LA CARTA STAMPATA DEL NUOVO CINEMA ITALIANO AUTUNNO
2017
Numero
19
OPERA SECONDA
“A CIAMBRA”
Il cinema senza filtri di Jonas Carpignano, a Gioia Tauro, oggi
FUTURES
ALAIN PARRONI
“La rivoluzione devi farla per forza”
NUOVI MAESTRI
TURTURRO/OZPETEK
Due mondi, la stessa certezza: mai smettere di nutrire la passione
Unire idee, attitudini, emozioni, per costruire qualcosa di ancora più grande, seguendo l’esempio di Angela e Marianna Fontana
S
ANCORA UN ALTRO PREMIO? UN PREMIO PER FILMMAKER
MAURO BIANI
ANGELA E MARIANNA FONTANA
SOMMARIO
ARIANNA DEL GROSSO
Pubblicazione edita dall’associazione culturale Indie per cui Via Francesco Ferraironi, 49 L7 (00177) Roma www.fabriqueducinema.it
A CIAMBRA
LA VITA È BELLA
Registrazione tribunale di Roma n. 177 del 10 luglio 2013 DIRETTORE ARTISTICO Davide Manca DIRETTORE EDITORIALE Elena Mazzocchi SUPERVISOR Luigi Pinto STRATEGIC MANAGER Tommaso Agnese DIRETTORE RESPONSABILE Ilaria Ravarino GRAFICA E IMPAGINAZIONE Giovanni Morelli REDAZIONE Monica Vagnucci DISTRIBUZIONE Simona Mariani Eleonora De Sica MARKETING Federica Remotti REDAZIONE WEB Cristiana Raffa Serena Ardimento AMMINISTRAZIONE Katia Folco Consuelo Madrigali UFFICIO STAMPA Patrizia Cafiero & Partners in collaborazione con Sara Battelli PUBBLICITÀ info@fabriqueducinema.it APS Advertising srl Via Tor de Schiavi, 355, 00171 ROMA www.apsadvertising.it STAMPA CIERRE & GRAFICA Via Del Mandrione, 103 00181 Roma (RM)
04 EDITORIALE FABRIQUE AWARDS 06 ARTS 08 COVER STORY 12 FUTURES/2 24 OPERA SECONDA 26 CHICKENBROCCOLI 30 NUOVI MAESTRI/1 32 NUOVI MAESTRI/2 35 TEATRO 38 MESTIERI 40 ZONA DOC 44 ATTORI 48 VIDEOCLIP 54 SOUNDTRACK 56 NICO OLTRE NICO 58 EFFETTI SPECIALI 60 PICTURES 66 DIARIO 68 DOVE 69
16 OPERA PRIMA CUORI PURI DOVE LA VITA SPINGE ALL’ANGOLO
JOHN TURTURRO
FERZAN OZPETEK
COLLETTIVO INDUSTRIA INDIPENDENTE
LADRI DI IMMAGINI
SARO
WALKING ON SUNLIGHT
MARCO DE GIORGI
STAG
SUSANNA NICCHIARELLI
Finito di stampare nel mese di agosto 2017
LO STEINWAY
IN COPERTINA Angela e Marianna Fontana
LA CARTA STAMPATA DEL NUOVO CINEMA ITALIANO AUTUNNO
2017
Numero
19
OPERA SECONDA
“A CIAMBRA”
Il cinema senza filtri di Jonas Carpignano, a Gioia Tauro, oggi
FUTURES
ALAIN PARRONI
“La rivoluzione devi farla per forza”
NUOVI MAESTRI
TURTURRO/OZPETEK
Due mondi, la stessa certezza: mai smettere di nutrire la passione
Abiti: Manila Grace Unire idee, attitudini, emozioni, per costruire qualcosa di ancora più grande, seguendo l’esempio di Angela e Marianna Fontana
3
20 FUTURES/1 ALAIN PARRONI IL MIO SEGNO SUL MURO
INDAGINE SU UN CITTADINO...
GLI EVENTI DI FABRIQUE
COME E DOVE FABRIQUE
3
E EDITORIALE
foto ROBERTA KRASNIG stylist STEFANIA SCIORTINO makeup GIULIA GOTTI@SIMONE BELLI AGENCY using ALIKA COSMETICS hair ADRIANOCOCCIARELLI@HARUMI total look MANILA GRACE
4
ANCORA UN ALTRO PREMIO? di ILARIA RAVARINO @Ravarila_DM
Ancora un altro premio?
Un regista piuttosto famoso, un regista italiano, mi confessò una volta di non poterne più. Aveva vinto così tanti premi nella sua carriera che ormai, appena possibile, se ne disfava. Ma non metaforica-
mente: praticamente, intendo. Buttandoli nel cassonetto. «Che ci fai con quei premi?» mi spiegava, malmostoso, all’indomani dell’ennesimo riconoscimento ricevuto su un palco di provincia «almeno un tempo, oltre al premio, si aveva il buon gusto di dare un gettone. Adesso niente. Adesso solo queste inutili insalatiere».
Il 15 dicembre Fabrique du Cinéma assegnerà, come ogni anno, i Fabrique Awards. E mentre la redazione è ancora in pieno fer-
mento per l’organizzazione del premio, e il numero del giornale si avvia alla chiusura, mi è tornato in mente quel regista. E le sue parole. Ancora un altro premio?
mettersi di sbagliare, rischiare, persino di sparire. Ma è indispensabile a chi sta cercando di costruirsi un futuro: attrici come Angela e Marianna Fontana, cover story di questo numero, sollevate dall’onda lunga di Indivisibili, premiato ai David di Donatello e ai Ciak d’Oro (per loro due nuovi impegni, con Mario Martone e Marco Tullio Giordana). O registi come Arianna Del Grosso, la nostra Futures (insieme ad Alain Parroni), lanciata dal premio Pasinetti alla Mostra di Venezia per il suo Lia, e sperimentatori come Jonas Carpignano, Opera Seconda di questo numero, premio Europa Cinemas Label a Cannes con A Ciambra. I premi servono, ce lo dice anche il Nuovo Maestro John Turturro che all’Ischia Film Festival ha ritirato un riconoscimento speciale alla carriera: danno visibilità, fiducia, gratificazione, incoraggiamento. Sono vetrina. E un’altra cosa. I nostri premi non sono insalatiere. Sono
riconoscimenti in denaro, l’opportunità di essere distribuiti su piattaforme digiI Fabrique Awards da quest’anno rad- tali, la possibilità di sviluppare la prodoppiano, escono dai confini nazionali, aumentano pria sceneggiatura. Niente che si possa buttare in
i premi (undici i riconoscimenti assegnati in totale), si appoggiano a una giuria internazionale (Willem Dafoe il presidente), e sì, vorrei rispondergli adesso, siamo convinti che serva un altro premio. Magari non a chi ha già una carriera alle spalle, e può per-
un cassonetto, per fortuna. E anche se fosse sono abbastanza convinta che nessuno dei giovani autori lo farebbe: solo chi ha nutrito a lungo e ciecamente il proprio ego, infatti, può dare per scontato il gradimento del pubblico (o delle giurie) al proprio lavoro.
«Un premio è indispensabile a chi sta cercando di costruirsi un futuro».
5
15 DICEMBRE 2017
UN PREMIO PER FILMMAKER ORIGINALI E CORAGGIOSI
Fra poco più di un mese si chiuderanno le selezioni per i Fabrique Awards, il riconoscimento che la nostra rivista riserva ai nuovi autori, attori, musicisti. Con una giuria d’eccezione.
I
l cinema digitale, la contaminazione dei generi narrativi, la sperimentazione di nuove tecniche di racconto e la creatività rendono necessaria l’apertura alle produzioni internazionali. Ed è in questo contesto ricco di stimoli, attento ai giovani talenti e alle loro opere prime, che i Fabrique Awards intendono farsi strada.
Il premio Fabrique Awards è alla sua prima edizione internazionale e si rivolge a filmmaker italiani e stranieri con la passione per la settima arte. Il concorso, nato nel 2015, quest’anno presenta aspetti nuovi sia per quanto riguarda le categorie in lizza, sia per la composizione della giuria. La premiazione sarà il 15 dicembre a Roma, con
un presidente di giuria di eccezionale talento: Willem Dafoe, l’interprete di tante pellicole di culto come
Platoon, Spider-Man 2, Nymphomaniac. Questo è un anno intenso per l’attore americano: è stato un bandito in Cane mangia cane, è il consigliere del re di Atlantide in Aquaman, sarà il celebre pittore Van Gogh nel film At Eternity’s Gate di Julian Schnabel. Al suo fianco, altri celebri professionisti dell’industria culturale. Cominciamo da Valentina Lodovini: attrice di cinema, televisione, teatro e vincitrice di un David di Donatello, è una figura eclettica del panorama italiano.
Poi Christian Halsey Salomon, produttore americano di origini italiane, che ha realizzato film di successo come American Psycho, Padri e figlie, The Legionary – Fuga all’inferno. Alessandro Usai, amministratore delegato di Colorado Film, società di distribuzione e produzione italiana, di cui fra l’altro è prevista in autunno l’uscita del film La ragazza della nebbia di Donato Carrisi, tratto da un suo romanzo. E ancora Jacopo Chessa, direttore del CNC, Centro Nazionale del Cortometraggio Italia, una «cineteca e agenzia di promozione» volta principalmente alla valorizzazione del cortometraggio italiano nei mercati internazionali. Last but not least, Fabio Guaglione e Fabio Resinaro, in arte Fabio&Fabio, duo registico di ultima generazione. Italiani ma già conosciuti oltre confine, si sono fatti notare con il loro esordio alla direzione nel film di guerra Mine, vincitore dell’edizione
del Premio Fabrique 2016 come Opera Innovativa e Sperimentale. Progetto molto
indipendente, film italiano di respiro internazionale con protagonista l’attore americano Armie Hammer, Mine continua a fare il giro del mondo e a ottenere un consenso unanime di critica e pubblico.
Sopra la locandina di Mine. In alto a destra Valentina Lodovini, diretta da Roberto Faenza in La verità sta in cielo, film sulla vera storia di Emanuela Orlandi.
6
Scadenze:
I LUNGOMETRAGGI DEVONO ESSERE ISCRITTI ENTRO E NON OLTRE IL 15 OTTOBRE 2017. I CORTOMETRAGGI, DOCUMENTARI, SERIE WEB E LE SCENEGGIATURE O SOGGETTI DEVONO ESSERE ISCRITTI ENTRO E NON OLTRE IL 23 OTTOBRE 2017.
Categorie e premi Diverse sono le categorie che i giurati devono valutare, così come diversi sono i premi in palio per i vincitori. Sono sei le nuove sezioni: MIGLIOR FILM, MIGLIOR CORTOMETRAGGIO
ITALIANO E STRANIERO, MIGLIOR WEBSERIE, MIGLIOR DOCUMENTARIO e MIGLIORE SCENEGGIATURA. A queste si aggiungono le tradizionali:
MIGLIORE OPERA PRIMA, MIGLIORE OPERA INNOVATIVA E SPERIMENTALE, ATTORE RIVELAZIONE, ATTRICE RIVELAZIONE e MIGLIOR COLONNA SONORA.
Oltre ai premi in denaro, i candidati hanno l’opportunità di vincere contratti di distribuzione su piattaforme digitali (proposte da Under the Milky Way per il Miglior Documentario e
dalla piattaforma innovativa iPitch.tv per i cinque progetti finalisti nella sezione Sceneggiatura/ Soggetti). Un premio importante per riconoscimento e qualità viene inoltre offerto da Prem1ere
Film, coproduttrice dei Fabrique Awards, che offre alla Migliore Sceneggiatura un contratto di produzione e distribuzione. Senza dubbio una grande possibilità per i giovani talenti.
www.fabriqueawards.com
Fabio&Fabio vivono con intensità e fiducia questo momento della loro carriera. La chiave del loro fare cinema resta quella di usare un linguaggio innovativo, vicino al pubblico del web. È proprio con loro che affrontiamo il tema di quale linguaggio sia necessario per sperimentare e, allo stesso tempo, emergere. Al momento i due sono impegnatissimi in un nuovo film che li vede nella veste inedita di produttori. Raggiunti al telefono fra un sopralluogo e l’altro, affermano convinti che «è fondamentale osare più che sperimentare, per creare qualcosa di unico che ancora non c’è, ma di cui si avverte in qualche modo la necessità. Si tende a rielaborare, bisogna invece continuamente nutrire l’immaginario, creare nuove icone». Il giovane filmmaker «deve fare qualcosa in cui crede, e allo stesso tempo possedere una visione strategica, in altre parole avere la capacità di far avvenire le cose». Parlando appunto del loro ultimo progetto, Ride (opera prima di Iacopo Rondinelli), spiegano che è una combinazione di generi, un esperimento tra thriller e
fantascienza girato con le GoPro (le riprese prevedono 25 GoPro per almeno il 90% del film). È una vera novità per il grande schermo, e il risultato è tutto da vedere, assicurano i due registi: «Un disegno folle mai tentato prima, e solo ora stiamo cominciando a capire la complessità dell’idea». Per questo progetto Fabio&Fabio vestono i panni dei produttori insieme a Lucky Red. Il passaggio da registi a produttori è una scelta consapevole: «Abbiamo tante storie da raccontare e vogliamo avere a disposizione più modi per farlo. A noi interessa contribuire al cinema italiano, dare un’impronta artistica, produttiva, seguire giovani registi e sviluppare negli anni una factory, dove gli autori possano scambiarsi intuizioni e nutrirsi di idee». Ma come nascono i vostri progetti? «Da spunti che ci raccontiamo e poi capiamo se contengono una potenza simbolica, metaforica, un messaggio che li trasformi in storia. Da lì parte un processo scientifico, non nel senso grammaticale del termine, ma una scienza delle emozioni, in grado di attirare, coinvolgere e soddisfare il pubblico».
FABRIQUE AWARDS: IL COPRODUTTORE, PREM1ERE FILM Prem1ere Film è una casa di distribuzione e produzione cinematografica specializzata nella distribuzione festivaliera di cortometraggi. Guidata da Roberto De Feo e Mariapia Autorino, è diventata negli anni un punto di riferimento nell’ambito cinematografico. Tante le attività: supportare registi nazionali e internazionali attraverso la distribuzione di cortometraggi nei circuiti festivalieri, realizzare campagne di preselezione ai premi Oscar, attivare canali di vendita dei prodotti cinematografici su varie piattaforme. Un pacchetto ricco di progetti che ha condotto a ottimi risultati, come il successo ai festival dei corti Candie Boy (di Arianna Del Grosso, vedi Futures) e Penalty di Aldo Iuliano (Globo d’Oro 2017). Maggiori info: premierefilm.it
7
- Arts -
I suoi temi sono le migrazioni, il lavoro, la guerra, argomenti su cui realizza quotidianamente VIGNETTE SATIRICHE per «il manifesto»: MAURO BIANI è un osservatore attento dei fenomeni sociali e delle contraddizioni che segnano il rapporto con l’altro.
di MARCO PACELLA
La satira? Fa parte del gioco www.maurobiani.it
Disegnatore e autore pungente, affianca la satira al lavoro da educatore a contatto con ragazzi disabili: e le due cose, come ci ha spiegato, non sono poi così distanti.
è sviluppata una passione per la satira come forma espressiva. Sicuramente la cosa che mi colpì di più, a vent’anni, fu il settimanale satirico «Cuore». Nell’ultimo periodo anch’io mandai un paio di vignette su Andreotti. Mi sa che una ancora ce l’ho da qualche parte.
Qual è il tuo percorso formativo e come ti sei avvicinato alle vignette satiriche? Non ho una formazione di tipo artistico, ho fatto il liceo classico e poi l’ISEF… Però all’ISEF ero quello che disegnava: per esempio se c’era da fare l’esame di giochi sportivi, come la pallavolo, con le posizioni, il bagher ecc., io disegnavo i pupazzetti stilizzati. Poco a poco si
Per la satira quali sono stati i tuoi riferimenti?
8
Tra gli Italiani mi sono sempre piaciuti Altan e Bucchi. Di Bucchi ho sempre capito il linguaggio brillante, non scontato. Mi ricordo che mia madre, insegnante di Lettere, mi chiedeva “ma che vuol dire?”, io invece ridevo, quindi già allora qualcosa mi era scattato.
9
Che rapporto hai invece col fumetto? Mi piacevano molto Andrea Pazienza, i supereroi Marvel, l’Uomo Ragno. Lo leggevo ascoltando i Genesis, e infatti li associo spesso, l’Uomo Ragno e i Genesis! Ho sempre pensato che il fumetto fosse un’arte, un tipo di espressione importante, non una cosa solamente per ragazzi o per bambini. Poi ho cominciato a disegnare con
più continuità le vignette, a provare tanti stili. Credo di essere stato uno dei primi vignettisti in Italia ad aprire un blog. Strano, perché di solito arrivo sempre ultimo con la tecnologia [ride]. Per un caso fortuito ho cominciato a
leggere qualche blog e ho capito che poteva essere una specie di vetrina in cui mettere le vignette. A quell’epoca i blog erano i primi social network, qualcosa di vivo. Così ho ricevuto le prime critiche, i primi apprezzamenti, e mi è servito moltissimo. Il fatto di pubblicare su un blog online ha influito sull’uso di una tecnica digitale? Sì, all’inizio io avevo una tecnica molto semplice, facevo il disegno con la penna, lo scannerizzavo e lo riducevo al nero assoluto, poi lo coloravo con Photoshop. Oggi pubblichi su internet la tua vignetta quotidiana su «il manifesto» il giorno prima che esca in edicola. Come mai questa scelta? Perché sono un capoccione, è stata una mia proposta. In realtà è un sacrilegio mettere online la vignetta prima di farla uscire sul giornale, infatti all’inizio mi hanno detto di no. «il manifesto» è un piccolo giornale, però poi hanno capito che è un veicolo per far viaggiare i contenuti, perché quando uno si collega attraverso la vignetta magari va a leggere altri articoli. Strano che non lo facciano anche altri giornali. Ultimamente una tua vignetta che capovolgeva un vecchio manifesto di propaganda razzista è stata oscurata su Facebook perché ritenuta essa stessa razzista, non parodistica. Dopo diverse segnalazioni l’equivoco si è risolto e l’immagine è tornata online. Che opinione ti sei fatto su questa vicenda? Sono rimasto sbalordito da quanta gente si è mobilitata. Comunque non drammatizzerei: Facebook è sempre un’azienda privata con le
sue regole. Nella vignetta in questione avevo dato degli indizi rispetto all’immagine originale, per esempio avevo tolto la mia firma e scritto “amici di Adolf”: era uno “spiegone”, un modo per sottolineare la parodia. Però stando online devi tener conto di una serie di questioni, tra cui il fatto che non ti capiscano. Fa parte del gioco. Spesso si ripete acriticamente che la satira ha l’obbligo di far ridere. Invece nel tuo lavoro la risata può anche non esserci, oppure essere delle più amare. Be’, è un elemento problematico. Mi sono sempre domandato se la mia sia satira oppure no, se sia delle volte anche retorica oppure tragedia e basta, senza satira. Non è necessaria la risata, però capisco anche chi dice “ci deve essere qualcosa che comunque faccia sorridere”. Ma alla fine convivo abbastanza bene con questa contraddizione. Qualche anno fa hai pubblicato Come una specie di sorriso, una raccolta di vignette ispirate alle canzoni di Fabrizio de André. Qual è il tuo rapporto con la musica? È una forma altissima di arte e quindi di ispirazione, anche se devo dire che preferisco il cinema alla musica. De André mi piace molto, ma non sono un cultore, e forse in quel lavoro è stato un bene. Con quelle illustrazioni ho dato una lettura “laica”, se non addirittura blasfema, delle sue canzoni. Se fossi stato un vero appassionato non mi sarei mai permesso di “rovinare” l’opera del maestro, no? Parallelamente al tuo lavoro come vignettista sei anche un educatore per ragazzi con disabilità mentale. Che rapporto c’è fra queste due professioni? Secondo me hanno un rapporto molto stretto. Fare l’educatore ti dà un certo tipo di – non vorrei chiamarla sensibilità – diciamo un certo tipo d’approccio alle questioni che accadono intorno, ti impone la capacità di rovesciare il punto di vista, di metterti nei panni di un altro che vede le cose in maniera molto diversa dalla tua. E talvolta questi ragazzi se ne escono con delle espressioni verbali e posturali che sono satira allo stato puro. Ecco, cambiare punto
di osservazione sulle cose, mettersi da una prospettiva altra – che è proprio della satira – è proprio anche del dialogo
e della relazione con questi ragazzi.
