Fabrique du Cinéma #21

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LA CARTA STAMPATA DEL NUOVO CINEMA ITALIANO ESTATE

2018

Numero

21

OPERA PRIMA

“LA TERRA DELL’ABBASTANZA”

D’Innocenzo: “Fare cinema è filmare il realismo delle emozioni”

ICONE

AVATI, WINTERBOTTOM E PAZ

Cinema italiano e internazionale, arte: tre maestri di ieri e di oggi

EFFETTI SPECIALI

DA SPIELBERG A NETFLIX

La sci-fi alla fine degli anni Dieci: l’eterno ritorno del futuro

ESPRIMI UN DESIDERIO E POI IMPEGNATI A REALIZZARLO CON TUTTO TE STESSO

È il consiglio della giovanissima e determinata Irene Vetere


S

BAH, LA REALTÀ

LA MEGLIO GIOVENTÙ

VALERIO RUFO NEXO DIGITAL

SOMMARIO

PUPI AVATI

Pubblicazione edita dall’associazione culturale Indie per cui Via Francesco Ferraironi, 49 L7 (00177) Roma www.fabriqueducinema.it

Registrazione tribunale di Roma n. 177 del 10 luglio 2013 DIRETTORE ARTISTICO Davide Manca DIRETTORE EDITORIALE Elena Mazzocchi SUPERVISOR Luigi Pinto STRATEGIC MANAGER Tommaso Agnese DIRETTORE RESPONSABILE Ilaria Ravarino GRAFICA E IMPAGINAZIONE Giovanni Morelli REDAZIONE Monica Vagnucci DISTRIBUZIONE Simona Mariani Eleonora De Sica MARKETING Federica Remotti REDAZIONE WEB Gabriele Landrini Cristiana Raffa AMMINISTRAZIONE Katia Folco Consuelo Madrigali UFFICIO STAMPA b.studio http://bstudios.it in collaborazione con Sara Battelli PUBBLICITÀ info@fabriqueducinema.it APS Advertising srl Via Tor de Schiavi, 355, 00171 ROMA www.apsadvertising.it STAMPA CIERRE & GRAFICA Via Del Mandrione, 103 00181 Roma (RM) Finito di stampare nel mese di giugno 2018

LA CARTA STAMPATA DEL NUOVO CINEMA ITALIANO ESTATE

2018

Numero

MICHAEL WINTERBOTTOM PAZ

10 OPERA PRIMA LA TERRA DELL’ABBASTANZA VIVERE O MORIRE

ICONE

AVATI, WINTERBOTTOM E PAZ

Cinema italiano e internazionale, arte: tre maestri di ieri e di oggi

EFFETTI SPECIALI

DA SPIELBERG A NETFLIX

La sci-fi alla fine degli anni Dieci: l’eterno ritorno del futuro

ESPRIMI UN DESIDERIO E POI IMPEGNATI A REALIZZARLO CON TUTTO TE STESSO

È il consiglio della giovanissima e determinata Irene Vetere

IN COPERTINA Irene Vetere

SIMONE ANGELINI

LA PAZZA GIOIA REA ACADEMY

IL CACCIATORE

DAVIDE CARNEVALI

HO RUBATO LA MARMELLATA APERTI AL PUBBLICO

SMART PEOPLE

OVUNQUE TU SARAI

14 FUTURES/1 ALESSANDRO GRANDE IL MONDO SALVATO DAI RAGAZZINI

21

OPERA PRIMA

“LA TERRA DELL’ABBASTANZA”

D’Innocenzo: “Fare cinema è filmare il realismo delle emozioni”

04 COVER STORY 06 FUTURES/2 16 NUOVI MODELLI 18 ICONE/1 22 ICONE/2 26 ICONE/3 30 ARTS 34 CHICKENBROCCOLI 36 FABRIQUE PER 38 MAKING OF 40 TEATRO 44 ZONA DOC/1 47 ZONA DOC/2 48 ATTORI 50 SOUNDTRACK 58 SITCOM 62 EFFETTI SPECIALI 64 DIARIO 68 DOVE 69 EDITORIALE

NEW SCHOOL

L’ETERNO RITORNO DEL FUTURO

GLI EVENTI DI FABRIQUE

COME E DOVE FABRIQUE

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E EDITORIALE

foto ROBERTA KRASNIG stylist STEFANIA SCIORTINO

BAH, LA REALTÀ di ILARIA RAVARINO @Ravarila_DM

Andrea Pazienza piaceva a tutti.

Ai cantanti: Roberto Vecchioni lo adorava, anche se disegnava le copertine come gli pareva (Signor Giudice, Montecristo, Hollywood Hollywood, Robinson, Il grande sogno). Federico Fellini, che per lui aveva una passione, gli chiese di realizzare il manifesto de La città delle donne. Milo Manara lo paragonava a Caravaggio, per Roberto Benigni era “l’albero del paradiso”. Andrea Pazienza piace a tutti. A noi di Fabrique che gli dedichiamo ‒ con un’intervista alla moglie Marina Comandini ‒ un posto d’onore tra le nostre icone (su questo numero anche Michael Winterbottom e Pupi Avati). Al pubblico della grande mostra ospitata questa estate a Roma. Ai tanti artisti, registi, autori che oggi, a trent’anni dalla morte, dichiarano il loro amore alla testa matta dietro a Le straordinarie avventure di Pentothal, Pompeo, Zanardi. Pazienza piace anche a Matteo Garrone, proprietario di un bellissimo quadro che il regista ha prestato alla mostra romana, e ancora Pazienza ‒ il suo spirito irriverente e poetico, anarchico e (auto)distruttivo ‒ risuona in certi

angoli de La terra dell’abbastanza, magnifica opera prima dei fratelli D’Innocenzo, “scoperti” proprio da Garrone. Due ragazzi che prima ancora di compiere trent’anni mostrano una profondità di visione, e una maturità nel racconto, che è raro incontrare in un esordio (ha qualche anno in più Alessandro Grande, il nostro Futures insieme a Valerio Rufo, che con il suo ultimo lavoro, il corto Bismillah, ha vinto il David di Donatello. Pazienza di lui, probabilmente, direbbe: «Bah, la realtà»). Andrea Pazienza piacerà anche a chi verrà dopo di noi, anche se non ha lasciato nessun erede: lo chiama “maestro” Paolo Virzì (la cover di questo numero è Irene Vetere, protagonista del suo Notti magiche), che

grazie a una caricatura scarabocchiata su un foglio guadagnò l’ammissione al Centro Sperimentale. Un piccolo atto di trasgressione notato dagli allora esaminatori Benvenuti e Scarpelli, che segnò l’inizio di una luminosa carriera. Chissà come l’avrebbe raccontata, questa storia, Andrea Pazienza.

ABITO: EQUIPMENT OCCHIALI DA SOLE: L.G.R.

