LA CARTA STAMPATA DEL NUOVO CINEMA ITALIANO AUTUNNO
2016
Numero
15
OPERA PRIMA
MINE
Il war film di Fabio&Fabio, fra l’Italia e Hollywood
NUOVI MAESTRI
SERGIO RUBINI
Attore, regista, artigiano: un ritratto a tutto tondo
COMICS
EMILIANO MAMMUCARI
“C’è sempre bisogno di una componente di caos, di disordine”
EREDI DI NOI STESSI
Cristiana Dell’Anna storie di chi parte, di chi ritorna e di chi resta per seguire la sua vocazione
Progetto realizzato con il cofinanziamento della Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento della Gioventù e del Servizio Civile Nazionale – e della Regione Lazio di cui all’art. 82 della L.R. 6/99 e ss.mm.ii..
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La CaRTa STaMPaTa deL NUOVO CiNeMa iTaLiaNO
NOVEMBRE 2012
Numero
La CaRTa STaMPaTa deL NUOVO CiNeMa iTaLiaNO
0
FEBBRAIO 2013
OPERA PRIMA
Numero
LA CARTA STAMPATA DEL NUOVO CINEMA ITALIANO
La CaRTa STaMPaTa deL NUOVO CINeMa ITaLIaNO
1
MAGGIO 2013
OPERA PRIMA
VIAGGIO nEL cuOrE dI TEnEbrA
Numero
2
GENNAIO FEBBRAIO MARZO
LA CARTA STAMPATA DEL NUOVO CINEMA ITALIANO
5
ESTATE
LA CARTA STAMPATA DEL NUOVO CINEMA ITALIANO
6
AUTUNNO
Cupo e potente l’esordio de “Le formiche della città morta”
FESTIVAL DI ROMA
IcOnE
IcOnE
ICONE
ICONE
ICONE
UN DIRITTO DA DIFENDERE
La soLa scuoLa è L’esperienza
GIULIANO MONTALDO
SOPHIA 80
ABEL FERRARA
Roberto Faenza insegna ai suoi studenti a non smettere di lottare
Sessant’anni di cinema vissuti con coerenza e il sorriso sulle labbra
Parla Marco Bellocchio, “scandaloso” esordiente negli anni ’60
“Mi piacciono le cose difficili e ho ancora un sogno da realizzare”
“Fare film è come cercare di risalire un fiume al contrario”
ICONE
DOssIER
SchERMO blu
DOSSIER
DOSSIER
DOSSIER
IncOnTrO cOn GIAnnI AMELIO
FESTIVAL FACTORY
La MiGLiore oFFerTa
PRODUCT PLACEMENT
EUROPROGETTAZIONE
LE SCUOLE DI CINEMA
Ai giovani cineasti dico: condividete la vostra passione
Come i nuovi festival aiutano i giovani talenti e fanno guadagnare
Consigli per gli acquisti? Acqua passata. Ora si guarda al PP
Tra vero e falso: gli effetti speciali nel film di Giuseppe Tornatore
Quello che c’è da sapere sui finanziamenti UE per il cinema
IL NUOVO CINEMA ITALIANO È ADESSO
LAVORARE SODO LAVORARE TUTTI (I GIORNI)
GIULIA VALENTINI Ecco la nostra rivoluzione
FABRIZIO FALCO Capofila dei nuovi attori impegnati
BERSAGLIO
RItRAttO dI unA “cAntAttRIcE” cOn lE IdEE chIARE
E COME LUI SONO IN TANTI I RAGAZZI CHE PUNTANO TUTTO SUL LORO TALENTO
suLLe nosTre GaMBe Margherita Vicario
Studiare cinema a Roma: dove, come, quanto
UPGRADE
È TEMPO D’ESTATE, DI TANTI PICCOLI FESTIVAL DA NORD A SUD, DI FILM SOTTO LA LUNA
DRITTO AL
cAMMInIAMO
7
OPERA PRIMA
UNA PARABOLA UNDERGROUND
“Smetto quando voglio”: la nuova commedia italiana scintilla
LA SETTIMA VOLTA
Si apre la nuova edizione sotto la guida di Marco Müller
Numero
2014
OPERA PRIMA
SMART COMEDY
“L’arte della felicità”: quando il Sud è un passo avanti
I giorni della vendemmia di Marco Righi, un successo grazie al passaparola
Numero
2014
OPERA PRIMA
NAPOLI, CITTÀ DELL’ANIMA
eMiLia senTiMenTaLe
Morando Morandini intervista l’autore di “Alì ha gli occhi azzurri”
Numero
2014
OPERA PRIMA
CON LA CAMERA A SPALLA
Là-Bas, diario spietato di un’educazione criminale
FRANCESCO FORMICHETTI NON HA DUBBI
recitare è la mia vita
OVVERO AGGIORNARSI, CRESCERE, SALIRE PIÙ IN ALTO
È QUELLO CHE NOI FACCIAMO E CHE FANNO I GIOVANI PROFESSIONISTI DI CUI VI RACCONTIAMO
Sarà Matilda Lutz, attrice 23enne, la nostra splendente stella-guida nel cinema giovane che ci piace
MARCO PALVETTI, ATTORE DAL TALENTO MULTIFORME, È UNO DI LORO 1
LA CARTA STAMPATA DEL NUOVO CINEMA ITALIANO INVERNO
2014
Numero
LA CARTA STAMPATA DEL NUOVO CINEMA ITALIANO
8
ESTATE
2015
Numero
LA CARTA STAMPATA DEL NUOVO CINEMA ITALIANO
10
INVERNO
Numero
2015
LA CARTA STAMPATA DEL NUOVO CINEMA ITALIANO
12
PRIMAVERA
2015
Numero
LA CARTA STAMPATA DEL NUOVO CINEMA ITALIANO
LA CARTA STAMPATA DEL NUOVO CINEMA ITALIANO
13
ESTATE
2016
Numero
14
AUTUNNO
2016
Numero
OPERA PRIMA
ICONE
FUTURES
OPERA PRIMA
OPERA PRIMA
OPERA PRIMA
LA COSTRUZIONE DI UN AMORE
SORRENTINO GARRONE MORETTI
ROBERTO DE FEO
LO CHIAMAVANO JEEG ROBOT
BANAT
MINE
Fra madre e figlio, nel paesaggio marino di “Last Summer”
I nuovi classici
Un corto sulla via dell’Oscar e le idee molto chiare
“Il genere è lo strumento con cui raccontare la contemporaneità”
15
Il war film di Fabio&Fabio, fra l’Italia e Hollywood
Nel film d’esordio di Adriano Valerio, la vita forse, è altrove
ICONE
SMART TV
SOUNDTRACK
ICONE
FUTURES
NUOVI MAESTRI
WIM WENDERS
L’EVOLUZIONE DELLA SPECIE
DIEGO BUONGIORNO
RUGGERO DEODATO
VALENTINA BERTANI
SERGIO RUBINI
Come i nuovi player scalzeranno i “dinosauri” televisivi
ZONA DOC
Quando il suono è immagine, arte, performance
SOUNDTRACK
IL CINEMA DEL REALE
VISIONARI Come ha fatto Miriam Dalmazio, eclettica musa
Il nuovo cinema nasce anche dalla rete, come ci racconta Claudio Di Biagio
Imparano, sfidano se stessi, diventeranno i nuovi maestri ALESSANDRO BORGHI
COMICS
EDOARDO TRESOLDI
“Questo è decisamente il momento di stare in Italia”
IS ON OUR SIDE
Attore, regista, artigiano: un ritratto a tutto tondo
ARTE
VINCENZO ALFIERI
“Della critica non m’importa niente. Ho fatto i film che volevo”
TUTTO IL POTERE AL POPOLO (DEL WEB)
Dalla moda e dai videoclip a un set internazionale
FUTURES
LINA WERTMULLER
“Niente è più potente della simbiosi tra immagini e musica”
NELLO SPAZIO FRA SOGNO E REALTÀ I GIOVANI COSTRUISCONO IL LORO PRESENTE E IL LORO FUTURO
L’avventuriero del cinema italiano che ha ispirato Stone e Tarantino
ICONE
MARCO FASOLO, JENNIFER GENTLE
Nuove forme narrative del documentario
RITRATTO DELL’ARTISTA DA GIOVANE
“L’ideale? Non avere punti di riferimento”
EMILIANO MAMMUCARI
“Con la trasparenza della rete faccio dialogare l’uomo e lo spazio”
“C’è sempre bisogno di una componente di caos, di disordine”
EREDI
RESURREZIONE FALLIRE, TENTARE DI NUOVO, RIUSCIRE Matteo Martari e i nuovi attori,registi, autori non hanno paura degli ostacoli e dei rischi
DI NOI STESSI
Cristiana Dell’Anna storie di chi parte, di chi ritorna e di chi resta per seguire la sua vocazione “Progetto realizzato con il cofinanziamento della Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento della Gioventù e del Servizio Civile Nazionale – e della Regione Lazio di cui all’art. 82 della L.R. 6/99 e ss.mm.ii..
Oggi si esprime in teatro, nella pubblicità, in TV, sul web, al cinema. Come Stella Egitto
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PROGETTO FABRIQUE
Siamo felici di comunicare che il progetto Fabrique è stato premiato dalle istituzioni: un’iniziativa, quella del magazine, realizzata dall’associazione Indie Per Cui e cofinanziata dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento Gioventù e del Servizio Civile Nazionale e dalla Regione Lazio attraverso il Piano Annuale Interventi in favore dei Giovani, che nasce dall’intento condiviso di promuovere il giovane cinema italiano. Fabrique du Cinéma rappresenta infatti il primo progetto di crossmedialità dedicato al mondo del nuovo cinema nazionale. Una comunicazione integrata che utilizza più media all’interno di un grande programma editoriale: una rivista trimestrale gratuita, un portale web e un evento culturale multidisciplinare pensato come momento aggregante. Mettendo in luce le nuove leve della Settima Arte, creando connessioni con le major delle produzioni televisive e cinematografiche, collaborando attivamente con le industrie del settore cinematografico e con i maggiori festival nazionali, la freepress Fabrique è divenuta un punto di riferimento per gli studenti e per gli addetti ai lavori, pensata anche per un pubblico trasversale affascinato dallo spettacolo, dal dietro le quinte e dalle novità. Gli eventi Fabrique du Cinéma sono un appuntamento atteso sempre più da molti; le proiezioni dei cortometraggi, le mostre espositive, i concerti di gruppi musicali italiani offrono al vasto pubblico giovane un intrattenimento innovativo e coinvolgente. Nel suo complesso Fabrique du Cinéma è l’espressione di una rete di giovani operatori dell’audiovisivo, che si rivolge agli amanti del cinema contemporaneo, d’autore, indipendente e di qualità, ed è attenta alle nuove sperimentazioni cinematografiche per il web e alle forme di interazione tra il cinema e le arti.
Info e contatti su www.fabriqueducinema.com
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S
ITALIA SOCIAL CLUB ITALIA IN FEST...IVAL
EMILIANO MAMMUCARI
SBAGLIATO
CRISTIANA DELL’ANNA
SOMMARIO
MAURO RUSSO/CLEMENTINO
Pubblicazione edita dall’associazione culturale Indie per cui Via Francesco Ferraironi, 49 L7 (00177) Roma www.fabriqueducinema.it
SENZA LASCIARE TRACCIA
TAGLI D’AUTORE
Registrazione tribunale di Roma n. 177 del 10 luglio 2013 DIRETTORE ARTISTICO Davide Manca DIRETTORE EDITORIALE Elena Mazzocchi SUPERVISOR Luigi Pinto STRATEGIC MANAGER Tommaso Agnese DIRETTORE RESPONSABILE Ilaria Ravarino GRAFICA E IMPAGINAZIONE Giovanni Morelli REDAZIONE Chiara Carnà, Giacomo Lamborizio DISTRIBUZIONE E BANDI Simona Mariani PHOTOEDITOR Francesca Fago MARKETING Federica Remotti EVENTI Isaura Costa Consuelo Madrigali Sonia Serafini SET DESIGNER Gaspare De Pascali AMMINISTRAZIONE Katia Folco UFFICIO STAMPA Patrizia Cafiero & Partners in collaborazione con Sara Battelli PUBBLICITÀ APS Advertising srl Via Tor de Schiavi, 355, 00171 ROMA www.apsadvertising.it STAMPA Press Up s.r.l. Via La Spezia, 118/C 00055 Ladispoli (RM)
22 OPERA PRIMA /1 MINE WATCH YOUR STEP
IN COPERTINA Cristiana Dell’Anna
LA CARTA STAMPATA DEL NUOVO CINEMA ITALIANO 2016
Numero
15
OPERA PRIMA
MINE
Il war film di Fabio&Fabio, fra l’Italia e Hollywood
NUOVI MAESTRI
SERGIO RUBINI
Attore, regista, artigiano: un ritratto a tutto tondo
COMICS
EMILIANO MAMMUCARI
“C’è sempre bisogno di una componente di caos, di disordine”
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D’AMORE E D’ARTE
MARIO VITALE
TEATRO DELL’OROLOGIO
COSTUMISTA
AL LIDO… LEGGERI COME UNA PIUMA
CARLO CARLEI
SPONDE
PROVA GENERALE
TREESTAKELIFE
PANPERS
L’APPUNTAMENTO
BUFFET
Finito di stampare nel mese di agosto 2016
AUTUNNO
04 EDITORIALE FESTIVAL 06 RADIO 08 COMICS 12 ARTSCOVER STORY 16 VIDEOCLIP 20 OPERA PRIMA /2 26 TAVOLA ROTONDA 28 NAZIONE WEB 30 FUTURES 32 TEATRO 34 SPECIALE MESTIERI 36 SPECIALE 40 INTERNAZIONALE 42 ZONA DOC 48 DOSSIER ATTORI 52 SOUNDTRACK 58 NUOVI COMICI 60 MAKING OF 62 EFFETTI SPECIALI 64 OPERA SECONDA 68 FUMETTO 70 72 DIARIO 73 DOVE LA MIA FAMIGLIA A SOQQUADRO
44 NUOVI MAESTRI SERGIO RUBINI SONO UN ARTIGIANO DI BOTTEGA
FEDERICO FRANZO
GLI EVENTI DI FABRIQUE
COME E DOVE FABRIQUE
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E EDITORIALE
ITALIA SOCIAL CLUB di ILARIA RAVARINO
Roan Johnson, che atterra con Piuma in concorso a Venezia, ha usato i social per ringraziare i distributori e annunciare l’arrivo di un nuovo bambino in famiglia: 1300 click di felicitazioni. Carolina Crescentini – sui social tra le più attive – si è servita di Facebook per un’ironica smentita: «I love pasta», scriveva nel suo status qualche tempo fa, ridendosela moltissimo, al giornalista che le chiedeva di confermare una “sospetta” gravidanza. Cristiana Dell’Anna, la cover story di questo numero, non si risparmia invece su Instagram, la piattaforma di foto su cui posta di tutto: il nuovo taglio di capelli per un film, riflessioni sui viaggi, sulla vita, sul lavoro. Il suo video nella metro di Londra – dopo il successo oltremanica di Gomorra – lo hanno visto più di 12.000 persone. Mario Vitale invece, la nostra scommessa di Futures, ha trasformato Facebook in un piccolo diario di lavorazione del nuovo corto, facendo il tifo negli stessi giorni per gli amici in rotta verso Venezia. E ancora sui social c’è chi prende affettuosamente in giro Fabio Guaglione e Fabio Resinaro (qui su Fabrique con il loro Mine) prevedendo il giorno del successo nazional-popolare: «Già rido – scrive un amico autore – pensando alla sera in cui andrete da Marzullo».
Sarà che i tempi sono cambiati. Sarà che dagli errori, forse, si impara. Ma l’aspetto social del giovane cinema italiano mi sembra uno spunto interessante per indagare le nuove geografie delle tribù cinematografiche nostrane. I salotti
che contano, sia chiaro, esistono ancora a Roma e Milano. Ma le bacheche dei giovani filmmaker si impongono oggi in un underground assai più vitale, trasformandosi in piattaforme alternative di incontro, scambio, partecipazione. Luoghi
in cui cercare consigli per un progetto in divenire, invitare a una proiezione e raccogliere gratificazioni (e chi ne ha bisogno più di un artista all’esordio?), spazi personali che sfuggono alle regole del marketing dall’alto, in cui mostrarsi al pubblico, reale o presunto non importa, in una forma intima, diretta, istintiva. Il nuovo cinema italiano fa gruppo anche così, si aggrega virtualmente, creando sintonie e affiatamento che dal mondo dei like a volte sfociano in quello reale. Dopo anni trascorsi a ignorarsi, lamentarsi e trincerarsi dietro alla propria barricata autoriale, mi pare già un risultato interessante: sia pure virtualmente, i giovani si condividono e si sostengono come mai era accaduto prima.
Il nuovo cinema italiano fa gruppo anche così, si aggrega virtualmente, creando sintonie e affiatamento che dal mondo dei like a volte sfociano in quello reale.
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foto ROBERTA KRASNIG assistente FRANCESCA SCORZAFAVE stylist STEFANIA SCIORTINO hair and make up MARA GIANNINI PER CCMAKING BEAUTY abiti ILARIA NISTRI cappello PANIZZA gioiel i IOSSELLIANI
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ITALIA IN FEST... IVAL - Radio Festival -
TRA INNOVAZIONE E TRADIZIONE, TECNOLOGIE ALL’AVANGUARDIA E CULTURA A TUTTO TONDO: RIFLETTORI ACCESI SUI PIÙ INTERESSANTI FESTIVAL ITALIANI IN PROGRAMMA PER SETTEMBRE a cura di CHIARA CARNÀ
Janet De Nardis con Young Man Kang, direttore e fondatore del Korea Web Fest.
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I
l web può diventare a tutti gli effetti canale produttivo e distributivo per nuovi e giovani autori? È quanto si propone di fare il Roma Web Fest, diretto e ideato da Janet De Nardis. Dal 30 settembre al 2 ottobre le porte del MAXXI si apriranno per ospitare la quarta edizione della kermesse, che vedrà protagoniste le webserie, i fashion film e i prodotti web nativi in genere. Tante e poliedriche le tematiche affrontate dai prodotti in concorso e non: si va dalla politica corrotta, alle questioni legate ai rapporti di coppia, fino a Equitalia e LGBTQ. I premi per i migliori sono ghiotti: tra questi, gli speciali Janssen (20mila euro per una
webserie che parli di benessere nel futuro) e Movieland (5mila euro per una puntata zero di webserie che promuova il territorio del Lazio). Insoliti e attuali i workshop in tema, realizzati grazie al sostegno della SIAE (Come scrivere una web serie con giovani autori italiani e stranieri; Come diventare uno Youtuber ecc.). Non mancheranno i panel, anche sui dati relativi all’evoluzione del prodotto webserie, con l’Osservatorio Web e TV de La Sapienza, e sulla scrittura seriale con Fabrique du Cinéma. Da non perdere, la prima Facebook live experience: Riccardo Milanesi torna a proporre una webserie interattiva, che unisce il digital storytelling agli escape games. La storia Escape Martina verrà raccontata il 1 ottobre, alle 15, in diretta, attraverso un video live sulla pagina Facebook: tutto si svolgerà in tempo reale per circa 20 minuti e gli spettatori potranno interagire con la protagonista in diretta sul loro smartphone, sia in una sala del RWF sia da un qualsiasi altro luogo. Immancabili le sessioni di pitching con produttori e brand, gli incontri con star del web e autori internazionali e le anteprime.