«MI SONO SEMPRE DOMANDATO SE LA MIA SIA SATIRA OPPURE NO, SE SIA DELLE VOLTE ANCHE RETORICA OPPURE TRAGEDIA E BASTA, SENZA SATIRA». 10
- Cover story -
ANGELA E MARIANNA FONTANA
GEMELLE DIVERSE
Sono state “indivisibili” sul set del film di Edoardo De Angelis; sono inseparabili nella vita di tutti i giorni. Tenetele d’occhio: lo dice uno che se ne intende come John Turturro (a pag. 34)… di CHIARA CARNÀ foto ROBERTA KRASNIG stylist STEFANIA SCIORTINO assistente LUCREZIA RICCI makeup GIULIA GOTTI@SIMONE BELLI AGENCY using ALIKA COSMETICS hair ADRIANOCOCCIARELLI@HARUMI total look MANILA GRACE thanks to ALESSANDRO CAMBI
A
ngela e Marianna hanno vent’anni e sono cresciute a Maddaloni, in provincia di Caserta: «Lì non c’è neppure una sala cinematografica – ride Marianna – eppure i film ci hanno sempre irresistibilmente attratte. Adoriamo le storie e le atmosfere di Kim Ki-duk e David Lynch e studiamo musica e recitazione sin da piccole». «Avevamo 16 anni quando abbiamo incontrato Edoardo De Angelis per la prima volta – continua Angela – abbiamo sostenuto un provino per il suo episodio di Vieni a vivere a Napoli, ma ci ha scartate. Tuttavia, è stata proprio quell’esperienza ad accendere una luce in noi e a farci capire che recitare era ciò che volevamo davvero. E quando Edoardo, un paio d’anni dopo, ci ha chiamate per interpretare Indivisibili, non riuscivamo a crederci». Nel film siete Dasy e Viola, due gemelle siamesi. In che modo il regista vi ha guidate nel dar vita ai vostri personaggi? Marianna «Premetto che per noi passare molto tempo insieme è normale. Naturalmente sul set il lavoro
di coppia è stato molto intenso, abbiamo subito una vera e propria trasformazione dal punto di vista fisico. Il regista ci ha fatto vedere La donna scimmia di Marco Ferreri e documentari
12
sul tema della diversità. Ci ha chiesto anche di scrivere dei diari come se fossimo davvero i nostri personaggi. Io ero completamente assorbita da
Dasy, ho resettato me stessa. Per prepararci dormivamo, mangiavamo e ci comportavamo come se fossimo davvero siamesi. Tuttavia, essere
sorelle ha reso tutto piuttosto naturale; se fossimo state due estranee, sarebbe stata certamente più dura». Angela «Questo però non toglie che il film è stato una sfida a tutto tondo. Le scene in cui litighiamo o ci buttiamo in acqua sono state molto forti a livello emotivo... Abbiamo vissuto fino in fondo ogni momento, al punto che a stento ricordo cosa ho provato interpretando Viola: ero lei a 360 gradi. Il nostro obiettivo era che il risultato fosse realistico. Il lungo allenamento ha fatto sì che essere siamesi diventasse la nostra forza e rendesse tutto naturale». Ricordate qualche imprevisto in fase di riprese? A. «Io e Marianna non avevamo mai guidato il motorino da “attaccate” e, nella scena in cui scorrazziamo su due ruote, abbiamo rischiato di cadere un bel po’ di volte. Ma non è stato nulla in confronto a quando un branco di cani randagi ha iniziato a inseguirci... Abbiamo strillato come matte!».
13
«IL NOSTRO MOTTO NON PUÒ CHE ESSERE: L’UNIONE FA LA FORZA».
Il pregiudizio e la superstizione sono fra i temi principali di Indivisibili. Cosa ne pensate? A.&M. «Il film invita a non essere superficiali e a non giudicare dall’aspetto fisico. Per quanto riguarda la superstizione non possiamo negare che in aree geografiche come quella in cui è ambientata la pellicola sussistano ancora questi preconcetti. Ogni luogo, però, ha i suoi lati negativi e positivi e ci sono anche tante persone che hanno davvero voglia di crescere, migliorare e sognare. Il pubblico ci ha confermato di aver percepito tutto questo e di essersi emozionato, e per noi è una bella vittoria. Il riscontro positivo ci ha sorprese, così come i tanti premi vinti». La famiglia è una presenza negativa nella vita di Dasy e Viola: sfrutta la loro diversità per trarne profitto. Che ruolo hanno avuto invece i genitori nella vostra crescita professionale? M. «La nostra famiglia è fantastica e ci ha sempre sostenute, lasciandoci libere e gioendo per i nostri successi. Mamma ci ha educate al cinema e alla musica, che per me sono complementari. Recitare è come
cantare: bisogna seguire il ritmo e tenere il tempo. La musica è tutto, se non ci fosse non esisterebbe nemmeno il cinema e verrebbe meno anche l’emozione».
Angela e Marianna Fontana interpretano due gemelle siamesi in Indivisibili di Edoardo De Angelis, che affronta il tema della diversità nel particolare contesto di Castel Volturno, in provincia di Caserta.
14
A. «Sono d’accordo, musica e settima arte hanno moltissimo in comune: l’interpretazione, l’armonia. Noi abbiamo iniziato proprio cantando, e lo facciamo anche in Indivisibili. Però sentiamo che la recitazione è più nelle nostre corde. Dal punto di vista musicale dobbiamo ancora trovare la nostra strada. Però ascoltiamo di tutto: blues, jazz, soul. Enzo Avitabile, di cui nel film cantiamo Tutte eguale song’ ‘e ccriature, è un mito per noi». Vi sentite cambiate dall’improvvisa popolarità? A. «Assolutamente no, siamo sempre le stesse. È vero, adesso ci riconoscono per strada e ci fermano per fare una foto con noi... Ma, a parte questo, continuiamo a studiare e a imparare, restando coi piedi per terra.
Crediamo tantissimo nello studio come continua ricerca. Non bisogna mai fermarsi». In proposito, cosa consigliereste ai vostri aspiranti colleghi? A.&M. «La situazione per i giovani emergenti
può cambiare solo con la determinazione. Non mollate, inseguite ciò che volete e non cambiate mai, per nessuno! Se amate il cinema dovete credere nel vostro percorso.
La situazione si sta smuovendo e c’è voglia, da parte dei cineasti, di affidare storie da raccontare a volti nuovi». E a voi due cosa riserva, invece, il futuro? A. «Sono la protagonista di Due soldati, il nuovo film di Marco Tullio Giordana, che è uno dei miei registi preferiti. Lavorare con lui è stato un onore e mi ha regalato un personaggio meraviglioso a cui ho dato il massimo. Mi aspettano, adesso, le riprese di Like me back di Leonardo Guerra Seràgnoli, che parla di come la realtà virtuale, in particolare quella legata ai social, stia influenzando le nostre vite. Ogni nuovo ruolo è una scommessa, ma spero di colpire soprattutto le ragazze». M. «Io sarò nel cast del nuovo film di Mario Martone, ma non posso rivelare niente di più, se non che adoro il copione e che lui è un maestro, uno dei pochi in Italia che ammiro: ho amato i suoi lavori teatrali». Indivisibili è soprattutto la storia di una separazione. Come vi sentite all’idea di intraprendere carriere parallele? M. «Siamo tranquille, separarci lavorativamente non ci spaventa. Siamo abituate a confrontarci e a confidarci su tutto, proviamo le battute insieme e ci diamo consigli. Se mia sorella supera un provino mi sento felice come se fosse successo a me, anche quando siamo in competizione per lo stesso ruolo. Ci supportiamo a
vicenda, sempre e comunque. Il nostro motto non può che essere: l’unione fa la forza».
15
- Opera prima -
CUORI PURI
DOVE LA VITA SPINGE ALL’ANGOLO Roberto De Paolis
nasce fotografo. Ma lo scatto artistico più importante della sua vita arriva da un tradimento o, meglio, da una liberazione. di ELIO DI PACE
Vorrei che mi raccontassi le tue origini artistiche di fotografo, e come è avvenuto il passaggio al cinema.
La fotografia ha rappresentato, nella mia vita, un periodo legato a un certo desiderio di rigidità. In fotografia mi sembra che i personaggi vengano imprigionati, come in una specie di incantesimo.
La fotografia utilizza il corpo senza movimento, senza parola, i personaggi sono muti. Io facevo delle foto a lunga esposizione, quindi lavoravo su un corpo che provava a sdoppiarsi, a triplicarsi nello spazio e nel tempo di una immagine esposta anche per due o tre minuti. Questo imponeva una sorta
di “punizione” per il soggetto, che doveva stare immobile in una posizione, poi di nuovo immobile in un’altra, il contrario esatto di come abbiamo lavorato sul mio film: Cuori puri è stata un’esperienza totalmente liberatoria, di movimento, di fiducia, ho cercato di dare agli attori la possibilità di esprimersi come volevano, con il dialogo e con il corpo. Per cui penso che nel mio caso specifico il passaggio dalla fotografia al cinema sia stato una crescita, una liberazione, un’emancipazione, un rompere le catene. La liberazione è stata
anche estetica e formale: le foto che facevo erano molto estetizzanti, mentre questo film ha al centro la vita, non
Simone Liberati, nei panni di Stefano, ha ricevuto il Premio Graziella Bonacchi in occasione della 71esima edizione dei Nastri d’Argento.
16
«LA COSA BELLA DELL’OPERA PRIMA È CHE IMPARI LE COSE FACENDOLE».
ci siamo preoccupati della bellezza dell’inquadratura in sé, ma abbiamo privilegiato il movimento spontaneo degli attori, della luce, della macchina da presa, cercando sempre la verità, la realtà, la vita. Un passaggio sano, positivo. Diresti che le tue fotografie siano state, per Cuori puri, una base di partenza o un modello da cui allontanarsi? Assolutamente un modello da cui allontanarmi: è stato un po’
come nella vita, in cui succede di fare sempre lo stesso errore, avere sempre gli stessi comportamenti, poi capisci che sono sbagliati e te ne liberi. Non che la fotografia
fosse sbagliata, semplicemente non era la mia vera chiave di espressione. Inoltre, fare un film comporta il venire a patti con tante persone, mentre la fotografia è un delirio dove si è sempre soli, dove si costruisce un mondo che è totalmente sotto il tuo controllo. Veniamo a Cuori puri. Come hai trovato l’idea del film? Tutto è nato da un fatto di cronaca accaduto a Torino cinque anni fa. Quando si scelgono delle vicende così lontane da te, il cinema ti
costringe a fare un meraviglioso viaggio fuori dalla tua vita, in mondi che non conosci. La storia di questa ragazza è
stata come un colpo di fulmine, mi ha portato fuori da me, è stata una delle esperienze più belle della mia vita. La ricerca è stata molto lunga, sono entrato in una comunità in periferia, ho conosciuto tante persone, e tutti i personaggi che sono nel film sono ispirati a incontri reali che ho fatto mentre ero lì: lui, lei, la madre, il prete, tutte persone in carne e ossa che ho frequentato e che hanno dato spessore ai personaggi, non sono solo frutto dell’immaginazione mia e degli sceneggiatori.
Essendo questa la tua opera prima, hai avuto momenti di timore, o hai sempre percepito di avere la situazione sotto controllo? La cosa bella dell’opera prima è che impari le cose facendole. Io non ho mai studiato cinema, si è trattato di un processo empirico: partendo dall’idea di non sapere, ti butti in una specie di avventura di cui non conosci le regole. I momenti di incertezza, oppure quelli in cui pensi che non riuscirai a fare il film, ci sono sempre, però c’erano due o tre idee di base su cui ero veramente tranquillo: per esempio il lavoro con gli attori, l’idea che dovevamo cercare di raggiungere una verità senza filtro ispirandoci al linguaggio del documentario. Dopo anni in cui teorizzi il modo di lavorare sul set, improvvisamente hai tre, quattro, cinque settimane per vedere se queste teorie funzionano, e devo dire che per me hanno funzionato. Come rispondi alle critiche che si muovono a film come il tuo o come Fiore, per cui gli autori italiani si starebbero fossilizzando sulle storie di periferia, di personaggi borderline, usando un linguaggio ormai consolidato? Le respingo, ovviamente. Gettare lo sguardo verso la periferia, se lo si fa responsabilmente, è importante: succedono parecchie cose drammatiche che vanno assolutamente raccontate. Per esempio, non è scontato che tutti sappiano che esistono 50 o 100 situazioni simili a quella del parcheggio di Cuori puri in periferia est di Roma, con ragazzi che lavorano vicino ai campi rom, non credo che tutti sappiano che ancora nel 2017 ci sono programmi parrocchiali organizzati per arrivare vergini al matrimonio, con preti che dicono che se questo voto non viene rispettato si finisce all’inferno. E poi c’è un altro dato di fatto: in periferia vengono fuori inevitabilmente dei film più dinamici. Io avevo
Nel cast, accanto agli esordienti Simone Liberati e Selene Caramazza, anche Barbora Bobulova, Stefano Fresi e Edoardo Pesce.
17
«CUORI PURI È STATA UN’ESPERIENZA TOTALMENTE LIBERATORIA, DI MOVIMENTO, DI FIDUCIA».
provato a scrivere un film su due borghesi che vivevano in centro, lui architetto, lei attrice, ora nemmeno ricordo più, però ti assicuro che dopo un anno di lavoro di sceneggiatura non ho trovato una storia, un’azione, questi due personaggi erano in balia di problemi solo astratti, solo mentali, su cui era difficile fare un film. Invece, appena ci si sposta in periferia, prende corpo il dinamismo, i personaggi
sono spinti all’angolo, hanno molte più responsabilità, subiscono molto di più la vita, devono reagire con molta più veemenza.
Parliamo degli attori e del processo che ti ha portato a sceglierli, fino al lavoro sul set. Selene Caramazza e Simone Liberati mi sembravano gli attori più capaci, più umili. Dopo aver lavorato così tanto sulla ricerca, avevo delle pretese molto alte, volevo che anche loro si documentassero come mi ero documentato io, volevo che Selene spendesse tanto tempo in una comunità cattolica in cui io avevo trascorso un anno e mezzo, volevo che Simone conoscesse la realtà della periferia come l’avevo conosciuta io. Per tre o quattro mesi Selene ha preso l’autobus il venerdì e il sabato andava a Tor Sapienza, è stata in comunità, mangiava con i ragazzi, usciva con loro, ascoltava le catechesi, faceva volontariato. Alla fine, ho chiesto a quegli stessi ragazzi di prendere parte al film, per cui quella che si vede è una vera comunità, che comprende anche Selene, che in quel lasso di tempo è diventata una vera militante. E la stessa cosa è successa con Simone, che ha esplorato parecchio la periferia, e i ragazzi che ha conosciuto stando lì sono i suoi amici nel film. Un altro aspetto che ritengo importante è non pretendere che gli attori si
trasformino completamente nel personaggio che tu hai in testa in fase di scrittura. È un peccato di superbia
pensare che il personaggio sia più importante della persona che hai davanti, ci deve invece essere un incontro a metà strada, dove tu sei disposto ad abbandonare ciò che avevi scritto e l’attore è disposto ad abbandonare un po’ di sé, per trovare una specie d’incrocio. Di conseguenza, ti sei distaccato dalla sceneggiatura quando la situazione o gli attori ti incoraggiavano a farlo. Mi sono distaccato quando mi andava, quando sul set avvenivano
18
cose più belle. Per esempio, la scena in cui i ragazzi parlano dell’arrivo dei profughi. La scenografia aveva preparato dei disegni di episodi del Vangelo e li aveva sistemati in un’aula in cui avremmo dovuto girare senza dialoghi. A un certo punto, uno dei ragazzi della comunità, quando ha visto i disegni, ha detto: “E se sono musulmani, come facciamo?”. Lo ha detto per scherzare, però ci ha dato un’idea, allora ho organizzato un pranzo con tutti i ragazzi e ho chiamato uno sceneggiatore che insieme a me ha raccolto i loro pensieri. Alla fine ognuno di loro esprime un’opinione reale. Questa scena non esisteva, è nata due ore prima delle riprese. Sapevi fin da subito il modo in cui avresti girato, eri già certo del découpage? Nel film c’è un’alternanza molto efficace di campi lunghissimi e piani stretti, senza soluzioni intermedie. No, è tutto nato al montaggio. La macchina a mano
è stata utile per favorire l’improvvisazione, non è stata una scelta di maniera. È stata una
necessità dettata dai momenti spontanei. Inoltre, abbiamo girato molte cose solo con il 35mm, perché non volevo che l’operatore [Claudio Cofrancesco, anche direttore della fotografia del film, ndr] avesse l’escamotage di cambiare le lenti e rimanere fermo in una posizione, non volevo semplicemente girare i totali con il 18mm o il 24 e gli stretti con il 70 o l’85, volevo invece che la macchina si muovesse in relazione a quello che accadeva. Con questa museruola del 35mm, Claudio era costretto a sentire la scena: per esempio, quando i due si baciano per la prima volta era attratto da quel bacio e andava verso di loro, oppure quando c’era una violenza faceva due passi indietro perché si spaventava. Stai già pensando a un’opera seconda? Puoi anticiparci qualcosa?