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- Cover story -

«CI CHIEDEVAMO COME AVREMMO FATTO A NON TREMARE EPPURE, APPENA SENTIVO IL CIAK, IL GELO SPARIVA».

IRENE VETERE

LA MEGLIO GIOVENTÙ Ha una parlantina inarrestabile, gli occhi colmi di genuino entusiasmo e un desiderio travolgente di scoprire e imparare. Non a caso Paolo Virzì l’ha scelta come protagonista del suo prossimo film...

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rene ha soltanto diciotto anni ma riesce a stupire con la saggezza di chi sa già il fatto suo. E si racconta con la spontanea incredulità di chi ha visto la propria vita trasformarsi da un momento all’altro in un sogno a occhi aperti. L’amore per la recitazione, tuttavia, l’accompagna da sempre: «Avevo solo otto anni quando l’attore Bernardo Casertano si presentò nella mia scuola elementare come insegnante di teatro e mi regalò il mio primo ruolo: la perfida regina di Biancaneve! Dopo quell’esperienza ho cominciato a frequentare una scuola di teatro e, qualche anno più tardi, Bernardo mi ha ricontattata su Facebook per chiedermi se volessi cominciare a fare qualche provino ed entrare nell’agenzia di Luisa Mancinelli. Mi sono detta “perché no?”. Di lì a poco, a quindici anni, ho vissuto il mio primo, brevissimo set: un episodio di Don Matteo 10». Ecco che ti si è aperto un mondo completamente nuovo... Esatto: sconosciuto ma elettrizzante! Non molto tempo dopo ho conquistato il mio primo ruolo da protagonista in Zeta di Cosimo Alemà, ed è stato allora che ho sperimentato la maestria di un regista nel guidare l’attore verso il percorso giusto. Cosimo arriva a ripetere un ciak anche cinquanta volte se non è soddisfatto, ma si è sempre mostrato aperto al confronto, al dialogo e attento a me come persona. Mi ha persino concesso di cambiare la sceneggiatura, se trovavo innaturali alcune battute. Abbiamo lavorato per rendere Gaia (la protagonista di Zeta) credibile sulle mie labbra.

Dopo Zeta sono arrivate proposte importanti. Gaia ti ha portato fortuna! Ci tengo a fare una precisazione. Dopo Zeta ho intrapreso per due anni un percorso di studio con il regista, attore e sceneggiatore Luciano Melchionna. Grazie a lui ho superato alcune paure, è stato molto faticoso ma ha rappresentato un punto di svolta. È naturale mostrare resistenza quando ci viene chiesto di fare qualcosa di “innaturale”. Tuttavia, quando riesci a lasciar emergere la tua naturalezza, superando ogni blocco, inizi a credere di poter recitare davvero. Questo per dire che non credo molto nel “talento innato” e nei doni dal cielo. Certamente c’è di mezzo un pizzico di fortuna, ma si tratta della spinta iniziale. Il resto è tutto lavoro sodo. Che differenze hai notato nel lavoro sull’attore di Alemà, Silvestrini e Virzì? Cosimo e Paolo hanno in comune l’essere anche sceneggiatori dei film a cui ho preso parte. L’occhio sull’attore è necessariamente diverso in questi casi: hanno scritto di proprio pugno i personaggi e puntano a tirar fuori l’idea che loro stessi ne hanno. Ivan Silvestrini, invece, in Arrivano i prof mi ha affidato il ruolo di Camilla, la classica “secchiona”, molto lontana dal mio modo di essere. In quella circostanza ho cominciato da

zero, cercando tutte le differenze tra me e lei e lavorando su quelle. Credo che sia proprio la ricerca la parte migliore di questo lavoro.

di CHIARA CARNÀ creative producer TOMMASO AGNESE direttore di produzione MASSIMO ROSSETTI foto ROBERTA KRASNIG stylist STEFANIA SCIORTINO assistenti fotografa GIULIA TERENZI e MICHELA MERENDA hair ADRIANOCOCCIARELLI@HARUMI trucco SARA BRUSCHINI e DARIA NUCCI per REA ACADEMY thanks to EQUIPMENT, NORMAKAMALI, MANTÙ IN LOCATION - CONTEMPORARY CLUSTER - Via dei Barbieri 7

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«HO DECISO DI TRASFORMARE IN CREATIVITÀ L’ANSIA E IL DOLORE CHE PROVAVO».

Irene Vetere ha studiato recitazione presso la scuola Arteam Jobel di Roma, cimentandosi presto con il teatro nell’opera Il codice Perelà di Palazzeschi.

Eugenia (la protagonista di Notti magiche), invece, che tipo è? Con Eugenia il gioco si è fatto duro: è una ragazza profondamente tormentata e io mi sentivo spaesata, nonostante Paolo sia geniale nell’indirizzare gli attori e capirli a fondo. Io, però, sono sempre stata una ragazza fondamentalmente serena e spensierata, quindi non sapevo da dove cominciare per portare in scena le complesse emozioni di Eugenia. Il caso ha voluto che, pochissimi giorni prima dell’inizio delle riprese, il ragazzo con cui stavo da quattro anni mi ha lasciata. Per me è stato uno shock, ma ricordo bene che ero nella mia stanza e mi sono detta: “Questo può essere un punto di partenza per esplorare il mondo interiore di Eugenia”. Ho deciso di trasformare in creatività l’ansia e il dolore che provavo. Virzì è uno dei più importanti registi italiani viventi. Che effetto fa essere la sua nuova musa? All’inizio sentivo molto il peso della responsabilità, l’ansia da prestazione… Ma avevo accanto Paolo stesso e due co-protagonisti in gamba con cui lasciarmi andare. Paolo ci teneva che vivessimo il più possibile questi ruoli e li facessimo nostri, così come aveva fatto lui mentre li scriveva. È finita che questi personaggi così estranei a noi ci hanno preso al punto che girare non era più recitare, ma vivere. È stata un’esperienza completamente immersiva. Ti faccio un esempio: Notti magiche è ambientato a luglio ma le riprese si sono tenute a dicembre. Giravamo gli esterni a Trastevere in canottiera con una temperatura di 4°! Ci chiedevamo come avremmo fatto a non tremare eppure, appena sentivo il ciak, il gelo spariva.