Si terrà a Civitavecchia, dal 28 settembre al 2 ottobre, la quinta edizione dell’International Tour Film Festival. Nata nel 2012 da un’idea di Piero Pacchiarotti, la rassegna vuol continuare a essere una vetrina di livello internazionale, vòlta anche a diffondere la bellezza delle zone a nord della provincia di Roma e di Viterbo. A oggi, l’ITFF può vantare la partecipazione di 700 cortometraggi ricevuti per la selezione, provenienti da 64 paesi. Quattro le sezioni previste: Animation, Documentary, Fiction e Promo Turistici. Tante le iniziative collaterali: Masterclass, tenute da personaggi internazionali quali Luc Toutonghi (Se.Ma.For. di Lodz); tre workshop, del regista Giorgio Capitani (per attori), del direttore della fotografia Nino Celeste (per registi) e di Marco Pavani (per gli effetti speciali). Inoltre, la mostra fotografica su Ettore Scola e la presentazione di libri a tema fra cui Pier Paolo Pasolini… Io so di Enzo De Camillis. Importantissima la sezione Video-city: vivi la tua città, riservata a opere degli studenti delle scuole superiori. L’attrice e cantante Hong-hu Ada sarà la madrina del festival. Tra gli ospiti Barry Purves (art director e realizzatore di Mars Attack, Il signore degli anelli), Anthony Christov (art director Pixar), Osvaldo De Santis (presidente della XXCenturyFox Italia), gli attori Claudia Gerini, Nicolas Vaporidis e Jun Ichikawa, il regista Paolo Genovese, Laura Delli Colli (presidente del Sindacato Giornalisti Cinematografici Italiani).
A cambiar volto e rimettersi in gioco, all’importante età di ventuno anni, sarà il Milano Film Festival, previsto dall’8 al 18 settembre 2016. Con l’edizione 2016, il festival va ad abitare il polo culturale di BASE Milano e MUDEC e porta il cinema nel distretto Tortona, celebre per design e moda. Confermate come location il MIMAT e lo Spazio Oberdan della Cineteca di Milano. Con la direzione artistica di Alessandro Beretta e, da quest’anno, Carla Vulpiani, prosegue la ricerca per offrire al pubblico il meglio del cinema emergente internazionale. Un’occasione per aprire prospettive su un’idea di cinema inattesa e brillante, dinamica come la città che ospita il festival. Il programma prevede il concorso Lungometraggi, aperto a opere prime e seconde di registi da ogni parte del mondo, in anteprima italiana. Fra i titoli confermati, Baden Baden della debuttante Rachel Lang, e Radio Dreams di Babak Jalali, premiato al 45° International Film Festival Rotterdam. Il tradizionale concorso Cortometraggi, riservato a registi under 40; la seconda edizione del Nastro Azzurro Video Talent Award, articolato in due categorie: Best Innovation on Tools e Best Innovation on Languages. Per ognuna, in palio un premio di 3.000 euro. Parallelamente, sezioni fuori concorso, film in anteprima, ospiti, workshop. Tra questi, un focus sul regista catalano Albert Serra (1975). Previsto anche un omaggio al regista polacco Andrzej Žuławski, appena scomparso. La dodicesima edizione di Colpe di Stato, presenterà, fra gli altri, The Lovers and the Despot di Ross Adam e Robert Cannan, storia di un rapimento ordito alla fine degli anni ’70 dal presidente della Corea del Nord, Kim Jong-Il, che sognava un’industria cinematografica che potesse competere con quella USA. In anteprima, Uccellacci: 10 anni di BecchiGialli di Ciaj Rocchi e Matteo Demonte, documentario che, per la prima volta, ricostruisce la storia del giornalismo a fumetti in Italia. E poi, la maratona di animazione; il workshop organizzato con Tiger; la premiazione di Fragrances in Motion Awards, progetto nato in collaborazione con Institut Français Milano e Olibere. Di pari passo con la rassegna cinematografica, un programma musicale modellato sull’interazione tra suono e video, orientato alla musica elettronica, alla sperimentazione visiva e all’esplorazione dei linguaggi espressivi contemporanei.
Roma Web Fest, International Tour Film Festival di Civitavecchia e Milano Film Festival i tre appuntamenti clou per il cinema di fine estate.
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- Comics -
Emiliano Mammucari è un disegnatore esperto, un autore che, come ci ha confidato, è considerato simpaticamente dai colleghi lo “specialista dei numeri uno”, avendo realizzato i fatidici esordi delle serie di culto ORFANI e JOHN di MARCO PACELLA foto DOE. Per l’occasione ci ha aperto FLAVIO MANCINELLI le porte del suo studio di Velletri.
La Perfezione Noiosa è
https://twitter.com/e_mammucari
Capovolgendo il motto di Orfani – “Noi non facciamo arte, noi facciamo cadaveri” – come organizza la giornata lavorativa un autore come te che invece “non fa cadaveri ma fa arte”? Faccio questo mestiere da 20 anni e ancora non ho trovato un equilibrio. Ho un rapporto viscerale e conflittuale con quello che racconto, entro nelle storie lentamente. Dopo un po’ subentra una meravigliosa componente del lavoro: la disperazione, quando le date di consegna si avvicinano ti cominciano ad apparire delle soluzioni magiche che ti portano a scrivere la parola “fine”. Diciamo che supplisco alla mancanza di metodo con una robusta dose di disciplina. Una costante c’è: le notti in bianco. Durante i tre anni di Orfani ci sono stati dei momenti,
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per così dire, avventurosi: ho fatto una copertina in 72 ore consecutive senza alzarmi dal tavolo, oppure ho disegnato 35 tavole in 20 giorni, tour de force che pensavo fossero circoscritti alla mia gioventù e invece si sono rivelati una costante. Nell’editoriale del primo numero di John Doe si diceva di te che fossi «lento come una lumaca e rigoroso come un monaco tibetano». Confermi questa descrizione? All’epoca era vero, non ero mai soddisfatto e ridisegnavo le cose mille volte perché doveva essere tutto assolutamente perfetto. Ma la perfezione è una noia: c’è sempre bisogno di una componente di caos, di disordine. L’imprevedibilità “accende” il processo creativo.
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Fra le altre cose, Emiliano ha realizzato il primo numero di John Doe, per poi passare a Napoleone, a Jan Dix e a Caravan, di cui disegna anche tutte le cover e un intero albo, pubblicato nel 2010.
Sia in John Doe che in Orfani hai disegnato il numero uno della serie. Che responsabilità ci sono in questo senso, anche nei confronti degli altri disegnatori che proseguiranno il lavoro sugli albi successivi? I miei colleghi scherzano molto con la storia dei numeri uno, dicono che ormai sono uno specialista, che quando serve qualcuno che rompa il ghiaccio mandano me. Quando tieni a battesimo una serie devi disegnare cercando soluzioni che siano declinabili con altri stili e altre teste. Quando invece ti inserisci in una serie già avviata, soprattutto se è un lavoro di alto livello, hai a disposizione una biblioteca di soluzioni già rodate a cui attingere. È un po’ come aprire un frigorifero e trovare già tutto dentro, senza dover fare la spesa. A me è capitato su Napoleone, la serie di Carlo Ambrosini. Questi stessi elementi di difficoltà si sono ripresentati quando hai dovuto affrontare il remake de L’alba dei morti viventi, il leggendario numero 1 di Dylan Dog. Come hai affrontato quella sfida? Sono rimasto una settimana fermo sulla vignetta in cui Dylan dice: «Mi chiamo Dog, Dylan Dog». L’originale di Angelo Stano è entrata nell’immaginario visivo di una generazione. C’è questo viso volutamente sbilanciato, asimmetrico, che ha un’energia primitiva senza pari. E io volevo ritrovare quella forza simbolica. Con Orfani si assiste a un passaggio decisivo della Bonelli, sia nel legame storico della casa editrice con l’edicola, sia nel ripensamento del rapporto con la libreria. Come interpreti questa diversificazione? Orfani è il nostro modo di leggere il presente ed è il calderone in cui versiamo le nostre inquietudini. Abbiamo iniziato a lavorarci nei momenti drammatici della Primavera araba e della crisi greca,
inizia con la facile previsione di un’Europa in fiamme. È figlia del nostro tempo, insomma. Ma è anche – e così dev’essere – una serie mainstream e un’occasione per allineare i meccanismi di produzione alle nuove esigenze di un medium vivo come il fumetto. Non potevamo immaginarlo, ma Orfani sta andando molto bene nelle librerie e anche all’estero. La RAI ne ha realizzato un motion comic, uscito anche in DVD. Arriverà anche una collana di romanzi, edita da Multiplayer. Poi ci sono gli esperimenti relativi alle uscite digitali, un terreno per molti aspetti ancora in divenire. Fortunatamente, nonostante ci si lamenti spesso, quello italiano è un mercato enorme per il fumetto e dovremmo esserne orgogliosi. Quanto il successo delle nuove serie televisive ha influenzato anche l’evoluzione della serialità nel fumetto? Penso per esempio allo sviluppo “a stagioni” di Orfani. I vari media dialogano e si influenzano a vicenda, ovviamente. Non credo che la serialità immobile, con personaggi fissi, sia adatta a tempi così convulsi. L’idea delle stagioni era stata sviluppata già su John Doe grazie a un’intuizione di Roberto Recchioni, che era un vorace fruitore di serie. Con gli archi narrativi puoi creare dei punti di entrata e di uscita più gestibili anche per il lettore. Su quali fronti sei impegnato adesso? Sto scrivendo. Molto. Come scrittore sto sviluppando la quarta stagione di Orfani, in cui, dopo l’esodo dei fortunati verso il “Nuovo Mondo” della terza, seguiremo il dramma e la violenza di quelli che restano. Nel frattempo sto preparando una serie che si chiamerà Nero, sempre per Bonelli: la storia di un guerriero arabo nel periodo delle Crociate, che vede gli invasori arrivare dal mare. Come disegnatore infine sto lavorando a una storia di Tiziano Sclavi, ma non sarà di Dylan Dog.
«ORFANI È IL NOSTRO MODO DI LEGGERE IL PRESENTE ED È IL CALDERONE IN CUI VERSIAMO LE NOSTRE INQUIETUDINI». 10
- Arts -
Porte e cancelli usurati dal tempo, sculture antiche e finestre addobbate con vasi di fiori, scalinate che si innalzano in penombra: tutti ELEMENTI ARCHITETTONICI apparentemente reali che solo a uno sguardo più attento rivelano la loro natura illusoria, effimera. Si presentano così, di MARCO PACELLA ambigue e accattivanti, le opere in foto ANGELO JAROSZUK BOGASZ strada di SBAGLIATO, un collettivo di
Non Aprire Quella Porta (puoi)
https://it-it.facebook.com/SBAGLIATO
architetti di stanza a Roma che da alcuni anni opera, incollando grandi poster figurativi, fra le vie delle città italiane. Sono opere che attraggono l’occhio del passante proprio per questa doppia natura sospesa fra iperrealismo delle immagini e bidimensionalità della carta, invitandolo a svelare il trucco, a ricomporre razionalmente l’inganno visivo, il trompe-l’œil. Magari, come hanno scritto, portando l’osservatore a interrogarsi «su quanto possa essere apparente e paradossale la realtà stessa in cui vive».
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Come è nato il collettivo SBAGLIATO? È nato a Roma nel maggio 2011. Tutto ha avuto inizio da un piccolo spazio di condivisione dove ci ritrovavamo a studiare insieme. Un bisogno comune era quello di instaurare un dialogo con il tessuto urbano. Una volta trovato l’approccio di intervento ci siamo resi conto che ha modificato il nostro modo di percepire la città. Tutt’ora ci sorprendiamo nel trovare ogni volta nuove visioni di spazi che osserviamo quotidianamente.
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Le opere di Sbagliato, apparse sui muri di Roma ma anche di Bologna e Venezia, rivisitano in chiave urbana e contemporanea il trompe-l’œil di secentesca memoria.
«IL RUOLO DI ROMA È CENTRALE: PER IL NOSTRO TIPO DI LAVORO SI OFFRE COME UN SERBATOIO INESAURIBILE DI ELEMENTI DA CAMPIONARE». In quanto gruppo composto da una pluralità di artisti, come dividete fra voi il lavoro, sia in fase di ricerca che di realizzazione vera e propria? Ognuno di noi ha delle particolari predisposizioni, ma dei veri e propri ruoli delineati non ce ne sono: ci occupiamo tutti quanti sia della progettazione che della realizzazione, risolvendo i problemi di volta in volta. Abbiamo un’educazione visiva affine e per questo ci troviamo bene a lavorare insieme. Alcuni lavori potrebbero richiamare alla mente gli inganni prospettici del Barocco; penso, solo per fare un esempio, alla galleria di Palazzo Spada del Borromini. Che rapporto avete con l’arte del passato e quanto conta in questo il vostro legame con Roma? Il collegamento con il Barocco è immediato. Infatti è un tipo di arte e architettura con un’attenzione particolare alla teatralizzazione del soggetto: un atteggiamento scenografico non molto lontano da alcune nostre opere. Il ruolo di Roma è decisamente centrale sia perché è un teatro di azione ideale, sia per la compresenza di tanti stili architettonici. Questa città non rappresenta soltanto le nostre radici e la nostra memoria, ma per il nostro tipo di lavoro si offre come un serbatoio inesauribile di elementi da campionare. Inoltre questa stratificazione è sfociata anche in un particolare comportamento sociale. Crediamo che i romani siano caratterizzati da un dualismo: in loro è presente un rispetto quasi morboso verso i simboli della propria città, ma allo stesso tempo si divertono a
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dissacrarli ripetutamente. Il nostro approccio con la storia per certi versi può ricordare questa mentalità: uno studio severo di ciò che abbiamo intorno per poi riproporlo in chiave ironica. Quale ruolo riveste la conoscenza del contesto specifico in cui vi trovate di volta in volta a operare? Dopo un inizio in cui andavamo a posizionare svariati elementi per la città con una limitata attenzione al contesto, andando avanti ci siamo resi conto della necessità di elaborare un discorso architettonico più ampio, che riguardasse elementi diversi, dai vuoti (porte, finestre, forature) agli oggetti tecnici e funzionali (impianti, tubature, scale). Quando ci confrontiamo con spazi più estesi studiamo sempre attentamente il luogo di intervento: le motivazioni per cui decidiamo di usare un particolare soggetto dipendono dalle analisi che facciamo sul posto. Lo scopo finale è quello di ipnotizzare il pubblico catturando la sua attenzione con un’immagine, per poi farlo interrogare su quanto sia labile il confine tra realtà e sogno. Come vi rapportate all’inevitabile durata effimera dei vostri lavori in strada? L’uso della carta è una scelta pienamente consapevole. Riteniamo che il suo carattere effimero sia molto importante nel nostro lavoro. Ripetiamo sempre che le nostre “visioni” sono delle possibilità e se vogliamo che rimangano tali è giusto che siano temporanee e non definitive. Inoltre il nostro luogo d’intervento solitamente sono le architetture e ci piace molto il contrasto tra effimero e perenne.
- Cover story -
DI ALTRE
MILIONI VITE Ha una formazione internazionale ma è nata a Napoli ed è profondamente napoletana, come del resto lo sono i due ruoli che l’hanno resa famosa al grande pubblico televisivo: la doppia interpretazione delle gemelle Cirillo in Un posto al sole e, da quest’anno, Patrizia Santoro in Gomorra 2. di FLAVIO NUCCITELLI foto ROBERTA KRASNIG assistente FRANCESCA SCORZAFAVE stylist STEFANIA SCIORTINO hair and make up MARA GIANNINI PER CCMAKING BEAUTY abiti ILARIA NISTRI cappello PANIZZA gioiel i IOSSELLIANI 16
CRISTIANA DELL’ANNA «SPESSO DI OCCASIONI NE HO PERSE, MA NON HO MAI SMESSO DI PROVARE E RIPROVARE; CREDO CHE LE OPPORTUNITÀ SIANO SEMPRE A DISPOSIZIONE». Hai fatto un provino per un ruolo minore di Gomorra 1, sei stata scartata ma ti hanno richiamato per uno, tutt’altro che secondario, in Gomorra 2. È la dimostrazione che è meglio la gallina domani? Non credo valga sempre. Spesso di occasioni ne ho perse, ma non ho mai smesso di provare e riprovare; credo che le opportunità siano sempre a disposizione e magari non sono necessariamente quello che ci aspettavamo dalla vita, ma se impariamo a guardare senza fermarci su quello che abbiamo perso, sapremo sicuramente coglierle. Com’è ritrovarsi a essere un personaggio di una storia che, fino a qualche mese prima, guardavi in TV? È stata una botta di felicità allo stato puro! È un po’ come sognare di incontrare Leonardo Di Caprio e poi non solo lo incontri ma lo sposi pure! Patrizia è un personaggio molto inquadrato, è un soldato, una che ha sacrificato la sua individualità per mettersi al servizio di un capo. Come ti sei preparata per un ruolo del genere e cosa ti ha lasciato? Ricordi, immaginazione e ricerca. Molto di quello che è Patrizia ha preso la sua forma finale sul set, dove si creavano sinergie con gli altri attori. Reagivo a tutto quello che mi davano: Gomorra è stata un’esperienza attoriale indimenticabile. Ovviamente la guida costante dei vari registi ha orchestrato il tutto, senza di loro Patrizia avrebbe solo metà volto. Nella prima stagione Imma Savastano era l’unico personaggio femminile, in questa seconda la questione femminile è molto più problematizzata, ci sono più personaggi femminili con sfumature diverse. Cosa pensi dei ruoli femminili, oggi, nel cinema e nelle serie italiane? Non siamo ancora al passo con altre realtà più avanzate, bisogna scrivere di più per le donne, quello che c’è non basta. Nell’immaginario collettivo il protagonista è sempre un uomo, ma è un errore, bisogna ribaltare al più presto questo stereotipo.
Prima di Gomorra e Un posto al sole c’è stato il teatro, a Londra. Che ricordo hai di quell’esperienza? La mia formazione è stata fondamentale, mi ha reso molto britannica ed è una cosa di cui vado fiera. Il ricordo più forte è il senso di libertà nello sperimentare, nell’essere veramente libera di trovare autenticità nell’interpretazione, di cercare il mio. Sei tornata a vivere a Napoli? Che rapporto hai con la tua città? Hai un luogo del cuore? Amo Napoli in modo viscerale e proprio per questo spesso mi allontano, perché ti inghiotte. È un’amante soffocante dalla quale, però, non puoi fare a meno di tornare, non riesco a starci fissa, anche se per ora il lavoro è concentrato lì. Un luogo che mi sta particolarmente a cuore è il quartiere Sanità, è un mondo da scoprire, che mi ha dato la possibilità di ricominciare a fare teatro in Italia. Tornata a Napoli non sapevo da dove cominciare, ci hanno pensato i ragazzi del Nuovo Teatro Sanità a cui devo molto, sia professionalmente che umanamente. Quando hai deciso che saresti voluta diventare un’attrice? Quali sono i tuoi modelli di riferimento? Credo di averlo sempre saputo, ma di averlo capito veramente solo a diciott’anni. Non è stato facile perché ho dovuto rompere ogni schema, anche mentale. In tutta onestà, non sono certa di avere dei riferimenti, ho voglia di raccontare storie a modo mio. Ma un nome su tutti, che ricordo di aver amato da sempre: Geoffrey Rush, è sensazionale, può essere chiunque. A Napoli la scaramanzia è una cosa seria, non ti chiederò quali saranno i tuoi prossimi progetti, piuttosto: cosa ti piacerebbe fare? Hai un regista con cui ti piacerebbe lavorare? Faccio questo mestiere perché non mi basta la mia vita e ne vorrei vivere altre milioni. Quello che mi guida sono le storie e i personaggi che le popolano, se la regia è di Garrone o Malick ancora meglio! Ma ancor di più lo sarà quando la regia sarà al femminile.
IN COLLABORAZIONE CON
«Ho appena comprato la quadrilogia di Elena Ferrante ma non l’ho ancora cominciata, di solito leggo generi diversi. È bello che Napoli stia vivendo un momento così centrale nella cultura italiana e mondiale, mi auguro che duri ancora tanto e dia più spazio ai giovani di queste terre».