Stiamo pensando di fare un film sul mondo della prostituzione, e non so ancora come affrontarlo. In quel
caso la ricerca è un po’ più complicata, quindi io, Carla Altieri (la produttrice di Cuori Puri) e gli sceneggiatori stiamo cercando un metodo per condurre la ricerca nel modo più umano possibile. Dobbiamo trovare una soluzione, perché senza ricerca non mi fido a fare un film.
- Futures/1 -
ALAIN PARRONI
IL MIO SEGNO SUL MURO Essere testimoni del nostro tempo attraverso opere che nascono come fusione tra linguaggi diversi, con uno stile in evoluzione continua. Così Alain Parroni (25 anni) ci descrive la sua visione del cinema, un lavoro di squadra che gioca con le arti tra passato e futuro per lasciare memoria di sé. di CHIARA DEL ZANNO foto ALICE GIMMELLI
In IOV hai ricostruito il Polo Nord, con Macaroni hai rivisitato il furto della Gioconda per mano di Vincenzo Peruggia: due regie devote all’estetica per poi arrivare a Drudo e Adavede, in cui tutto è giocato su drammaturgia e recitazione. Come mai questa profonda differenza di approccio? Quando scrivo una storia inizio contemporaneamente anche a disegnare, sempre con tecniche diverse. È così che prendono forma le mie inquadrature. Ho disegnato Adavede a carboncino, usando
20
solo schizzi grezzi, perché era una storia di graffiti e segni. Al contrario Macaroni ha uno storyboard dettagliatissimo, perché volevo fare “il cinema dei grandi” in una sorta di teatro di posa. La regia è quella, ma lo stile credo debba cambiare in ogni opera. È come per i testi: a volte scrivi una poesia, altre una lettera o un romanzo. Non a caso ogni cortometraggio è stato un atto d’amore nei confronti di una persona, e questo ha richiesto forme d’espressione diverse.
In Macaroni Alain Parroni racconta la storia del decoratore italiano Peruggia, divenuto celebre per aver trafugato la Gioconda dal Museo del Louvre nel 1911.
MACARONI
IOV
Il corto Adavede sarà presentato a Venezia, in occasione dello Short Italian Cinema alla Settimana Internazionale della Critica.
ADAVEDE
I tuoi lavori nascono da una curiosa fusione di linguaggi: scultura, pittura, grafica, animazione. Stai definendo ancora la tua strada o sogni una sorta di rivoluzione dell’audiovisivo? Inizialmente ero accecato, come tutti, dall’amore per il cinema dei maestri. Quindi provavo a fare quello che avevo sempre visto fare agli altri. Poi con Adavede si è accesa la consapevolezza di essere nel Duemila, e in fondo c’è motivo di esistere anche nel 2017: devo dare un senso a questo. Giacometti voleva fare una scultura
solo per sotterrarla e lasciarla trovare ai posteri, come
IOV nasce dalla lettura del saggio Naufragio con spettatore di Hans Blumenberg e racconta gli ultimi istanti di vita di un esploratore delle profondità artiche.
testimonianza di un’epoca. Anche io avrò un tempo limitato per definire quello che ho attorno. Quindi sì, è la ricerca e insieme il bisogno di essere testimone del nostro tempo, del nostro cinema. La rivoluzione devi farla per forza. La tua idea di set è particolare: come lavori con la tua squadra? Pensi possa funzionare anche con realtà produttive più grandi? Con Macaroni ho iniziato occupandomi anche della fotografia,
21
dei costumi, della scenografia. Ma ero circondato da assistenti e ho notato subito che tutti davano una pennellata indispensabile al quadro. Ho voluto mettere nei titoli di testa di Adavede le firme scritte di tutta la troupe: le persone con cui lavoro mi sono accanto già dalle prime allucinazioni; capita addirittura di andare a fare sopralluoghi per qualcosa che nemmeno ho scritto, e magari dalla foto del sopralluogo nasce una scena. Parliamo tantissimo di qualsiasi idea: a volte rimane solo il tormentone di una settimana, altre diventa una sceneggiatura. Herzog è stato un pilastro per me e per i miei colleghi della RUFA, ci ha ispirato nel portare avanti questo modo zingaro di impostare il set. Come adatterò tutto questo al cinema che c’è fuori? È una domanda ricorrente oggi, che mi pongono anche alcuni produttori. Spero di poter coinvolgere il mio team, ma comunque questo è il mio modo di lavorare, non potrei rinunciare al confronto. Se non riuscissi a far innamorare delle mie idee per primo il direttore della fotografia o lo scenografo, come potrei riuscirci con gli spettatori in sala? Tu nasci come disegnatore per poi scoprire la regia. Qual è stato il percorso verso il cinema? All’istituto d’arte ho studiato fotografia, grafica e stampa, come incisione su lastra e linoleum. Grazie a un corso di animazione ho scoperto lo storyboard e il montaggio: piano piano ho capito che con tecniche miste potevo fare animazione anche con degli oggetti. Utilizzando una piccola compact ho iniziato a sperimentare e a creare degli ibridi, accorgendomi che mentre disegnavo ero anche costumista, direttore della fotografia, davo voce ai personaggi. Soprattutto la tecnologia mi permetteva di inserire dell’audiovisivo e ottenere effetti più realistici. Questa formula mi faceva impazzire… e all’istituto hanno iniziato a dirmi che quello era cinema.
Nei tuoi lavori ci sono due motivi ricorrenti: lo “storicamente falso”, con cui ti appropri aggressivamente di grandi icone, e il fascino per l’immagine di repertorio. Bataille parla di una parete, nelle grotte di Lascaux, su cui gli uomini hanno disegnato per millenni. Io cerco di fare la stessa cosa, di mettere il mio segno sul muro. Per Macaroni sono riuscito a trovare i contatti dei pronipoti di Peruggia, ho letto tutta la sua corrispondenza con l’Italia. Per IOV ho studiato il materiale conservato nel Museo dell’Aeronautica di Vigna di Valle, una storia epica ma ignorata dai più. Come ognuno di noi, nascendo irrompo nella storia: così, partendo dalla documentazione, a un certo punto inizio a metterci me stesso. Se fossi stato analfabeta e alcolista nel 1900, di fronte a quell’immagine di donna rappresentata dalla Monna Lisa non mi sarei innamorato? Probabilmente sì. Ho sempre avuto il bisogno di proseguire il disegno sulla grotta e tenere vivo il dialogo con la storia. Come hai fatto con il tuo progetto di VR, Anywhere at home, presentato nel 2016 al designer canadese Karim Rashid. La differenza tra video e foto mi ha sempre messo in discussione. Non ho mai saputo scegliere tra queste due macchine del tempo: tra la potenza della memoria viva e l’altra immobile, fissata per sempre. Poi ho pensato che c’è una tecnologia, la VR, che mi permette di unire la fotografia al cinema, il mezzo più immersivo che esista. Così ho preso delle foto della mia famiglia, a partire da mia madre sedicenne nella sua camera da adolescente. E ancora, mio padre da ragazzo. Fino al loro incontro e alla mia nascita. Sono andato negli stessi luoghi in cui erano state scattate quelle fotografie, realizzandone delle altre a 360 gradi con una situazione di messa in scena che mi aiutasse poi a ricostruire l’ambiente in 3D. Infine ho creato un visore di ceramica, un oggetto di design che si ispirasse alle nostre antiche culture, come contenitore di radici pesante e insieme fragile. Da quando ho visto La jetée ho capito che parlando di cinema parliamo davvero di memoria. Per i tuoi prossimi progetti ti stai muovendo in questa direzione? Sto scrivendo due lungometraggi per il cinema. Uno sfrutta la VR utilizzando pellicola e tecniche di animazione sperimentale. Stavolta sarà un atto d’amore nei confronti dell’immagine. Quando ho provato la VR per la prima volta è stato spontaneo aggrapparmi alla sedia, tant’era la suggestione di fronte al nuovo mezzo.
Penso di aver capito la reazione del pubblico all’arrivo del treno dei Lumière: anche noi ora siamo nella fase dell’intrattenimento, dello stupore. L’altro progetto è pensato per il set: sarà un lavoro collettivo, quel “circo” che tanto mi diverte. Nasce da tutto quello che ho visto finora, un linguaggio iconico e pop, con un’estetica sporca e aggressiva. Vorrei che avesse l’eco di un proiettile audiovisivo. E da quale disegno nasce una storia così pop? Ho iniziato disegnando un’immagine sacra, poi mi sono accorto che era diventata una macchina scrostata dalla salsedine, con un rossetto rosso sul sedile e dentro Alex, Brenda e Kevin.
«LA RIVOLUZIONE DEVI FARLA PER FORZA». 22
- Futures/2 -
«ALL’UNIVERSITÀ MI HANNO CONSIGLIATO DI ISCRIVERMI A UN LABORATORIO DI RECITAZIONE: NON HO MAI PENSATO DI FARE L’ATTRICE, MA È STATO FONDAMENTALE».
ARIANNA DEL GROSSO
REGISTI SI DIVENTA, UN Una camera da letto infantile, dalle tenui tinte pastello, una bambina bionda dorme toccata dai raggi del sole che filtrano dalle persiane. È questa la prima inquadratura di Lia, il cortometraggio d’esordio di Arianna Del Grosso, trevigiana classe 1992. di GIACOMO LAMBORIZIO
U
na giovanissima regista il cui talento, con solo due cortometraggi all’attivo, ha già raccolto riconoscimenti importanti, dal Premio Pasinetti della Biennale di Venezia per Lia alle recenti vittorie di Candie Boy, prodotto e distribuito da Prem1ere Film, allo ShorTS Film Festival e Visioni Italiane. Quando inizia a raccontare la sua storia scopre subito le carte: «La mia è una formazione di spettatrice, fin da bambina passavo le giornate a guardare film, spesso gli stessi: La storia infinita e Labyrinth in particolare hanno segnato la mia infanzia e anche il mio immaginario, probabilmente».
24
Questi pilastri del cinema per ragazzi degli anni Ottanta sono titoli che dicono tanto della giovane regista. I suoi due corti infatti condividono un filo conduttore tematico evidente: l’attenzione all’infanzia e in
particolare a quei momenti liminali in cui il bambino si affaccia sulla soglia del suo futuro, in cui per la prima volta intravede l’ingresso nell’adolescenza. La protagonista di Lia è una bambina colta nel momento sconvolgente della prima mestruazione, Arianna lo ha definito nelle sue note di regia «la nascita della donna, attraverso l’inconsapevolezza, come sguardo dolceamaro sul mondo».
Come nasce quindi una regista? «A 12 anni ho preso per la prima volta in mano una macchina fotografica, la mia passione nasce da lì, dallo studio della luce. Mi sono trasferita a Roma per capire come funzionasse il lavoro nel cinema perché non avevo idea da che parte cominciare, vedevo il mestiere del regista come qualcosa d’inarrivabile. All’università mi hanno consigliato di iscrivermi a un laboratorio di recitazione: non ho mai pensato di fare l’attrice, ma è stato fondamentale. Parallelamente ho iniziato a lavorare come fotografa». Arrivare presto a risultati di rilievo, come firmare cortometraggi applauditi in festival importanti, non significa per forza avere bruciato le tappe. Ripercorrendo la sua formazione,
Arianna rivendica la scelta di coltivare le sue esigenze espressive in maniera graduale.
«Ho girato Lia per le selezioni del Centro Sperimentale, dopo la laurea. Sono contenta di essermi data questi tre anni di ricerca, ho rispetto per la regia e penso sia anche questione di maturità, ho deciso di iniziare solo quando ho capito che cosa volevo raccontare. Devo molto a Sebastiano Riso [regista di Più buio di mezzanotte, presentato a Cannes 2014, ndr], è stato per me un punto di riferimento in un momento in cui ero spaventata dal dovermi confrontare per la prima volta direttamente con il mio sogno. Lui mi ha consigliato di raccontare quello che conosco, ed è quello che mi ripeto tutti i giorni. Non essendo ancora abbastanza distante dall’adolescenza mi sono rivolta all’infanzia, perché è un’età a cui posso guardare con sufficiente distacco. Scegliere di raccontare in maniera ironica un tema – trattato sempre in maniera cupa o ignorato – come l’arrivo delle mestruazioni è stata la chiave che ha reso semplice e spontaneo scrivere il corto». In Candie Boy intorno al bambino compaiono gli adulti, i genitori.
È un altro cortometraggio che in pochi minuti riesce a raccontare una storia concisa, immediata, che compie alla perfezione il suo arco. Ritorna la spinta della crescita, una spinta la cui ambiguità sconcerta e preoccupa gli adulti, fino a un finale che ribalta con grazia e ironia i (pre)giudizi degli spettatori intorno al suo piccolo protagonista. Un passo avanti, da un corto di situazione e di linguaggio, di messa in scena, a uno in cui entra l’apporto decisivo degli attori: «Credo tantissimo nella centralità dell’attore nel mio modo di fare regia. Mentre Lia era più una dichiarazione d’intenti, di condivisione di quella che vorrebbe essere la mia poetica, in Candie Boy ho dato tanto spazio ai personaggi e ai loro interpreti». Da spettatrice bulimica, Arianna cresce regista che segue suggestioni senza riconoscersi in scuole o in miti: «Mi rendo conto che mi porto dietro una sorta di contrasto tra la delicatezza stilistica e la sostanza contenutistica, sono attratta da atmosfere pastello, forse perché mi porto dietro le mattine passate a Venezia per saltare scuola. Tra i miei feticci c’è Xavier Dolan, ma io non ho lo “schiaffo” che ha lui, mi piacciono i Dardenne e mi sento vicina al loro modo di affrontare i personaggi». Ti senti pronta per l’esordio al lungometraggio? «Ho un soggetto, non ancora una sceneggiatura. Al momento sono proiettata sul film, anche l’esterno mi sta spingendo verso questa direzione, non voglio fare un passo indietro. Sto centellinando le esperienze perché per muovermi devo sentire un’esigenza espressiva reale. Per fare il passo verso il lungometraggio ho bisogno
di un produttore che non sia solo qualcuno che trova i soldi, ma una figura con cui instaurare un sodalizio artistico, di fiducia e condivisione profonda, e non è affatto facile».
PASSO ALLA VOLTA
Il corto Lia segna l’esordio alla regia di Arianna Del Grosso, con cui vince il Premio Pasinetti in occasione della 73esima Mostra Cinematografica di Venezia.
25
- Opera seconda -
A CIAMBRA
IL PROFETA JONAS Con l’approccio di un antropologo dalla vena poetica, Jonas Carpignano vive nelle realtà che vuole raccontare e le riporta sul grande schermo coniugando quasi magicamente autenticità e ricercatezza formale. di LUCA OTTOCENTO
N
ato a New York da madre afroamericana con origini caraibiche e padre torinese vissuto per molti anni a Roma, Jonas
Carpignano è cresciuto muovendosi tra la Grande Mela e la provincia della capitale italiana (fra Monte
Porzio Catone e Frascati) e oggi è considerato uno dei più promettenti talenti cinematografici emergenti a livello internazionale. Dopo l’esordio nel 2015 con Mediterranea in cui raccontava il viaggio di due migranti dal Burkina Faso a Rosarno, mai distribuito in Italia ma che ha avuto un’ottima accoglienza all’estero e in particolare negli Stati Uniti, il 33enne cineasta italoamericano lo scorso maggio ha presentato con notevole successo la sua seconda opera, A Ciambra, alla Quinzaine des Réalisateurs del Festival di
26
Cannes. In questo stimolante spaccato della comunità stanziale romena di Gioia Tauro, che prende vita attraverso gli occhi del quattordicenne Pio Amato, Carpignano conferma la tensione verso un
cinema di finzione dalla forte impronta realista che non rinuncia alla costante ricerca di uno sguardo cinematografico potente e raffinato. D’altronde, non è certo un caso
che il suo talento sia stato riconosciuto da Martin Scorsese, tra i produttori esecutivi di A Ciambra. Con Jonas, che vive da anni a Gioia a stretto contatto con i protagonisti dei suoi film, abbiamo avuto l’opportunità di parlare a lungo di influenze cinematografiche, prossimi progetti e, soprattutto, del suo peculiare modo di intendere e di vivere il cinema.
«IL RUOLO DI SCORSESE È STATO MOLTO IMPORTANTE PER TROVARE IL GIUSTO EQUILIBRIO».
Come sei entrato in contatto con un autore del calibro di Martin Scorsese e qual è stato il suo contributo a livello creativo? Alcune persone che lavorano con Scorsese, tra cui il suo agente e la sua produttrice, sono sempre alla ricerca di progetti per aiutare i registi emergenti. Alcuni co-finanziatori di questo fondo avrebbero già voluto investire in Mediterranea e, dopo averlo visto, mi hanno subito comunicato l’intenzione di collaborare con me al secondo film. Per me si è trattato di un sogno e il
ruolo di Scorsese è stato molto importante per trovare il giusto equilibrio tra i momenti più narrativi del film e quelli in cui senti di stare vivendo a contatto con Pio e la sua famiglia. Mi ha fatto capire quali erano i momenti più
forti e quali i più ripetitivi, sacrificabili in fase di montaggio. Insieme abbiamo, ad esempio, lavorato molto alla scena della cena, che per lui doveva essere mantenuta senza tagliarla più di tanto, in quanto fondamentale per capire i rapporti all’interno della famiglia Amato e i motivi per cui Pio non potrà mai uscire dal suo mondo. Qual è il cinema a cui ti senti più vicino e quali sono i tuoi punti di riferimento? Come per la mia storia personale sono legato a più culture, così mi sento vicino a tipi di cinema anche molto diversi tra loro. Non sono uno alla Spielberg che ha sempre saputo di voler fare il regista, ma
quello del cinema fin da piccolo l’ho sentito un mondo non lontano da me, anche grazie al rapporto con mio nonno, che ha lavorato molti anni per Carosello ed era sposato con la sorella di Luciano Emmer. Lui mi ha fatto conoscere le opere di Visconti e Bertolucci, due miei grandi punti di riferimento insieme a Rossellini e De Sica. Però sento presente in modo forte anche il cinema americano degli anni Settanta e Novanta, di cui mi nutrivo quando andavo con gli amici nelle sale del Bronx a guardare i film di registi come lo stesso Scorsese, Altman o Coppola. Per quanto riguarda invece i cineasti più contemporanei? Tra gli italiani sicuramente c’è Alice Rohrwacher, che conosco bene. Stimo tutto quello che fa e mi dà sempre una mano quando mi serve. Adoro poi tutti i lavori di Andrea Arnold, la regista britannica di American Honey e Fish Tank. Tra gli americani, invece, ammiro molto Benh Zeitlin, un carissimo amico che per me è stato sempre come un fratello maggiore. Lavorando con lui in Re della terra selvaggia ho imparato che non c’è necessariamente bisogno
di fare un film con una struttura cinematografica tradizionale e solida, ma che è possibile adattare la narrazione ai ritmi del luogo in cui si gira. Passare da
assistente di Spike Lee in Miracolo a Sant’Anna al film di Benh mi ha arricchito molto, dandomi la possibilità di toccare con mano
27
Jonas Carpignano nel 2012 è stato nominato fra i venticinque nuovi volti promettenti del cinema indipendente dalla rivista americana «Filmmaker Magazine».