A quanto pare la passione può superare anche qualcosa di oggettivo come il freddo. 8

Il cinema italiano, oggi, vanta tra i suoi volti una serie di giovani donne emergenti, come Matilda De Angelis o le gemelle Fontana. Cosa pensi di questo segnale di cambiamento? È assolutamente positivo. Lo spazio che ci è dato è come una prova di fiducia in un momento di rinascita del cinema italiano. È segno che si vuole ripartire dalle giovani promesse, e questa apertura mi sprona ancora di più a crescere come artista e a lavorare per dimostrare che la speranza è stata ben riposta. Perché se l’occasione è un atto di fiducia, il set è a tutti gli effetti un percorso di formazione, non un punto di arrivo. E tu, con che cinema sei cresciuta? I cento passi e La meglio gioventù sono i film che non mi stanco mai di rivedere. Adoro il cinema di Miyazaki e credo che La città incantata racconti come nessuno è mai riuscito a fare le sensazioni di un bambino che, giocando, ha di fronte a sé un universo inesplorato che per lui è tanto più reale di ciò che gli accade intorno. È molto vicino alla magia che sto vivendo adesso con questo lavoro, perché stare sul set è come entrare in una dimensione parallela. La prospettiva di diventare un’attrice conosciuta, come probabilmente accadrà dopo l’uscita di Notti magiche, ti spaventa? Per adesso non me ne preoccupo. Sto vivendo tutto come un gioco eccitante, senza immaginare il futuro. Ci penso come a qualcosa di assurdo che è capitato nella mia vita, ma ci sto così tanto dentro che non riesco a proiettarmi troppo in là. Attualmente penso all’esame di maturità, a iscrivermi all’università: voglio lasciare che la vita mi sorprenda e faccia il suo corso.


- Opera Prima -

La pellicola è stata girata a Ponte di Nona, non lontano da Tor Bella Monaca, dove i fratelli D’Innocenzo vivevano.

LA TERRA DELL’ABBASTANZA

VIVERE O MORIRE

MIRKO E MANOLO SONO DUE RAGAZZI DELLA PERIFERIA ROMANA SENZA PROSPETTIVE CHE, DOPO UN IMPROVVISO INCIDENTE, VEDONO LA LORO VITA CAMBIARE PER SEMPRE E SI RITROVANO INVISCHIATI NEL MONDO DELLA CRIMINALITÀ. di LUCA OTTOCENTO

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l percorso dei fratelli D’Innocenzo, gemelli ventinovenni provenienti da Tor Bella Monaca, ha poco a che fare con quelli più tradizionali che generalmente conducono i giovani registi a esordire nel lungometraggio. Sembra incredibile, infatti, ma senza una scuola di cinema o un solo corto alle spalle, Damiano e Fabio sono riusciti nell’impresa di realizzare il loro primo

film, presentato con successo qualche mese fa al Festival di Berlino nella sezione Panorama. La terra dell’abbastanza, nei cinema italiani a partire dal 7 giugno e già venduto in diversi paesi stranieri, racconta una storia molto dura attraverso un approccio antiretorico e sorprendentemente autentico, che permette

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«ALLA LORO OPERA PRIMA, DAMIANO E FABIO D’INNOCENZO DIMOSTRANO SUBITO UN INNEGABILE TALENTO PER LA SCRITTURA E LA MESSA IN SCENA. NON A CASO, MATTEO GARRONE LI HA VOLUTI AL PROPRIO FIANCO NEL SUO ULTIMO FILM».

un’immersione completa dello spettatore nelle vicende narrate. Per approfondire il lavoro fatto sul film e la loro visione della settima arte, abbiamo conversato a lungo con i generosi e instancabili fratelli, che oltre ad aver recentemente collaborato con Garrone per Dogman, hanno già pronta la prima stesura della sceneggiatura del prossimo progetto: un western sui generis che affronterà il tema archetipico del rapporto tra uomo e donna, le cui riprese sono previste per maggio dell’anno prossimo. Del neorealismo il teorico Christian Metz sottolineava la capacità di far emergere «istanti di verità», riconducibili a una «verità di un atteggiamento, di un’inflessione di voce, di un gesto, di un tono». Mi sembra che La terra dell’abbastanza abbia intimamente a che fare con questo concetto e sia in grado così di sprigionare un notevole grado di realismo. Damiano Cogli un aspetto importante. Per ricreare un forte effetto

di realismo abbiamo puntato molto su componenti che forse non saltano immediatamente all’occhio, come la scenografia di Paolo Bonfini, la fotografia di Paolo Carnera e i costumi di Massimo Cantini Parrini. Si è trattato di un grande lavoro di squadra. L’obiettivo

era quello di raccontare la nostra storia evitando tanto le edulcorazioni quanto, come

ad esempio si è visto di recente in qualche film italiano, l’elogio al contrario di una periferia brutta e sciatta mostrata solo attraverso colori grigi e mancanza di linee prospettiche. Fabio C’è una profonda differenza tra il reale, che è una cosa che non mi piace per nulla al cinema, e il realistico, che invece è una cosa che adoro. Il film, anche dal punto di vista figurativo, ha degli elementi non puramente reali ma trasfigurati, dei primi piani e delle luci particolari che sono più sensoriali che reali. Cos’è veramente realistico, in fondo? L’emozione. E l’emozione spesso si lega al ricordo, che a propria volta si lega a pochissimi

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Nel cast del film, insieme ai protagonisti Andrea Carpenzano e Matteo Olivetti, Milena Mancini, Demetra Bellina, Michela De Rossi, Max Tortora, Giordano De Plano.

selezionare velocemente ciò che deve essere visibile o meno su carta, generalmente abbiamo un’idea piuttosto chiara di cosa vogliamo o non vogliamo mostrare in un’inquadratura. A proposito del contesto della periferia cui accennavi rispetto ai campi lunghi presenti nel film, ci tengo a dire che per noi La terra dell’abbastanza è un film che tratta essenzialmente il tema dell’amicizia, in maniera credo profonda e spero anche un po’ contraddittoria. Abbiamo deciso di ambientarlo in periferia perché è un mondo che conosciamo bene, ma si tratta semplicemente di uno sfondo.

«FARE CINEMA È FILMARE IL REALISMO DELLE EMOZIONI E DELLE PERCEZIONI».

Le interpretazioni di Matteo Olivetti e Andrea Carpenzano sono sorprendenti, così convincenti da sembrare quasi che i due attori interpretino se stessi. Come li avete guidati in questo percorso di immedesimazione? F Il nostro copione, per il modo in cui descriveva odori, sensazioni ed emozioni dei personaggi, più che una sceneggiatura sembrava un romanzo. Sapevamo che diverse delle cose scritte non sarebbero state materialmente filmabili, ma hanno rappresentato un punto di riferimento importante tanto per gli attori quanto per i vari caporeparto. Matteo e Andrea non provengono dalla periferia ma conoscono benissimo la vita, hanno una grande curiosità nei confronti delle persone e dei loro mondi. Da questo punto di vista li vedo quasi come due antropologi: possiedono

una sensibilità estrema e una capacità di capire l’animo umano che è veramente ammirevole.

elementi che ci restituiscono un evento non in maniera nitida e oggettiva, ma attraverso il filtro del nostro stato d’animo connesso a quel particolare momento. Fare cinema nella nostra visione è proprio cercare di filmare il realismo, laddove però per realismo si intende una sorta di realismo antropologico, delle emozioni e delle percezioni. La regia si alimenta soprattutto di primi piani e inquadrature ravvicinate, a cui si aggiungono inquadrature larghe sul contesto della periferia. Come avete lavorato sullo stile per ottenere un coinvolgimento così potente dello spettatore? F È stato il film stesso a suggerirci la linea da seguire dal punto

di vista estetico. Avendo scritto una storia che viaggia in parallelo con il protagonista e ha la carica immersiva molto forte di cui parli, era naturale andare a scavare sui primi piani per cercare di leggere quello che i personaggi stavano vivendo. Più che i fatti che si succedono, ci interessava mettere in luce come essi vengono percepiti dai personaggi. L’intento era di indagare il loro

pensiero, la loro emotività, il loro senso di colpa e questa cosa era possibile farla solo standogli fisicamente addosso con la macchina da presa.