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IL LATO RAP DI NAPOLI - Videoclip di ERIKA FAVARO
L’ASFALTO ROMANO BRUCIA E MAURO RUSSO È AGLI STUDIOS SULLA TIBURTINA PER PREPARARE IL SUO PRIMO FILM. GRAZIE A LUI ENTRIAMO IN CONTATTO CON CLEMENTINO E INSIEME CI RACCONTANO I LORO VIDEOCLIP, DI NAPOLI, DI RECITAZIONE E DELL’IMMAGINARIO HIP HOP.
Clementino è un artista fortemente legato a Napoli, la sua città, e questo è chiaro anche in molti dei video che hai diretto. Come hai raccontato una città così complessa e ricca di stereotipi? Mauro Russo Mi sono avvicinato a Napoli con Clemente, Rocco Hunt, Franco Ricciardi e altri cantanti; è
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Mauro Russo è un regista pugliese appassionato di b movies. Collabora con molti artisti della scena hip hop italiana, attualmente sta lavorando a La vita è una puttana e poi muori, il suo primo lungometraggio.
Clementino è uno dei più noti rapper italiani, il suo ultimo album è Miracolo! (2015) e nei videoclip dà sempre prova di ottime doti attoriali.
grazie a loro che mi sono innamorato di questa città che per me è stupenda. Sono passato attraverso tutti gli stereotipi, abbiamo girato in diverse location cercando di tirare fuori il bello anche dalle cose brutte. In città ad esempio abbiamo girato Quando sono lontano in cui Clementino parla della sua terra, ricorda da dov’è partito. Abbiamo ricreato immagini suggestive partendo dall’idea di “rewind”, con la sua crew che è sempre pronta ad aiutarci. Clementino Con Mauro ho condiviso molte esperienze, collaborato a tanti clip, sia miei da protagonista sia in molti featuring come quelli con Rocco Hunt e Guè Pequeno. Ci troviamo bene caratterialmente, lui riesce sempre a capire lo spirito della canzone, quello che gli chiedo. Nel video di Cos cos cos si ha la sensazione di trovarsi di fronte a un trasformista, un attore vero e proprio. Quanto hanno influito le capacità recitative di Clementino sul vostro lavoro? MR Clemente viene dal teatro, ha lavorato come animatore, la recitazione ce l’ha dentro. È bello fare i video con lui perché qualsiasi cosa tu gli dica lui te la fa meglio. Lavoriamo bene insieme, ci divertiamo e infatti ci sarà anche lui nel cast del mio prossimo film. C Il teatro mi aiuta parecchio durante le riprese, mi ha dato molta presenza scenica e mi ha aiutato nei live per attirare l’attenzione del pubblico. Il video di Cos cos cos è stato girato in teatro a Lecce e lì abbiamo preso alcuni personaggi di Napoli come Pulcinella, San Gennaro, fino a Eduardo, il simbolo del teatro inserito in un contesto rap. Quanta improvvisazione c’è nel vostro lavoro? MR Da parte di Clemente tantissima, ad esempio l’idea di partenza di Cos cos cos è sua, io poi l’ho modificata. Eravamo in teatro, dove c’era anche Marco Palvetti che ormai è un attore noto, ed è stato proprio Clementino a creare i tre personaggi. Come dirigi invece chi non ha basi di recitazione?
MR Succede la maggior parte delle volte; spesso con i musicisti decido di lavorare a un buon playback e ci costruisco una storia attorno con degli attori, in modo che l’artista si limiti a fare quello che gli riesce meglio, ovvero cantare. Il videoclip a cui siete più affezionati? MR Sono legato ad Alto livello. Clemente canta anche con il nome di Iena White e da questo è nato il video in cui abbiamo ripreso il film Voglia di vincere con Michael J. Fox che si trasforma in lupo. Abbiamo seguito alcune scene del film in cui il protagonista gioca a basket, a un certo punto infatti Clementino si trasforma in iena umana e si muove tra varie situazioni e personaggi. Credo sia il video più bello che abbiamo fatto, sono stati tre giorni molto divertenti. C Sono d’accordo. Girare in Puglia il video di Alto livello è stata un’esperienza bellissima e sorprendente, anche perché Mauro ha colto a pieno lo spirito del video che era quello di un rap molto ironico, che oltre a Voglia di vincere richiama Le iene. Quindi il cinema è fonte di ispirazione per i tuoi video? MR Sì, cerco quasi sempre di farmi ispirare dai film e di inserire del cinema nei miei lavori. Il video è solo una palestra a cui mi sono dedicato per arrivare al cinema che credo sia il mio punto d’arrivo. Sono un grande appassionato del genere exploitation, puoi metterli tutti, da Mario Bava a Roger Corman. Questo vuol dire che dirigere videoclip può insegnare a fare cinema… MR Sì, anche perché mi sembra si stia perdendo l’abitudine di girare cortometraggi con cui ci si allenava in passato. Ora i videoclip sono importanti, tutti i gruppi li devono avere, la musica dev’essere per forza legata alle immagini, poi c’è Youtube grazie al quale si possono far circolare. Credi che il web abbia rilanciato il videoclip proprio quando i canali musicali stavano cambiando direzione? MR Io sono nato artisticamente all’inizio di Youtube, quando
non esisteva ancora la monetizzazione. I primi video li ho fatti con i Sud Sound System, poi ho lavorato con un noto rapper leccese, Aban, e da lui sono passato agli altri, ma ancora non c’era la moda del rap. Sono partito facendo dei video in modo amatoriale, non avevo una troupe e guardavo all’America. L’influenza dell’immaginario statunitense si percepisce in diversi video di Clementino, che rapporto hai con il rap d’Oltreoceano? MR Sono partito dai video di The Notorious B.I.G, 2Pac, Cypress Hill e ho lavorato sui temi del basket, della strada e su quegli stereotipi che nel tempo si sono modificati. I clip americani sono diventati più cinematografici, però loro hanno dei budget molto più alti dei nostri, parliamo di differenze abissali. È vero che l’idea conta tanto, ma siamo in un’epoca in cui tutto è già stato visto, quindi il budget a volte può fare la differenza. Ti occupi personalmente del montaggio o preferisci delegare? MR La maggior parte delle volte delego perché, anche se mi piacerebbe, non ho tempo di montare. Il video di Alto livello ha vinto il premio per il miglior montaggio al MEI (Meeting Etichette Indipendenti), ad occuparsene quella volta è stata Dalila Pinesso. L’ultimo di Rocco Hunt invece l’ho montato io. Dicevi che Clementino parteciperà al tuo prossimo film, cosa puoi dire di questo progetto? MR Sono in fase di preparazione, abbiamo ricevuto i fondi dal Ministero per le opere prime; penso gireremo verso fine ottobre. Anche questo film riguarda la musica però non in maniera diretta, si può dire che farà da filo conduttore. Sarà un’opera molto pulp, un genere che è la mia passione. È da un bel po’ che mi porto dietro la sceneggiatura, il titolo è La vita è una puttana e poi muori e ci saranno anche molte cose in stile videoclip, movimenti di camera strani, elementi un po’ alla Snatch, con un’ironia amara.
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- Opera prima -
MINE
WATCH YOUR STEP
La storia di Fabio & Fabio sembra un’incredibile parabola alla Big Fish. Solo che è vera. Fabio Guaglione e Fabio Resinaro si incontrano tra i banchi di scuola nella metà degli anni Novanta, in un liceo scientifico di San Donato Milanese. Vogliono fare il cinema. di TOMMASO RENZONI
È
però subito chiaro che non hanno intenzione di seguire il percorso fenotipico del giovane “cinematografaro”: è il 2004, e loro si mettono in testa di girare un cortometraggio di fantascienza spaziale in 35 millimetri, con scenografie ricostruite in studio e un gran numero di effetti digitali. Eppure solo due anni dopo E:D:E:N è pronto, e sbaraglia la concorrenza ai festival di genere di mezzo mondo. Poi un mediometraggio, insieme a SKY. Poi un altro corto, che li porta al Festival di Sitges nel 2008. Lì però, ancora non lo sanno, in ballo c’è molto più che un premio. In giuria c’è il loro Big Fish, nel senso proprio di un pesce grosso: un producer della 20th Century Fox. E così arriva la telefonata. Fabio e Fabio volano in America, i produttori vogliono fare un film proprio dal loro cortometraggio. È presto chiaro però che la major vuole snaturare il progetto, e i nostri si trovano di fronte al dilemma: Hollywood o le
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proprie idee? Tornano in Italia, back to square one. Realizzano faticosamente un lungometraggio nel 2012, True Love, che in Italia non riesce a uscire nelle sale, e poi hanno l’idea di Mine. Mine racconta la storia di un soldato americano che si trova solo, in territorio straniero, con il piede sopra una mina. Pensando alla vostra carriera, quanto c’è di autobiografico? F.G. [ride] Beh, il film parla dell’importanza di non perdere la determinazione e andare avanti, soprattutto quando sembra che non ci sia nessuna direzione in cui sia meglio andare. Molto, direi! F.R. C’è sempre tanto di autobiografico nei nostri film, anche perché cerchiamo di prendere una situazione che può essere tipica, e guardarla da un punto di vista diverso e personale.
Questo punto di vista personale si sente nel film, anche se vedendolo in anteprima ho avuto più volte l’impressione di trovarmi di fronte a un’opera più mainstream che indipendente, un film “americano”. Voi come lo definireste? F.G. Per noi è assolutamente un film indipendente, a partire dal budget. Senza dare numeri, il film è costato la metà di quanto costa una tipica commedia italiana! Per raggiungere quello standard qualitativo ci siamo occupati di tutto, dalla scrittura agli effetti visivi. Il nostro approccio è quello dei filmmaker, non abbiamo fatto scuole, ci siamo buttati subito imparando sul campo nei quindici anni di esperienza insieme. F.R. Siamo cresciuti in Italia, ma le nostre influenze culturali vengono dal cinema americano e dalla cultura asiatica. Personalmente credo che il nostro film, così come Jeeg Robot, faccia parte di una volontà di rinascita e realizzazione di prodotti competitivi a livello internazionale. Poi che il film si faccia a Hollywood o a San Donato Milanese non ci interessa.
Però a differenza del film di Mainetti, Mine è girato all’estero, in inglese, e con un cast di rilievo tutto americano. F.G. Ci sono storie che hanno bisogno di un certo registro: per quanto mi riguarda, se sto vedendo un film di sci-fi ambientato su un’astronave e il personaggio parla italiano mi sento “espulso” dal film immediatamente. È una questione culturale. Jeeg Robot ha fatto un lavoro splendido, e diverso. E quindi per quale mercato è Mine? F.R. Pensa soltanto che il film uscirà prima in Italia, e solamente nel 2017 nel resto del mondo. Bisogna iniziare a ragionare in maniera diversa, solo non siamo abituati. F.G. Come spesso si sente purtroppo quando si parla di questi nuovi progetti fuori dagli schemi, anche noi abbiamo avuto problemi a trovare un produttore in Italia. Ma perché fermarsi al nostro paese? Siamo andati all’estero perché là c’erano i soldi per fare il film, Peter Safran [il produttore] aveva già realizzato Buried - Sepolto vivo,
«SIAMO CRESCIUTI IN ITALIA, MA LE NOSTRE INFLUENZE CULTURALI VENGONO DAL CINEMA AMERICANO E DALLA CULTURA ASIATICA».
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sapevamo che poteva capire la nostra storia. Lui si è fidato a mandare due esordienti su un’isola in Spagna, con un attore americano, Armie Hammer, che veniva dall’esperienza di The Social Network di David Fincher. Qui non sarebbe successo.
«MINE PARLA DI UN SOLDATO SU UNA MINA, MA ANCHE DI TUTTE QUELLE SITUAZIONI IN CUI CI SIAMO TROVATI BLOCCATI, E ABBIAMO DOVUTO CONFRONTARE LE NOSTRE PAURE. PARLA A TUTTI».
A proposito di fiducia, quanta libertà avete avuto, e come ve la siete guadagnata? F.R. Abbiamo convinto il produttore con le nostre idee, per esempio la sceneggiatura era lunga 94 pagine, meno dello standard americano, eppure avevamo già tutto il film in testa, e sapevamo che alla fine non sarebbe stato corto, anche perché si tratta di un plot difficile, poteva anche annoiare. Se non stanca è stato anche merito di Armie Hammer, che ha retto con il suo magnetismo un film che lo vedeva per gran parte del tempo bloccato su una mina nel deserto. Sul set certe volte rimanevamo incantati mentre lui a fine take improvvisava anche solo con un gesto, che però era sempre perfetto. F.G. E poi alle volte per superare alcuni ostacoli basta farsi furbi. Per esempio nel film si parla della Manovra Shuman, un modo disperato per sfuggire all’esplosione di una mina. Avevamo un consulente ex-marine sul set e pensavamo che avrebbe scoperto che l’avevamo inventata, così siamo andati prima da lui e gli abbiamo detto «la conosci la Manovra Shuman, giusto?», e lui «Sì, certo». F.R. Lo abbiamo spiazzato. Ci ho creduto anche io! Anche per il suo valore simbolico all’interno del film. E devo dire che il vostro è un film carico di simbologie. F.G. È la nostra cifra. Ci piace costruire rimandi e ci fa piacere che anche gli spettatori se ne accorgano. Mine parla di un soldato su una mina, ma anche di tutte quelle situazioni in cui ci siamo trovati bloccati, e abbiamo dovuto confrontare le nostre paure. Parla a tutti. E adesso la domanda classica. Dopo Mine? F.G. In America ci rappresenta un’agenzia, lì funziona che ti mandano i copioni senza il regista e tu scegli, ma non è sempre facile lavorare su un copione di altri… Abbiamo le nostre idee. F.R. Intanto aspettiamo che esca! Mine ci ha rubato la vita dal 2012 più o meno. Abbiamo delle idee, ma prima vogliamo vedere il nostro esordio al cinema.
Il film di Fabio Guaglione e Fabio Resinaro, con Armie Hammer, Tom Cullen, Annabelle Wallis, uscirà il 6 ottobre 2016 in Italia, distribuito dalla Eagle Pictures.
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- Opera prima/2 -
Interamente autoprodotto, il primo lungometraggio di Cappai vanta un cast con nomi come Michele Riondino, Valentina Cervi, Vitaliano Trevisan, Elena Radonicich e Fabrizio Ferracane.
SENZA LASCIARE TRACCIA
IL PASSATO NON È UNA TERRA STRANIERA In un torrido pomeriggio testaccino, Fabrique ha incontrato Gianclaudio Cappai per parlare di Senza lasciare traccia, il suo interessante esordio, in pellicola, dietro la macchina da presa.
di LUCA OTTOCENTO
D
opo un corto vincitore al Festival di Torino del concorso dedicato al cinema breve (Purché lo senta sepolto, 2006) e un’opera di finzione di trenta minuti presentata nella sezione “Corto
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Cortissimo” a Venezia (So che c’è un uomo, 2009), Gianclaudio Cappai lavorava da qualche anno alla realizzazione del suo primo lungometraggio. Senza lasciare traccia conferma il talento per la messa in scena del quarantenne regista
sardo e si avvale di un cast affiatato e di ottimo livello composto da Michele Riondino, Valentina Cervi, Vitaliano Trevisan, Elena Radonicich e Fabrizio Ferracane. Prodotta dalla società fondata nel 2009 dallo stesso regista e
sceneggiatore, Hira Film, l’opera prima è ambientata in una località rurale in provincia di Lodi e affronta i tormenti di un giovane uomo che improvvisamente si ritrova immerso nei meandri del proprio passato.
Tutti i tuoi lavori ruotano attorno a traumi che condizionano pesantemente il presente dei protagonisti. Cos’è che ti interessa in questo tema? In effetti Senza lasciare traccia può essere considerata l’ultima parte di una trilogia che ha come focus proprio quanto hai appena detto. Di sicuro c’è da parte mia l’interesse a indagare il modo in cui la malattia influenza non solo chi ne è affetto, ma anche coloro che gli vivono vicino. Rispetto alle mie due opere precedenti, in questo film ho cercato di focalizzarmi sulla percezione soggettiva del protagonista: Bruno infatti si convince che il suo tumore sia strettamente collegato a un passato traumatico che non ha mai raccontato a nessuno. In fase di scrittura, con la co-sceneggiatrice Lea Tafuri eravamo molto intrigati da questo spunto narrativo, ispirato all’esperienza personale di una nostra amica. Era necessario però inserirlo all’interno di una drammaturgia di finzione e così abbiamo cercato di sviluppare un percorso a ritroso nel passato di Bruno, come fosse una sorta di viaggio esistenziale nell’arco di una sola giornata. Proprio a proposito della struttura del film, alcuni passaggi tra le dimensioni del passato e del presente sono molto suggestivi. Era già tutto preventivato in fase di scrittura? In questo contesto la fase di
montaggio è stata fondamentale. In sceneggiatura i flashback erano molto più descrittivi e carichi di informazioni sul passato (era molto più chiaro il rapporto di inquietante complicità tra la bambina e il fuochista, così come il passato di Vera e del padre) e si concentravano nella parte iniziale. Al montaggio poi li abbiamo asciugati e frammentati lungo tutto l’arco del film. Il racconto più dettagliato del passato aveva certamente i suoi punti di forza, ma toglieva mistero ai personaggi ed efficacia allo sviluppo narrativo in termini di coinvolgimento emotivo. Così con Lea e il montatore Alessio Doglione abbiamo scelto di andare in questa direzione confidando nel fatto che sarebbe stato il pubblico, seguendo il percorso di Bruno, a mettere a posto i vari tasselli del puzzle. In tal modo credo che il film sia divenuto più enigmatico, rarefatto e interessante. Sul piano visivo Senza lasciare traccia ha l’indubbia capacità di creare una costante atmosfera di tensione. Come hai lavorato sulla messa in scena e a che tipo di estetica cinematografica ti sei ispirato? Visivamente ero alla ricerca di qualcosa che mi ricordasse la New Hollywood degli anni Settanta. Il mio punto di riferimento era il cinema
di registi come Robert Altman o Michael Cimino. Alcuni tra i loro primi lavori – per Altman penso soprattutto a Images, Il lungo addio e Tre donne – presentano storie molto potenti che fanno leva su una notevole messa in scena, rigorosa ma allo stesso tempo fluida, mobile e soprattutto furtiva. Da questi film per esempio abbiamo preso l’attitudine all’utilizzo di focali lunghissime per le riprese. Adottando uno stile del genere volevo affinare ed esplorare in maggiore profondità una serie di scelte espressive cui avevo già fatto ricorso nei miei precedenti lavori. Sei riuscito a produrre il film con la tua società, senza l’aiuto di altri produttori… Dopo aver rinunciato ad alcuni progetti più costosi a causa del mancato accordo con dei produttori, per questo film avevamo dei punti su cui non transigevamo e che sapevamo avrebbero infastidito i nostri interlocutori: girare fuori Roma per sfruttare le location più adatte, realizzare il film in 16 mm e in non meno di sei settimane. Di conseguenza, occuparci della produzione è divenuta l’unica via ed è stato possibile grazie a finanziamenti provenienti dalla Regione Lombardia e da altri bandi. Trovare i soldi è stato senz’altro complicato, ma in questi casi non è da sottovalutare neppure la difficoltà nell’individuare
un arco di tempo in cui il cast artistico su cui si vuole puntare sia disponibile. Può forse sembrare assurdo, ma spesso i film slittano e poi non si fanno più proprio per questo motivo. Appena abbiamo potuto contare sulla disponibilità di tutti gli attori principali siamo partiti con la preparazione del film, anche se avevamo a disposizione meno della metà del budget necessario. Durante la preparazione poi abbiamo continuato parallelamente la ricerca dei fondi. Alla fine è andato tutto bene e questo doppio binario ha funzionato in maniera perfetta. Hai già in mente quale sarà il tuo prossimo film? In questi mesi sono ancora impegnato ad accompagnare Senza lasciare traccia in tutte le città in cui viene richiesto. Per ora non riesco a isolarmi per mettermi al lavoro su un nuovo progetto, ma dopo l’estate c’è tutta l’intenzione di farlo. Ho comunque già iniziato a pensare a degli spunti che potrebbero diventare un argomento di discussione con altri sceneggiatori e, in particolare, ho individuato un tema che mi attrae moltissimo. Rispetto all’esperienza fatta con il mio primo lungometraggio vorrei però trovare qualcuno che sostenga il progetto fin dall’inizio. Scrivere un soggetto e una sceneggiatura senza avere già alle spalle un produttore, infatti, crea poi difficoltà inaudite nel far partire la realizzazione del film.