«L’IDEA DI FONDO È MOSTRARE LA VITA DI ALCUNE PERSONE SENZA GIUDICARLE». Del tuo cinema colpisce molto la capacità di proporre uno sguardo che osserva senza giudicare, oggettivo ma non per questo freddo o distante. L’idea di fondo alla base del mio cinema è proprio questa:
mostrare la vita di alcune persone senza giudicarle. Giudicare è una cosa che non faccio mai e questo si riflette in maniera naturale nel mio modo di intendere il cinema. Ciò che mi interessa davvero è entrare nei mondi che
due modi di fare cinema assai differenti. Personalmente tento di rimanere fedele a me stesso, seguendo l’influenza del cinema che amo e con cui sono cresciuto. Non riuscirei mai a fare, ad esempio, un cinema asciutto come quello dei Dardenne, che non ha quei momenti surreali e musicali che a me invece interessano molto. L’uso delle musiche in effetti è molto importante nei tuoi film. In Mediterranea, e ancora di più in A Ciambra, sottolineano i momenti di maggiore intensità emotiva dei protagonisti.
Parto sempre dal presupposto di voler inquadrare i miei personaggi in maniera diversa rispetto a come siamo abituati nel cinema europeo di stampo realista o nei telegiornali. Se si vuole aderire davvero al loro punto di vista e vedere il mondo con i loro occhi è importante cogliere non solo i momenti più drammatici ma anche quelli più leggeri e spensierati, che ci permettono di non perdere delle importanti sfumature della loro esistenza e che spesso sono accompagnati proprio dall’ascolto della musica. Anche per le persone che vivono nelle circostanze più pesanti, la vita non è mai solo una tragedia. Inoltre, la musica pop presente in A Ciambra ci fa sentire queste persone più vicine a noi, dato che è un tipo di musica conosciuta da tutti i ragazzi italiani, da Milano a Gioia Tauro. La componente musicale unisce e permette al pubblico di sentirsi sulla stessa lunghezza d’onda emotiva dei personaggi.
28
voglio raccontare senza porre un filtro tra pubblico e personaggi, rimanendo il più possibile fedele al loro sguardo. Per questo cerco sempre di evitare di contestualizzare troppo: Pio in A Ciambra non si ferma ad ammirare il mare o non si meraviglia delle cose brutte che lo circondano. Se il contesto per lui non è importante perché lo dà per scontato, allora per me non ha senso soffermarmici. Anche perché nel momento in cui cerchi di dare una visione che va oltre il punto di vista del protagonista, inevitabilmente anteponi una tua opinione e inizi a giudicare. In A Ciambra, così come in Mediterranea, non si ha tempo per giudicare perché si è immersi nel punto di vista dei protagonisti. Pensi di continuare a vivere a Gioia Tauro lavorando nella direzione di questa tua poetica o ti dedicherai a qualcosa di diverso? Negli anni ho imparato che per me è essenziale lasciare spazio alla curiosità. Se ci sarà qualcosa in futuro che mi stimolerà cercherò di analizzarla e di spostarmi per farne un film. Forse un giorno un parente di mia madre dei Caraibi mi inviterà nelle Barbados e lì troverò qualcosa che vorrò raccontare. Tutto è possibile nella vita. Detto questo, ora come ora a Gioia Tauro sto molto bene perché ho il tempo di guardare tanti film, leggere libri e ho gli stimoli giusti per continuare a fare il mio lavoro. Se abitassi a Roma o
New York non troverei tutto questo tempo da dedicare al cinema. In questo momento ad esempio sto scrivendo il mio nuovo film, che sarà ambientato sempre a Gioia Tauro ma racconterà una realtà diversa, quella di una ragazza italiana che vive nel centro storico insieme alla famiglia e deve decidere se rimanere a Gioia o partire. Questa famiglia la conosco da anni, ma nei prossimi mesi cercherò di stare ancora di più con loro per approfondirne ulteriormente la storia.
CHICKENBROCCOLI È UN SITO PER CHI “AMA ODIARE IL CINEMA”. DAL 2009 RECENSISCE FILM SENZA PIUME SULLA LINGUA. IL CHICKEN È IL FILM BELLO, IL BROCCOLO È IL FILM ORRIPILANTE. CHICKENBROCCOLI CONCILIA IL CINEMA CON L’ILLUSTRAZIONE REALIZZANDO POSTER, MAGAZINE E MOSTRE ITINERANTI. www.chickenbroccoli.it
di SEBASTIANO BARCAROLI
TRAMA: LA MORTE È BRUTTA.
LA VITA È BELLA
(1997) DI ROBERTO BENIGNI; CON ROBERTO BENIGNI, NICOLETTA BRASCHI, GIORGIO CANTARINI.
M
el Brooks, ebreo, a chi lo accusava di aver fatto ironia su un argomento IMPOSSIBILE da ridicolizzare come l’Olocausto (cercate su YouTube “Springtime for Hitler”), rispose: «Si può e si deve ridere di tutto, anche della più grande tragedia della storia. Ma a una sola condizione: che la battuta sia veramente, ma veramente buona». Era il 1997 e Roberto Benigni, dopo cinque film milionari, realizzava il suo capolavoro, e a ben vedere uno di quelli dell’Italia tutta intera, visto il successo internazionale suggellato alla notte degli Oscar, quella dei piedi in testa a Steven Spielberg e del «Robbertoo!» urlato con puteolana felicità da Sophiona Loren. La vita è bella è un film perfetto perché perfetta è la sua semplicità.
E se è vero che la semplicità è l’unica risposta possibile all’incomprensibilità manifesta del male, scrivere una storia semplice, paradossalmente, è la cosa più difficile del mondo. La semplicità è lo scrigno dell’innocenza, quella che perdiamo un po’ alla volta, a ogni tramonto. Benigni, e con lui Vincenzo Cerami, co-autore della sceneggiatura, hanno il merito di non aver scherzato sull’Olocausto, piuttosto hanno saputo cogliere quella vena grottesca che l’odio si porta dietro, sempre. Ogni tiranno è una maschera comica (ma come si permette Hitler di rubare a Charlot i baffetti buffetti! Logico che
Chaplin gli renda pan per focaccia ne Il grande dittatore! Lo dice Bazin, mica io) e La vita è bella, anche senza ricorrere a
dittatori mascelloni da ridicolizzare, riesce a farsi beffe del male assoluto, quello che si cela anche dentro chi non te l’aspetti.
Il film è diviso in un primo e un secondo tempo distinti, che si spartiscono colori, toni tragicomici e colonna sonora (Oscar a Nicola Piovani, strameritato pure quello). Il primo tempo è una “semplice” storia d’amore, tra commedia dell’arte e romanzetto d’appendice, con piccoli e grandi ingranaggi oliati alla perfezione; il secondo tempo è una discesa nella tragedia della deportazione, dei lavori forzati, dello sterminio di massa. E se nel primo il cuore si gonfia di romanticismo nel rito del corteggiamento rocambolesco, nel secondo tempo è la coraggiosa malinconia di un uomo che vuole preservare l’innocenza negli occhi del figlio, almeno fino a che il sole non tramonti, a dilaniarcelo, il cuore. Benigni ha rischiato tantissimo (e infatti La vita è bella è anche un film fortemente criticato, quel cinico brontolone di Monicelli lo odiava), ma, riprendendo le parole di Brooks, è riuscito a
fare un film veramente, ma veramente buono, è riuscito in quell’impresa delicatissima di farci ridere e di farci male mentre ridiamo.
CHICKEN
IL GUITTO BENIGNI RIESCE A FAR SEMBRARE LE CORDE MONO-TÒNE DELLA BRASCHI QUASI MUSICALI. Vogliamo vivere!, Train De Vie, The Last Laugh, Per favore, non toccate le vecchiette (MA I TITOLISTI ITALIANI SÌ), Mein Führer. ANCHE AL CINEMA SI PUÒ E SI DEVE IRONIZZARE SU TUTTO. BASTA FARLO BENE.
BROCCOLI
SONO PASSATI VENT’ANNI E NOI SIAMO ANCORA QUI A CHIEDERCI COSA DIAMINE SIA «grasso, grasso / brutto, brutto / tutto giallo in verità / se mi chiedi dove sono / ti rispondo qua qua qua»… NON È L’ANATROCCOLO! NON È L’ORNITORINCA! MA CHE È?! THE PINE & THE APPLE The Pine è Gianmarco Principi, the Apple è Jess Ranieri… o il contrario? Sono una coppia (di nome e di fatto) di illustratori romani “in fississima” per film e serie TV. Lui è del 1994, lei del 1991: certi talenti vanno presi da giovani e indirizzati verso la strada della perdizione cinematografica da subito! www.facebook.com/thepineandtheapple - Instagram: @thepineandtheapple
30
- Nuovi maestri/1 -
John
TURTURRO
Le ultime note di Passione risuonano nella Cattedrale dell’Assunta del Castello Aragonese, il pubblico dell’Ischia Film Festival, che già si era spellato le mani per il premio alla carriera, si alza in piedi in una standing ovation spontanea, entusiasta. di BORIS SOLLAZZO (Co-direttore dell’Ischia Film Festival) foto CLAUDIO LOMBARDI e CARLO PANE
E
lui scatta in piedi, rimasto a (ri)vedersi in prima fila, e idealmente abbraccia tutti, voltandosi. In quello scatto riconosci l’attore fisico, istintivo, grintoso, nel sorriso l’empatia e l’ironia con cui ha spesso condito i suoi personaggi. Un’emozione dal vivo per chi del mestiere dell’attore ha fatto un percorso complesso e ansioso di sensazioni e svolte impreviste, di fughe in avanti e ritorni alle origini. Si era commosso per il premio perché
Napoli, la canzone partenopea ed Eduardo fanno parte della sua memoria e del suo immaginario, della sua arte e del suo futuro. Forse perché
convocava in piena notte Sergio Bruni per sentire il più grande cantore della musica partenopea per un concerto privato, alla voglia di vedere i film altrui, come Sole cuore amore di Daniele Vicari. Alla promessa strappata di una partita al San Paolo, perché «quel tipo di rappresentazione di un evento sportivo è incredibile: i tifosi andrebbero raccontati, come entità che va oltre quello che capiamo guardando». Passione, anche quella, in fondo. «Sono felice della mia vita, della mia carriera: a volte non credo a quello che ho fatto» ti confessa con quella complicità che ti concede quando catturi il suo interesse. Non
per lui il cinema è soprattutto viaggiare. «Da piccolo – confessa sul palco, pungolato da un Gianni Canova in gran forma – non avevamo molte occasioni di girare il mondo: per me il grande schermo è stato, all’inizio, soprattutto questo, un modo per andare oltre, per scoprire ciò che non conoscevo». Curioso come pochi altri, avendo avuto la fortuna di accompagnarlo durante il festival, ho goduto delle sue domande, più che delle sue risposte. Dall’entusiasmo da bambino con cui addentava un aneddoto su Diego Armando Maradona che
Non ha mezze misure, lo capisci quando ti confessa «Fai il critico? Sai, non li ho mai amati granché: mai andato a cena con uno di voi, mai fatto l’amore con chi scrive dei miei film. Sarà per la scelta degli aggettivi, non sono quasi mai d’accordo». Federico Vacalebre, all’Ischia Film Festival, ha raccontato parte del percorso comune
capita spesso, ma è quello che ha sempre sua moglie, la splendida Katherine Borowitz, con cui parla e si diverte e quando sono insieme, sembrano essere soli nella folla.
John Turturro nel 2010 ha diretto il film documentario Passione, un tributo alla città di Napoli e alla sua musica più autentica.
32
«SONO FELICE DELLA MIA VITA, DELLA MIA CARRIERA: A VOLTE NON CREDO A QUELLO CHE HO FATTO».
33
«SENZA FRANCESCO ROSI, NON SAREI QUI». che ha portato entrambi, come sodali, al film Passione. E parlando di quest’attore, regista, artista ha confessato che il suo segreto è proprio “l’onda lunga della passione” con cui sa travolgerti. «Una delle mie passioni – riprende Turturro – è la musica, non mi stanca mai. Sul set di The Night Of sentivo, sempre, Carmela di Mina. Così tanto che il regista ha voluto usarla. Per me è fonte d’ispirazione ma anche un rifugio. Soprattutto in un racconto come quello, un lavoro di cui sono orgoglioso per tanti motivi. Per i contenuti, dal razzismo ai conflitti di religione; per il team di lavoro, di cui io sono solo l’attore più famoso; per un personaggio che mi ha dato tanto in un contesto, quello televisivo, che non immaginavo così fertile». Un’altra passione che gli corre sotto pelle, sempre, è l’Italia. «Senza Francesco Rosi, non sarei qui». Poi con uno sguardo sognante ma anche sofferto rivela, in italiano: «Per La tregua ho lavorato sei anni con lui. E Rosi mi ha introdotto a Levi, ma anche a De Filippo, mi ha donato la sua amicizia e ha saputo trovare in me quello che avevo. Mi manca molto: ricordo ancora l’ansia con cui vissi la prima proiezione di Passione, che era solo per lui. Aspettavo il suo giudizio, quando scorsi il suo entusiasmo fui felicissimo». Gli fa eco Vacalebre che rivela «Sì, però voleva Tammurriata nera come finale!». Ride di gusto l’uomo che in una vita è stato, ed è ancora, Jesus Quintana, Pino in Fa’ la cosa giusta e l’autore di Romance & Cigarettes. Pirandelliano nel
suo mimetismo ed eclettismo, eduardiano nella capacità di essere totalmente devoto a un’opera, splendidamente capace di incarnare l’anima di un racconto, suo o altrui.
Forse per questo i Coen, Spike Lee, il “gruppo” Scorsese e anche quello di Allen, lo hanno adottato. Perché non ha paura, mai, di mostrarsi attraverso «la maschera che tutti noi attori abbiamo. Forse più fuori dal set che davanti alla macchina da presa». Su Jesus, peraltro, dice che lo rivedremo come non ce lo immaginiamo. «Se si esclude il fatto che è un uomo che, come molti di noi, capisce poco e niente delle donne, non ha nulla a che fare con il personaggio de Il grande Lebowski, che pure amo moltissimo. Io il buon Quintana lo portavo a teatro prima di incontrare i Coen, che proprio vedendomi in palcoscenico se ne innamorarono e…
be’, il resto lo sapete. Ora provo a riportarlo alle origini». E intanto Going Places va a Venezia. Ancora l’Italia. «Qui c’è tanto talento, non sempre si riesce a vedere ciò che si ha vicino: è facile parlare di Paolo Sorrentino e Giuseppe Tornatore, due geni con cui lavorerei volentieri. Ma io vedo anche la forza espressiva di Edoardo De Angelis, la bravura di Marco Pontecorvo, la visione di Cristina Comencini. Sono in tanti, qui da voi, a fare del gran cinema. E poi vogliamo parlare di Toni Servillo? Molto più che un attore. E tenete d’occhio le sorelle Fontana di Indivisibili, faranno strada». Insomma, almeno sul grande schermo, da qualche parte, il Belpaese esiste ancora. «L’Italia nel mio destino, forse anche perché ha capito meglio di altri il mio patto con il circo dello spettacolo: fare le cose al meglio, cercando sempre di reinventarmi. Non tutti i ruoli mi sono riusciti bene, ma ogni opera l’ho affrontata con impegno e abnegazione». E viene in mente quell’istrione fragile e dolente che interpreta in Mia madre, attore nella parte di un attore, la prova più difficile. Certo, magari fai fatica a capire cosa c’entri lui nel baraccone
di un Michael Bay nella saga dei Transformers. «Lo faccio per necessità: così posso fare il cinema e il teatro che preferisco e pagarmi anche qualche vizio!». Ride di gusto,
poi si fa serio: «La recitazione non è una sola. È un lavoro complesso: fare un kolossal o fare un film indipendente è come fare l’elettricista o l’idraulico. Sono due mestieri totalmente differenti, e da entrambi i mondi impari moltissimo: non avete idea del grado di professionalità e capacità che vi sono nei film mainstream. L’importante è mantenere la propria libertà, proteggerla, non darla mai per scontata. E in tutti i sensi: non solo da chi vuole limitarla reprimendola, ma anche da chi cerca, con il politicamente corretto, di addomesticarla. Libertà è anche raccontare senza pregiudizi, positivi o negativi». La libertà di scegliere, di andare nella direzione che si preferisce e non quella che conviene. La stessa che lo ha portato a Ischia, grazie al co-direttore e fondatore dell’IFF Michelangelo Messina, che ha suonato al campanello di casa sua, a Brooklyn, il 26 dicembre scorso. Per realizzare il suo sogno, quello di averlo al suo festival. E John, che di sogni se ne intende, ha aperto, lo ha accolto e ha capito.
Turturro è stato diretto da Nanni Moretti nel film Mia madre, in cui veste i panni del capriccioso attore Barry Huggins.
34
- Nuovi maestri/2 -
Ferzan
OZPETEK
I suoi film attingono a piene mani ai sentimenti, in una girandola dolce-amara di amori regolari e irregolari. Dopo la trasferta in Turchia di Rosso Istanbul, Ozpetek torna in Italia per il suo prossimo film, e ci racconta della sua inesausta passione per il cinema. di ILARIA RAVARINO 35
«DI RECENTE HO RITROVATO TANTISSIMI ARTICOLI CON LE CRITICHE ITALIANE E FRANCESI SUI MIEI VECCHI FILM: HO BUTTATO TUTTO. NON ME NE IMPORTA NIENTE, GLI ARTICOLI SU DI ME LI CESTINO. IL PASSATO È PASSATO».