D Il nostro approccio alla regia è stato anche istintivo e lo vedo molto legato alla grande passione che abbiamo per il disegno. Disegnando entrambi da moltissimi anni ed essendo abituati a

D Io e Fabio abbiamo avuto diverse esperienze nel mondo del teatro collaborando con personaggi come Valerio Binasco ed Elena Arvigo. Tante figure del teatro contemporaneo conosciute nel corso degli anni ci hanno influenzato per quanto riguarda la direzione degli attori. La cosa che non mi sarei mai aspettato lavorando con due ragazzi giovani come Matteo e Andrea era riuscire con una tale naturalezza e facilità a creare un dialogo così profondo e stimolante. Sicuramente in futuro continueremo a lavorare con entrambi, perché è stata un’esperienza molto bella.

Come è nata invece la collaborazione con Matteo Garrone per Dogman? Come siete entrati in contatto con un regista del suo calibro? F Ci siamo incontrati per caso una sera a cena, abbiamo avuto l’opportunità di parlare molto di cinema e fra noi è emersa subito un’affinità. Matteo proprio in quel momento stava scegliendo il nuovo progetto a cui dedicarsi. Dogman lo portava avanti da dieci anni, da prima di Gomorra. Ci ha fatto leggere le differenti stesure del film, e con lui e con i suoi sceneggiatori Massimo Gaudioso e Ugo Chiti ci siamo messi a lavorare su quel materiale. Essendo la storia ambientata in una periferia, che poi in realtà è andata progressivamente trasformandosi in una periferia dell’anima, una sorta di non-luogo, il nostro contributo è stato quello di fare in modo che dialoghi e situazioni risultassero reali. Le sceneggiature a casa di Matteo si scrivono attorno a un tavolo, quasi ad alzata di mano, ed è tutto ben pianificato. Io e Damiano dicevamo la nostra, rilanciavamo idee su personaggi che non c’erano nelle prime versioni, davamo tutto quello che potevamo offrire. Matteo ci ha fatto un regalo davvero straordinario. D La nostra collaborazione alla scrittura di Dogman è durata circa due mesi. Tutti i giorni lavoravamo dalle 10 alle 18. Si spegnevano i telefoni e c’era solo una piccola pausa per andare in mensa a pranzare. Lavorare con Matteo ci ha fatto capire tanto

sul cinema, che non è come spesso si dice una cosa per pochi eletti o per chi ha un dono particolare, ma più di ogni altra cosa presuppone impegno e lavoro quotidiano. A proposito del nostro primo incontro, ricordo

che appena ci ha visto alla cena ci ha squadrato e ci ha detto che avremmo potuto fare gli italo-americani in un film. Noi gli abbiamo raccontato che stavamo preparando il nostro primo lungometraggio, lo abbiamo incuriosito e così ci ha chiesto se volevamo seguirlo in un altro locale dove stava andando. È iniziato tutto in questo modo e alla fine ci siamo ritrovati a collaborare con lui nella sua casa agli Studios della Tiburtina. Un sogno.

Il film è prodotto da Pepito Produzioni con RAI Cinema e con il sostegno del MIBACT e della Regione Lazio.

Nel film trova spazio un Luca Zingaretti inedito, in versione criminale.

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- Futures/1 -

ALESSANDRO GRANDE

IL MONDO SALVATO DAI RAGAZZINI Con Bismillah è riuscito a raccontare senza artifici e virtuosismi il riflesso umano più intimo del fenomeno migratorio. Vincendo il David di Donatello.

umano e sentimentale dei personaggi» spiega il regista, originario di Catanzaro ma ormai trapiantato a Roma, che nella sua carriera decennale ha ottenuto numerosi premi nei festival di tutto il mondo, 78 complessivi, e una nomination ai Nastri d’Argento con il corto precedente Margherita (2013). Prodotto dal regista insieme alla Indaco Film di Luca Marino, con il supporto di RAI Cinema, Calabria Film Commission e Comune di Catanzaro, Bismillah mette in scena il coraggio e la

determinazione di Samira, una bambina tunisina di dieci anni che vive in Italia in clandestinità,

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egli ultimi anni il cinema italiano, alla ricerca di un nuovo sguardo, ha riflettuto sui rapporti determinatisi dal fenomeno migratorio e dalla contiguità delle diversità culturali, tra processi di integrazione e marginalizzazione, all’interno di un paesaggio in continuo mutamento. Vincitore del Miglior Cortometraggio ai David di Donatello 2018, con Bismillah Alessandro Grande ha deciso di lasciare fuori campo le immagini che popolano il nostro quotidiano, molto spesso strumentalizzate in chiave politica, concentrandosi invece su una storia intima e privata.

«Più che l’immigrazione, che rimane una cornice, il mio intento era quello di evidenziare l’aspetto

con il padre e il fratello diciassettenne, ma anche la sua paura e insicurezza nell’affrontare una situazione drammatica che potrebbe significare l’espulsione dal paese. «Nei miei lavori precedenti (In My Prison e Margherita) ho sempre affrontato forti tematiche sociali. L’idea per Bismillah è nata dopo aver letto che nel 2011 l’Italia ha registrato il maggior numero di immigrati tunisini nella sua storia, circa 23 mila persone che scappavano durante la Primavera Araba, la cui metà viveva in clandestinità nel nostro paese» prosegue il regista. Evitando le ipocrisie così come le facili retoriche, il cortometraggio vuole «evidenziare l’aspetto umano e sentimentale dei personaggi, come l’amore di Samira nei confronti del fratello e le grandi responsabilità che la bambina dovrà affrontare». Sfruttando

al massimo la forma breve e concentrando la narrazione in pochissimi minuti, Bismillah mette lo spettatore di fronte a una realtà nuda e cruda. La macchina da presa si sofferma sul volto della piccola protagonista, cercando di coglierne le emozioni, i dubbi e i conflitti, e di entrare nel suo animo attraverso una giusta distanza. Lontana dall’estrosità del virtuosismo e dalla pura ricerca estetica, la regia vive tutta «in funzione del personaggio». Sulla scelta di raccontare questa storia attraverso gli occhi di una bambina il regista precisa: «Mi sembrava giusto che un insegnamento così ottimista e forte potesse venire da una bambina che deve caricarsi sulle spalle un peso più grande di lei, prendendo una decisione che sarebbe spettata a un adulto. Inoltre, credo che la rappresentazione dei caratteri dell’infanzia e dell’adolescenza faccia parte della mia sensibilità». La giovane protagonista Linda Mresy è stata scelta tra moltissime candidate. «Mi

sono subito innamorato degli occhi di Linda, della sua espressività e della sua determinazione. È

stata infatti l’unica bambina ad avermi chiesto, durante i provini, consigli sull’interpretazione o su come si pronunciasse correttamente una frase. Questo vuol dire che hai grande voglia di apprendere, di imparare, senza aver paura di confrontarti con una persona più grande di te, come in questo caso il regista. Per una bambina di dieci anni alla primissima esperienza davanti alla macchina da presa è