«VISIVAMENTE ERO ALLA RICERCA DI QUALCOSA CHE MI RICORDASSE LA NEW HOLLYWOOD DEGLI ANNI SETTANTA. IL MIO PUNTO DI RIFERIMENTO ERA IL CINEMA DI REGISTI COME ROBERT ALTMAN O MICHAEL CIMINO».
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- Tavola rotonda -
L’APPUNTAMENTO CON LA TAVOLA ROTONDA ALLA FESTA NUMERO 14 DI FABRIQUE CI PORTA A SCOPRIRE I SEGRETI DELLA SALA DI MONTAGGIO di GIACOMO LAMBORIZIO foto BRUNELLA IORIO
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omini e donne nel buio della sala di montaggio, il regista e il montatore finalmente soli, lavorano per dare forma al film. Un po’ critici, un po’ ostetriche, molto psicologi, davvero autori, loro sono i montatori. Nella tavola rotonda, organizzata in collaborazione con AMC (Associazione Montatori Cinematografici e televisivi italiani), che ha aperto la festa per il quattordicesimo numero di Fabrique du Cinéma all’Ex Dogana, i protagonisti sono tre professionisti che hanno lavorato ad alcuni dei film più amati della stagione, intervistati da Akim Zejjari di SkyCinema: Consuelo Catucci, montatrice di Perfetti sconosciuti di Paolo Genovese; Gianni Vezzosi per Veloce come il vento di Matteo Rovere; Giuseppe Trepiccione per Fiore di Claudio Giovannesi.
Il 7 luglio, alla tavola rotonda di Fabrique, montatori e film a confronto per parlare del presente e del futuro del cinema italiano, dal punto di vista dell’editing.
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“
Si parte dal titolo, Tagli d’autore: è giusto definirsi autori?
Passiamo un sacco di tempo in una stanza buia a farci un milione di domande e come tutti gli altri tecnici siamo autori per la porzione che ci riguarda
”
dice Consuelo Catucci, perché il compito è quello di «cercare di scegliere del materiale che valorizzi le scelte autoriali di tutti i reparti» si accoda Gianni Vezzosi. Perché montare assomiglia a scrivere, come racconta Giuseppe Trepiccione, «trovo delle similitudini enormi tra il rapporto che c’è tra un regista e uno sceneggiatore e quello che il regista ha con il montatore». Tre film diversissimi, tre modi di lavorare con il materiale di partenza. Il campione ci permette di entrare nel cuore del processo creativo. Perfetti sconosciuti è un film fortemente incentrato sulla scrittura e Consuelo Catucci ricorda di avere avuto «la possibilità di lavorare su un film
Da sinistra: Gianni Vezzosi, Consuelo Catucci, Giuseppe Trepiccione e Akim Zejjari.
girato in sequenza e potevo vedere crescere con me la storia e i personaggi. Avevo il problema di dover sacrificare tanto ottimo materiale, essere sicura di raccogliere il meglio. Devi porti nella posizione del pubblico, immaginare quando hai bisogno di vedere un primo piano o una reazione o un’inquadratura di insieme. C’è uno scollamento tra come ti immagini il copione e quello che diventa man mano che si gira, come l’attore e il regista creano il personaggio cambiando le tue aspettative». Un processo confermato dal racconto di Paolo Genovese, gradito ospite fuori programma: «Diventa una risorsa osservare come un’altra persona vede il tuo film, come costruisce la scena, che tipo di regia avrebbe scelto, trovi prospettive più interessanti di quel che avevi». Veloce come il vento proponeva un materiale di due tipi completamente diversi. Vezzosi: «La macchina del film era realmente iscritta alle gare, correva per vincere, non per fare quello che c’era sulla sceneggiatura. Avevo un approccio per la fiction e uno per le gare. Per quest’ultime mi sono dovuto scollare dalla sceneggiatura, che diventava un canovaccio. Non c’era scritto che si poteva trovare per esempio un incidente che sarebbe stato utile da sfruttare narrativamente. Eravamo un po’ schiavi, in senso buono, del materiale».
Fiore è opera di un autore estremamente legato all’approccio documentaristico, girato con attori non professionisti: «È stato girato in sequenza, spiega Trepiccione, con unità di luogo. Film così possono essere fatti solo in questo modo, perché i non professionisti raggiungono vertici altissimi di realismo e bellezza, ma allo stesso tempo non tengono sotto controllo la costruzione e la crescita del personaggio. Hanno la necessità di sentire che il personaggio matura dentro di loro. Avevo la possibilità di intervenire mentre stavano girando, per correggere il tiro, farsi sorprendere. È importante non aspettarsi nulla dal materiale, bisogna interiorizzare la storia e dimenticarsela, lasciare che le immagini ti raccontino la storia che hanno dentro». Il montatore cambia assieme al suo film? Ci sono approcci diversi per generi diversi? «Un montatore deve saper sparire dentro la storia che si sta raccontando. Se riesci a metterti al suo servizio riemergi attraverso la scelta del materiale. Chi sei ha a che fare con il modo in cui scegli un ciak piuttosto che un altro. Per questo bisognerebbe cambiare il più possibile, per crescere», chiarisce Giuseppe Trepiccione. La coppia con il regista necessita di alchimie delicate e sottili, perché «ogni regista ha un approccio ossessivo verso il film, e il montatore deve aiutarlo, quasi come uno psicoterapeuta, perché il rischio di rovinare il film c’è veramente e devi avere una controparte che sappia calmare le tue nevrosi» racconta Paolo Genovese. Tutti concordano sulla loro fortuna a lavorare con registi capaci di dare libertà e stimoli al loro lavoro anche se gli scontri, secondo Giuseppe Trepiccione, non sono per forza un male: «cerchiamo di combaciare, ma lo scontro in moviola è fecondo, creativo, può portare a una soluzione cui non avresti mai immaginato da solo». Allora quale caratteristica deve avere il montatore perfetto? Dove sta il segreto di quest’arte? «Devi dimostrare al regista che non sei unidirezionale, che contempli più possibilità, che sei malleabile e sai adeguarti» per Gianni Vezzosi, mentre Giuseppe Trepiccione indica «il senso della storia. Avere la capacità di interiorizzare ciò che stai raccontando, sentirlo, farlo tuo». Soprattutto, «altissimo spirito critico verso il proprio lavoro, devi amarlo ma sapere riconoscere quel che non funziona o non serve, pur vivendo con qualcosa che ti cresce davanti» conclude Consuelo Catucci. Amore e spirito critico, voglia di confrontarsi e senso del compromesso, capacità di guardare e di scoprire. Serve tutto questo, perché il montaggio, come ammonisce Paolo Genovese, «arriva alla fine di un processo difficile, il film c’è e devi tirarlo fuori, e puoi sbagliare. La scrittura e il set hanno un tempo finito, il montaggio è sempre migliorabile, deve arrivare qualcuno da fuori a darti lo stop. Le possibilità di sbagliare qui sono più alte che in tutte le altre fasi di lavorazione, puoi sempre far meglio».
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- Nazione Web -
d’amore e d’arte
“Vissi d’arte, vissi d’amore”, cantava la Tosca di Puccini. E la serialità per il web si reinventa attraverso due progetti che li raccontano entrambi nell’era dell’online e della crisi. di CHIARA CARNÀ
R
oma. Giulia (Elena Radonicich), laureata con lode in sociologia, lavora come barista in un pub. In seguito a un rapporto occasionale, rimane incinta di Michele (Valerio Di Benedetto),
sfaticato trentenne che vive con i suoi e cambia lavori come fossero calzini. In quella che sembra
una potenziale catastrofe, Giulia trova inaspettatamente l’opportunità, presso l’Università Cattolica, per avviare il suo progetto di tesi... a patto che dimostri di avere una famiglia. Michele, messo alla porta dai genitori, accetta di trasferirsi dalla ragazza e fingere di esserne il marito. L’amore ai tempi del precariato, diretta da Michele Bertini
Malgarini, è la webserie in cinque puntate prodotta dalla The Young Films di Carla Altieri e Roberto de Paulis. Giuseppe Mele, organizzatore generale, racconta che tutto è cominciato da un laboratorio per nuovi progetti web organizzato dal Premio Solinas: «Il soggetto di Michele ha partecipato e, con l’aiuto della Young Films, nel 2014 è stato girato il teaser, ottenendo poi un piccolo finanziamento dalla RAI. Si tratta di un tipo di commedia inedito per il panorama italiano, che si ispira a pellicole americane di successo come SuXbad o alle commedie
romantiche con Cameron Diaz. La novità sta nel raccontare l’amore come un posto precario, un progetto che ha un inizio e una fine. A mischiare le carte in tavola, inoltre, c’è il ritorno di Elisa (Daniela Virgilio), nuovo capo di Michele nonché ex fiamma mai davvero dimenticata». Una narrazione serrata, un montaggio dinamico e insolite trovate registiche sono i punti di forza di una storia che conquisterà la curiosità del pubblico: «La vicenda di Giulia e Michele piacerà per la sua ironia e freschezza. Il
segreto della sua riuscita
La prima stagione, con Elena Radonicich, Valerio Di Benedetto e Daniela Virgilio, è online sul sito web della RAI.
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è la solida e costruttiva collaborazione del regista con tutti i reparti. Dalla realizzazione del teaser si è creato un gruppo di lavoro molto coeso fatto di giovani tra i 20 e i 28 anni. C’erano pochi fondi, compensati però da una grandissima creatività, e tanti attori da coordinare. Il lavoro di squadra ha aiutato a rientrare nel budget e a dare energia al set. La troupe aveva mezzi minimi, eppure, grazie al talento, ha dato alla serie un’impronta personale e uno stile. Il merito va, tra gli altri, alla costumista Ginevra De Carolis, al direttore della fotografia Fabio Paolucci, alla scenografa Serena Agneti, alla make up artist Alice Gentili. Chi ha realizzato L’amore ai tempi del precariato si è formato
Fabbrica, nata come tesi di laurea di tredici studenti, sarà presentata in anteprima ufficiale al prossimo Roma Web Fest.
nel mondo del cinema e ha saputo offrire una nuova chiave di lettura, dalle inquadrature al montaggio». Perché scegliere di investire in un format come la webserie? «Il nome della casa di produzione la dice lunga: crede nei progetti giovani e cerca nomi emergenti. La webserie è il futuro: pensiamo al lavoro di piattaforme come Netflix o HBO, che danno spazio a cinema e serie in maniera innovativa. Con internet si arriva dappertutto e in Italia dobbiamo tenerci al passo, puntando a una comunicazione veloce e pratica». Max Giovagnoli, coordinatore dell’Area Cinema e New Media dello IED di Roma, ha condiviso con noi i dettagli su Fabbrica, docufiction dedicata al mondo degli artisti teatrali, di cui è direttore creativo: «È
la prima webserie dello IED. Il nome viene dallo Young Artist Program del Teatro dell’Opera di Roma, riservato a venti artisti provenienti da tutto il mondo. La tentazione di mettere una macchina da presa nei loro occhi è stata, da parte nostra, fortissima. In più, in passato ho fatto parte del corpo di ballo del Teatro e conoscevo bene la magia nascosta dietro le quinte. Da lì è nata la proposta alla Fondazione, che ha risposto con entusiasmo. Lo stesso mostrato dal neodirettore di IED Roma, Nerina Di Nunzio, e dai tredici studenti di Video Design, Sound Design e Media Design che hanno seguito i protagonisti tutti i giorni, per sei mesi di riprese, diventati sette episodi da sei minuti ciascuno. L’opera lirica è universale, come il web, e Fabbrica è stata preceduta
da sei mesi di “pillole” distribuite online sui canali social del Teatro. È stata una palestra importante per conoscere il suo pubblico futuro, molto più giovane di quanto pensassimo. Nonostante non ci sia nulla di sceneggiato (a parte la voce narrante in testa e coda), la serie racconta momenti e questioni determinanti per qualunque artista: l’uso del tempo, il valore del sacrificio, la fortuna di possedere un talento e allo stesso tempo il timore di sprecarlo o di fallire... Si passa da un’emozione all’altra senza filtri. Come in ogni docuserie, non avevamo “attori”, ma artisti riservati e bisognosi di grande concentrazione. In altri momenti, abbiamo girato in magazzini giganteschi, con decine di operai intenti a segare, piallare e a costruire scenografie che avrebbero dovuto essere usate sul palco la sera stessa. Il piano di produzione ha seguito, allo stesso tempo, le masterclass degli studenti e gli spettacoli in cartellone, le trasferte e le
produzioni... tutto in tempo reale. Non solo gli artisti di Fabbrica sono diventati ottimi professionisti, in questi mesi, ma anche i giovani diplomati che hanno lavorato alla serie. Sono loro il piccolo miracolo di questa produzione e hanno dato al progetto tutto l’amore possibile». La serialità worldwide è un focolaio inesauribile di storie, linguaggi e progetti. Come collocare Fabbrica al suo interno? «La serie sperimenta inquadrature antitelevisive e colleziona dettagli, raccontando la magia del palcoscenico in maniera completamente nuova. Il web ha dato a Fabbrica tutta la libertà di cui aveva bisogno e riceverà in cambio un prodotto unico che, grazie all’Opera di Roma, girerà tra i teatri più importanti d’Europa. E magari darà vita ad altri progetti di questo tipo: confrontarsi con modi originali di raccontare l’arte è una delle opportunità più ispiranti per un narratore d’immagini».
«LA SERIE RACCONTA QUESTIONI DETERMINANTI PER QUALUNQUE ARTISTA: L’USO DEL TEMPO, IL VALORE DEL SACRIFICIO, LA FORTUNA DI POSSEDERE UN TALENTO E ALLO STESSO TEMPO IL TIMORE DI SPRECARLO O DI FALLIRE».
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- Futures -
IL
MESTIERE DI VIVERE di TIZIANA MORGANTI foto GIUSEPPE CARCHEDI, LAURA MASCARO
Con l’ultimo corto Al giorno d’oggi il lavoro te lo devi inventare, Mario Vitale continua il suo discorso sull’uomo e il coraggio iniziato con Il tuffo. In entrambi i film il regista racconta la necessità di mettersi in gioco, affrontando la vita in prima persona. 32
«NON BISOGNA LASCIARE CHE LE COSE CI PASSINO DAVANTI, MA TROVARE UN MODO ATTIVO PER PARTECIPARE ALLA VITA».
È
un dato di fatto che, per far prendere forma agli eventi, è necessario tentare e prendersi tutti i rischi del caso. Ovviamente il processo non è semplice e richiede una giusta dose di coraggio ma, come dice un vecchio proverbio, la fortuna aiuta gli audaci. Una filosofia popolare, questa, che è stata abbracciata senza molti tentennamenti da Mario Vitale, convinto di poter dare forma al suo cinema nonostante le difficoltà economiche affrontate da un’autoproduzione. Se poi questa ha le sue radici nella terra di Calabria, la strada è ancora più in salita. Nonostante questo, però, Vitale si è già fatto notare grazie a dei corti diretti con un gusto essenziale eppure simbolico delle immagini in cui gli spettatori sono invitati a immergersi in prima persona. Un esempio, particolarmente apprezzato dalla critica, è rappresentato da Il tuffo, prima esperienza dietro la macchina da presa, in cui il regista costruisce una vera e propria ode moderna sull’eccitazione mista a paura che accompagna la coraggiosa immersione nella vita. Così, dopo essersi fatto notare al Mediterraneo Festival Corto 2014 e aver vinto il premio Talenti di Calabria, il regista si è cimentato in una seconda produzione tutta ambientata ancora in Calabria. Si tratta del corto Al giorno d’oggi il lavoro te lo devi inventare, scritto a quattro mani con lo sceneggiatore Francesco Governa. Qui il regista abbandona le ambientazioni interne per offrire agli scorci della sua terra di origine l’opportunità di accompagnare i personaggi nell’adattamento a una vita diversa da quella sognata. Le
molte parole, che determinano il ritmo e le atmosfere del primo corto, qui lasciano spazio ai silenzi e alle riflessioni interiori che si esprimono nel fare più che nel dire. Il titolo del tuo ultimo corto mette in evidenza la realtà della crisi degli ultimi anni. La necessità di doversi inventare un ruolo e un’occupazione, quali cambiamenti ha portato nel comportamento delle persone? Dal mio punto di vista, pur trattandosi di una situazione difficile, non ha fatto altro che stimolare l’inventiva del singolo: molte persone sono state spinte a darsi da fare con maggiore intensità, spesso facendo leva proprio sulla fantasia. Il che non significa affrontare una professione senza avere la preparazione e le capacità per farlo, ma trovare un modo per realizzare i propri propositi nonostante le difficoltà. In questo senso il corto, prendendo in prestito una frase che sentiamo ripetere un po’ ovunque, si è trasformato in un’occasione per trovare nuove vie e nuovi stimoli. In sintesi, sono convinto che non bisogna sedersi, lasciando che le cose ci passino davanti. Piuttosto bisogna trovare un modo attivo per partecipare alla vita. Il rapporto tra l’uomo e la vita è al centro anche de Il tuffo. Che legame esiste tra i due corti? Ho iniziato il mio discorso proprio con Il tuffo, dove volevo raccontare la necessità di immergersi nell’esistenza e vivere da protagonisti senza lasciarsi
bloccare dalla paura di fallire. Con Al giorno d’oggi, invece, volevo capire cosa poteva succedere una volta entrati in gioco. Inoltre, a legare i due corti c’è la tematica del lavoro che, però, è tutto sommato casuale. In realtà non ho mai avuto intenzione di realizzare corti impegnati dal punto di vista civile, visto che non considero quel tipo di cinema nelle mie corde. Tutto nasce da una visione secondo la quale la vita è un po’ come un lavoro che ci viene assegnato e che dobbiamo svolgere con l’impegno di godere pienamente di tutta la bellezza e di prendere a piene mani ciò che ci viene dato. Al centro del tuo ultimo lavoro ci sono due personaggi con vite profondamente diverse che viaggiano in parallelo. Entrambi sono costretti a mettersi a confronto con una realtà diversa da quella sperata traendo risultati opposti, secondo l’impegno e, soprattutto, il valore personale. Quali aspetti dell’uomo moderno raccontano? Il personaggio del falegname rappresenta la metafora dell’artista che, viste le difficoltà del momento, deve adattarsi a situazioni lontane dalla creatività pura. Chi ha la mia età, ad esempio, e vuole diventare regista, si scontra spesso con delle situazioni lavorative che hanno poco a che fare con questo mestiere. Allo stesso tempo, però, possono essere un’opportunità per arrivare a quel sogno. Il mio personaggio, dunque, sfrutta un lavoro manuale per dare voce
alla sua arte, offrendo comunque il meglio di sé. Un altro elemento che unisce il personaggio dell’artista e quello senza scrupoli di Umberto è il dialogo continuo con il ricordo del padre. Quanto pesa l’eredità del passato sulle nuove generazioni? La nostra generazione, nel bene e nel male, vive in un mondo fatto dai nostri padri. Partendo da questo legame, i due personaggi mostrano modi diversi in cui possono essere affrontati gli eventi della vita. Ad esempio, c’è chi, come Umberto e suo padre prima di lui, ha la necessità di accumulare oggetti preziosi, simbolo di un mondo materiale che nulla ha a che fare con l’intimità e i sentimenti. Il falegname, invece, accarezza il legno con delicatezza, dandogli nuova forma e vita. Questi due uomini così diversi viaggiano in parallelo senza incontrarsi mai. Solo alla fine qualche cosa può farci pensare che ci sia un legame, anche se fugace e casuale. Non ho volutamente intrecciato le due vicende a livello di trama. Dal mio punto di vista il loro semplice accostamento fa nascere un legame. Questa scelta, in particolare, nasce dal fatto di essere sempre stato affascinato da film in grado di generare delle domande nello spettatore con lo svolgersi degli accadimenti. Non ho mai amato i film che forniscono troppe spiegazioni, anzi, li trovo quasi un insulto all’intelligenza. Preferisco piuttosto quelli che, dopo aver messo le carte in tavola, ti chiedono di trovare da solo una soluzione. E, in alcuni casi, presuppongono anche che ce ne possa essere più di una.