Con l’ultimo film, Rosso Istanbul, liberamente tratto dall’omonimo libro di cui è autore, Ozpetek torna a girare nella sua terra d’origine vent’anni dopo l’esordio alla regia con Il bagno Turco.
36
R
educe dal set di Napoli velata, il suo nuovo film interamente ambientato nella città partenopea, il regista italiano di origine turca ha accettato di partecipare al Premio Cinematografico delle Nazioni, un riconoscimento ideato negli anni ’70 dal critico Gian Luigi Rondi e riportato in vita a Taormina, a meno di un anno dalla morte di Rondi, dalla Agnus Dei di Tiziana Rocca. Peccato che a dar retta all’ufficio stampa del film ogni incontro, intervista o colloquio con il regista qui in Sicilia sia tassativamente vietato: “ragioni promozionali”, è quel che che viene detto ai giornalisti.
Impossibile contrattare.
Perciò, quando Ozpetek si avvicina al tavolo dove ho lasciato qualche copia di Fabrique, trattengo a stento un sospiro di rassegnazione. «La conosciamo, questa rivista», interviene subito Simone Pontesilli, dal 2016 marito del regista, elegante come un attore, sorriso onesto, il tono di chi ti sta venendo incontro, e lo sa. Ferzan sfoglia le pagine, annuisce, forse non ricorda ma non importa. È gentile, sorride, non c’è niente in lui che suggerisca ostilità o chiusura. L’intervista, alla fine, si farà. Nessuna domanda sul film – “un thriller d’amore” con Giovanna Mezzogiorno, Alessandro Borghi, Isabella Ferrari – molte chiacchiere sul cinema, sulla passione di chi lo fa, sugli errori da non commettere se si vuole trasformare un sogno in realtà. Ferzan, perché è qui a Taormina? L’anno scorso, una mattina di settembre, ho letto un titolo di giornale che diceva: «Se ne va la sciarpa bianca del cinema
italiano». Ho pensato che quella sciarpa fosse il simbolo e l’immagine più efficace e intima per descrivere il carattere anche estetico di Gian Luigi Rondi. Io lo ricordo nei miei primi anni all’interno del cinema italiano, nei miei vari ruoli prima di passare alla regia vera e propria, che lo guardavo con molta riverenza e rispetto, con quell’eleganza a suo modo severa ma frutto di grande cortesia. E, diciamolo pure, come riflesso delle sue enormi capacità diplomatiche. Rondi è stato anche un abile politico… È stato un uomo e intellettuale di mille amicizie e di non pochi avversari, ha guidato le più celebri istituzioni culturali non solo italiane, la Biennale d’arte di Venezia, la Mostra del Cinema, gli Incontri di Sorrento, tante altre occasioni da critico e giornalista, proprio qui ha fondato il premio delle Nazioni di Taormina. E poi il suo capolavoro, quello che ha regalato al cinema italiano il senso della competizione, della sfida, del traguardo molto simile nello spirito e nel modello ai César francesi e ai Goya spagnoli. Parlo dei premi David di Donatello. Solo di recente ho scoperto che Rondi era stato perfino sceneggiatore con maestri internazionali. Se lo ricorda come reagì Rondi al suo primo film? Per il mio primo film Il bagno turco, Gian Luigi spese bellissime parole di critico. Mi consigliò in privato su certi passi da fare e a quali rinunciare. Per La finestra di fronte venne ancora a congratularsi suggerendomi poco dopo di non lasciare l’Italia per le offerte americane che nel frattempo avevo ricevuto. All’epoca seguii il suo consiglio, non che fosse il solo a influenzarmi. E ancora mi chiedo se fu la scelta più opportuna. Certo che ho continuato con
soddisfazione a fare il cinema in Italia.
e francesi su Il bagno turco e altri miei vecchi film: ho buttato tutto. Non me ne importa niente, gli articoli su di me li cestino. Il passato è passato. Tra i nostri lettori ci sono tanti ragazzi che vorrebbero fare cinema. Che consigli darebbe loro?
Consiglio di avere una grande passione. Di nutrire il proprio amore per il cinema e puntare dritti allo scopo, usando tutti i metodi possibili. Io stesso per entrare nel
mondo del cinema, per frequentare i set, ho fatto di tutto. Ho provato anche a fare il giornalista: intervistavo i registi e poi chiedevo loro, alla fine, di prendermi come assistente. Ma le interviste erano vere, eh, io le scrivevo davvero! Poi ho cercato di fare il costumista, insomma… avrei fatto qualsiasi cosa pur di arrivare su un set. Le ha conservate le sue interviste? Scrivevo per una rivista turca, mi chiedevano di portare loro Bertolucci, i Taviani… Ma quel giornale non esiste più, e non ci penso nemmeno a ripubblicarle, ci mancherebbe! E che suggerimenti darebbe a chi finalmente raggiunge il set? È fondamentale differenziarsi dagli altri. Trovare il duende [il “quid” ndr], ammesso che uno ce l’abbia: capire cosa ti rende diverso dagli altri e sfruttarlo. Le scuole di cinema servono? Le scuole servono per nutrirsi di film, per instaurare un contatto con il cinema e con le persone con cui formare il proprio gruppo di lavoro. La scuola migliore è il set. Lavorare su un set ed essere pagati. Non è un dettaglio: quando sei pagato ti assumi una responsabilità vera. Errori da non fare? Mi irrita molto quando qualcuno mi chiede una parte d’attore nel film e poi, se gli dico di no, che non c’è spazio o non si può, allora si dice disposto a farmi da assistente. Capito? Come se si trattasse dello stesso lavoro! Così non funziona, uno deve puntare su una cosa precisa quando si propone. Ma lei li guarda mai i corti dei ragazzi? Io i corti li vedo spesso, corti e opere prime. Anche in questo caso:
l’importante è attirare l’attenzione, fare qualcosa fuori dalle regole per farsi ricordare. Se lo ricorda il suo esordio? Ho avuto la fortuna di conoscere registi tra cui Maurizio Ponzi, Gianni Amelio, Bertolucci, Petri. Ho coltivato quei rapporti, li ho frequentati, finché un giorno mi è capitato di intervistare Troisi. Il suo aiuto regista, Umberto Angelucci, che era una persona molto carina, si ricordò di me e mi fece arrivare sul set di Massimo. Gli ho fatto da assistente, portavo solo il caffè e il tè. Ho cercato di farmi notare facendo sempre più degli altri, dimostrando che ero il più capace. Sa qual è la cosa più difficile? Quale? Non perdere la passione per il cinema. Può succedere, per questo bisogna nutrirla sempre. Non darla mai per scontata.
Di solito che rapporto ha lei con le critiche? Recentemente ho trovato tantissimi articoli con le critiche italiane
37
COLLETTIVO INDUSTRIA INDIPENDENTE
© Martina Leo
- Teatro -
SPEGNETE LA TV E ASCOLTATE LUCIFERO
CON IL COLLETTIVO INDUSTRIA INDIPENDENTE – GRUPPO ROMANO DI CUI È ANIMA E FONDATRICE CON ERIKA Z. GALLI – LA GIOVANISSIMA DRAMMATURGA MARTINA RUGGERI SI STA FACENDO DAVVERO NOTARE. di ANDREA PORCHEDDU
C
ompagnia molto attiva, attenta a ciò che pulsa nelle vene di umanità marginali e spesso maledette, Industria Indipendente sta lavorando da tempo su vari fronti, ma quello teatrale è il privilegiato. Erika Z. Galli e Martina Ruggeri macinano idee e visioni, creazioni e provocazioni che si traducono in una produzione teatrale giovane e “rock’n’roll”, come loro stesse amano definirsi, con molta autoironia. Dopo aver presentato un nuovo lavoro, dedicato alla figura di Lucifero, che sarà in autunno al prestigioso Romaeuropa Festival, Martina Ruggeri risponde alle nostre
38
domande nascosta dietro un paio di occhiali da sole.
E a chiederle cosa significhi scrivere per il teatro non esita a rispondere che è una «sorta di devozione, non in senso religioso ma di pratica quotidiana».
Cosa hai studiato per diventare drammaturga? È un’arte che si può imparare? Come tutte le forme che hanno a che fare con un lato artistico e con una tecnica, credo si possa imparare anche la drammaturgia. Ci sono varie scuole e possibilità. Io, però, vengo da studi di
© Giuseppe Disteranno
© Erika Z. Galli
Martina Ruggeri inizia il sodalizio artistico con Erika Z. Galli nel 2005 con Industria Indipendente, un collettivo di ricerca e sperimentazione.
«I MAESTRI? FONDAMENTALI EMMA DANTE, ANTONIO LATELLA, ROMEO CASTELLUCCI». filologia, sono una filologa classica, e ho imparato leggendo e traducendo quel teatro classico che è stato per me la vera, grande scuola. Quando ripercorri i classici non semplicemente seguendo la trama, ma investigando la grammatica scenica, scopri un mondo. E capisci quanta disciplina ci voglia per scrivere o tradurre anche un solo verso di Eschilo. Ecco la devozione di cui parlavo: l’ho imparata dai Greci. Che lingua impieghi nel tuo scrivere per il teatro? Con Erika Z. Galli – non dimentichiamo che lavorare in due cambia ancora le cose – cerchiamo sempre di capire quale lingua usare rispetto al tema o a quanto scegliamo di raccontare. Vogliamo essere
possedute dalle lingue del racconto. La lingua, insomma, cambia rispetto all’oggetto narrato. Ad esempio, per uno
spettacolo come I ragazzi del cavalcavia, abbiamo provato a metterci nelle bocche di cinque uomini del nord Italia. Una sensazione “divertente”: sei spostato dal tuo verso, dal tuo dire, al pari degli attori che interpretano ruoli. Ed è interessante perché emergono lati di te ancora più potenti rispetto a quando parli o scrivi nella lingua abituale. Se la lingua cambia a seconda del soggetto, viene da chiederti come scegliete i soggetti dei vostri testi. In modi diversi. Prendiamo il nostro ultimo lavoro, Lucifer. È frutto di una sorta di intuizione, o di un desiderio. Abbiamo scelto di indagare Lucifero perché ha una funzione importante nella storia occidentale: fa accadere cose dalle quali non si torna indietro. Cercavamo di mettere un Lucifero in ogni testo che scrivevamo, poi, finalmente, ha trovato una sua forza e una sua dimensione. Per I ragazzi del cavalcavia, invece, ricordo che mi trovavo in Puglia, attraversavo una strada e di colpo ho ripensato a un fatto di cronaca, di cui ricordavo poco e nulla. Dei giovani che tiravano sassi dal cavalcavia. Ho fatto ricerche, ho scoperto che erano fratelli, sono emersi aspetti che ci riguardavano: il vivere in provincia, la noia, la violenza. Nei vostri spettacoli si avverte il desiderio di raccontare il vostro tempo, la vostra età. A volte è una chiara intenzione, quella di raccontare una generazione. Penso a un testo come Lullaby nato dall’esigenza di parlare di noi ma
tra cinquanta anni, visti come vecchi chiusi in un centro immaginario di un futuro distopico. Però, in ogni lavoro sca-
riprodotta emerge qualcosa che altrimenti non scaturirebbe dal lavoro in palcoscenico. Detto questo, vorremmo adattare per il cinema alcuni nostri testi: ad esempio I ragazzi del cavalcavia, che all’origine doveva essere una sceneggiatura, e poi è diventato testo teatrale. Ma la versione cinematografica avrebbe un’altra pasta, sarebbe una storia quasi muta, fatta solo di azioni, mentre a teatro tutto passa dalle parole. Il mezzo cinematografico permette di raccontare diversamente. Sei coinvolta nel progetto Le ragazze del porno, di cui si è già molto parlato: un collettivo di registe che ha deciso di raccontare, attraverso cortometraggi, la pornografia. Una prospettiva femminile che sfida luoghi comuni e pregiudizi di un mondo tutto al maschile. Come sta andando? Stiamo elaborando nuove idee, e in autunno cominciamo a lavorare a questa ricerca che vogliamo approfondire. Non si tratta di girare semplicemente un corto, ma di partire ancora una volta dal racconto del reale. Sembra quasi un suggerimento, un consiglio per i giovani… La questione non è fare un corto, girare un film, mettere in scena un testo, ma provare a uscire fuori da sé. Per quel che posso dire – anch’io sono giovane, un’esordiente – è che mi sembra utile fare quello che i latini chiamavano labor limae. Spesso si pensa che la creatività sia nell’idea, invece un lavoro di lima, di cesello, è necessario per stratificare il lavoro, ossia la ricerca. Se pure la facciata finale è una, sotto, alle spalle, deve esserci tanto. Ma se dovessi dare un consiglio a dei giovani autori, direi di spegnere la TV: è un rumore di fondo che distoglie, che intacca il senso dell’udito. E noi non possiamo distrarci. Chi sono i tuoi maestri? I classici. Ma non solo. Penso a due artisti come Emma Dante e Antonio Latella: sono stati fondamentali. Ho visto gli spettacoli di Emma a quindici anni e sono rimasta sconvolta. Poi lei mi ha permesso di assistere alle prove, è stata generosa: non mi parlava molto, ma mi ha fatto capire come componeva. E vedere una donna totalmen-
te calata in un fare teatro che era questione di vita o di morte, è stato sconvolgente e affascinante. Con Antonio La-
tella abbiamo fatto molti workshop, focalizzando la nostra attenzione proprio sullo scrivere: la sua tendenza a un’ipertrofia drammaturgica è stata importante perché ti fa entrare in una dimensione altra, di lucidità, di chiarezza. E, infine, credo che Romeo Castellucci abbia spostato l’immaginario di tutti noi. Ma i miei veri maestri sono i
turisce quel che viene dal luogo e dal momento in cui viviamo. Come se si parlasse di noi anche quando raccontiamo, che so, Lucifero, il personaggio più archetipico, che facciamo parlare in inglese. E proprio là dove non usi la tua lingua, e non parli direttamente di te, esce una grande libertà.
morti. Un maestro è anche quello che non conosci bene, con cui non entri in un contatto temporale. Così restano i
Hai mai scritto per il cinema? Lavoriamo tanto con i video e con la fotografia. Spesso dall’immagine
tragici, Eschilo, l’Orestea. E poi Camus, che rileggo sempre; o Cechov, Shakespeare. Sono la grammatica del teatro, della drammaturgia, della scrittura. La grammatica della nostra vita.
39
- Mestieri -
Š Barbara Morosetti
L ADR I I MMA G 40
U
n ruolo nato per promuovere i film attraverso la produzione e la diffusione delle foto di lavorazione destinate alle attività di stampa, dai manifesti ai reportage commissionati dai magazine, a cui si aggiunge il repertorio fotografico delle scene relative a tutte le inquadrature nella maniera più fedele possibile all’originale, mantenendo gli stessi parametri focali. Ma ogni scatto racconta anche lo stile, la personale visione delle cose che il fotografo ci offre, muovendosi silenzioso e facendosi invisibile soprattutto nei momenti di maggiore tensione e drammaticità che si generano sul set. Francesca Fago è attivista
presso alcune ONG, e paragona questi momenti all’intensità che si respira in una sala operatoria: certe scene cinematografiche, dal punto di vista emotivo, non sono poi così diverse! E tutto ciò che accade nel backstage? È ancora il fotografo di scena a raccontarcelo, attraverso immagini catturate dal mondo che sta dietro la macchina da presa, e che resterebbe altrimenti segreto e inaccessibile al pubblico. E poi, non ultimo per importanza, c’è l’aspetto romantico del ricordo. Perché tutti vogliono una foto: gli artisti, la troupe, il regista, gli spettatori!
D I I N I
UN SATELLITE CHE ORBITA NEL CIRCO IMMENSO DEL CINEMA, CHE OSSERVA DAL SUO ANGOLO SOLITARIO QUELL’INSTANCABILE AFFACCENDARSI DI PERSONE IN MOVIMENTO E NE RESTITUISCE UN’IMMAGINE INDELEBILE. COSÌ FRANCESCA FAGO CI DESCRIVE UNA FIGURA CHIAMATA A MUOVERSI IN PUNTA DI PIEDI, SENZA FAR RUMORE, NEL CALEIDOSCOPICO UNIVERSO DEL SET CINEMATOGRAFICO. a cura di MONICA VAGNUCCI
FRANCESCA FAGO
Il cinema era nel mio destino fin dall’infanzia, perché provengo da una famiglia che lavora in questo settore, e fa parte da sempre della mia educazione. All’università ho scelto di studiare Antropologia per seguire l’interesse che ho sempre nutrito nei confronti dell’uomo, ma percepivo come un limite l’assenza di un aspetto pratico che completasse la mia ricerca. Quasi come in un film, un viaggio in India con macchina fotografica alla mano, mi ha indicato la strada: al ritorno mi sono iscritta allo IED a cui sono seguiti due Master, uno in Fotogiornalismo presso l’Agenzia Contrasto di Milano e uno in Street Photography presso il London College of Communication a Londra. La prima opportunità nel mondo del cinema è arrivata con il film Caravaggio, in cui ho avuto la fortuna di lavorare accanto al grande maestro Vittorio Storaro. Il lavoro del fotografo di scena è cambiato molto nel passaggio dalla pellicola al digitale, ma restano i due aspetti che più lo caratterizzano: chi svolge questo mestiere deve essere insieme onnipresente e invisibile, “rubare” le stesse immagini catturate dalla macchina da presa utili per le attività di stampa e cogliere i momenti del backstage per testimoniare il doppio mondo del cinema, tutto questo sentendosi ripetere continuamente “spòstati”! L’aspetto che amo maggiormente
di questo mestiere è la follia che unisce il lavoro di tante persone che collaborano con grande fatica per creare qualcosa di immateriale come un film, e poter testimoniare con le immagini l’importanza di ogni singola persona per il risultato finale.
41
«L’INTENTO È SINTETIZZARE, ATTRAVERSO LE IMM
ANDREA PIRRELLO
La mia formazione tecnica in ambito fotografico non è del tutto lineare. Come fotografo sono fondamentalmente autodidatta, ma ho studiato cinema all’università, ho fatto la gavetta nel reparto di fotografia e studiato direzione della fotografia in Spagna. Ho alternato per molto tempo il lavoro sul set con il reportage fotografico in ambiti lontani da quelli cinematografici, fino a quando mi è stato chiesto, per caso, di occuparmi delle foto di scena di un film. Non credo esistano segreti particolari o caratteristiche che differenziano la foto di scena da altri lavori fotografici: è molto soggettivo, più una questione di sensibilità. Credo che sia importante trovare sintonia col progetto,
con quella che potrebbe essere l’atmosfera della storia. Sembra scontato ma non lo è, vista anche la velocità del set contemporaneo. La cosa difficile è riuscire a realizzare quelle immagini che non
si troveranno nel film, ma che fanno parte della storia e non sono sostituibili con i fotogrammi: questo è il valore aggiunto di un mestiere in cui la soddisfazione è qualcosa di complicato. Viene molto dopo. Quando si può vedere il percorso delle immagini col film.