«LA RAPPRESENTAZIONE DI INFANZIA E ADOLESCENZA FA PARTE DELLA MIA SENSIBILITÀ». sinonimo di coraggio, un aspetto che volevo che il personaggio di Samira trasmettesse». Affrontando un tema universale come quello della fratellanza, il cortometraggio vuole essere

un “canto di speranza” come la preghiera che intona Samira, a partire proprio dalla parola “bismillah”, un termine arabo che significa “in nome di Dio”, un brano che

cantano i genitori ai bambini prima di andare a dormire, sia come ninna nanna sia per avvicinarli alla fede. «Ho voluto inserire un elemento che fa parte della cultura e dell’intimità dei personaggi, un elemento che potesse rappresentare un loro aspetto profondo e sincero» chiarisce Alessandro Grande. Dopo aver ricevuto il riconoscimento cinematografico più importante del nostro paese, assegnato dall’Accademia del Cinema Italiano, Bismillah prosegue il proprio cammino nei più importanti festival internazionali. Dopo la première mondiale al prestigioso Toronto International Film Festival ‒

Kids, tra i festival di settore legati ai ragazzi più importanti al mondo insieme al Giffoni, dove è stato inserito nella selezione ufficiale e nel programma Educational, il cortometraggio è tra gli otto finalisti del 35° Buff Film Festival, in programma a Malmö, in Svezia, e nella selezione ufficiale del Busan International Film Festival, in Corea del Sud. «Inizialmente, come sempre, mi sono dovuto rimboccare le maniche» ricorda il regista «quando si è soli, e si ha davanti un foglio bianco, tutto deve partire da te e allora scrivi. Poi, nel momento in cui hai scritto, devi rimboccarti nuovamente le maniche e cercare di portare avanti quello che hai scritto con tutte le tue forze. Infine, se il prodotto è valido andrà avanti con le proprie gambe».

Adesso, dopo aver superato le difficoltà di trovare contributi e finanziamenti, Bismillah spicca il volo oltre i confini nazionali sperando di entrare in corsa per gli Oscar 2019.

La pellicola Bismillah di Alessandro Grande rappresenterà l’Italia nella corsa come Miglior Cortometraggio agli Oscar del prossimo anno.

di SAMUEL ANTICHI 14

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- Futures/2 lo ha portato a questo esordio estremamente promettente. Hai un percorso interessante, hai lavorato come fotogiornalista e poi sei passato alla pubblicità prima di arrivare alla regia. Sì, facevo il fotografo di cronaca nera per alcuni giornali ai tempi dell’università. Ho

sempre frequentato però la scrittura e un po’ per caso sono finito a fare il copywriter per agenzie pubblicitarie. L’ho fatto per

VALERIO RUFO

FRAMMENTI di CINEMA Una carriera vissuta in bilico tra realtà e finzione, dagli esordi come fotogiornalista al lavoro nella pubblicità. Valerio Rufo ha firmato con Via Lattea un cortometraggio che promette di essere il primo atto di una maturità registica già evidente. di GIACOMO LAMBORIZIO

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accontare una storia è sempre un’opera di scelta, selezione. Infinitamente più numeroso di quel che si sceglie di dire è quel che si sceglie di non dire. Scrivere e girare un cortometraggio significa ancora più scendere a patti con la natura finita dell’atto narrativo.

Un cortometraggio è

sempre un frammento, una porzione di una storia più grande che non ci viene raccontata e che possiamo solo intuire, confinata nel dominio del più fantasmatico degli elementi fondanti il linguaggio cinematografico: il fuoricampo.

Nei nove minuti che compongono Via Lattea, il corto d’esordio di Valerio Rufo, il fuoricampo è fondamentale. Via Lattea ha due giovani protagonisti (Andrea Carpenzano e Daphne Scoccia), una coppia la cui vita è sconvolta

«IL PRESUPPOSTO DELLA REALTÀ CHE VIENE SCOMBINATA DALL’INATTESO MI PIACE MOLTO». 16

dal caso, mentre aspettano un traghetto per le vacanze. Un frammento, una scheggia impazzita ‒ in un tempo sospeso come solo l’attesa di un viaggio, a vent’anni, può essere ‒ che sorprende e sconvolge due vite. Il cortometraggio, prodotto da Bosco e Futura in associazione con Groenlandia di Matteo Rovere, ha esordito nel circuito dei festival all’ultima edizione di Cortinametraggio, da cui è tornato con i premi alla Miglior Regia e Miglior Attrice Protagonista.

Abbiamo incontrato Valerio Rufo nella sua casa romana all’Esquilino, per farci raccontare il percorso originale che

anni, ma l’idea della regia mi ha sempre sedotto, aspettando però di essere pronto ad avere qualcosa da dire. Ho iniziato girando uno spot di prova e una casa pubblicitaria ha iniziato ad affidarmi la regia dei commercials e devo dire che è un’ottima palestra. Hai uno scambio con i creativi dell’agenzia e, lavorando con altri, hai l’occasione soprattutto di affinare la tecnica. Devi stare attento al done before, hai lo stimolo a ricercare sempre nuovi modi espressivi. Come è stato il passaggio alla fiction? I primi lavori pubblicitari che ho girato erano in stile documentario e mi hanno fatto entrare in contatto con storie davvero interessanti. Avendo una grande passione per la lettura e la scrittura, la fiction era però qualcosa con cui avevo necessità di confrontarmi: ho capito che mi piacciono le storie di persone normali a cui accadono eventi fatali che sconvolgono loro la vita. Il presupposto della realtà che viene scombinata dall’inatteso mi piace molto e lo ritrovo anche nei registi che prediligo. A proposito, quali autori ti ispirano maggiormente? Le ispirazioni sono infinite, ogni progetto per come lo vivo io si porta dietro una sua ricerca. È l’occasione per studiare cosa è stato detto prima. Se dovessi rubare da registi giganteschi, mi piacerebbe avere la scrittura e l’ironia caustica dei Coen, la tecnica a orologeria di Fincher

e la capacità di Sergio Leone di dar vita a un intrattenimento dai connotati mitici. La cosa che più colpisce di Via Lattea è la grandissima cura dell’immagine. Sia dal punto di vista strutturale sia delle scelte fotografiche, è tutto molto coeso. Si sente che hai una visione estetica ben precisa nel restituire il mood della storia. Parte di questa responsabilità estetica va condivisa con Duccio Cimatti, il direttore della fotografia con cui ho sempre lavorato e con cui voglio continuare a lavorare. È una collaborazione che mi permette di girare in modo estremamente libero, mi regala momenti in cui ho totale libertà di campo. La scena della spiaggia è costruita così: ero in macchina e la fotografia era nello studio del momento di luce da sfruttare e inseguire. Avevamo pochi ciak ed è stato tutto molto istintivo, grazie anche al lavoro di Andrea