Giovanni (Francesco Aiello), Umberto (Fabrizio Ferracane), Adele (Sara Andreoli) sono i tre personaggi al centro dell’ultimo corto di Mario Vitale.
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- Teatro -
ROMA OFF di ELENA CIRIONI foto MANUELA GIUSTO
Il Teatro dell’Orologio, nel centro storico di Roma, è uno dei palcoscenici più vivi della città, fucina di nuovi linguaggi drammaturgici e centro di formazione per attori e professionisti della scena.
D
al 2012 Fabio Morgan ha preso le redini della direzione artistica, inaugurando un nuovo periodo per il teatro, che nelle sue due prime stagioni è diventato il punto di riferimento per la scena romana off. Abbiamo parlato di questa nuova avventura con Gianni Parrella e Gianluca Cheli, organizzatori della comunicazione e della promozione delle attività. Come inizia la vostra avventura al Teatro dell’Orologio? Fabio Morgan è arrivato nel 2012 e ha unificato le diverse sale del teatro. Il primo progetto nato con la nuova direzione è stato Aldo Morto 54, una performance che ha messo in scena la prigionia di Aldo Moro: l’attore protagonista Daniele Timpano è rimasto 54 giorni, la durata della prigionia di Moro, chiuso nel teatro. Poi abbiamo ideato altri progetti legati alla scena
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contemporanea. Insieme a Luca Ricci nasce Nex Work, una serie di corti teatrali, anteprime di nuove produzioni. Da questa esperienza si sviluppa Dominio Pubblico, un festival dedicato al teatro, alla danza, alla musica e alle arti visive che coinvolge i giovani. Prende così forma la prima stagione del nuovo Teatro dell’Orologio, What’s the Time, a cui segue una seconda, Cambiamento reale, e a settembre una terza, che ha come obiettivo quello di ridare all’Orologio la sua identità progettuale di fucina di sperimentazioni e trampolino di lancio per le nuove compagnie. Dal vostro punto di vista, quali sono i maggiori ostacoli da affrontare? Il problema è la struttura del sistema teatrale italiano, dove hanno spazio solamente i teatri nazionali, mancano i link di passaggio tra le strutture, presenti solamente da un punto di vista informale ma non giuridico. Si tende a lavorare solo tra piccoli o tra grandi e questo è un grave danno soprattutto per gli artisti, che in questa maniera non hanno la possibilità di crescere. Comunque l’Orologio mantiene la sua natura di promozione delle giovani compagnie anche under
30, dando spazio alle nuove drammaturgie italiane ed estere, inglesi, francesi e spagnole. Il nostro obiettivo in questi anni è stato quello di mettere a sistema una modalità di filiera, ed è stato molto più facile farlo con spazi fuori da Roma. Perché? A Roma se sei un teatro off immediatamente diventi il concorrente di altre strutture affermate, non c’è un substrato di collaborazione. Ed è paradossale perché una realtà come quella dell’Orologio non può far concorrenza a teatri più grandi, come per esempio l’India, anche solamente dal punto di vista delle risorse. La nostra speranza è quella di diventare un luogo dove le giovani compagnie possano crescere, sia dal punto di vista artistico sia produttivo, un trampolino che poi porti queste iniziative in altri spazi più grandi.
sbizzarrirmi. Di norma la comunicazione teatrale è molto autoreferenziale, invece per uno spazio scenico come questo, date le sue peculiarità e le sue caratteristiche, è necessario farla “deragliare”. Per le nostre campagne non abbiamo avuto paura di essere pop, inteso non nel senso di nazional popolare, ma come stile che ha una sottile ironia e non svaluta il contenuto che viene presentato. I feedback sono stati positivi e quindi ci siamo convinti che questa sia la strada giusta da prendere. Come scegliete gli spettacoli? Arrivano moltissime richieste e gran parte del nostro lavoro è proprio quello di andare nelle sale e valutare gli spettacoli. Poi ci sono degli artisti e delle compagnie che seguiamo con particolare attenzione, come Fibre Parallele ed Eco di Fondo. Con Eco è nata una bella collaborazione, che quest’anno ha portato in teatro lo spettacolo di César Brie Orfeo ed Euridice e l’anno prossimo probabilmente altri progetti. Eco di Fondo è stata fondata da Giacomo Ferraù e Giulia Viana, diplomati all’Accademia dei Filodrammatici di Milano nel 2007, che si occupa di teatro di prosa e di diversi progetti relativi al teatro per ragazzi.
«FUCINA DI SPERIMENTAZIONI E TRAMPOLINO DI LANCIO».
La vostra comunicazione è fuori dagli schemi. Gianluca, come nasce l’esigenza di dare al teatro questo tipo di promozione? Lavoro per diversi altri committenti del mondo teatrale e soltanto con l’Orologio ho avuto la possibilità di
A colloquio con
Cristiano Corazzari Assessore Cultura e Spettacolo Regione del Veneto
La Regione del Veneto alla 73a Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. Qual è il valore di questa presenza?
La nostra è una presenza che conferma un impegno preciso dedicato allo sviluppo del sistema veneto del cinema. Il Veneto e Venezia sono location di straordinaria bellezza che ospitano la Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica, vetrina d’eccezione per promuovere il territorio, e occasione privilegiata per valorizzare le esperienze e le potenzialità cinematografiche che questi luoghi sanno esprimere. La Regione del Veneto quindi, oltre a essere socia della Fondazione La Biennale di Venezia, di cui condivide i contenuti programmatici e il carattere culturale internazionale che le è riconosciuto da più di un secolo, ha ideato, nel contesto della Mostra del Cinema, uno “Spazio Regione del Veneto” all’Hotel Excelsior del Lido, per ospitare un originale programma d’iniziative volto a valorizzare il nostro territorio, le Film Commission locali, le case di produzione, registi, attrici e attori, maestranze, e iniziative connesse al cinema. Uno spazio che ci piacerebbe fosse conosciuto sempre di più dal pubblico della Mostra ma anche da tutti i cittadini del Veneto, e in particolare dai giovani. Rivolgo un invito quindi a partecipare agli eventi in programma e anche a vivere l’atmosfera della Mostra del Cinema. Si tratta inoltre di un appuntamento al quale facciamo seguire nei mesi successivi alla Mostra, in collaborazione con Agis Triveneto, una circuitazione nel territorio per alimentare il dibattito culturale con una rassegna qualificata e un’offerta culturale di alto livello.
Il cinema è uno straordinario strumento di cultura ma anche di turismo e produzione economica. Quale è il rapporto tra imprese, cinema e Regione del Veneto?
In questo ultimo periodo si è consolidato e sono stati approfonditi aspetti e peculiarità del rapporto che legano il cinema, l’economia e il territorio tra la Regione e le imprese, in particolare con protocolli di lavoro con Unioncamere del Veneto e Confindustria Veneto. Con gli imprenditori ci sono stati, e proseguiranno, incontri dedicati al tema dell’investimento a sostegno della produzione cinematografica. Il cinema è un’opportunità per la promozione del territorio dell’identità di una impresa con i suoi prodotti e marchi e agli imprenditori sono stati illustrati i vantaggi previsti dalla normativa fiscale in materia di tax credit e le potenzialità del product placement quale strumento di comunicazione. Ritengo che il product placement possa essere un vero ponte che collega la produzione cinematografiche e le imprese.
Il cinema è inoltre occasione per promuovere il patrimonio culturale e paesaggistico del Veneto. In una regione come la nostra, tra le più visitate di tutta Italia ed Europa, che nel 2015 ha visto superare l’ennesimo record, quello degli arrivi – oltre 17 milioni di turisti con più di 63.232.000 circa presenze - la realizzazione di una produzione cinematografica o audiovisiva, per esempio, rappresenta oltre a un fatto culturale anche una importante occasione di promozione in grado di determinare effetti economici positivi e ricadute sia sul piano professionale che su quello della valorizzazione del territorio. Tutta la filiera del cinema, quindi, può efficacemente contribuire a creare quel turismo culturale diffuso che rappresenta per la Regione un obiettivo da perseguire.
Ci può indicare alcune nuove azioni di governo del Veneto nel settore cinema?
Stiamo lavorando ad una legge quadro in materia di cultura. Sono 30 anni che le normative di settore non vengono aggiornate e questa occasione ci permetterà di abrogare oltre 20 leggi regionali. Dico questo perché è evidente che nel tempo che viviamo vi è la necessità di una revisione normative e anche di nuovi modelli organizzativi. In questo senso per esempio penso anche alle Film commission, soggetti che facilitano il lavoro delle produzioni televisive, cinematografiche, pubblicitarie per la realizzazione di film, fiction, spot, video clip, documentari, servizi fotografici nel territorio. Da un confronto, è emersa la necessità di sviluppare un nuovo modello organizzativo di Film Commission Veneta che, con il coordinamento della Regione e con il supporto operativo di Unioncamere, di Confindustria Veneto e dei soggetti che fino a ora hanno operato a favore delle attività del cinema, sia in grado di produrre nuovi modelli di produzione cinematografica e di superare quindi anche le lungaggini amministrative che vincolano le istituzioni. Due gli obiettivi principali da raggiungere: razionalizzare e riorganizzare l’esistente, puntando soprattutto sulla creazione di un network di imprese sensibili al settore del cinema e valorizzare il paesaggio naturalistico e culturale in chiave di attrattività per produzioni filmiche in Veneto (pensando anche a pacchetti di facilities dedicati). Ricordo anche l’inserimento di interventi riferiti al settore dell’imprenditoria cultuale nei bandi che riguardano le possibilità di finanziamento offerte dal POR FESR dedicato alla nascita di nuove imprese culturali e consolidamento delle esistenti. Fino al 2020 saranno stanziati 11 milioni di euro e per il Veneto in ambito culturale sono una novità assoluta e che auspico abbiano una effettiva ricaduta in termini economici ed occupazionali, anche nel settore cinema.
www.regione.veneto.it
publiredazionale
- Mestieri -
LA
STOFFA GIUSTA
Lo stile del film è il suo mestiere e la curiosità è fondamentale. Alla scoperta del mondo del costumista, tra tessuti, colori e ricerca. a cura di CHIARA CARNÀ foto PAOLO PALMIERI ringraziamo la sartoria IL COSTUME DI ALESSIO RIGIDO
L
e gonne a vita alta di Audrey Hepburn in Vacanze romane, il tubino di infradito indossato da Hugo Weaving in Priscilla, la regina del deserto, la giacca di pelle di John Travolta in Grease. L’abito non fa il monaco... però, non di rado, fa il film! Innegabile, infatti, che tra gli aspetti che più affascinano lo spettatore ci sia la particolarità dei vestiti sfoggiati dai protagonisti sul grande schermo. Il mestiere del costumista, preciso ma imprevedibile fabbricante di creatività e di estetica, non consiste tuttavia solo nella scelta di stoffe e sfumature. Fulcro del processo creativo e instancabile fonte di pro-
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poste e soluzioni, ha il compito di accompagnare ogni personaggio nel delicato e fondamentale percorso dallo script al set, conferendogli – attraverso indumenti curati nel dettaglio - concretezza, carattere e spessore. Una bella responsabilità, che richiede cultura approfondita (si pensi ai film in costume), spirito d’osservazione e assoluta precisione. Quanti ruoli cinematografici potremmo citare divenuti indiscusse icone grazie alla riconoscibilità ma, al tempo stesso, originalità del proprio look? L’Italia, in questo settore, vanta un curriculum letteralmente da Oscar, grazie a nomi come Milena Canonero (vincitrice di ben tre statuette), Gabriella Pescucci o Danilo Donati.
SARA D’ANGELO 30 anni IL CANDIDATO 2NIGHT di Ivan Silvestrini
«Un bravo costumista non deve porre limiti alla sua fantasia».
Nel 2011 un giovane regista, alle prese con la sua prima webserie, mi propose di curare i costumi. Io accettai e, da quel momento, mi si sono aperte le porte di una realtà lavorativa assolutamente affascinante. In seguito, ho frequentato un corso di alta formazione al Politecnico di Milano: uno studio mirato, unito alle esperienze sul campo, alla passione e all’attitudine, è il cammino da intraprendere per fare il mio lavoro, ma io l’ho percorso al contrario! Un bravo costumista non deve porre limiti alla sua fantasia, che si nutre di una conoscenza approfondita della storia, delle abitudini sociali, dei costumi e, allo stesso tempo, anche del presente, da cui trae continuamente spunto. Deve anche riuscire a far comunicare l’estetica dei personaggi con le scelte scenografiche, senza trascurare nessun dettaglio e fornendo nuovi spunti. L’aspetto più coinvolgente è la fase della ricerca, ma le sfide sono tante: quella più ardita è di presentare un progetto che superi le aspettative del regista, precedendolo nelle intuizioni, suggerendogli spunti nuovi e conquistando la sua totale fiducia.
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CAMILLA GIULIANI
31 anni PERFETTI SCONOSCIUTI di Paolo Genovese Ho sempre avuto la passione per il cinema. Mentre studiavo all’università, ho iniziato a frequentare i set come comparsa, tenendo sempre d’occhio il lavoro del reparto costumi. Ho avuto la possibilità di seguire da vicino il lavoro delle costumiste più affermate in Italia e all’estero e sono circa dieci anni che faccio questo mestiere, sempre più convinta che persistenza e passione siano la chiave. Tra i miei ricordi più preziosi, aver conosciuto Dustin Hoffman e scoprire che, oltre a essere un grande attore, è anche una persona altruista e umile. Mi ha persino aiutata a trasportare tutti gli abiti che avevo in mano per facilitarmi il lavoro! In generale, non mi piace limitarmi a trovare un abito che funzioni. È importante capire il film e l’intenzione del regista, mettere il proprio gusto e creatività al servizio di ogni singolo personaggio e poi arrivare ad avere la libertà di presentare idee, alternative e, spesso, soluzioni. Estrapolare il personaggio dalle pagine della sceneggiatura e farlo diventare realtà è il momento più appassionante.
ELEONORA DI MARCO 36 anni THE START UP di Alessandro D’Alatri
Mi sono laureata allo IULM di Milano e dopo ho frequentato un master in stylist dello spettacolo allo IED di Roma. Alla fine del corso ho lavorato per il primo film. Tutto è iniziato per gioco, non avrei mai pensato sarebbe diventato il mio lavoro! Oggi, dopo 13 anni, lo faccio con la stessa passione del primo giorno. La costumista deve proporre la sua visione, ma anche mediare le proprie scelte con quelle del regista, degli attori e dei personaggi da costruire. Riuscire a interpretare la visione d’insieme del progetto, mettendo a disposizione senza riserve il proprio talento, è il miglior obiettivo al quale si possa puntare. L’aspetto che più mi coinvolge è la fase della preparazione, lo studio dei personaggi e delle ambientazioni. Le sfide ci sono tutti i giorni, perché cambiano in continuazione équipe di lavoro e progetti. Per questo bisogna mettersi sempre in gioco senza mai dare nulla per scontato. Anche se comporta tanti sacrifici, credo che sia il mestiere più bello del mondo.
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«Faccio il mio lavoro con la stessa passione del primo giorno».
«È importante mettere la propria creatività al servizio di ogni personaggio».
ANDREA CAVALLETTO
35 anni 7 MINUTI di Michele Placido TORNERANNO I PRATI di Ermanno Olmi
«Essere un costumista significa trasformare in realtà personaggi che hanno iniziato a vivere nella mente di un regista».
Terminato il liceo artistico, ho frequentato l’Accademia di Belle Arti e il Centro Sperimentale. Essere un costumista, per me, significa contribuire a trasformare in realtà dei personaggi che hanno iniziato a vivere nella scrittura e nella mente di un regista. Mi piace, attraverso l’abbigliamento, cercare di animare delle vite che appartengono all’immaginario e renderle reali; che è allo stesso tempo la passione e la sfida di questo lavoro. È stato un privilegio poter lavorare con Ermanno Olmi, che mi ha regalato molti straordinari segreti del suo lavoro. Non voleva che toccassi le comparse e mi diceva: «Devi cercare di spiegare a loro come vestirsi, per ottenere il risultato che tu vuoi ottenere, senza contaminarli con il tocco “troppo perfetto” del costumista, che rischia di rovinare la realtà».
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di GIACOMO LAMBORIZIO
Al Lido… Leggeri Come Una Piuma
Il terzo lungometraggio di Roan Johnson, Piuma, sarà in concorso a Venezia 2016. Un risultato straordinario per il regista pisano.
L’
annuncio della Biennale di Venezia è arrivato mentre questo numero di Fabrique era quasi chiuso, ma non potevamo non festeggiare la notizia. Piuma di Roan Johnson, con la fotografia curata dal nostro direttore artistico e fondatore Davide Manca, è uno dei tre film italiani ammessi nel concorso principale della 73esima Mostra del Cinema di Venezia.
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Vogliamo festeggiare la notizia perché rappresenta un traguardo importantissimo per un gruppo di lavoro di cui abbiamo seguito e raccontato i passi nel mondo del cinema italiano. Abbiamo parlato di Fino a qui tutto bene, il precedente lungometraggio del regista, e della serie in onda su Sky I delitti del Barlume, e oggi ci piace salutare l’ingresso del suo nuovo film per la prima volta nel concorso principale di uno dei maggiori festival cinematografici del mondo, al fianco di nomi come Wim Wenders, Terrence Malick, Pablo Larraín, Denis Villeneuve, Emir Kusturica. Piuma, prodotto da Palomar e Sky Cinema, racconta la storia di Ferro e Cate, che vogliono pensare all’estate più lunga della loro vita, alla casa dove stare insieme, ai loro sogni di
diciottenni. Ma Ferro e Cate hanno solo nove mesi per prendere decisioni, perché c’è un figlio in arrivo, che non ti aspetta: puoi essere pronto o meno ma lui arriverà. «Ma se rimani
come quella di Ferro e Cate: così siamo riusciti a prendere le giuste distanze, rendendo drammaturgico il conflitto che volevamo raccontare. E come loro, anche noi ci salveremo se giocheremo la carta della leggerezza e dell’autoironia, se
Così Roan ha commentato la selezione al Lido: «È inutile girarci intorno: andare in concorso a Venezia è un sogno per chiunque faccia cinema. Andarci con Piuma, però, ha un sapore speciale. Ho scritto questo film con Ottavia, Davide e Carlotta per esorcizzare una grande paura che condividevamo: fare un figlio. La chiave è stata trovare una storia
«ANDARE IN CONCORSO A VENEZIA È UN SOGNO PER CHIUNQUE FACCIA CINEMA».
leggero come una piuma e con il cuore dalla parte giusta, allora forse ce la puoi fare».
al pessimismo di questo mondo rilanceremo con l’ottimismo se non della volontà, almeno dell’incoscienza e del sogno».
Il film di Roan Johnson, con Luigi Fedele e Blu Yoshimi, distribuito da Lucky Red, sarà nelle sale il prossimo 20 ottobre.