EMANUELA SCARPA
Sono sempre stata ossessionata dalla fotografia, studiavo da autodidatta l’importanza della luce anche attraverso più scatti di uno stesso soggetto in diverse ore del giorno. Sono approdata a questo mestiere quasi per caso: dopo un corso di reportage e tecniche di stampa, ho scoperto l’Associazione Fotografi di Scena (oggi ahimè non più esistente) tramite il laboratorio dove sviluppavo le pellicole. Così ho avuto la fortuna di poter accedere ai set come tirocinante. Ho capito presto che in questo mestiere è fondamentale la conquista dello spazio: il fotografo
opera come un osservatore isolato che agisce in apparente libertà, ma che deve muoversi in silenzio come un felino e trovarsi pronto a catturare il momento giusto, quasi già ad attenderlo in anticipo. Il nostro ruolo è quello di un piccolo reporter: io, ad esempio, leggo sempre la sceneggiatura per avere
42
AGINI, UN MONDO IN BILICO TRA MAGIA E FOLLIA».
un’idea delle immagini che cerco di creare prima nella mia testa. Il set per me è come una grande giostra in cui poter scegliere di raccontare mille storie con altrettante sfumature. L’intento è sintetizzare, attraverso le immagini, l’equilibrio perfetto dell’“ecosistema cinema”, un mondo in bilico tra magia e follia. Le parole più belle rivolte al nostro mestiere le ha dette un regista importante una volta alla premiazione del CliCiak di Cesena (Festival Nazionale Fotografi di Scena), affermando che lui spesso osserva come si muove e da dove inquadra una scena il fotografo per poterne talvolta prendere suggerimento. Questa per noi è la più grande conquista: la fiducia verso una visione comune.
LORIS ZAMBELLI
Sono arrivato a questo mestiere attraverso una serie di coincidenze, quasi per caso. Partito dal centro di formazione professionale in fotografia Riccardo Bauer, sono approdato in un’agenzia fotografica che lavorava con il mondo dello spettacolo e ho avuto modo di iniziare attraverso una lunga gavetta come assistente dei fotografi di scena. Il nostro lavoro consiste nel realizzare tutto il materiale statico che riguarda la produzione di un film: dalla locandina alle foto del retro copertina dei DVD, a tutto il contenuto visivo destinato a stampa e promozione. Il fotografo documenta tutta la lavorazione di un film attraverso le attività che si svolgono sul set. O, meglio, dovrebbe. Una delle difficoltà del mestiere, infatti, ha portato oggi a un suo notevole ridimensionamento in termini di presenza a causa delle riduzioni dei budget. Nonostante sia diventato quasi un lavoro “a giornata”, richiesto
soprattutto per le scene più importanti, questo ruolo mantiene un fascino immutato perché offre la possibilità di entrare letteralmente dentro il film, di far parte di un mondo parallelo di cui non si è più soltanto spettatori. Motivo di gratificazione è anche il riscontro quasi immediato del proprio
operato da parte di regista e produzione, oltre alla condivisione costante con tante persone che lavorano per uno stesso obiettivo. Dopo quindici anni, per me è ancora emozionante come il primo giorno e vivo questo mestiere come un vero e proprio privilegio.
43
- Zona Doc -
SARO
IL NOME DEL PADRE
Enrico Maria Artale firma un documentario coraggioso e autentico, nel quale scrive una riflessione lucida sull’identità e sulla relazione tra genitori e figli. di SILVIO GRASSELLI
S
aro è il nome di un uomo e il titolo di un film. L’uomo è il padre che Enrico Maria Artale ha reincontrato dopo venticinque anni di lontananza. Il film è il documentario che Enrico ha realizzato proprio su questo incontro, passando attraverso un processo creativo e produttivo di quasi sette anni, e che nell’autunno 2016 ha vinto il premio per il Miglior Film all’Italiana.Doc del Torino Film Festival.
La storia di Saro – lungometraggio di poco più di un’ora – inizia nel 2009: Enrico è appena entrato al Centro Sperimentale di Roma. In quegli stessi mesi riceve una telefonata dalla Sicilia (la stessa intorno alla quale si costruisce l’incipit del film): è il padre Saro – che Enrico non vede da quando era ancora piccolissimo – che lo invita a sentirsi, magari a scrivergli. Enrico prende con sé il necessario per girare e parte per la Sicilia: durante il viaggio – al termine del quale effettivamente ritrova il
44
padre che non conosce, che non ricorda – registra quasi sessanta ore di materiale che una volta tornato a casa mette da parte. Intanto tra i primi e più importanti incontri al Centro Sperimentale c’è quello con Daniele Segre e con il cinema documentario. Da qui nasce il progetto de I giganti dell’Aquila, lungometraggio sulla squadra di rugby del capoluogo abruzzese ritratta nei giorni successivi il terremoto, mandato in onda dalla RAI nel 2010. Poi, come conseguenza diretta, arriva la proposta da parte della società di produzione del Centro Sperimentale di lavorare a un film a soggetto sul rugby. Nel 2013 viene presentato in concorso nella sezione Orizzonti a Venezia 70 Il terzo tempo, lungometraggio d’esordio che mette Enrico a confronto con i meccanismi dell’industria cinematografica (a coprodurre e distribuire il film arriva quasi all’ultimo momento De Laurentiis) e con le traversie della professione
«Mio padre è uscito dalla mia vita quando avevo poco più di un anno. Da allora non ne ho voluto sapere nulla. Ma adesso che ho trovato un suo messaggio nella segreteria telefonica, decido finalmente di farmi raccontare qualcosa in più».
«SARO È UN FILM CHE RESPIRA, CHE ACCETTA IL RISCHIO DI PERDERE IL FILO DEL RACCONTO». di regista, facendogli provare la vertigine della distanza dal suo lavoro d’autore. Alla ricerca di una prova più libera e personale, nel 2014 riprende il lavoro sui materiali girati cinque anni prima: il tempo ha cambiato molte cose, prima di tutto ha cambiato lui. Per questo, subito dopo aver tagliato e ordinato il materiale in una prima versione grezza di tre ore, Enrico – aiutato dalla montatrice Valeria Sapienza – inizia una fase di revisione e scrittura.
Saro non è il film che ci si aspetterebbe, forse prima di tutto per la diversità e lo spostamento dell’io soggettivo che gira, ieri, rispetto all’io soggettivo che ricostruisce le immagini nella forma di un film, oggi. Dopo un incipit secco
e diretto, una serie di volti circoscrivono la storia di Enrico, della madre, della sua relazione con Saro, di un passato misterioso remoto e come tale irrecuperabile. Le parole sono poche, gli incontri brevi, e quando inizia il viaggio il film cambia ritmo. E più il film avanza più si allontana dai due vicinissimi strapiombi: da un lato l’autonarrazione ombelicale, dall’altra la saga sentimentale dei rapporti familiari. La voce di commento di Enrico parla al presente, si sovrappone allo sguardo e al corpo dell’Enrico di cinque anni prima, riposiziona psicologicamente, in modo implicito, le immagini di cinque
anni prima, tentando di colmare una distanza che invece resta felicemente irrisolta. La musica segna l’incertezza di chi
si scopre esposto, di chi cede al timore che il racconto non basti. L’orizzonte del film è però nitido, con lo sguardo teso alla ricerca di una scoperta ma che inventa deviazioni e soste per dissipare la pressione di una legittima aspettativa. Tanto che quando l’incontro avviene per la prima volta è quasi un incidente, un’anticipazione inconsulta, una delusione rimandata. Enrico Maria Artale, prima del Centro Sperimentale, si è laureato in Estetica con una tesi sul volto tra il cinema e la filosofia: il modo
in cui dispone il tempo e il luogo nel quale Saro lo ritrova dopo quasi trent’anni dall’ultimo abbraccio, in una stanza disadorna, sopra un lungo divanetto a semicerchio, dice molto della sua capacità d’intrecciare pensiero, immagine ed emozione. Un’inquadratura frontale, a distanza, niente stacchi per molti minuti di seguito: il silenzio dell’imbarazzo e della commozione soffocata e repressa, forse addirittura smarrita, amplifica la potenza di un’immagine semplice ma cruciale. È qui, a pochi minuti dalla fine, che il corpo e la voce di Enrico, il passato e il presente, si riconoscono e contemperano, fronteggiandosi esplicitamente, come in un grumo di tempo nel quale svaporano i sentimenti e le aspettative addensate negli anni.
Saro è un film che respira, che accetta il rischio di perdere il filo del racconto per lasciarsi scorrere in appunti e deviazioni che remano contro l’efficienza e la fluida rotondità della narrazione. Come il romanzo che
nella descrizione e nell’analisi delle peripezie di un’anima compone un saggio di psicologia, così quello che all’inizio sembra essere un ritratto autobiografico di famiglia, o peggio, il diario catartico di un individuo in cerca di salvezza, si rivela presto il discorso libero di un cineasta giovane che grazie alle forme aperte e flessibili del documentario scrive una riflessione lucida sull’identità e sulla relazione tra genitori e figli; un’indagine intima ma non autistica, che scorre lungo il respiro ampio del tempo. Saro – che Enrico Maria Artale ha deciso di produrre da solo fondando la Film After Film, alla quale si sono poi associate anche Bright Frames e Young Film – dopo aver felicemente partecipato a festival nazionali e internazionali – oltre a Torino anche SalinaDocFest, Taormina Film Festival e altri ancora – vedrà una prima distribuzione indipendente nelle sale all’inizio del prossimo autunno.
Con il corto Il respiro dell’arco, nel 2012 Artale vince il Nastro d’Argento. L’anno successivo, con il primo lungometraggio Il terzo tempo, ottiene il Premio Pasinetti Opera Prima alla Mostra del Cinema di Venezia.
45
- Attori -
WALKING ON di CHIARA CARNÀ creative producer TOMMASO AGNESE foto JACOPO GENTILINI assistente GIULIO CAFASSO per ROBERTA KRASNIG stylist STEFANIA SCIORTINO makeup GIULIA GOTTI@SIMONE BELLI AGENCY using ALIKA COSMETICS hair ADRIANOCOCCIARELLI@HARUMI per gli abiti si ringrazia ESSENTIEL ANTWERP e LIU JO
48
VOLTI NUOVI E PROMETTENTI, UN BAGNO DI LUCE ED ENERGIA TRA LE ARCHITETTURE DELLA CITTÀ ETERNA MA, SOPRATTUTTO, CARATTERE, ENTUSIASMO E IRONIA. I NOSTRI SEI ASPIRANTI PROTAGONISTI DEL GRANDE SCHERMO SI LASCIANO ANDARE E GIOCANO CON L’OBIETTIVO.
SUNLIGHT
49
«Adoro esplorare la psicologia dei personaggi, anche quando potrei farmi male».
YULIIA SOBOL 21 anni, Nikolaev (Ucraina)
«L’insicurezza rappresenta la sfida più grande del nostro lavoro».
CHIARA BRASCHETTI 30 anni, Cesena
Mi avete visto in: • I figli della notte di Andrea De Sica
Mi avete visto in: • Ma che bella sorpresa di Alessandro Genovesi • A settembre sarò nella serie TV Mediaset L’isola di Pietro
Adoro esplorare la psicologia dei personaggi, anche se significa sfiorare corde che preferirei evitare perché potrebbero farmi male. Voglio fare l’attrice per trasformarmi, raccontare, cambiare qualcosa. Rifletto moltissimo sul perché io abbia intrapreso questo percorso a cui mi dedico completamente. Se sopravviverò all’università, vorrei dedicarmi allo studio e al miglioramento tecnico come interprete, in modo da poter essere pronta per affrontare qualsiasi sfida!
Fare l’attrice equivale a giocare con le mie debolezze, esorcizzarle. Scoprire costantemente come regalare un’emozione. Poter piangere ed essere autentica senza avere paura. L’elenco delle sfide è infinito, ma forse quella più grande è lo scoglio dell’insicurezza. Arrivando dal mondo della moda, più superficiale e più rigido, ho dovuto imparare a lasciarmi andare, ma sono solo all’inizio. Mi metto in gioco costantemente studiando e dando il massimo perché amo questo lavoro.
50
«Rimanere convinti, nonostante tutto, di aver fatto la scelta giusta dà senso al mio lavoro».
GUGLIELMO SCILLA 29 anni, Roma Mi avete visto in: • Baciato dal sole fiction in onda su RAI1 • Fuga di cervelli di Paolo Ruffini • 10 regole per fare innamorare di Cristiano Bortone • Freaks! serie di fantascienza diretta da Claudio Di Biagio e Matteo Bruno... e soprattutto sul web, dove mi fingo umile. Sperimentare la precarietà, aspettare pagamenti che non arrivano, ascoltare i pareri di chi pensa che il tuo sia solo un hobby, subire giudizi su tutto tranne che sulle tue capacità, imparare come si dice “ti faremo sapere” in tutte le lingue dell’UE, ma comunque rimanere convinti di aver fatto la scelta giusta: questa è la realtà che vivo come attore. La vera “gatta da pelare” è incontrare i colleghi e intavolare discussioni infinite sui propri curriculum vitae. Solitamente mi divincolo dichiarando di essere estremamente soddisfatto dei miei progetti futuri... per poi correre in bagno a piangere!
51
«Essere un attore significa libertà, responsabilità e verità».
«Il punto cruciale del nostro mestiere è esserne sempre all’altezza».
LUCA FILIPPI 25 anni, Rovereto
ROBIN MUGNAINI 31 anni, Firenze
Mi avete visto in: • In fondo al bosco di Stefano Lodovichi • Un nuovo giorno di Stefano Calvagna • Classe Z di Guido Chiesa • Nelle fiction Non uccidere e Un passo dal cielo • Mi vedrete al cinema in L’età imperfetta di Ulisse Lendaro
Mi avete visto in: • Tutti i santi giorni di Paolo Virzì • Francesco di Liliana Cavani • Mi vedrete nella prossima serie di Danny Boyle e, stando alle ultime indiscrezioni, nella prossima serie de I Medici
Essere un attore per me significa libertà di esprimere tutto ciò che fa parte dell’animo umano attraverso il corpo. Significa responsabilità verso me stesso, i miei colleghi e il pubblico. Significa verità, perché è quello che desidero fare di più al mondo. Ogni personaggio rappresenta una sfida a livello personale. Prima mi concentro su ciò che abbiamo in comune e poi inizio un gioco, come se anch’io dovessi raggiungere il suo obiettivo. Non posso separarlo da me. Credo che l’attore debba interessarsi a qualunque cosa lo circondi. È colui che narra storie a gente che ascolta e, per essere un bravo narratore, deve sapere. Più sa, più lo ascolteranno.
Recitare è per me un secondo lavoro per fortuna o, chissà, maledizione. Una fuga premeditata dalla mia realtà attuale. Lo vivo con radici ben solide, che mi permettono di coglierne le sfumature più belle e di confrontarmi con un lato di me che, altrimenti, non potrei mai vivere e condividere. È fondamentale poter scegliere progetti interessanti che, oltre a darti grandi stimoli, ti permettano di crescere e migliorare... o persino di ripagare qualche spesa, nonché gli anni di gavetta. Tuttavia, il punto cruciale di questo mestiere è esserne sempre all’altezza. La sfida più importante è farsi trovare pronti al momento giusto o, come mi disse un anno fa un regista indiano, farsi trovare pronti sempre.
52
«Ogni personaggio mi permette di vivere vite diverse e sorprendenti».
ANGELA CURRI 23 anni, Locorotondo Mi avete visto in: • Francesco di Liliana Cavani • Braccialetti rossi 2 di Giacomo Campiotti • La mafia uccide solo d’estate – la serie di Luca Ribuoli • I fantasmi di Portopalo di Alessandro Angelini • Sono sul set della seconda serie de La mafia uccide solo d’estate e presto mi vedrete in TV in Renata Fonte di Fabio Mollo e al cinema in Dei di Cosimo Terlizzi Poter emozionare e, allo stesso tempo, emozionarmi attraverso la meravigliosa arte della recitazione è ciò che amo di più in questo lavoro. Dar vita a personaggi molto simili a me e ad altri che sono completamente distanti da quella che sono oggi mi permette di vivere vite diverse e sorprendenti. Riconosco i miei limiti e mi propongo costantemente di riuscire a trascenderli, per riportare nei miei ruoli non solo ciò che conosco ma anche ciò che l’inconscio mi suggerisce. Tutto questo, però, studiando duramente e approfondendo qualsiasi cosa sia per me di ispirazione come libri, musica, film e quadri.
53
- Videoclip -
MARCO DE GIORGI
PERFETTE SINCRONIE Il giovane filmmaker e video artist leccese ha realizzato in giro per il mondo pubblicità, video musicali e di moda per brand come Ferrari, Bulgari, Dolce&Gabbana, Dior, Neil Barret, Iceberg e artisti come i Negramaro. Ma i suoi non sono semplici “videoclip”. di MARGHERITA GIUSTI HAZON
H
a uno stile definito, originale, che oscilla fra il video e la video installazione, scandito dalla musica, dove le architetture e le luci creano perfette sincronie e dietro alle immagini si nasconde sempre un significato. Adesso però è alla ricerca di una storia vera da raccontare. Marco, come sei arrivato al mondo della pubblicità e della moda? Dopo aver fatto il liceo classico a Lecce, dove sono nato e cresciuto, a 19 anni mi sono trasferito a Londra per un corso di Arts and Product Design al Central Saint Martins College. È stato lì che mi sono avvicinato al mondo del video. Nasco come illustratore, riuscivo a esprimere pienamente me stesso solo disegnando, poi ho scoperto il mondo dell’immagine in movimento e qualcosa è cambiato. Tornato in Italia, principalmente a Milano, ho lavorato per Ferrari, Dolce&Gabbana e tanti altri. Da poco ho iniziato a lavorare anche negli USA: uno dei miei ultimi lavori è una campagna per Pal Zileri, un racconto fra luci e riflessi per promuovere la stagione invernale 2017-2018. www.marcodegiorgi.com
54
«CREDO CHE UN REGISTA DEBBA AVERE UNA VISIONE DI CIÒ CHE LO CIRCONDA CON PIENA CONSAPEVOLEZZA DI TUTTE LE SUE SFUMATURE, E RACCONTARNE PROPRIO LA QUOTIDIANITÀ». Dalle origini leccesi alle avanguardie di Londra, Marco De Giorgi è oggi uno degli artisti italiani più promettenti.