Carpenzano, il protagonista. Cerco di non generare immagini belle in modo gratuito, di legarle alla narrativa. E poi amo lavorare in color correction, è uno strumento che mi piace controllare molto attentamente, se riesci a sfruttarne la forza narrativa ti permette di portare la tua storia a un livello superiore. L’altra domanda che emerge guardando il corto è se questa storia crescerà o meno. È una prova generale di qualcosa di

più esteso? È nata come una prova, volevo sperimentare delle atmosfere, non a caso sembra la scena di un film. I presupposti della storia paiono avere un prima non detto e un seguito da sciogliere. La risposta è quindi sì in termini di atmosfera, meno per quanto riguarda lo script. In questo momento sto scrivendo un soggetto che non ha direttamente a che fare con quella vicenda. Ma anche qui mi piace il modo in cui interviene la fatalità, l’inesorabilità del

caso in un momento così particolare della vita dei due protagonisti e che, loro malgrado, li legherà per sempre. Questo tipo di

inneschi mi piace e anche in tal senso sì, è una prova di alcuni elementi. In termini narrativi sto cercando di esplorare delle trame solide, che rendano onore alla capacità del pubblico di appassionarsi ed entrare nella storia.

Via Lattea, prodotto da Matteo Rovere e Laura Sordi, sarà distribuito nei festival da Prem1ere Film.

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Muse. Drones World Tour, il film concerto proposto nelle sale il 12 e 13 luglio.

C O R R O

A L

C I N E M A

A

V E D E R E

CONCERTO ROCK

U N

In un contesto sempre più poliedrico e sfaccettato, il cinema ha mutato negli ultimi decenni le proprie logiche commerciali, tentando di sperimentare inediti confronti con lo spazio della sala. di GABRIELE LANDRINI

L

a Nexo Digital, azienda italiana attiva nel campo della distribuzione dal 2009, si è mossa più di altre proprio in questo senso, ricorrendo sistematicamente all’escamotage dei film-evento. Sempre

più diffusi e tematicamente variegati, i film-evento targati Nexo sono lungometraggi fruibili in sala per un tempo circoscritto a due o tre giorni, votati alla diffusione

di contenuti particolari e non prettamente narrativi, che oscillano tra grandi cult della storia del cinema ed esperienze di teatro filmato, tra documentari di natura

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artistica e concerti pop-rock, spaziando perfino nell’ambito di importanti incontri sportivi o di para-informazione. Al fine di dare continuità a un’offerta molto ampia e caleidoscopica, la società fondata da Franco di Sarro non si limita tuttavia a presentare una rosa di opere tra loro scollegate, ma riscopre le logiche delle rassegne: tipico dei cineclub e dei cineforum, tale stratagemma permette infatti di accostare in calendario progetti dai caratteri simili, dando vita a cicli di proiezioni implicitamente propensi a fidelizzare spettatori interessati a un determinato argomento.

Immagini dell’anime giapponese Mirai del regista Mamoru Hosoda (presentato in anteprima al Festival di Cannes e in sala in autunno).

«L’OPERAZIONE NEXO PUÒ DIRSI NON SOLO SEMPLICEMENTE VITTORIOSA MA NECESSARIA». Una struttura ibrida è dunque quella che accompagna il micro-cosmo dei film-evento che, come si è accennato,

consente di eludere la semplice narratività a favore di temi e modelli meno inflazionati. Scorrendo la lunga lista di titoli presentati annualmente dalla Nexo Digital, è tuttavia lecito chiedersi quali siano le linee creative alla base e in cosa differiscano da quelle di qualsiasi altra casa di distribuzione italiana. Rifuggendo le tradizionali regole che muovono l’economia del cinema, l’azienda milanese mira anzitutto all’importazione di film poco noti al grande pubblico, non davvero introvabili ma non così facilmente reperibili sullo schermo. Si pensi ad esempio alle pellicole d’animazione giapponese che, raccolte nella quinquennale rassegna Nexo Anime, vengono proposte alternando piccoli cult a operazioni inedite. In questo bacino di produzioni nipponiche, si sono succeduti grandi successi di critica e pubblico quali il cult Ghost in the Shell di Mamoru Oshii, l’indimenticabile Akira di Katsuhiro Ôtomo, l’acclamatissimo Your Name di Makoto Shinkai o parti di celeberrimi franchise come Yu-Gi-Oh!: The Dark Side of

Dimensions di Satoshi Kuwabara. Parallelamente, la Nexo Digital

ripropone sul grande schermo lungometraggi del passato i quali, per diversi motivi, hanno segnato in modo irreversibile la storia del cinema mondiale: svincolati generalmente da cicli o da accostamenti ad altre pellicole, film come Shining di Stanley Kubrick o Colazione da Tiffany di Blake Edwards sono approdati nuovamente in sala attirando un numero inaspettatamente elevato di spettatori, desiderosi di passare rispettivamente Halloween e San Valentino con i noti personaggi di Jack Torrance e Holly Golightly. Da ultimo, la casa di distribuzione tenta di fondere il cinema con una concezione artistica tout court, aprendosi alla pittura, alla musica e al teatro. Contenuti profondamente alternativi come i concerti degli Aerosmith o dei Led Zeppeling, le rappresentazioni teatrali in diretta dal Royal Opera House di Londra o i balletti di danza classica ugualmente live dal Bolshoi di Mosca sfruttano o hanno sfruttato il grande schermo come un portale attraverso cui confrontarsi con l’arte ampiamente intesa: ricorrendo alla popolarità del

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Il Lago dei cigni della Royal Opera House, in diretta via satellite nei cinema il 12 giugno scorso.

mezzo cinematografico, eventi altrimenti proibitivi divengono quindi accessibili a tutti gli interessati, consentendo loro di vivere virtualmente esperienze che al contrario riuscirebbero difficilmente a concretizzare. Se l’offerta è ricca di opere nuove e inaspettate, la formula distributiva

