni e Tiziano Scrocca, il tutto condito dai commenti musicali della band Complesso di Plutone. L’happening ha visto la partecipazione anche di numerosi amici cantautori, attori e comici: Andrea De Rosa, Mimosa Campironi, Mirko e il cane, il collettivo Blue&Berry, Marco Rossetti, il direttivo WGI, Dario Ceruti, Eva Carducci e tanti altri.

Come e dove Fabrique

ROMA CINEMA CASA DEL CINEMA | 06.423601 | Largo Marcello Mastroianni, 1 CINEMA TREVI | 06.6781206 | Vicolo del Puttarello, 25 EDEN FILM CENTER | 06.3612449 | Piazza Cola di Rienzo, 74 GREENWICH | 06.5745825 | Via G. Battista Bodoni, 59 INTRASTEVERE | 06.5884230 | Vicolo Moroni, 3 MADISON | 06.5417926 | Via G. Chiabrera, 121 NUOVO SACHER | 06.5818166 | Largo Ascianghi, 1 TIBUR | 06.4957762 | Via degli Etruschi, 36 LOCALI BIG STAR | Via Mameli, 25 CAFFÈ LETTERARIO | Via Ostiense, 95 CIRCOLO CARACCIOLO | Via F. Caracciolo, 23a DOPPIO ZERO | Via Ostiense, 68 GIUFÀ | Via degli Aurunci, 38 KINO | Via Perugia, 34 KINO MONTI | Via Urbana, 47 LE MURA | Via di Porta Labicana, 24 NECCI | Via Fanfulla da Lodi, 68 SCUOLE CENTRO SPERIMENTALE DI CINEMATOGRAFIA | Via Tuscolana, 1520 CINE TV ROSSELLINI | Via della Vasca Navale, 58 GRIFFITH | Via Matera, 3 ROMEUR ACADEMY | Via Cristoforo Colombo, 573 SCUOLA D’ARTE CINEMATOGRAFICA GIAN MARIA VOLONTÉ | Via Greve, 61

MILANO CINEMA CINEMA ANTEO | Via Milazzo, 9 SPAZIO OBERDAN | Viale Vittorio Veneto, 2 LOCALI OSTELLOBELLO | Via Medici, 4 PIADE IN PIAZZA | P.zza Meda, 5 SCUOLE NUOVA ACCADEMIA DI BELLE ARTI | Via C. Darwin, 20 Milano

TORINO CINEMA CINEMA MASSIMO | Via Giuseppe Verdi, 18

BOLOGNA CINEMA CINEMA LUMIÈRE | Via Azzo Gardino, 65

FIRENZE FABRIQUE DU CINÉMA

LA CARTA STAMPATA DEL NUOVO CINEMA ITALIANO INVERNO

Numero

2015

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FUTURES

ROBERTO DE FEO

Un corto sulla via dell’Oscar e le idee molto chiare

SOUNDTRACK

DIEGO BUONGIORNO

Quando il suono è immagine, arte, performance

LA CARTA STAMPATA DEL NUOVO CINEMA ITALIANO

ICONE

LINA WERTMULLER

“Della critica non m’importa niente. Ho fatto i film che volevo”

IS ON OUR SIDE Imparano, sfidano se stessi, diventeranno i nuovi maestri ALESSANDRO BORGHI

SCARICA GRATUITAMENTE TUTTI I NUMERI DAL SITO 0 SCRIVICI A REDAZIONE@FABRIQUEDUCINEMA.COM

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CINEMA CINEMA STENSEN | Viale Don Giovanni Minzoni, 25 CINEMA ALFIERI | Via dell’Ulivo, 6

PISA CINEMA CINEMA ARSENALE | Vicolo Scaramucci, 2

FESTIVAL

Cortinametraggio Festival Internazionale del Film di Roma Ischia Film Festival Maremetraggio - International Shorts Film Festival Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia Roma Creative Contest Roma Web Fest Rome Independent Film Festival Visioni Italiane Cineteca di Bologna

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