LA CORSA DI CARLO, DALL’ITALIA A HOLLYWOOD Carlo Carlei, regista di lungometraggi e fiction di successo,
ha da poco ricevuto il premio Italia Worldwide all’Ischia Global Film & Music Festival. Un premio che rappresenta l’internazionalità del suo lavoro e del suo spirito artistico. di FLAVIO NUCCITELLI
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L’ultimo lungometraggio di Carlei è Romeo&Juliet (2013), su sceneggiatura di Julian Fellowes.
Quando lo intervisto è ancora un po’ perplesso perché, mi dice ridendo, «non sono abituato a ricevere premi».
«I FILM INDIPENDENTI TRA POCO NON CI SARANNO PIÙ E L’UNICO MODO PER FARE LE COSE SARÀ FARLE E BASTA, SENZA ASPETTARE CHE QUALCUNO TI DIA I SOLDI».
Carlei inizia nel 1993 con La corsa dell’innocente, non se ne parla molto ma appassiona i critici stranieri che, l’anno successivo, lo nominano ai Golden Globes come Miglior Film Straniero: «In Italia si faceva neo neorealismo, quindi l’arrivo improvviso di un esordiente che omaggiava Cimino e Peckinpah era un oggetto incongruo». Poi i festival internazionali e il MIFED (Mercato dell’audiovisivo di Milano), «dove venne venduto in tutto il mondo in un pomeriggio. Da quel momento in poi si parlò di me come di un caso che fa breccia nel cinema internazionale». A Hollywood le major lo corteggiano con sceneggiature di sicuro successo (Speed, Seven) che lui rifiuta per perseguire la sua strada autoriale; nasce Fluke (prodotto nel 1995 per la MGM). Dopo una serie di progetti che
non vedono la luce, tra cui «Daredevil scritto con Chris Columbus prima che la Marvel fallisse» e «un altro progetto con Madonna sullo stile di Mad Max: Fury Road», la svolta: «Ho fatto l’impensabile. Sono tornato in Italia e ho cercato di convincere i committenti che si potesse fare cinema in TV. Così sono nati Padre Pio e Ferrari». Della rapida e fortunata ascesa dei prodotti TV mi dice che «il segreto è non farsi condizionare dalla committenza ma essere alla costante ricerca del materiale giusto, per poi capire quale media lo potrebbe rendere meglio». L’ultima cosa girata, stavolta nella veste di showrunner, è, appunto, una serie TV: I bastardi di Pizzofalcone, tratta dai libri di Maurizio De Giovanni, con Alessandro Gassman. «Più che una serie sono effettivamente sei film consecutivi, è una serie cinematografica, perché mi piace sperimentare». Per il prossimo progetto cinematografico guarda di nuovo all’America. È in
preparazione The Passenger, un thriller mozzafiato ambientato a Palermo tutto in una notte: un’idea su cui lavora da nove anni: «dovevo trovare la quadratura del cerchio, perché è un progetto molto complesso e, anche se la storia non c’entra molto, lo considero il seguito ideale de La corsa dell’innocente». Al pubblico di Fabrique e ai giovani che si affacciano al mondo del cinema dice: «Le scuole di cinema non servono più: ti piace qualcosa? Vedilo in continuazione, ascolta chi l’ha fatto, capisci com’è stato fatto e fallo anche tu. Questo è il modo migliore per imparare a fare cinema. Oggi ogni DVD, con i suoi contenuti extra, è un piccolo corso di cinema e la tecnologia rende accessibili a tutti i mezzi per poter fare veri e propri film senza chiedere niente a nessuno. I film indipendenti tra poco non ci saranno più e l’unico modo per fare le cose sarà farle e basta, senza aspettare che qualcuno ti dia i soldi. Bisognerà inventarsi nuove modalità di fare cinema».
- Nuovi Maestri -
Sergio Rubini, 57 anni, pugliese di Grumo Appula. Tra i suoi film come regista ricordiamo Il viaggio della sposa, La terra, Colpo d’occhio, Dobbiamo parlare.
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SERGIO RUBINI
SONO UN ARTIGIANO DI BOTTEGA di CHIARA DEL ZANNO foto MARTINA MAMMOLA
È UN ATTORE, UN REGISTA, UN FORMATORE DI GIOVANI TALENTI: CON SERGIO RUBINI FABRIQUE INAUGURA LA RUBRICA NUOVI MAESTRI, DEDICATA AI PERSONAGGI CHE HANNO FATTO LA STORIA RECENTE DEL CINEMA ITALIANO.
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Immaginiamo un Sergio Rubini ventenne oggi, giovane esordiente nel mondo del cinema. In che modo si troverebbe svantaggiato, oppure al contrario avvantaggiato, rispetto a trent’anni fa? Mi preme segnalare solo una differenza vera. Quasi trent’anni fa avevo portato in teatro un testo intitolato La stazione, che aveva avuto una grossa eco. Avevo anche la fortuna di aver lavorato prima con Fellini, per cui ero entrato nel suo “cono di luce”. Mi proposero di farne un film, e il produttore era un giovane che si chiamava Procacci. Faceva parte di una cooperativa, Vertigo Film, che aveva prodotto il primo film di Piccioni, Il grande Blek. Procacci si staccò dalla Vertigo e fondò una società per produrre La stazione, che chiamò Fandango. Chiese quello che al tempo era il sussidio dello Stato per l’opera prima, cioè l’articolo 28. Non l’ebbe. E a un certo punto decise di partire comunque, grazie anche ai soldi della sua famiglia. A novembre cominciai a girare il mio primo film da regista, in attesa di ottenere poco dopo anche il sussidio dell’articolo 28. Ecco, quest’anno Mainetti ha avuto un’esperienza simile alla mia. Io fui molto fortunato, andai a Venezia, vinsi un premio, il film uscì e andò molto bene. Qual è la differenza? Che Mainetti se l’è autoprodotto. In trent’anni si è deteriorato ulteriormente il mondo della produzione. Trent’anni fa esisteva ancora un produttore che di fronte a una difficoltà si avventurava, arrivando anche a impegnare il proprio denaro per produrre un film. Oggi quel produttore non c’è più. Oggi i soldi li mette il regista. Quest’anno di fronte a un esordio così fortunato come quello di Jeeg Robot i produttori italiani dovrebbero riunirsi, cospargersi il capo di cenere e aprirsi a una riflessione sul loro lavoro.
non ho finito l’Accademia. La mia era comunque una formazione di attore teatrale, nel cinema ci son caduto casualmente, mi sembrava talmente lontano: e anche quella è stata una fortuna. Poi ho incontrato Fellini. La vera fortuna di aver incontrato Fellini, oltre l’avventura umana strepitosa, è stata che in quel momento avevo già un mio piccolo progetto. Quindi quella luce di Fellini ha illuminato anche me. È stata una meravigliosa coincidenza. Ecco, quella roba lì è proprio stare al momento giusto nel posto giusto. Fellini è una “coincidenza” così imponente che fatico a immaginarne una simile al giorno d’oggi… Quando a ventisei anni ho debuttato al teatro con La stazione, in quello che è attualmente il cinema Intrastevere, in prima fila era seduto Fellini. Lo spettacolo era bello, avevo un grande personaggio in scena a vederlo, e in quel momento c’era una specie di… sincronicità. Il cinema è fatto di coincidenze, di incontri. Anche Antonio [Giampaolo, vedi articolo a fianco] è una coincidenza, rappresenta l’opportunità di conoscere i giovani. Bono degli U2 dice sempre che l’unica maniera per non diventare vecchi è ascoltare la musica dei ragazzi.
«IO NON SO INSEGNARE, SO LAVORARE. HO UN’IDEA PRECISA DEL LAVORO CHE FACCIO, È MOLTO ARTIGIANALE».
Torniamo indietro, nell’ottica dell’esordio che contraddistingue Fabrique. Il posto giusto al momento giusto nella carriera di Sergio Rubini? Ho avuto tante coincidenze in positivo, ma anche tante in negativo. Però è chiaro che quelle in negativo ti tengono fermo e quindi le dimentichi, mentre quelle positive le ricordi perché ti hanno fatto andare avanti. Per esempio ho frequentato l’Accademia di Arte Drammatica, a diciott’anni ho vinto il concorso e mi sono ritrovato a Roma. Una grande fortuna. Sono entrato in una scuola, non mi sono smarrito, come è facile a quell’età, soprattutto in una grande città. Poi ho avuto la fortuna di cominciare a lavorare a vent’anni,
Com’è Sergio Rubini insegnante? Io non so insegnare, so lavorare. Ho un’idea precisa del lavoro che faccio, è molto artigianale. Credo che in una bottega non sia importante la teoria, ma sia sufficiente lavorare e avere accanto qualcuno che ti osservi e ti guidi mentre lavori. È un ingranaggio che produce poco a poco “la capacità del fare”. Io da allievo mi romperei le balle ad ascoltare un maestro che pontifica e mi dice «ho incontrato Fellini». A cosa servirebbe? Io preferisco rimboccarmi le maniche e mettermi a lavorare. Questo è il mio modo di insegnare. Stage, cortometraggi, progetti con troupe più leggere… Ha un rapporto vivo con il cinema degli esordienti. Per quanto mi riguarda non vado a insegnare, ma a prendere. È un’occasione per dare uno sguardo in un mondo fatto di umanità diversissime tra loro: attori già formati, chi vorrebbe recitare e non sa come iniziare, chi vuole solo farsi conoscere, attori di teatro che vogliono confrontarsi con la macchina da presa. Ad esempio agli stage vengono spesso persone da tutta Italia… Ecco, a quella gente tu devi dare tantissimo. Oggi il cinema è alla portata di tutti. Quindi quel mondo lì non è più così sommerso. È emerso, e ha perfino a disposizione una tecnologia che gli permette di raccontarsi. Noi che siamo un po’ più maturi andiamo a mettere il naso lì, ed è come se andassimo a mettere il naso nel nuovo mondo. C’è chi diffida di questo nuovo mondo. È che spesso quando invecchi puoi rischiare di riempirti di certezze, per cui non ti va di fare due gradini. Però se a un certo punto invece li fai, capisci che ti fa bene alla salute. Ti allunga la vita e ti permette di avere uno sguardo più ampio.
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Fuori Sede, Ma Dentro Il Cinema di CHIARA DEL ZANNO foto MARTINA MAMMOLA
Antonio Giampaolo, giovane produttore italiano, The wolf per gli amici, incontra Sergio Rubini. O forse Sergio Rubini incontra Antonio Giampaolo. Due generazioni diverse, un’energia palpabile a fare da collante e la stessa maniera di intendere il cinema. Ci raccontano l’ultimo progetto dell’ACCADEMIA NAZIONALE D’ARTE DRAMMATICA SILVIO D’AMICO: quattro sceneggiature e quattro regie diverse per un unico lungometraggio.
Parliamo del nuovo progetto della Silvio D’Amico che vi vede insieme. S.R. La D’Amico negli ultimi anni si è aperta alla multimedialità, si è dovuta porre il problema dei nuovi linguaggi, che si stanno
L’Accademia, fondata nel 1936 dallo studioso e critico teatrale Silvio d’Amico, è l´unica istituzione nazionale per la formazione di attori e registi e rilascia un titolo di studio di livello universitario.
modificando e ibridando. In passato aveva già organizzato degli stage, ma stavolta sono stato chiamato per un progetto che alla formazione registica univa un bando di sceneggiatura. E ne sono arrivate tantissime,
ne avremo lette un centinaio. C’erano dei temi di partenza, ma alla fine ci è sembrato più interessante deviare sul concetto dello studente fuori sede. È stato un lavoro vivo. A.G. La scelta della sceneggiatura non era solo artistica ma anche fortemente produttiva. Confrontandoci con i ragazzi dell’Accademia, attraverso un lungo lavoro di scrematura, io e Sergio abbiamo scelto quattro sceneggiature fra oltre novanta. I ragazzi si sono dovuti scontrare anche con il concetto della selezione. È stato molto difficile, però, perché erano tutte belle idee. Un unico tema, quello degli studenti fuori sede. Ma comunque quattro storie diverse. S.R. La storia di uno dei film è sociale, ed è legata proprio a quello che stiamo vivendo in questi giorni. Sono studenti che si ritrovano come quarto coinquilino un ragazzo musulmano, e quindi tutto ciò che può scatenarsi in un gruppo in termini di sospetto e diffidenza… reciproca anche. Un’altra è una lievissima storia d’amore legata a delle coincidenze, all’interno di un altro appartamento in cui arriva un ragazzo russo. Poi c’è un horror, si tratta di una ragazza fuori sede che ha la fissa di frequentare Roma Nord e nasconde la sua origine pur di farsi accettare. La quarta storia riguarda un gruppo di ragazzi che deve pagare l’affitto, il solito problema, e coinvolge anche l’anziana padrona di casa.
Quali sono state le dinamiche produttive dietro un progetto come questo? S.R. L’Accademia non può produrre, quindi il rapporto con Antonio nasce da questa esigenza. Io collaboro da tempo con lui, mi sembrava la persona più giusta per questo progetto. Perché sono tutti giovani, però lui è un giovane che già sa. A.G. La cosa interessante è che abbiamo messo a disposizione dei ragazzi dell’Accademia un team tecnico di primissimo livello. La direzione della fotografia è stata affidata a Enzo Carpineta e Duccio Cimatti! Anche a livello tecnologico è stato usato il top di gamma, ad esempio l’Arri Alexa. Ma anche l’elettricista, il macchinista, erano tutte figure di altissimo profilo. Antonio, tu sei incredibilmente giovane. Come e quando hai iniziato? A.G. Io sono partito a diciotto anni facendo il runner. Ho iniziato in Taodue, ho lavorato con Valsecchi e poi ho aperto la mia società. Ho trovato dei professionisti come Sergio e Giovanni [Veronesi] che sono artisti di altissimo livello, che tengono alla formazione di quel vivaio di giovani che poi è lo stesso che legge Fabrique. In realtà gli artisti come loro fanno un ragionamento molto semplice: se io faccio un film e ai provini mi ritrovo degli incapaci? Se non si coltiva quel vivaio non può esserci futuro per il cinema.
«ABBIAMO MESSO A DISPOSIZIONE DEI RAGAZZI DELL’ACCADEMIA UN TEAM TECNICO DI PRIMISSIMO LIVELLO».
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- Zona Doc -
DELLE
Anime Luoghi E DEI
Due “uomini isola” al centro di un film poetico e politico sulle migrazioni nel Mediterraneo. Sponde è il documentario che prepara e precede l’esordio di Irene Dionisio, unica italiana in concorso alla trentunesima SIC, a Venezia. di SILVIO GRASSELLI
Un ritratto di Irene Dionisio, trentenne filmmaker torinese.
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Q
uattro anni fa Irene Dionisio scrive il progetto di un documentario su due uomini, due testimoni che osservano da sponde opposte il viaggio dei migranti nel Mediterraneo. Il progetto vince al Premio Solinas, ricevendo, qualche mese più tardi, il sostegno dal Piemonte Doc Film Fund. Nel 2013, alla prima edizione del pitching forum del Festival dei Popoli, Sponde trova produzione e budget; due anni più tardi, nel 2015, quando il film è finalmente pronto, è ancora il Festival dei Popoli di Firenze, che ospita la prima proiezione nel concorso internazionale, a conferire al film il premio del pubblico. Di qui inizia il viaggio di Sponde tra festival, riconoscimenti e l’uscita in sala della scorsa primavera. Sponde – Nel sicuro sole del Nord è il racconto di due uomini che vivono lontani 60 miglia l’uno dall’altro, due vedette che si prendono cura, in modo diverso, delle spoglie di quelli che tentano il viaggio tra la sponda africana e quella italiana. Da una parte Vincenzo Lombardo, guardiano del cimitero a Lampedusa, dall’altra Mohsen Lihidheb, postino artista di Zarzis, nel sud della Tunisia. Due
“uomini isola”, così li chiama Irene Dionisio, giovane artista e filmmaker torinese, classe 1986, laureata in filosofia, ma già prima di finire gli studi iniziata alla passione delle arti visive e del cinema documentario. La storia del film inizia quando Irene legge le lettere che Vincenzo e Mohsen si scambiano da una parte all’altra del Mediterraneo, condividendo il loro destino di difensori e custodi della memoria: da una parte Vincenzo si prende cura dei corpi spesso anonimi che il mare lascia sulle spiagge di Lampedusa, provvedendo a dar loro una tomba riconoscibile che ne possa consentire almeno il ricordo; dall’altra Mohsen – che pure s’impegna a garantire una sepoltura a quelli che il mare consegna alla costa tunisina – raccoglie, nel museo che ha allestito nel cortile di casa, gli oggetti che i migranti perdono durante la traversata. Il film compone in un discorso libero le immagini crude delle barche che solcano, sbilenche e sovraffollate, le acque del Mediterraneo, la registrazione dei gesti privati e quasi rituali di Vincenzo e Mohsen, le croci di legno e i fiori del primo, le cataste di bottiglie e i mucchi di vestiti e di corde, i labirinti di
taniche del secondo, cucendoli insieme con le parole che i due si scambiano a distanza e con le loro voci, separate da uno stretto orizzonte. Irene Dionisio ha imparato il racconto e il pensiero per immagini frequentando fin dall’inizio del suo apprendistato (svolto tra gli altri anche sotto la guida del maestro piemontese Daniele Segre, di Alina Marazzi e di Marco Bellocchio) tanto il cinema quanto le videoinstallazioni, perseguendo l’evocazione narrativa attraverso l’osservazione analitica degli habitat costruiti dall’essere umano, l’esplorazione quasi archeologica della loro storia; attraverso la raccolta e la messa in collezione delle tracce e dei segni che il tempo e gli eventi depositano su di essi. Dopo molti cortometraggi, le installazioni e diversi documentari (tra i quali il medio La fabbrica è piena, 2012, sullo stabilimento dismesso, occupato e infine demolito della Fiat Grandi Motori, a Torino, e sui due naufraghi esistenziali che ne abitano le vuote stanze), Sponde segna forse un punto di affinamento e matura convergenza di esperienze e linguaggi diversi. Il racconto di un viaggio e di una fuga che coinvolgono centinaia di migliaia di persone, che riguardano molte nazioni, molti popoli, molte culture diverse, si centra su due punti fermi, due luoghi abitati da due persone: nei loro gesti
quotidiani, nelle parole che raccontano la dedizione e la solitudine (visto il rifiuto e la condanna che riservano loro i rispettivi compaesani), nell’ordine meticoloso e quasi religioso secondo il quale sono disposti e organizzati gli oggetti e gli spazi che li circondano Irene Dionisio trova la materia, l’unica possibile, per il suo poemetto in versi liberi che al contempo è anche piccolo saggio antropologico e pamphlet politico. Nella quotidiana coriacea umanità dei suoi due testimoni, nella loro paziente lotta di resistenza all’oblio, nel vincolo che li lega indissolubilmente alla loro terra e soprattutto nel modo in cui questo film li osserva e li racconta sta il centro di uno sguardo diverso, più discreto e profondo, su una delle vicende incandescenti del nostro orizzonte contemporaneo, coperte e stravolte troppo spesso dal brusio continuo dell’informazione. Sponde è anche il film che prepara e precede l’esordio di Irene nel lungometraggio a soggetto. Le ultime cose, intreccio di tre storie torinesi tutte centrate intorno a un banco dei pegni – prodotto dalla Tempesta Film di Carlo CrestoDina insieme a Rai Cinema – è l’unico titolo italiano che Giona Nazzaro, insieme al suo gruppo di selezionatori, ha scelto per la trentunesima edizione della Settimana Internazionale della Critica a Venezia.
«IVO E CLARA SEMBRANO NON RIUSCIRE A TROVARE LA GIUSTA DISTANZA DALLE LORO RADICI COME DAL LUOGOSGUARDO IN DIVERSO, «NEL MODO IN CUI QUESTO FILM OSSERVA I DUE PROTAGONISTI STA IL CENTROCUI DISIUNO TROVANO PIÙ DISCRETO E PROFONDO, SU UNA DELLE VICENDE INCANDESCENTI DEL NOSTROATTUALMENTE». ORIZZONTE CONTEMPORANEO».