è contemporaneamente caratterizzata dalla concentrazione temporale delle proiezioni, a cui si può assistere per un numero spesso estremamente ridotto di giornate. Accanto

alle tradizionali logiche commerciali, il film-evento si muove pertanto in territori solo parzialmente esplorati, issando l’esclusività a fattore determinate per il successo al box office. Le limitate possibilità di fruizione favoriscono infatti la creazione di un’aurea di unicità e di conseguente imperdibilità attorno alle singole opere, che in questo modo attirano un vasto numero di spettatori affezionati. Analogamente, l’apertura a un ventaglio di tematiche spesso non canoniche richiama un pubblico non abitualmente propenso a recarsi in sala: se i grandi blockbuster o le pellicole di finzione attraggono amanti del cinema nel suo complesso, queste piccole esperienze scisse tra differenti arti coinvolgono

più direttamente gli amanti del teatro, della musica e delle esposizioni museali. Tra eventi e rassegne di breve durata, la Nexo Digital si è indubbiamente imposta

negli anni come emblema di una distribuzione alternativa, palese

sia nelle pellicole prescelte, sia nelle modalità in cui sono proposte. A quasi dieci anni dalla nascita, una domanda sorge tuttavia spontanea: tale modus operandi controcorrente può dirsi davvero riuscito? Osservando le cifre, la risposta non può che essere affermativa. Solo nell’ultimo anno, lungometraggi come Loving Vincent di Dorota Kobiela e Hugh Welchman o Pokémon. Scelgo te! di Kunihiko Yuyama si sono rivelati grandi successi al botteghino, tanto da rimanere in sala più giorni rispetto a quelli originariamente stabiliti. Constatato quindi il positivo riscontro del pubblico, l’operazione Nexo può dirsi non solo semplicemente vittoriosa, ma forse perfino necessaria: mentre il cinema nazionale deve fare i conti con fenomeni ormai inevitabili come lo streaming digitale e la pirateria imperante, l’idea di un nuovo modello distributivo permette infatti alla visione in sala di trovare nuova vita, aprendosi a temi e modalità che potrebbero riconquistare il consenso di innumerevoli spettatori.

«L’IDEA DI UN NUOVO MODELLO DISTRIBUTIVO PERMETTE ALLA VISIONE IN SALA UNA NUOVA VITA». www.nexodigital.it

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IL

CINEMA? È U N M AT C H D I P U G I L AT O

LA MIA AMICIZIA CON PUPI AVATI NASCE PIÙ DI DIECI ANNI FA, QUANDO LO INCONTRAI PIÙ VOLTE PER REALIZZARE UN LIBRO-INTERVISTA. di SIMONE ISOLA foto di FLAVIO MANCINELLI

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A

pparentemente lontano dai miei interessi cinematografici, mi incuriosiva il suo status

di autore amato e molto odiato, in grado negli anni di raggiungere una cifra stilistica riconoscibile pur spaziando tra generi diversi.

Dall’estero è arrivato nei mesi scorsi un importante riconoscimento: il premio

Oscar Guillermo Del Toro ha infatti indicato tra i sette film della sua vita proprio L’arcano incantatore di Pupi Avati, la storia di un religioso che

abbandona i voti per amore di una donna. Al di là delle valutazioni sul suo percorso artistico, che ritengo singolare e interessante, ho sempre riconosciuto in Avati un professionista serio, molto generoso con i giovani e pronto a offrire preziosi consigli. Fu proprio lui, dopo quell’intervista di dieci anni fa, a suggerirmi di avvicinare il settore della produzione cinematografica. Ho accolto quindi con piacere l’invito

ad andare a trovarlo dopo molti anni nel suo ufficio a Roma, tra i premi e i manifesti di una vita cinematografica intensa e forsennata. Quest’anno festeggi cinquant’anni di carriera e ottanta di vita. Che principi ritieni di aver seguito nel tuo percorso artistico? Ho sempre cercato di evitare le vie più facili, tenendomi alla larga dalle mode, dalle tendenze. Ho prodotto i miei film insieme a una società costituita con mio fratello Antonio: una scelta che mi ha portato rischi, ma anche il grande vantaggio di girare sempre i film che volevo fare. Non mi sono allineato politicamente. Ho cercato e trovato una cifra distintiva, che piaccia o meno agli altri. Sei uno degli autori italiani più prolifici. Come spieghi questa produzione così intensa? Ho avuto sempre necessità di comunicare, un bisogno tipico della cultura contadina.

«HO SEMPRE CERCATO DI EVITARE LE VIE PIÙ FACILI, TENENDOMI ALLA LARGA DALLE MODE».

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di genere gotico, un ritorno a una delle mie poetiche più apprezzate, ma in molti mi hanno detto di no. Diventerà una serie per Sky, forse, ma non un film. Il mio passato dignitoso non mi dà alcuna garanzia, i problemi di un autore sono sempre gli stessi. Che idea hai del panorama dei giovani autori italiani? I talenti di oggi sono più pragmatici rispetto a quelli di ieri, si vede dalle scelte che fanno, e più passano gli anni e meno sono idealisti. Negli anni Sessanta noi

aspiranti autori non cercavamo un pubblico, avevamo altre velleità. Allora c’era voglia di mettere tutto in discussione, alla luce della grande lezione di Opera aperta di Umberto Eco e della sua affascinante ma fragile suggestione: offrire una proposta narrativa “permeabile” sulla quale il pubblico doveva intervenire, in qualche modo completare. Io sono cresciuto in quell’Occidente lì, in un’epoca dove la provocazione aveva un valore molto profondo. Quando vedevamo la gente uscire perplessa dalla sala, al termine dei nostri film, ci sentivamo quasi sollevati, gratificati. Avevamo colpito una borghesia che andava provocata a ogni costo. Oggi viviamo in una società completamente diversa.

Floating Coffins è la nuova serie televisiva in sei puntate diretta per Sky Italia da Pupi Avati, prodotta da DueA e dal fratello del regista, Antonio Avati.

Ho vissuto la mia infanzia in campagna e ascoltavo solo i racconti orali che si tramandavano i miei familiari. Mia madre

era una narratrice incredibile, in grado di rendere straordinario il racconto della vita quotidiana, come i grandi autori. In

più, da adolescente non mi piacevo, non ero simpatico, avevo i limiti di un ragazzo di provincia che una volta giunto in città si sente emarginato. Allora ho cercato qualcosa per esprimermi, per superare la mia condizione. Prima ho provato con la musica, poi sono passato al cinema, pensando fosse lo strumento per far emergere tutto quell’insieme di racconti che erano dentro di me. Volevo piacere. Ho ancora questo limite infantile, comune a molti artisti: la necessità di sentirsi amati di più degli altri individui. E non sono ipocrita, il cinema mi ha aiutato.