Il tuo stile è molto sicuro, originale. Come lo hai costruito?
Lavorando a Soho per alcune case di post-produzione, ho iniziato a cimentarmi in installazioni video, dove ho potuto sperimentare il light tailoring, quello che adesso si chiama mapping. In quegli anni ho avuto l’opportunità di esporre un’installazione permanente a casa di Elton John, a Holland Park. Mio padre è architetto, e mi ha sempre affascinato il lato dell’architettura che riguarda le luci. Inoltre mia mamma e mia nonna hanno un laboratorio di lampade. Ho messo queste due cose insieme, la luce e l’architettura, per esplorare, creare uno stile a metà fra il video e l’installazione artistica, fatto di riflessi e tagli di luci. La musica poi ha per me un ruolo fondamentale: è sempre presente nei miei lavori, amo montare immagini e musica insieme per creare effetti che possano sorprendere. È stata la mia specialità fin dal primissimo lavoro, R-OUND. A livello creativo, ti senti più libero in Italia o all’estero? Purtroppo in Italia molte delle grandi agenzie pubblicitarie e di moda funzionano proprio come la politica: c’è poca meritocrazia e le scale gerarchiche sono sistemi statici. A neanche
vent’anni, a Londra, avevo lavorato per Elton John, realizzando anche una video installazione per il suo matrimonio! Qui non sarebbe mai successa una cosa del genere. Le
agenzie estere ti danno molta più fiducia, ti lasciano creare in modo libero e personale. La differenza l’ho notata molto, in Italia sei sempre frenato, all’estero è più stimolante, nessuno ti tarpa le ali. Non per niente in Italia nel campo della pubblicità siamo molto indietro. Fra i tuoi lavori, quello che più si avvicina al cinema è il videoclip della canzone Tutto qui accade dei Negramaro. Com’è stato lavorare con attori professionisti? Giuliano mi ha dato subito fiducia, ha lasciato grande spazio alla mia creatività sul progetto e sulla storia. Lavorare con attori
professionisti è stato splendido. Matilda De Angelis e Alessandro Borghi sono le nuove promesse del cinema italiano. Era la prima volta che non lavoravo con modelli, che
sono sempre bellissimi, sì, ma davanti alla telecamera è diverso. Poi ho avuto una super crew a disposizione: i ragazzi di un’agenzia di Milano, Moovie, che sono davvero bravi e lavorano tantissimo soprattutto con le nuove tecnologie. Loro sono l’unica realtà che mi tiene ancora a Milano. Progetti per il futuro? Adesso ho finito una campagna che ho girato a Vicenza, poi con un’amica che ha un marchio di vestiti siamo andati a girare al Vittoriale di Gabriele D’Annunzio. Quello che cerco di fare
sempre più è scovare location interessanti e cercare, anche in video di pochi minuti, di raccontare delle storie, magari lavorando con marchi più piccoli dove si ha molta più libertà creativa. Cerco sempre d’inserire un
© Andrea Orlando
messaggio in quello che realizzo, non mi basta che il video sia bello esteticamente. Vorrei iniziare a raccontare la realtà, non la finzione. Ma aspetto una storia che mi folgori. Se dovessi girare un film, che tipo di film vorresti girare? Mi piacerebbe parlare della realtà che ho vissuto anche io, storie della mia città, traguardi personali, racconti universali forse piccoli, ma in cui le persone possano immedesimarsi. Credo che un regista debba avere una visione di ciò che lo circonda con piena consapevolezza di tutte le sue sfumature, e raccontarne proprio la quotidianità.
Ringraziamo per la collaborazione FRANCESCA PIGGIANELLI e ROMA VIDEOCLIP 55
© Giulia D’Andrea
- Soundtrack -
STAG
FIORI, ANIMALI E ROCK
Il loro logo è un cervo con due rose rosse, e proprio dalle immagini gli STAG partono per scrivere le loro canzoni, molte delle quali nascono o diventano colonne sonore per serie TV e film. Abbiamo incontrato Marco Guazzone e Stefano Costantini della band composta inoltre da Giosuè Manuri e Edoardo Cicchinelli. di ELENA CIRIONI
© Jessica Tosi
La vita londinese dura poco, perché entra in scena un’altra grande passione di Marco, quella per il cinema. Vince il bando per il laboratorio del Centro Sperimentale Musica per film: torna a
Roma e inizia a studiare con grandi compositori come Nicola Piovani. Intanto porta avanti il suo progetto di creare una
band e nel 2008 nascono gli STAG, con membri che vanno e vengono come in tutti i gruppi musicali agli inizi, fino al 2010, quando Marco conosce Stefano Costantini. Ed è ancora il cinema a segnare l’inizio di questo incontro: Stefano è un trombettista classico, partecipa al primo film da regista di
© Jessica Tosi
T
utto è iniziato da una passione, quella di Marco per la musica. Fin da adolescente ha un sogno: fare in modo che diventi interamente parte della sua vita. Dopo il diploma in pianoforte al Conservatorio di Santa Cecilia a Roma e una breve parentesi universitaria tra le aule di Lettere, Marco decide di trasferirsi a Londra: «È una città dove si suona con una facilità pazzesca. Portavo la mia tastiera in metro e andavo alle serate open mic. Così ho potuto vedere moltissime band. Mi affascinava l’idea di suoni diversi, di una squadra unita per dare vita a un progetto e ho pensato: questo è quello che voglio».
Marco Guazzone (voce, pianoforte), Stefano Costantini (tromba, chitarra, seconda voce, tastiere), Giosuè Manuri (batteria), Edoardo Cicchinelli (basso).
56
Diego Abatantuono, Area Paradiso, e sul set conosce la segretaria di edizione Giulia Contino, che lo presenta a Marco. Ma il primo approccio non va tanto bene. Sembrano troppo diversi, con le parole non si capiscono. «Le chiacchiere non ci avevano portato da nessuna parte, è stata invece la musica che ci ha fatto scoprire, in particolare un pezzo dei Muse, Map of your head, che Stefano stava suonando a una festa», racconta divertito Marco. Da quel momento scatta la scintilla: dopo aver improvvisato un pezzo con la tromba durante un concerto degli STAG, Stefano diventa parte della band. Due anni dopo, nel 2012 esce il primo album, L’atlante dei pensieri prodotto da Steve Lyon, storico produttore dei Depeche Mode che vanta collaborazioni con artisti come Paul McCartney, Cure e Subsonica. Uno dei pezzi del disco, Guasto, porta gli STAG sul palco dell’Ariston per la 62esima edizione del Festival di Sanremo. «È stato fichissimo, un’esperienza unica e un’occasione incredibile successa quasi per caso. Dieci giorni assurdi, dove abbiamo suonato praticamente sempre». Marco confessa di avere un unico rimpianto, quello di essersi presentato al Festival come solista e non con la band: «La nostra etichetta dell’epoca ci consigliò di fare così, visto che a Sanremo i gruppi non hanno mai avuto un grande successo. Comunque, cantare sul palco dell’Ariston ci ha
fatto conoscere al grande pubblico ed è stato fantastico, Stefano ha diretto l’orchestra ed è passato alla storia come il più giovane direttore del Festival».
Dopo il successo di Sanremo inizia una tournée di due anni che porta gli STAG fino in Libano. Con il Festival non arriva solamente il successo, ma anche una telefonata, quella della produttrice cinematografica di Indigo, Francesca Cima; il regista Ivan Cotroneo è rimasto colpito dagli STAG e vuole conoscerli, un incontro di scambi artistici che dopo un anno porterà i suoi frutti. Nel frattempo il gruppo continua a frequentare gli ambienti del cinema, dalle feste di Fabrique, al Festival di Venezia, dove diventano la resident band del programma di Radio 3 dedicato al cinema, Hollywood Party. Nel 2013 Cotroneo propone al gruppo di scrivere la colonna sonora per l’ultima scena del suo film, Il Natale della mamma imperfetta: è un arrangiamento di Jingle Bells che gli STAG suonano sulla terrazza
del Pincio a Roma entrando a far parte del film. Grazie a questa esperienza conoscono Paolo Buonvino, compositore delle musiche della pellicola, e iniziano a collaborare con lui. «Per noi lavorare insieme al maestro Buonvino è stato un grosso privilegio, soprattutto perché ha il talento di contaminare la sua musica con il pop e altri generi musicali».
Quello che unisce il gruppo al cinema è la capacità della loro musica di creare immagini, situazioni, fotografare dei momenti: «Quando ci chiedono che genere fate, noi
rispondiamo colonne sonore». Questa non è solo la caratteristica degli STAG, ma la loro stessa essenza, peculiarità rara nel mondo musicale, dove i nuovi gruppi nascono e muoiono in pochi istanti. Il cinema permette al gruppo di esprimersi in maniera completa, creare atmosfere che arricchiscono lo sviluppo della storia o sottolineano un particolare momento. Queste intenzioni creative sfociano in un’attitudine alla ricerca che non si può restringere dentro l’etichetta di un particolare genere. Gli STAG non sono indie, ma neanche pop, semplicemente appartengono alla musica. Non è un caso che di queste loro caratteristiche si siano accorti diversi registi, come Alessio Maria Federici che per il suo Fratelli unici ha scelto la loro canzone Cosa c’è interpretata insieme a Malika Ayane. Inoltre collaborano alla composizione delle colonne sonore di serie come Tutto può succedere e sono stati candidati alle nomination dei David di Donatello 2017 con il brano To the Wonders scritto per il film Un bacio di Ivan Cotroneo. Il brano dà il nome all’ultimo disco degli STAG, album che sta riscuotendo ottime recensioni e che racchiude la vera anima del gruppo, una raccolta musicale di storie biografiche che ha come concept la ricerca di un posto nascosto, quel qualcosa da raggiungere che spesso sfugge e si fa fatica a trovare.
Ascoltare la musica degli STAG richiede attenzione e attimi di silenzio, viaggi musicali fatti d’immagini poetiche contaminate da vari generi. Una musica che si colloca in controtendenza rispetto al mainstream commerciale, adatta a un ascolto consapevole che riporta alle caratteristiche disegnate sul logo della band: la forza rock del cervo e la poesia delle due rose.
«QUANDO CI CHIEDONO CHE GENERE FATE, NOI RISPONDIAMO COLONNE SONORE».
© Giulia D’Andrea
www.officialstag.it
Gli STAG sono amici di lunga data di Fabrique: hanno animato con la loro musica molte delle nostre feste e saranno presenti in occasione del prossimo evento al Festival del Cinema di Venezia.
57
Nico, 1988 è un road-movie ambientato tra Parigi, Praga, Norimberga, Manchester, la Polonia e il litorale romano dedicato agli ultimi anni di Christa Päffgen, in arte Nico.
SUSANNA NICCHIARELLI UN ALBUM DEGLI SMITHS E UNO DEI CURE. FASHION NUGGET DEI CAKE, BLACK CELEBRATION DEI DEPECHE MODE, IL ROCK PSICHEDELICO DEI JENNIFER GENTLE USATO NEL MEDIOMETRAGGIO D’ESORDIO, UOMINI E ZANZARE. CHIUNQUE ABBIA VISSUTO L’EPOCA DELLE CASSETTE E DEI CD SA DI COSA PARLO, QUANDO PARLO DI QUELL’AMICO CUI SI “RUBA” LA MUSICA.
NICO OLTRE NICO di ILARIA RAVARINO
Q
uello che ascolta sempre le cose migliori, quello che qualsiasi cosa ti proponga è quella giusta, quello che “prestami un attimo il CD, che lo doppio e te lo restituisco” (si faceva così, dieci anni fa) e poi il CD non glielo ridai più. Ecco, non sono in grado di dire quale, ma sono abbastanza sicura di avere ancora almeno un CD di Susanna Nicchiarelli da qualche parte in macchina. Perciò, quando ho saputo che stava preparando un film su Nico, dopo l’esordio con
58
«Nico dopo Nico è la donna che è sempre stata dietro all’icona». Cosmonauta e l’opera seconda La scoperta dell’alba, non mi sono affatto sorpresa. Perché la storia di Nico – modella per Andy Warhol, voce dei Velvet Underground, ex di cantanti, registi e attori e molte cose ancora – è nelle corde di Nicchiarelli per sintonia di genere,
per comunione di spirito (rock), per animo paneuropeo e antinostalgico, per quella natura da outsider che nemmeno la fama planetaria riuscì mai a cancellare dal curriculum della vestale della Factory. Interpretato
da un’altra musa – la Trine Dyrholm musa di Thomas Vinterberg, premiata alla Berlinale per La comune – Nico, 1988 è il film di apertura della sezione Orizzonti alla 74esima edizione della Mostra del Cinema di Venezia. Come hai “incontrato” Nico? Ho sempre avuto la passione per la musica. A 16 anni ascoltai per la prima volta The Velvet Underground & Nico, il famoso album con la banana, e continuo a farlo ancora oggi. Non mi ha mai stufato. Ricordo che Nico mi colpì subito. Ma quando chiesi ai miei amici chi fosse, loro mi dissero che era una che dopo i Velvet aveva fatto solo “roba inascoltabile”. Lessi poi un libro di interviste in cui si parlava di lei come di una che era stata a letto con tanta gente, con Bob Dylan, Jim Morrison, Iggy Pop, e che dopo i 34 anni era “una donna finita”. A quel punto cominciai a innervosirmi. Ho cercato di capire cosa avesse fatto dopo quel famoso disco, che aveva registrato a 28 anni, e ho scoperto un’artista meravigliosa.
Non le mancava lo status di icona? Non gliene poteva importare di meno. Non rimpiangeva quegli anni. Era una donna segnata da due grandi tragedie che non avevano a che fare con quel periodo. Nico era tedesca, nata nel ’38 e quindi grande abbastanza per assistere alla disfatta del suo paese. Aveva perso suo padre in guerra, se ne vergognava e inventava che era stato nella resistenza e poi ucciso dai nazisti. Diceva: «Quando chiudo gli occhi mi ritrovo nelle macerie di Berlino». L’altro dramma era il figlio avuto con Alain Delon, Ari. Era nato nel ’62, Delon non aveva mai voluto riconoscerlo. Lei era molto giovane. Se lo trascinava in giro, lo portava nei locali, e lui cominciò a bere gli alcolici abbandonati sui tavolini… Lo hai incontrato? Sì, in clinica. È la fonte principale del mio film. Ho incontrato anche il suo promoter cecoslovacco, due o tre promoter italiani fra cui Domenico Petrosino, cui è ispirato il personaggio di Thomas Trabacchi, e Alan, il manager oggi morto, cui è ispirato il personaggio di Richard. Lui mi ha dato il numero di Ari. L’ho incontrato a Parigi, abbiamo passato una settimana insieme, a parlare della madre. Ci vuole coraggio ad affrontare un mito come Nico? No, perché questa è una storia europea che andava raccontata con un film europeo. Nico era tedesca, era inglese la band con cui andava in giro, il figlio era francese, hanno suonato in Italia e oltre cortina…
Nico non era una star americana, anche se la fama l’ha trovata negli Stati Uniti.
Cosa le era successo dopo i Velvet?
Nel corso degli anni Sessanta aveva avuto una storia turbolenta con Jim Morrison, durata qualche mese ma molto importante. Fu lui, uno dei più grandi amori della sua vita, a insegnarle a scrivere i testi delle canzoni. «Scrivi i tuoi sogni», le diceva. Certo, loro si facevano di acidi e di LSD… poi Nico rimediò un harmonium, uno strumento che si suonava anche senza grandi conoscenze musicali, e così lei cominciò a comporre. All’inizio degli anni ’70 scrisse i suoi dischi più belli, fece le colonne sonore per Garrel, con cui ebbe una lunga storia d’amore. Faceva una musica tenebrosa, sperimentale, strana. Di fatto influenzò quello che sarebbe stato il gothic e la new wave. Lei, che era stata l’icona bionda e algida di Warhol, diventò per tutti la sacerdotessa delle tenebre. Non era vero che a 34 anni era finita. Però il film esplora i suoi ultimi due anni: perché? Perché è dopo i quarant’anni che Nico ha ripreso il controllo della sua vita. È vero che nei Settanta la sua produzione era
splendida, ma aveva problemi di eroina, era senza una lira, era in piena decadenza. All’inizio degli anni Ottanta, invece, ha messo ordine nella sua vita: si è trasferita a Manchester, ha trovato un manager, il manager le ha aperto un conto in banca, e con il metadone è riuscita a tenere sotto controllo la dipendenza dall’eroina, ritrovando il rapporto con il figlio.
Ci vuole coraggio a girare un film su questa Nico? Ecco, sì. Quando cercavo finanziamenti, spesso mi sentivo rispondere che avrei fatto meglio a fare un film sulla Nico “icona”, e non sulla Nico “vecchia”. È il meccanismo crudele della fabbrica dei miti: prima ti innalzano come icona, poi ti denigrano dandoti della sfigata. E invece Nico dopo Nico è la donna che è sempre stata dietro all’icona. L’icona non era niente, lei stessa diceva di essere diversa da quella che cantava canzoni di altri suonando il tamburello. Non è un film patetico su una star decaduta, ma un anti-biopic sulla donna aldilà dell’icona. Come si lega questo film ai tuoi precedenti? I miei film hanno in comune il rapporto con la storia che si intreccia con le storie private. E la dimensione antinostalgica, l’idea di capovolgere l’immagine sempre idealizzata che si ha del passato. E arriviamo a Trine. Perché lei? Avevo bisogno di un’attrice brava, che avesse anche energia e positività. Mi serviva qualcuno con cui potessi lavorare sul personaggio. Una che non avesse paura di non apparire abbastanza bella, o invecchiata. Trine aveva sia la tecnica che l’umanità. E da ragazzina ha vinto un concorso canoro europeo, ha inciso due dischi… la verità? Canta meglio di Nico. E riarrangiare le canzoni, con lei e i Gatto Ciliegia Contro il Grande Freddo, è stato divertentissimo.
59
- Effetti speciali -
LO STEINWAY
COME CREARE UN’EMOZIONE IN
STOP MOTION
Il regista e animatore Massimo Ottoni racconta le fasi più impegnative di un progetto particolarmente ambizioso per il panorama produttivo italiano. di TIZIANA MORGANTI
«L’
animazione ha avuto una storia molto ricca, ma il suo futuro è ancora più promettente». A farsi portavoce di questa certezza è Massimo Ottoni, giovane regista del corto d’animazione Lo Steinway che
ha conquistato la critica soprattutto per il coraggio sperimentale e per la capacità di utilizzare più tecniche animate in grado di rimandare emozioni e stati d’animo con un risultato finale profondamente poetico. Un favore
che si è tradotto in una menzione speciale ai Corti d’Argento 2017 e con un premio ottenuto allo ShorTS Film Festival.