Il lampedusano Vincenzo Lombardo e il tunisino Mohsen Lihidheb sono i due custodi della memoria che dialogano da sponde opposte del Mediterraneo.
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- Attori -
Cinema e teatro: un connubio che a noi di Fabrique piace, come ci piacciono Carlo Oldani e Claudio R. Politi, due ragazzi di 28 anni che hanno fatto una scelta di vita prendendo in gestione il Teatro Orione. Il quarto teatro più grande della capitale, con l’idea di dare spazio all’inedito, al nuovo. In questa splendida cornice ancora in fase di ristrutturazione Fabrique ha lasciato giocare davanti all’obiettivo sei giovani e promettenti attori.
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TEODORO GIAMBANCO 1. 25 anni, nato a Roma. 2.
Nei film SMS di Vincenzo Salemme e Abbraccialo per me di Vittorio Sindoni. Nelle fiction Dov’è mia figlia, Don Matteo, Squadra Mobile e Un’altra vita e nei videoclip Minotauro dei Gonzaga e Domani di Raige.
3. Credo che la spinta originaria sia stata il mio interesse verso le persone. Mi sono sempre perso nell’osservare l’uomo nel rapporto con se stesso e con ciò che lo circonda. La recitazione, ad oggi, è diventato lo strumento per sfruttare questo istinto nel modo più creativo.
4.
Potrei citare i nomi più interessanti del mercato internazionale, ma preferisco porre la mia attenzione sui nostri giovani talenti, da Elio Germano fino ad Alessandro Borghi e Luca Marinelli.
5. È un lavoro meraviglioso ma estremamente precario, fatto di alti e bassi, soddisfazioni e delusioni. Credo che la sfida più grande sia resistere e continuare a credere nel proprio sogno.
a cura di TOMMASO AGNESE E CHIARA CARNÀ foto MARTINA MAMMOLA stylist SARA E PAOLA D’ANGELO make up CAMILLA SPALVIERI hair ERICA COSTA dresses LUCILLE DI GAETANO NAVARRA furs by MANIFATTURA GRAZIANO-MAZZONI (con la collaborazione studio modellistico KICCO DI MODA) accessories by FLAMINIA BAROSINI shoes by RACINE CARRÉE
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MONICA VOLPE 1. 30 anni, nata a Latina. 2.
Al cinema, in Amici come noi, diretto da Enrico Lando, e in Un Natale stupefacente, di Volfango De Biasi. Prossimamente, nella fiction Il bello delle donne. Al Teatro Brancaccio, in Marchette in trincea, con Lillo&Greg. Parallelamente, porto avanti l’attività di doppiatrice.
3. Sono sempre stata appassionata di cinema, soprattutto delle commedie all’italiana. Terminato il liceo scientifico, mi sono trasferita a Roma per studiare con Beatrice Bracco, che mi ha guidato verso la realizzazione di un sogno. Da qui la mia passione è cresciuta, e ogni giorno lavoro per concretizzarla ancora di più.
4.
L’artista che più stimo in assoluto è Monica Vitti: la sua esuberanza e la sua comicità la rendono unica e inconfondibile.
5. Non arrendersi davanti alle difficoltà. Noi attori spesso cadiamo nell’errore di buttarci giù se non veniamo ritenuti adatti per un ruolo. Continuare ad amare questo mestiere, nonostante tutto, è sintomo di grande forza e tenacia.
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ELEONORA BELCAMINO 1. 27 anni, nata Catanzaro. 2.
Mi vedrete presto in Cinecittà Babilonia, di Marco Spagnoli.
3. Ai tempi del liceo sono stata “buttata” in scena dalla mia insegnante di latino e greco, che teneva un laboratorio sul dramma antico. Dopo quell’esperienza ho deciso di studiare recitazione, che questo doveva diventare il mio mestiere. Attualmente sono al terzo anno del Centro Sperimentale.
4.
Una su tutte è Meryl Streep, forse la migliore attrice vivente. Guardandola non si può fare a meno di imparare qualcosa. Amo molto Julianne Moore e Marion Cotillard, dei mostri sacri. Per quanto riguarda i registi, stimo Xavier Dolan, che ha la mia età e ha già diretto film pazzeschi. Ah, e dimenticavo Beyoncé!
5. Fare i conti ogni giorno con l’instabilità e l’impossibilità di progettare a lungo termine, con l’incertezza sul futuro e con la paura del tempo che passa. Tuttavia ho scelto consapevolmente questo percorso e quando mi dico che “non ho alternative” è davvero così: non c’è nient’altro che farei con la stessa passione. Perciò ben vengano le sfide!
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VALENTINA ROMANI 1. 20 anni, nata a Roma. 2.
Questo è il mio paese di Michele Soavi, nella fiction di RAI 1 Tutto può succedere, Un bacio di Ivan Cotroneo.
3. Non credo ci sia un vero motivo, è qualcosa che ho sempre sentito dentro di me. La recitazione è la mia passione più grande e ne amo ogni aspetto.
4.
Da sempre Angelina Jolie e Leonardo Di Caprio, li ammiro tantissimo.
5. Rivedermi è una grande sfida per me, perché quando lo si fa non è semplice astenersi da un giudizio critico. Ma so che è importante, che è una grande opportunità per migliorare, quindi lo faccio sempre, magari mentre stringo un cuscino.
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GIUSTINIANO ALPI 1. 26 anni, nato a Milano. 2.
Ho avuto le prime esperienze in TV e a teatro. ll mio primo vero film è stato Tutta colpa di Freud, poi ho lavorato con Daniele Vicari durante il biennio alla Scuola d’Arte Cinematografica Gian Maria Volontè. Sono nel cast del film Achtung Baby, che uscirà presto, per la regia di Andrea Tagliaferri e prodotto da Matteo Garrone.
3. Ho iniziato a coltivare la passione per il cinema e il teatro sin da piccolo, per divertimento. A Roma ho cominciato a studiare recitazione, capendo che si tratta di un lavoro vero e proprio, serio come tutti gli altri, con il quale posso esprimermi, imparare e scoprire qualcosa di nuovo ogni giorno.
4. Un film a cui sono particolarmente affezionato è A Bronx Tale di De Niro e Chazz Palminteri. Tra attori e registi, direi Paolo Rossi, Sergio Leone, Gian Maria Volontè, Carlo Verdone, Paolo Sorrentino, Antonio Albanese, Marco Giallini, Stefano Sollima, Maurizio Crozza, Valerio Mastandrea.
5. Un attore riesce a creare un altro “io”, che vive al di fuori di ogni logica e che trova la propria creatività basandosi sull’esperienza. Quando lavoro vorrei riuscire a nutrirmi del nostro sapere per mettermi alla prova, affrontare i miei limiti e superarli. Credo che la creatività sia l’unica vera arma per affrontare la vita e assaporarne la bellezza.
JACOPO CROVELLA 1. 28 anni, nato a Torino. 2.
Non uccidere di Giuseppe Gagliardi e Miele di Valeria Golino. In teatro, al Globe di Gigi Proietti e al Piccolo di Milano.
3. Non c’è un perché. Di sicuro non uno solo. Nel periodo in cui il liceo finisce e lascia solo la voglia di fare le cose più belle del mondo, ricordo uno spettacolo allo Stabile di Torino. Un colloquio con due attori professionisti. E poi le lezioni di preparazione al provino!
4.
Quelli che lavorano sodo. Gli artisti rigorosi e modesti. Toni e Peppe Servillo, Claudio Santamaria, Edoardo Leo, Elio Germano, Marco Foschi…
5. In teatro? Farsi pagare! Scherzi a parte, dipende dal lavoro. Nel caso di un film o di una serie faccio ancora fatica a sentire un contatto con il pubblico e prevedere cosa sarà efficace o meno. Non cosa piace allo spettatore, ma cosa funziona. È un talento che non si acquisisce mai abbastanza.
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- Soundtrack -
GIRLS POWER MARTINA SANZI E MINA CHIARELLI SONO LE TREESTAKELIFE: DUE GIOVANI COMPOSITRICI CHE LAVORANO INSIEME DESTREGGIANDOSI CON ABILITÀ E INTUITO – AL LORO ATTIVO GIÀ UN LUNGOMETRAGGIO – NEL PANORAMA DELLA MUSICA APPLICATA ALLE IMMAGINI. di ROBERTA FORNARI foto BERNARDO CORSETTI
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«L’AMBIENTE DELLE COLONNE SONORE È MASCHILE E MASCHILISTA, LA FIGURA DELLA COMPOSITRICE NON VIENE MOLTO CONSIDERATA. CI STIAMO IMPEGNANDO PER ROMPERE QUESTO SCHEMA». Già presenti da diversi anni sulla scena musicale indipendente, avete esordito con un Ep Let Children be Children Again (2009) e poco dopo avete realizzato l’album Roll Sound and... Action! (2012). Come siete passate a fare colonne sonore? In effetti, inizialmente non era nei nostri intenti scrivere per il cinema. Provare a percorrere questa strada è stata una scelta dettata un po’ dalla passione per il cinema e un po’ forse dalla delusione nei confronti del mondo della musica indipendente. Abbiamo iniziato a sonorizzare dei video fatti da noi e, quando siamo venute a sapere di un laboratorio del Centro Sperimentale, abbiamo deciso di immergerci in un mondo che conoscevamo solo da lontano. È stato un laboratorio molto pratico, grazie al quale abbiamo avuto modo di conoscere dei veri professionisti del settore come Paolo Buonvino, Nicola Piovani e Pasquale Catalano, e abbiamo anche lavorato su molti cortometraggi realizzati dagli studenti dell’accademia.
Steven Murphy è un regista di Bournemouth, vicino Bristol: le Trees sono entrate in contatto con un lui tramite un amico musicista, il quale sapeva che Murphy era alla ricerca di compositori per il suo My Saviour.
Fate una musica molto caratterizzata, con richiami al dream pop anni ’80: non avete il timore di trascurare la vostra personalità artistica assecondando le richieste che un regista vi può presentare? Bella domanda! Effettivamente è il problema principale del fare questo lavoro: il compromesso è alla base. È anche vero però che se c’è fiducia tra il musicista e il regista puoi scoprire dei modi di scrivere a cui non avevi pensato. Cerchiamo di rimanere nel nostro stile ma anche di mantenere l’armonia con tutte le figure con cui lavoriamo. È una bella sfida. Ad esempio il
lungometraggio My Saviour di Steven Murphy, in uscita questo autunno, è stato un lavoro nuovo per noi, perché oltre a essere il primo film che facevamo, è un action/thriller, un genere a cui non ci eravamo mai avvicinate, ma nonostante questo ci è stata data molta libertà nella realizzazione della colonna sonora. È stata l’occasione per capire che dovevamo aggiornare le nostre conoscenze in particolare nei confronti della tecnologia, di fondamentale importanza soprattutto di fronte a un budget ridotto. Seguite delle regole particolari e avete ruoli definiti quando componete? Di solito portiamo in studio delle idee, guardiamo il corto o il film e buttiamo giù delle proposte di base. Non c’è una regola ben precisa o dei ruoli tra noi due, cerchiamo di individuare dei punti musicali, il carattere che vogliamo dare alla composizione e partiamo dai timbri. Può essere il piano o la chitarra, spesso utilizziamo dei sinth e vari strumenti particolari come la kalimba, le melodiche e addirittura giocattoli. Cerchiamo di essere discrete nell’approccio alle immagini, lavoriamo quasi in sottrazione. Avete riscontrato molte differenze tra il sistema musicale indipendente e quello cinematografico? C’è una distanza abissale tra la scena romana indipendente musicale e quella cinematografica! Lavorando con il cinema abbiamo scoperto un mondo che, anche se con le sue difficoltà, ci ha dato molte più soddisfazioni rispetto alle attività live. Siamo state apprezzate semplicemente per la nostra musica e non per la costruzione
di un “contorno”, necessario per avere successo con la musica dal vivo. Quello del live è un sistema chiuso in particolare per le donne, a meno che non hai la fortuna di trovare qualcuno che crei un prodotto su di te oppure di essere un animale da palcoscenico, cosa che noi non siamo mai state. Oltretutto i nostri live erano molto complessi vista la vasta tecnica che utilizzavamo, eravamo in due ma sembravamo in dieci. Quindi è un fatto anche di costume: siamo più abituati a vedere le donne che fanno le cantanti rispetto a quelle che suonano gli strumenti. Forse non è un caso che vi siano poche donne a fare musica per film. Esatto, la donna che fa musica è quella che canta e al massimo si accompagna. Nonostante i cambiamenti sociali e l’emancipazione, la donna stessa si è “autorelegata” in questo ruolo, probabilmente per mancanza di fiducia, per senso inferiorità rispetto agli uomini. È qualcosa che riguarda sia come lei stessa si vede, sia come la vedono. Infatti l’ambiente delle colonne sonore è prettamente maschile e maschilista, la figura della compositrice non viene molto considerata. Ci stiamo impegnando per rompere questo schema. Tornerete a suonare dal vivo? Ci piacerebbe che le cose procedessero in parallelo: da una parte vogliamo assolutamente continuare a fare colonne sonore, a breve dovremmo lavorare sul prossimo lungometraggio di Murphy, e allo stesso tempo stiamo scrivendo un nuovo album che vorremmo presentare in una forma live più minimalista, essenziale e vicina al pubblico.
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«IL RISCHIO CHE TANTI GIOVANI CORRONO ORA È QUELLO DI DESIDERARE PIÙ DI DIVENTARE FAMOSI CHE BRAVI».
www.panpers.tv
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FAR RIDERE, FUORI E DENTRO GLI SCHERMI
Andrea Pisani e Luca Peracino, i PanPers, a soli 28 anni sono ormai una realtà consolidata del nuovo cabaret italiano. A sette anni dall’esordio a Colorado oggi si dividono tra impegni televisivi e una sempre più solida presenza sul web, ma sono pronti a tornare sul grande schermo con una nuova commedia. di GIACOMO LAMBORIZIO Finora avete recitato insieme solo in un film, Fuga di cervelli. Ci raccontate qualcosa della vostra prossima esperienza sul set? Cosa vi ha convinto a sposare questo progetto? Noi nasciamo come coppia e tutti i progetti che creiamo e sviluppiamo li prevediamo per la coppia, ma non siamo così bigotti da rifiutare proposte da “single”. Quando ci è stato proposto di partecipare insieme a I babysitter con Ruffini, Mandelli e Abatantuono non abbiamo neanche dovuto pensarci. Le commedie corali, giovani e un po’ “estreme” ci fanno impazzire da spettatori, figuriamoci interpretarle.
un’arma a doppio taglio perché non ti dice che sei bravo, ma che sei noto. Il problema è che questo non è sufficiente per farti durare nel tempo, che è l’unica cosa che conta. Quindi il consiglio che possiamo dare è quello di essere molto autocritici e pensare prima a migliorare che a raccogliere. Quali sono i vostri maestri? Vi rifate alla tradizione del cabaret italiano o seguite anche suggestioni dall’estero? Noi siamo cresciuti con Zelig di Bisio, Ale&Franz e Ficarra&Picone, quindi i primi esempi e responsabili dei nostri sogni sono stati loro. Poi, quando il nostro sogno è diventato il nostro lavoro, ci siamo documentati e abbiamo scoperto realtà americane che in particolare sposano il nostro umorismo come Eddie Izzard, Emo Philips, Riky Gervais e Louis CK.
Siete molto attivi sul web tra YouTube e Facebook, quanto è importante per voi? Ormai più della metà del tempo e della creatività la dedichiamo al web. Ci piace sperimentare, giocare e osare con quella libertà autoriale della quale non possiamo più fare a meno. Grazie ai “mi piace”, i commenti e le Qual è il vostro rapporto con il grande schermo? Quali sono i film italiani che vi condivisioni capisci subito se quello che fai è buono oppure no e comprendi ulteriormente hanno fatto più ridere? il tuo pubblico e le sue esigenze. Lavorare tra Il nostro rapporto con il grande schermo è Il gruppo de I babysitter, dal 20 ottobre al internet, TV e cinema significa conoscerne le come quello che si ha con uno zio simpatico. cinema (ph: Loris T. Zambelli - Photomovie). Ci si vede ogni tanto, ma è sempre super differenze. Ogni mezzo di comunicazione ha i suoi codici e il suo linguaggio che vanno assolutamente rispettati. divertente e quando ci si saluta non si vede l’ora di rincontrarsi. Nasciamo come comici da palco, quindi il cinema è una realtà a Avete esordito molto giovani in TV, ci raccontate la vostra gavetta? cui ci siamo avvicinati successivamente, quasi per caso, e siamo Da dove dovrebbe partire secondo voi un giovane comico oggi per emozionati ogni volta che ci chiamano per farne parte. Non ci raggiungere il grande pubblico? sembra mai vero quando ci vediamo proiettati in quelle sale nelle Sì, a 21 anni eravamo già in TV, dopo soli due anni di gavetta, il che quali abbiamo sempre visto i nostri maestri. Le nostre commedie può sembrare entusiasmante ma in realtà nasconde il pericolo di italiane preferite sono senz’altro le “classiche” Amici miei, Non bruciarsi se non si riesce a dimostrare spessore. Per fortuna abbiamo ci resta che piangere, Ricomincio da tre, fino ad arrivare alle più recuperato tutto quello che non eravamo riusciti ad apprendere in moderne come quelle di Aldo Giovanni e Giacomo, Checco Zalone e così pochi anni. Importantissimo è non pensare mai di avercela fatta Maccio Capatonda, che ha dimostrato che si possono ottenere ottimi o di essere arrivati. Il rischio che tanti giovani corrono ora è quello risultati anche con scelte non proprio popolari. Aspettiamo con di desiderare più di diventare famosi che bravi. Internet in questo è trepidazione e massima curiosità il film dei The Jackal.
IN COLLABORAZIONE CON
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- Making of -
L’APPUNTAMENTO
CAST Paolo Sassanelli, Lorena Cacciatore, Marit Nissen, Antonella Genga, Umberto Sardella, Pegah Moshir Pour, Anna Cimarrusti, Cinzia Ungaro REGIA Vito Cea SCENEGGIATURA Roberto Moliterni, Claudio Maccari SCENOGRAFIA Marianna Coretti COSTUMI Rosa Lorusso SUONO Angelo Cannarile PRODUZIONE Brunella Matera, Domenico Bruno per Tyche Productions e Mescalito Film
a cura di DAVIDE MANCA
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Camera Car a mano, sullo sfondo le comparse.
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1.2kw HMI (Quartzcolor) riflesso su poli.
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1.2kw HMI riflesso e attraverso telaio di frost 250.
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Piano sequenza a mano.
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L’assistente operatore tara i motori dei radiofuochi.
Si batte il ciak.
IL FILM Avere paura della morte. Non accettare la consapevolezza della vecchiaia. Tornare giovani, anche se non lo si è più. L’appuntamento è la storia dell’incontro di un uomo con se stesso, con la sua parte più vera e autentica, tenuta nascosta per anni. Dopo la morte della moglie, Nicola vive solo. Si fa accompagnare da ragazze più giovani, è un maestro del divertimento, fa lo splendido sessantenne. Un giorno ritrova cinque rullini mai sviluppati, scattati vent’anni prima. Decide di portarli dalla fotografa amica di famiglia. Ci vogliono due settimane per svilupparli. In quei giorni, Nicola consuma il suo arco di cambiamento, che lo porta a intraprendere un lungo viaggio attraverso l’Italia, per restituire tutte le foto che ha scattato a persone che non vede da tempo.