60
Ma come nasce l’iter de Lo Steinway? Questo progetto innovativo, soprattutto per quanto riguarda le scelte produttive italiane, si deve all’unione tra l’Istituto Luce Cinecittà e il Centro Sperimentale di Cinematografia di Torino, all’interno del quale si trova il dipartimento di animazione. Proprio qui, dopo aver chiesto agli studenti di cimentarsi con il tema della guerra letta, però, in modo diverso, è stato scelto il progetto pensato da Massimo Ottoni e dal suo team che poi hanno dato vita a Ibrido
Studio, una realtà a metà tra uno studio e un collettivo di autori di animazione. Così, grazie alle suggestioni nate dal
Massimo Ottoni si è specializzato in animazione al Centro Sperimentale di Cinematografia di Torino ottenendo già con il film di diploma, Imperium Vacui, co-diretto con Linda Kelvink, diversi riconoscimenti in festival nazionali e internazionali.
racconto omonimo di Andrea Molesini e alla capacità narrativa per immagini di giovani animatori, è nata la magia inaspettata del film. Qui la Grande Guerra e la trincea diventano quasi
un pretesto per raccontare l’interiorità degli uomini. Il tutto accompagnato dalle note dolci di un pianoforte, lo Steinway appunto, che unisce oltre le divise sull’onda dei pensieri e dei ricordi. Fin dalle fasi iniziali è stato coinvolto Andrea Molesini. Scrittore di fama ed esperto della Prima Guerra Mondiale, ha realizzato una sceneggiatura tratta da un suo racconto. In che modo l’animazione
ha dimostrato di essere il linguaggio migliore per portarlo sul grande schermo? Oltre a essere un noto romanziere, Andrea Molesini è anche un profondo conoscitore della storia. E i particolari inseriti in sceneggiatura lo dimostrano. Fondamentalmente, però, sono rimasto colpito nel trovarmi di fronte a un racconto di guerra atipico. Qui, infatti, non si parla di grandi battaglie e non vengono
descritte scene cruente. In sostanza viene meno proprio quello che compone l’iconografia classica del film di guerra. Tutto è giocato sull’attesa, sull’interiorità di questi soldati che aspettano mesi prima di assistere a
61
eventi, se così possiamo dire, degni di nota. Come mi ha spiegato lo stesso Molesini quando sono andato a trovarlo a Venezia, la guerra era fatta per la maggior parte proprio di questo tempo sospeso nelle trincee. Ecco perché la cosa interessante è stata proprio andare a scavare nella psicologia dei soldati che, durante le lunghe attese, avevano tutto il tempo di indagare su loro stessi e sugli eventi in cui si trovavano coinvolti. Tutto questo racconto interiore nella sceneggiatura era affidato alle parole, ma non è altrettanto facile rendere i sentimenti e i moti interiori in immagini. Per questo motivo l’animazione è risultata essere il linguaggio migliore per rimandare a questi sentimenti in modo lirico. Stabilite le suggestioni e le finalità artistiche del racconto, come avete agito dal punto di vista strettamente tecnico? Partiamo con il concepire una sorta di analogia tra attore e animatore. La persona che modella il pupazzo, lo mette
in scena o lo disegna, sta facendo una performance attoriale. Non usa il suo corpo come strumento, ma trasmette determinati input emotivi a un elemento esterno. Ovviamente si ha a che fare con un linguaggio sintetizzato e, secondo lo stile usato, è possibile rendere una gamma di emozioni in modo più rapido. Per quanto riguarda Lo Steinway, poi, abbiamo cercato di non perdere i dettagli e le sfumature che caratterizzano la recitazione in senso stretto, nonostante siano veramente difficili da ricreare in un pupazzo, visto che non è possibile contare sulla fisicità o sulla mobilità di un volto. In questo caso, dunque, il lato artistico e tecnico sono strettamente legati tra loro. Il modo in cui viene progettato un pupazzo, infatti, determina anche come si andrà ad animarlo e a muoverlo nella scena. Andando più nello specifico, quali sono state le fasi produttive più importanti? Prima di tutto è giusto chiarire che ci si trova di fronte a un progetto molto ambizioso, soprattutto per il panorama italiano. In secondo luogo, poi, si tratta anche della storia meno adatta da ricreare in stop motion. Lavorando con questa tecnica, infatti, ci siamo trovati
62
a dover fronteggiare molti cambi di scena, oltre a un numero importante di scenografie e personaggi. Ogni singolo elemento è stato costruito meticolosamente. In totale al progetto hanno partecipato sette persone, tutte concentrate sull’aspetto visivo. Per quanto riguarda, poi, le diverse fasi della realizzazione, si è partiti dallo storyboard per arrivare fino alla post produzione. Il tutto per un totale di nove mesi di lavorazione. Questo tempo può sembrare molto per chi realizza dei film in live action, per un progetto di animazione, però, è veramente poco. Quando si organizza la produzione di un film dal vivo, il primo passo consiste nell’identificazione delle location e nella costituzione di un cast. Come viene tradotto tutto questo in un film di animazione in stop motion? Il primo passo è cimentarsi nella costruzione della scenografia e dei pupazzi, in totale venti. Pur avendo già molti personaggi pronti, infatti, si è presentata la necessità di realizzare un duplicato per alcuni di loro. In questo modo, infatti, abbiamo lavorato con due set in contemporanea per avere delle inquadrature diverse della stessa scena. Per chi non conosce bene la tecnica dello stop motion, diciamo che consiste nell’animare dei pupazzi all’interno della scena fotogramma dopo fotogramma. Si tratta di un processo incredibilmente laborioso. Basti pensare che, lavorando dalla mattina alla sera, riuscivamo a terminare la giornata con circa quattro secondi di lavorato a testa. Per questo motivo, dunque,
le animazioni in stop motion possono costare anche più di un film hollywoodiano con tanto di cast stellare.
Nonostante siano privi di nomi famosi in cartellone e non abbiano grandi effetti speciali, basano tutta la loro qualità proprio sulla mano d’opera. Dal punto di vista registico qual è stata la difficoltà più grande? La stop motion è piena di difficoltà. Ogni aspetto rappresenta un ostacolo da superare. La più grande, però, è legata all’organizzazione della produzione. È fondamentale, infatti, costruire una macchina in cui tutto ha l’obbligo di funzionare perfettamente. E con tutto
s’intendono elementi come la sceneggiatura, le luci e le macchine. Questo vale anche per i film in live, ma per l’animazione è una fase particolarmente complessa, visto che non sono consentiti molti margini di errore o ripensamento. Nel corto avete scelto di utilizzare due linguaggi animati diversi. Da una parte, infatti, c’è lo stop motion che, a un certo punto del racconto, si fonde con il disegno classico in 2D. Come avete lavorato su questo susseguirsi di linguaggi armonizzandoli insieme? Essenzialmente si tratta di una scelta concettuale. Avevamo di fronte a noi una sceneggiatura con una varietà di momenti e sentimenti. Da parte nostra abbiamo deciso di creare delle ambientazioni
realistiche con lo stop motion, mentre l’introspezione e il viaggio interiore di ogni soldato sono stati affidati al disegno classico. Durante la pianificazione questa scelta non
convinceva molto i miei collaboratori. In definitiva avevano paura che i due stili stonassero tra loro. A conti fatti, invece, è uno degli aspetti più apprezzati del film. Dal punto di vista produttivo, poi, ci ha permesso di lavorare in contemporanea. Proprio perché la stop motion richiede dei grandi spazi, e per noi non era possibile lavorare su un numero maggiore di due set, poter contare anche su una seconda tecnica da portare avanti in contemporanea ci ha salvato. Detto questo, però, ci tengo a ribadire che si tratta di una scelta ideologica più che tecnica. Era fondamentale, infatti, trovare
il linguaggio lirico per evocare la musica del pianoforte in grado di unire gli uomini al di là dell’uniforme. Importante tanto quanto la realizzazione dei personaggi è stata la costruzione delle diverse scenografie, che hanno contribuito a
rimandare un forte senso di realismo.
Si è trattato di un lavoro veramente impegnativo. Ogni scena, infatti, è stata creata manualmente e meticolosamente. Tutto parte dalla consapevolezza che, anche quando si mette in scena un elemento per pochi secondi, questo deve essere curato alla pari di tutto il resto. Il rasoio del capitano, ad esempio, è un oggetto grande solo pochi millimetri. Per quanto riguarda, poi, il frammento di stoffa legato al filo che si vede sventolare in più di una scena, si è lavorato aggiungendo altre specifiche. Oltre alle sue proporzioni, infatti, la difficoltà maggiore era rappresentata dalla necessità di animarlo. Per questo motivo, dunque, al momento della costruzione è stato inserito al suo interno un foglio di alluminio per farlo muovere. Da questi particolari è possibile capire come il lavoro di preparazione della scenografia abbia rappresentato una delle fasi più impegnative di tutto il film. Non bisogna dimenticare, poi, che ogni singolo elemento deve essere costruito pensando già all’inquadratura. Noi, ad esempio, usavamo delle macchine troppo grandi per riuscire a entrare in alcuni ambienti nel modo migliore. Perciò si è pensato di costruire le diverse parti della trincea in modo tale che fossero rimovibili. Così è stato progettato anche il rudere all’interno del quale viene trovato il pianoforte, che è stato realizzato dell’altezza di una persona. La particolarità consiste nell’averlo messo in proporzione con personaggi alti più o meno trenta centimetri. L’ultima sfida è stata la resa realistica dell’esterno, ossia dell’ambiente naturale che circonda le trincee e che i soldati esplorano. Per ottenere un effetto soddisfacente abbiamo impiegato delle foto scattate nei dintorni di Torino, in particolare
vicino alle Alpi, integrate poi dall’inserimento di altri elementi, come alberi appositamente costruiti.
«LA PERSONA CHE MODELLA IL PUPAZZO, LO METTE IN SCENA O LO DISEGNA, STA FACENDO UNA PERFORMANCE ATTORIALE». www.ibridostudio.com
63
PICTURES Da sempre attenta a quello che accade nel mondo del disegno e del colore, Fabrique ha dato vita a una collaborazione con Officina B5: in ogni numero la rivista pubblicherà un’illustrazione frutto di un apposito contest proposto agli allievi della scuola. In questo numero la vincitrice è Martina Gentile, con la rilettura di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970) di Elio Petri, interpretato da Gian Maria Volonté e Florinda Bolkan, vincitore del Grand Prix Speciale della Giuria al Festival di Cannes e dell’Oscar al miglior film straniero nel 1971.
INDAGINE SU UN CITTADINO AL DI SOPRA DI OGNI SOSPETTO Officina B5 è una scuola di illustrazione nel cuore di Trastevere, fondata nel 2005 da Fabio Magnasciutti e Lorenzo Terranera.
66
67
DIARIO
GLI EVENTI DI FABRIQUE
6 LUGLIO 2017
Tutte le stelle di Fabrique Una calda serata romana sotto un cielo di stelle ha offerto una cornice suggestiva e affascinante, complice lo spazio esclusivo dell’Ex Dogana di San Lorenzo, per celebrare il numero 18 della free press. Perché il cinema di Fabrique non va mai in vacanza.
Il nuovo numero presentato il 6 luglio presso l’Ex Dogana è stato aperto dalla Cover Story con protagonista Lino Guanciale per proseguire con gli esordi di Andrea De Sica con I figli della notte e di Vincenzo Alfieri con I peggiori. Ancora, il talento del duo milanese Sämen, la conferma di Davide Barletti e Lorenzo Conte con La guerra dei cafoni. Tantissimi gli altri temi, fra cui: il cinema onirico di Giada Colagrande, la recensione disegnata di ChickenBroccoli, la musica di Paolo Buonvino, il videoclip di Pepsy Romanoff, la realtà virtuale di Oniride. E, come sempre, spazio ai giovani talenti della recitazione: Beatrice Bartoni, Eleonora De Luca, Lorena Cesarini, Giulio Corso, Christian Burruano, Matteo Vignati hanno animato il servizio fotografico Italian Graffiti. Protagonista della serata, Cuori puri, il film d’esordio di Roberto De Paolis selezionato alla Quinzaine des Réalisateurs del Festi-
val di Cannes 2017, che si inserisce nel nuovo corso d’autore e di genere del cinema italiano. Con FuckingShortMovie Gold Edition sono stati proiettati i cortometraggi che hanno vinto i maggiori premi italiani di settore nel 2017: A casa mia di Mario Piredda vincitore del David di Donatello, Moby Dick di Nicola Sorcinelli vincitore del Nastro d’Argento e Penalty di Aldo Iuliano vincitore del Globo d’Oro. Ma la serata dedicata a Fabrique, all’insegna della fusione fra linguaggi artistici differenti, non può mancare di ospitare un importante spazio dedicato alle esposizioni, che questa volta ha per protagonisti il talento degli studenti della Scuola Romana di Fotografia e di Geisel Ramirez. Ad animare la serata, rendendo magica l’atmosfera illuminata da tante stelle presenti sul palco, la musica con il live di Tymbro, del gruppo STAG e il dj set di San Diego.
La festa in onore del numero estivo di Fabrique illumina una notte romana piena di stelle, a iniziare da quelle presenti sul palco.
68
NEWS GIUGNO-LUGLIO 2017
SALOTTO CINEMA Un’estate all’insegna del buon cinema con il Salotto Cinema, la rassegna proposta da Fabrique con pellicole d’autore e incontri con registi, critici e attori sui divani allestiti per l’occasione presso l’Ex Dogana di San Lorenzo. Tutto questo con ingresso gratuito, in uno spazio dove poter gustare il cinema contemporaneo con il relax che merita per assaporarne al meglio le suggestioni. Tra le proposte offerte, Tano da morire, il primo musical sulla mafia interamente recitato da attori non protagonisti che trae spunto dalla storia vera del boss palermitano Tano Guarrasi, nato da un’idea visionaria di Roberta Torre nel 1997 e ancora straordinariamente attuale. Da segnalare inoltre la serata speciale del 12 luglio, che ha visto concretizzare la partnership tra Fabrique e lo ShorTS International Film Festival, la kermesse che ogni anno accoglie e presenta a Trieste i migliori cortometraggi prodotti nel mondo, dedicando una serata ad alcuni dei lavori vincitori della diciottesima edizione: MEJE di Damjan Kozole, Kaboom di Romain Daudet Jahan, Djinn Tonic di Domenico Guidetti, A Girl Like You di Gianluca Mangiasciutti e Massimo Loi, Candie Boy di Arianna Del Grosso, Lo Steinway di Massimo Ottoni. E ancora, la maratona di cortometraggi Fucking ShortMovies corredata da un talk show con i nuovi e scatenati giovani produttori di che invaderanno i festival italiani con le loro opere. Un faccia a faccia per indagare, studiare e scoprire il cinema del futuro made in Italy.
30 AGOSTO- 9 SETTEMBRE 2017
FESTIVAL DEL CINEMA DI VENEZIA Fabrique du Cinéma sarà presente anche quest’anno al festival del cinema più antico del mondo per testimoniare il proprio contributo alla causa del complesso e stimolante universo della cinematografia italiana. Per questo porterà alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia 2017 una tavola rotonda e un cocktail party con cui poter festeggiare e insieme riflettere e confrontarsi sul meglio del nuovo cinema contemporaneo.
DOVE
Come e dove Fabrique
ROMA CINEMA BARBERINI | 06.42010392 | Piazza Barberini, 24/26 CASA DEL CINEMA | 06.423601 | Largo Marcello Mastroianni, 1 EDEN FILM CENTER | 06.3612449 | Piazza Cola di Rienzo, 74 GREENWICH | 06.5745825 | Via G. Battista Bodoni, 59 INTRASTEVERE | 06.5884230 | Vicolo Moroni, 3 MADISON | 06.5417926 | Via G. Chiabrera, 121 NUOVO SACHER | 06.5818166 | Largo Ascianghi, 1 TIBUR | 06.4957762 | Via degli Etruschi, 36 TREVI | 06.6781206 | Vicolo del Puttarello, 25 LOCALI BIG STAR | Via Mameli, 25 KINO | Via Perugia, 34 NECCI | Via Fanfulla da Lodi, 68 SCUOLE CENTRO SPERIMENTALE DI CINEMATOGRAFIA | Via Tuscolana, 1520 CINE TV ROSSELLINI | Via della Vasca Navale, 58 GRIFFITH | Via Matera, 3 IED | Via Giovanni Branca, 122 ROMEUR ACADEMY | Via Cristoforo Colombo, 573 SCUOLA D’ARTE CINEMATOGRAFICA GIAN MARIA VOLONTÉ | Via Greve, 61
MILANO CINEMA CINEMA ANTEO | Via Milazzo, 9 CINEMA ELISEO | Via Torino, 64 CINETECA MILANO | c/o Manifattura Tabacchi, Viale Fulvio Testi, 121
TORINO CINEMA CINEMA MASSIMO | Via Giuseppe Verdi, 18
BOLOGNA CINEMA CINEMA LUMIÈRE | Via Azzo Gardino, 65
FABRIQUE DU CINÉMA
LA CARTA STAMPATA DEL NUOVO CINEMA ITALIANO AUTUNNO
2017
Numero
19
OPERA SECONDA
“A CIAMBRA”
Il cinema senza filtri di Jonas Carpignano, a Gioia Tauro, oggi
FUTURES
ALAIN PARRONI
“La rivoluzione devi farla per forza”
LA CARTA STAMPATA DEL NUOVO CINEMA ITALIANO
NUOVI MAESTRI
TURTURRO/OZPETEK
Due mondi, la stessa certezza: mai smettere di nutrire la passione
Unire idee, attitudini, emozioni, per costruire qualcosa di ancora più grande, seguendo l’esempio di Angela e Marianna Fontana
SCARICA GRATUITAMENTE TUTTI I NUMERI DAL SITO 0 SCRIVICI A REDAZIONE@FABRIQUEDUCINEMA.COM
WWW.FABRIQUEDUCINEMA.IT Like us www.facebook.com/fabriqueducinema
FIRENZE CINEMA CINEMA STENSEN | Viale Don Giovanni Minzoni, 25
FESTIVAL Cortinametraggio Festa del Cinema di Roma Ischia Film Festival Maremetraggio - International Shorts Film Festival Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia Roma Creative Contest Roma Web Fest Rome Independent Film Festival Visioni Italiane Cineteca di Bologna
69