IL REGISTA Vito Cea, nato a Matera nel 1967, da anni è impegnato nella regia di numerosi cortometraggi, lungometraggi e programmi televisivi. Dal 1997 al 2004 gira vari corti (fra i tanti: Arturo, 1998; La ragazza nel bar, 2000; Non fumare, 2004). Subito dopo cura le regie di show televisivi su Sky e Telenorba. Arriva dietro la macchina da presa per un lungometraggio nel 2003, con Il garante. Seguiranno le commedie Arrivano i mostri (2008) e Natale con chi vuoi (2009). Nel 2012 dirige Nando Paone e Uccio De Santis in Non me lo dire, storia di un comico che decide di lasciare il teatro dopo la separazione dalla moglie. Nel 2016 è uscito il suo ultimo film, la commedia Mi rifaccio il trullo con Uccio De Santis e Lorena Cacciatore.
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Foto di gruppo della troupe.
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Paolo Sassanelli, l’attore protagonista.
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La troupe prepara la scena esterno giorno.
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Macchina a mano.
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Il regista segue la scena al monitor.
Il macchinista a mano regge un telaio 216.
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- Effetti speciali -
Inno Nazionale di GIAIME DEL BELLO foto FABIO PERFETTI - OFFICINE VISUALI
Che l’avvento del digitale abbia schiuso nuove prospettive nel mondo dell’audiovisivo non è una novità. Ma che ormai si faccia uso degli effetti digitali non solo nelle grandi produzioni, ci fornisce la misura del grado di diffusione che la tecnologia VFX ha ormai raggiunto.
N Buffet è un film di Santa De Santis e Alessandro D’Ambrosi, prodotto da Imago Produzioni e Vargo Film.
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el cortometraggio Buffet di Alessandro D’Ambrosi e Santa De Santis ci si potrebbe legittimamente chiedere che cosa abbia spinto i registi ad affidarsi agli effetti digitali piuttosto che a un bravo scenografo per realizzare una composizione di piatti sporchi e avanzi di cibo, disposti in maniera apparentemente caotica, su di un tavolo alla fine di un ricevimento. In questo caso la funzione del digitale non
è stata quella di soppiantare la tradizione, ma di fornire un ulteriore strumento nelle mani di chi realizza un prodotto, che sia di natura commerciale o artistica; per quanto riguarda Buffet, la soluzione digitale si è resa necessaria perché l’allestimento della scena avrebbe richiesto troppo tempo, dovendo soddisfare alcuni requisiti fondamentali per i due registi. Siamo all’ultima scena-chiave
del corto, il dolly è pronto, si prova la ripresa un paio di volte, sul tavolo devono essere “apparecchiati” i piatti sporchi e gli avanzi, alcuni finiti direttamente sulla tovaglia sgualcita e macchiata; a un primo sguardo la scena deve apparire disordinata, ma né i resti dell’abbuffata né le macchie sulla tovaglia possono essere disposti in maniera casuale, perché la forma descritta da questo piccolo ammasso di resti
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«GRAZIE ALL’AUSILIO DELLA TECNOLOGIA, LA SFIDA È PASSATA DAL FARE IN FRETTA UN LAVORO COMPLICATO AL RICREARE DIGITALMENTE, COME SPESSO ACCADE, UNA SCENOGRAFIA CONVINCENTE SIA SUL PIANO ARTISTICO CHE SU QUELLO MATERICO».
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Qui sopra Alessandro D’Ambrosi. A pag. 65 Daniele Ciprì (al centro a sinistra) e Santa De Santis (in basso a sinistra) che dà indicazioni alla troupe.
e macchie deve essere la replica, quanto più fedele possibile, di una mappa. Neanche l’effetto cromatico può essere affidato al caso. Un lavoro del genere si prospettava fin troppo impegnativo per essere realizzato direttamente sul set, considerando che il tutto andava girato come ultima ripresa dell’ultimo giorno di lavorazione. Perciò, grazie all’ausilio della tecnologia, la sfida è passata dal fare in fretta un lavoro complicato al ricreare digitalmente, come spesso accade, una scenografia convincente sia sul piano artistico che su quello materico. Il confronto con Alessandro e Santa, che avevo conosciuto in veste di attori in occasione della lavorazione di Geekerz, una webserie sugli zombie, è
stato costante. Ogni fase dello sviluppo è stata approvata da loro che avevano un’idea estremamente chiara di quello che doveva essere rappresentato nell’ultima scena: un cumulo di avanzi con una forma e dominanti cromatiche ben definite. Il primo, fondamentale passaggio, è stato quello della presenza sul set, perché la supervisione rappresenta in tutto e per tutto la prima fase della realizzazione di un effetto visivo digitale, ben prima di accendere il computer. In occasione
delle riprese abbiamo avuto la possibilità di documentare con le foto l’illuminazione realizzata da Daniele Ciprì e di fotografare il materiale di scena da ricostruire in 3D.
Tecnicamente il lavoro si è svolto secondo varie tappe. Insieme a Gianluca Lo Guasto ci siamo preoccupati di costruire una mappa dell’illuminazione per ricreare la scena 3D, di fotografare i piatti di avanzi e le stoviglie per avere delle texture e, molto importante, abbiamo usato una “griglia” (un pannello con un disegno a scacchiera) per registrare la deformazione della lente usata nell’inquadratura finale. In fase di postproduzione ho stabilizzato l’inquadratura, ho realizzato il track della camera per ottenere il movimento della stessa in una scena 3D, ho realizzato i modelli 3D, li ho illuminati e texturizzati, li ho renderizzati e, infine ho realizzato il compositing. Nella realtà ogni lente genera una distorsione nell’immagine che inquadra, mentre la
camera 3D nasce
priva di distorsione, perciò per generare delle immagini dal 3D che si comportino in maniera coerente con il video originale, prima di realizzare il track della camera, occorre rimuovere la deformazione del video. Alla fine di tutto il processo l’ultimo step consiste nel riapplicare la distorsione eliminata all’inizio al compositing finale di video e 3D: l’effetto è quasi impercettibile, ma contribuisce a rendere realistico l’effetto finale. Infine, oltre alla scena di chiusura, fra gli altri interventi che ci sono stati richiesti c’è stata l’aggiunta dei fumi per le pietanze che dovevano sembrare calde, e il potenziamento dell’esplosione di una torta.
https://www.facebook.com/Buffetilfilm
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- Opera seconda -
LA MIA FAMIGLIA A SOQQUADRO
VOGLIO UNA FAMIGLIA IN CRISI Le idee che hanno successo sono talvolta quelle più semplici. L’idea commerciale azzeccata è quella sta nell’aria, respira lo spirito del tempo, ma solo a una persona si accende quella lampadina e la realizza. di CRISTIANA RAFFA
M
ax Nardari quest’idea ce l’ha avuta dieci anni fa e nel 2008 ne ha fatto un cortometraggio: un bambino di 11 anni nato e cresciuto in una famiglia tradizionale comincia a vivere il disagio di sentirsi troppo normale, così tenta di far separare i genitori per diventare come i suoi coetanei, contesi tra mamme e papà che li irretiscono con vizi, regali e viaggi. Nel 2016, nonostante varie proposte da parte di produttori, Nardari è riuscito a realizzare da solo il suo secondo lungometraggio, La mia famiglia a soqquadro.
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Il film di Nardari, finalista allo Skip City International D-Cinema Festival in Giappone, ha ricevuto proposte da produttori americani e inglesi per acquistare il soggetto e farne un remake.
«Non volevo svendere la mia idea, volevo realizzare questo film da regista e, alla fine, autoproducendomelo, ci sono riuscito e ne sono orgoglioso», spiega Nardari. Ha creato una piccola casa di produzione, la Reset, il cui primo lavoro è stato proprio la realizzazione di questa commedia per famiglie a medio budget. «Il mio primo film è stato invece una coproduzione russo-italiana sul mondo della moda che uscirà in Russia nel febbraio 2017. Un lavoro importante, ma lungo e molto difficoltoso, che mi ha fatto capire che per realizzare La mia famiglia a soqquadro come l’avevo in mente, avrei dovuto fare tutto da solo senza condizionamenti e imposizioni», racconta. La caparbietà paga, e così, dopo una gestazione non senza ostacoli, Nardari è riuscito a mettere insieme soldi, maestranze, attori, location e qualche sponsor e il film è stato girato e portato a compimento. Il risultato è una costruzione naif di uno spaccato italiano, una storia semplice e fanciullesca, che ammicca a un pubblico di massa e può trovarlo. «In Italia i distributori ti dicono che se non hai almeno un noto attore nel cast non possono aiutarti, perché non vogliono assumersi rischi. All’estero non è così, se un film è buono, è buono, e viene distribuito. E la gente quasi sempre lo premia. Noi questo lo abbiamo portato in Giappone in concorso allo Skip City International D-Cinema Festival dove, su quasi mille pellicole, è arrivato tra i nove finalisti. Lì abbiamo avuto diversi riscontri da parte di produttori americani e inglesi, e anche dagli stessi giapponesi, per acquistare il soggetto e farne un remake». Nel cast emerge il piccolo attore Gabriele Caprio, figlio di un celebre doppiatore, il protagonista che regge tutto il film. «Con lui ho lavorato benissimo, è stato forse il più professionale. Con gli altri bambini è stato meno facile, ma ho avuto comunque grandi soddisfazioni». E il film segna il ritorno davanti alle macchine da presa di Eleonora Giorgi, oggi splendida
sessantenne, nei panni di nonna Fiore. «Non recitava da dieci anni e si è innamorata di questo soggetto. È stata bravissima, molto preparata, seria. Ed è una persona deliziosa, di grande umanità. L’ultimo giorno di riprese si è presentata con champagne per tutti. È già pronta per il mio prossimo film». La parte di nonna Fiore è stata scritta da Nardari proprio su misura per lei: è un’attrice che vive all’estero e torna in Italia dopo tanti anni portando apparentemente scompiglio nella famiglia già in crisi, ma poi si rivelerà d’aiuto per un happy end natalizio nell’ambientazione e nei sentimenti. I due genitori sull’orlo della separazione sono interpretati da Bianca Nappi e Marco Cocci, diretti, come gli altri, sempre un po’ sopra le righe e con leggerezza, per tenere un registro comico semplice e delicato. Il ruolo della tentatrice, potenziale rovina-famiglia, è stato affidato a Elisabetta Pellini, volto noto al grande pubblico televisivo, probabilmente un ulteriore elemento che rende questo prodotto ben congegnato per il piccolo schermo. Una menzione speciale va a Ninni Bruschetta ed Elisa Di Eusanio, personaggi collaterali fondamentali che condiscono il film dove servono sale e pepe. La mia famiglia a soqquadro è sostenuto dall’Agiscuola e da diverse associazioni e onlus che si occupano di infanzia. La tematica che tratta è centrale in un momento storico fatto di famiglie alternative, mono o multi parentali, arcobaleno o etero, socialmente svantaggiate o semplicemente troppo affaticate da relazioni complicate. «Ho sentito l’esigenza di raccontare una storia a me molto vicina in quanto Martino, il piccolo protagonista, vive delle dinamiche interiori che conosco molto bene. Negli anni dell’adolescenza ho trascorso il periodo scolastico con grandi difficoltà relazionali. Ritenevo che l’unico modo per essere accettato dai miei coetanei fosse uguagliarli il più possibile, seguire i loro interessi, i loro hobby e il loro look, ma tutto questo era davvero uno sforzo inutile e soprattutto illusorio. Crescendo mi sono reso conto dell’importanza di dare valore alla propria identità e che la diversità che tanto mi spaventava era proprio il mio punto di forza».
«IL TEMA È CENTRALE IN UN MOMENTO STORICO FATTO DI FAMIGLIE ALTERNATIVE, MONO O MULTI PARENTALI, ARCOBALENO O ETERO, SOCIALMENTE SVANTAGGIATE O SEMPLICEMENTE TROPPO AFFATICATE DA RELAZIONI COMPLICATE». 69
- Fumetto -
FEDERICO FRANZO, nato nel 1983 a Genova, è stato allievo di Francesco D’Ippolito. Le sue opere sono apparse su Verticomics e su verticalismi.it; attualmente lavora su Topolino.
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DIARIO GLI EVENTI DI FABRIQUE
7 LUGLIO 2016
L’EX DOGANA DI SAN LORENZO BATTEZZA FABRIQUE DU CINÉMA NUMERO 14 L’uscita del nuovo numero di Fabrique è ormai un appuntamento atteso, luogo di incontro di registi, attori, produttori, addetti ai lavori e giovani appassionati di cinema. Per il numero 14 la location scelta è stata l’Ex Dogana di San Lorenzo, una delle realtà più affermate della Capitale per proposte culturali e di intrattenimento.
Tra le connessioni create nell’area estiva dello Scalo di San Lorenzo, a cominciare dai padroni di casa di Ex-Dogana, ricordiamo quella con il Kino e la sua arena cinematografica “Summer Kino”, che ha selezionato con Fabrique i migliori cortometraggi di giovani registi. AMC, l’Associazione Nazionale Montatori, ha patrocinato la tavola rotonda che come di consueto ha aperto l’evento di Fabrique, permettendo di esplorare una tra le più importanti professioni dell’audiovisivo tramite l’incontro con Consuelo Catucci, Giuseppe Trepizzone e Gianni Vezzosi. Infine Radio Monte Carlo, mediapartner ufficiale e Scooterino, la nuova app che ha lanciato per i sostenitori della rivista una promozione
speciale. Tra i tanti ospiti abbiamo avuto l’onore di avere con noi Moses, vincitore dell’ultima edizione di Italia’s got talent, nella sua prima esibizione pubblica, che con la sua armonica ha dato vita a uno show coinvolgente dove musicalità dal sapore antico si fondono sapientemente e in modo del tutto originale con effetti digitali e campionature. Sempre in ambito musicale il maestro Paolo Vivaldi, autore della colonna sonora di Non essere cattivo di Claudio Caligari, e il suo emozionante concerto per immagini dedicato alla memoria del regista. Non dimentichiamo poi la danza di Circo Nero, la musica di Marco Cocci, le mostre di Marco Piantoni e Giacomo Favilla, il video mapping di Cliché Video, i DJ Agostino Maria Ticino e Diego De Gregorio, e il live in tarda serata di Lady Coco. Nell’arena del Kino sono stati proiettati i cortometraggi Bellissima di Alessandro Capitani (David di Donatello 2016), Il lato oscuro di Vincenzo Alfieri, Non senza di me di Brando de Sica, Black Comedy di Luigi Pane e Domani smetto di Monica Dugo e Marcello Di Noto.
Un momento del concerto di Paolo Vivaldi, compositore di colonne sonore per cinema, televisione e teatro.
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NEWS 31 AGOSTO / 10 SETTEMBRE 2016
FABRIQUE GOES TO VENICE Per il quarto anno consecutivo Fabrique du Cinéma “invade” il Festival del Cinema di Venezia. Ci arriverà con l’ormai celebre camper giallo e nero, simbolo itinerante della rivista, e saranno migliaia le copie di Fabrique distribuite per tutto il Lido. La nostra postazione itinerante si fermerà accanto al Red Carpet per intercettare i big dell’industria cinematografica italiana, e i Fabriquers saranno presenti durante tutto lo svolgimento del Festival a sondare gli umori del pubblico e a commentare le sorti dei film in concorso. Inoltre il 2 settembre, in partnership con la Regione Veneto, presso l’Hotel Excelsior Fabrique terrà la consueta tavola rotonda sul tema La distribuzione dei cortometraggi: cosa c’è di nuovo. E poi fino a tarda notte non si potrà mancare all’evento n. 15: il format che nella Capitale ha tanto successo di pubblico come ogni anno “trasloca” a Venezia. Il party di presentazione del numero 15 della rivista si svolgerà al Davidia, storico locale sul lungomare del Lido.
DOVE
Come e dove Fabrique
ROMA CINEMA CASA DEL CINEMA | 06.423601 | Largo Marcello Mastroianni, 1 CINEMA TREVI | 06.6781206 | Vicolo del Puttarello, 25 EDEN FILM CENTER | 06.3612449 | Piazza Cola di Rienzo, 74 GREENWICH | 06.5745825 | Via G. Battista Bodoni, 59 INTRASTEVERE | 06.5884230 | Vicolo Moroni, 3 MADISON | 06.5417926 | Via G. Chiabrera, 121 NUOVO SACHER | 06.5818166 | Largo Ascianghi, 1 TIBUR | 06.4957762 | Via degli Etruschi, 36 LOCALI BIG STAR | Via Mameli, 25 CAFFÈ LETTERARIO | Via Ostiense, 95 CIRCOLO CARACCIOLO | Via F. Caracciolo, 23a DOPPIO ZERO | Via Ostiense, 68 GIUFÀ | Via degli Aurunci, 38 KINO | Via Perugia, 34 KINO MONTI | Via Urbana, 47 LE MURA | Via di Porta Labicana, 24 MAMMUT | Circonvallazione Casilina, 79 SCUOLE CENTRO SPERIMENTALE DI CINEMATOGRAFIA | Via Tuscolana, 1520 CINE TV ROSSELLINI | Via della Vasca Navale, 58 GRIFFITH | Via Matera, 3 ROMEUR ACADEMY | Via Cristoforo Colombo, 573 SCUOLA D’ARTE CINEMATOGRAFICA GIAN MARIA VOLONTÉ | Via Greve, 61
MILANO 30 SETTEMBRE / 2 OTTOBRE 2016
APPUNTAMENTO AL ROMA WEB FEST Punto di riferimento nel panorama italiano per le produzioni audiovisive pensate e distribuite per il web e i nuovi media, il Roma Web Fest si terrà dal 30 settembre al 2 ottobre al MAXXI - Museo Nazionale delle Arti del XXI Secolo di Roma. Anche quest’anno Fabrique rinnova la sua collaborazione con il festival organizzando un panel il 2 ottobre al MAXXI sulla nuova scrittura seriale: tenetevi aggiornati per scoprire gli ospiti e i temi sul nostro sito e su www.romawebfest.it.
CINEMA CINEMA ANTEO | Via Milazzo, 9 SPAZIO OBERDAN | Viale Vittorio Veneto, 2 LOCALI OSTELLOBELLO | Via Medici, 4 PIADE IN PIAZZA | P.zza Meda, 5 SCUOLE NUOVA ACCADEMIA DI BELLE ARTI | Via C. Darwin, 20 Milano
TORINO CINEMA CINEMA MASSIMO | Via Giuseppe Verdi, 18
BOLOGNA CINEMA CINEMA LUMIÈRE | Via Azzo Gardino, 65
FABRIQUE DU CINÉMA
LA CARTA STAMPATA DEL NUOVO CINEMA ITALIANO ESTATE
2016
Numero
14
OPERA PRIMA
BANAT
Nel film d’esordio di Adriano Valerio, la vita forse, è altrove
FUTURES
VALENTINA BERTANI
Dalla moda e dai videoclip a un set internazionale
ARTE
EDOARDO TRESOLDI
“Con la trasparenza della rete faccio dialogare l’uomo e lo spazio”
RESURREZIONE FALLIRE, TENTARE DI NUOVO, RIUSCIRE Matteo Martari e i nuovi attori,registi, autori non hanno paura degli ostacoli e dei rischi
LA CARTA STAMPATA DEL NUOVO CINEMA ITALIANO SCARICA GRATUITAMENTE TUTTI I NUMERI DAL SITO 0 SCRIVICI A REDAZIONE@FABRIQUEDUCINEMA.COM
WWW.FABRIQUEDUCINEMA.IT Like us www.facebook.com/fabriqueducinema
FIRENZE CINEMA CINEMA STENSEN | Viale Don Giovanni Minzoni, 25 CINEMA ALFIERI | Via dell’Ulivo, 6
PISA CINEMA CINEMA ARSENALE | Vicolo Scaramucci, 2
FESTIVAL
Cortinametraggio Festival Internazionale del Film di Roma Ischia Film Festival Maremetraggio - International Shorts Film Festival Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia Roma Creative Contest Roma Web Fest Rome Independent Film Festival Visioni Italiane Cineteca di Bologna
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