A tanti non piaccio, lo so, ma tutti riconoscono la mia identità. Ora ho proposto alle distribuzioni un film

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Girare un film presuppone un grosso impegno artistico e produttivo. Quali sono i consigli che ti senti di dare a un esordiente? Realizzare un film non è come scrivere un romanzo. Il cinema presuppone dei costi, quando scrivi devi contenere la tua immaginazione in base alle risorse che puoi ragionevolmente pensare di avere. E devi conoscere i dati, la struttura organizzativa e finanziaria di una produzione. Quando incontro colleghi e chiedo loro “quanto ha incassato il tuo film?” e mi rispondono “non lo so”, rimango perplesso. Una volta chiesi all’amico John Landis quanti film secondo lui un autore possa permettersi di sbagliare. Lui rispose: “Due, poi hai chiuso definitivamente”. Nei tuoi film hai fatto esordire molti giovani (ad esempio Stefano Accorsi) e hai proposto attori in ruoli a loro apparentemente poco consoni, come Diego Abatantuono in Regalo di Natale. Sono proposte che seguono l’idea di non compiere le scelte più facili. Penso a Katia Ricciarelli in La seconda notte di nozze o a Neri Marcorè in Il cuore altrove. Non sempre l’operazione ha successo. Con Boldi non ce l’ho fatta. È una bravissima persona,

intendiamoci, ma ha una sua precisa autonomia. Non riesce a entrare facilmente in altri personaggi, per farlo dovrebbe ridurre completamente la sua identità di attore prettamente comico. In queste scelte c’è anche una ragione strategica.

Gli attori emergenti di solito hanno la cattiveria del pugile che va sul ring e che sa che la sua vita dipende da quel match. Se prendi uno così sai che darà tutto se stesso. Se scegli un attore all’apice del successo sarà molto più difficile gestirlo: può arrivare a pensare di essere più importante del regista o che il film stesso si stia realizzando grazie alla sua scelta di parteciparvi. A me invece piacciono molto gli outsider e gli sconfitti, chi non ce l’ha fatta. Lo sconfitto torna a casa, va a letto, ripensa a quello che è successo, lo analizza fino in fondo. Hai un’immagine molto più nitida della realtà, se te la fai raccontare da chi ha perso. Qualche mese fa sei stato al centro delle polemiche per le tue dimissioni dalla commissione nominata dall’ex ministro Franceschini per la selezione dei progetti e la concessione di contributi al settore cinematografico e audiovisivo. Sono rimasto sorpreso dalle critiche, anche perché credo che, al di là delle valutazioni che ognuno può avere su di te, l’esperienza non ti manchi. Autorevoli commentatori hanno detto di non ritenermi adatto a quel ruolo per ragioni anagrafiche, per fede religiosa e idee politiche. Elementi che fanno parte dell’identità di un uomo e che in un paese democratico devono essere rispettati. Nella mia vita non ho mai discriminato nessuno; tra i miei collaboratori, la mia troupe, ci sono persone che hanno caratteristiche identitarie diverse tra loro. Sei LGBT? Sei ateo? A me interessa che tu sia in grado di fare il tuo lavoro, il resto fa parte della tua identità, che rispetto e non giudico, anche se posso essere diverso da te e pensarla in altro modo. Non vedo per quale motivo, all’interno di una commissione giudicatrice, avrei dovuto comportarmi diversamente. Ti ritieni insomma aperto al confronto. Scherzi? Molti anni fa fui io a proporre al ministro Urbani di istituire un’audizione per gli autori dei progetti che richiedevano il contributo al MIBACT. Poi è diventata una regola, ma prima veniva richiesto solo di presentare documenti e copione.

Per giudicare un autore devi confrontarti con lui sulla storia che vuole raccontare, sulle sue idee di regia: “Questa scena come pensi di girarla?

Quali sono gli attori?”. Davanti a un autore devi essere in grado di fare le domande giuste. Diversi anni fa presentai un progetto, e all’incontro nessun componente della commissione mi fece domande. Niente! Non è accettabile quando si gestiscono milioni di euro di denaro pubblico.

Un ragazzo d’oro, ultimo film per il cinema realizzato da Pupi Avati, è stato premiato come Migliore Sceneggiatura alla 38esima edizione del Montreal World Film Festival in Canada.

Cos’altro ti ha portato a rinunciare all’incarico? Quello di commissario è un ruolo complesso, la mole di lavoro è enorme. Mi era stato detto che gli uffici avrebbero fatto una scrematura... Che cosa vuol dire? Cosa sono gli uffici? I giovani che aspettano da anni una risposta da chi la devono ricevere?

Non so come affronteranno questo muro di progetti. Ho concluso che sarebbe stato disonesto dire “lo faccio”. Farlo bene non è pensabile.

Perché allora inizialmente avevi accettato la nomina? Lì per lì ero lusingato della proposta. Mi avevano precisato che ero il primo della lista, mentendo. Avevano già detto di no in tantissimi, già cosa non simpatica. Ricordo inoltre che è un incarico completamente gratuito. A 80 anni avrei dovuto precludermi per tre anni la possibilità di presentare un progetto per ricevere in cambio commenti sulle mie idee e sull’età! Io sul momento ho accettato, ma anche la mia famiglia era preoccupata. Ho dunque colto l’occasione di questi attacchi per fare un passo indietro. Hai delle proposte per impostare diversamente il lavoro di valutazione? Le valutazioni devono essere fatte soprattutto da figure professionali che concorrono alla realizzazione dei film: un produttore, un regista, un distributore e così via. Non è come dice Mark Twain, “se

«A ME PIACCIONO MOLTO GLI OUTSIDER E GLI SCONFITTI, CHI NON CE L’HA FATTA».

non sai fare una cosa, insegnala”.

Cosa andrebbe fatto, sin da subito? Riorganizzare tutto il sistema di valutazione, creando gruppi di lavoro con un responsabile coordinatore, composti da professionisti competenti, senza considerare la loro età o altro, così da dare a tutti gli autori una risposta vera, diretta e concreta, non affidata a poche righe. Sarebbe inoltre molto utile incontrare gli autori dopo l’uscita delle graduatorie, per comunicare loro le motivazioni per le quali sono o non sono stati finanziati. La politica non può capire a fondo le dinamiche produttive, deve delegare, ma delegare è visto ahimè troppo spesso solo come perdere un po’ di potere.

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© Lorenzo Manisco

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MICHAEL WINTERBOTTOM

AN ENGLISHMAN ABROAD

Il Festival ha dedicato a Winterbottom la sezione “I protagonisti del cinema europeo”.

ll debutto del regista sul grande schermo risale al 1990 con Forget About Me, protagonista Ewen Bremner nel ruolo di uno scozzese diretto a Budapest per il concerto dei Simple Minds.

IL REGISTA MICHAEL WINTERBOTTOM È FORSE L’AUTORE PIÙ ECLETTICO DEL CINEMA INDIPENDENTE BRITANNICO. LO ABBIAMO INCONTRATO AL FESTIVAL DEL CINEMA EUROPEO A LECCE, L’EVENTO DIRETTO DA ALBERTO LA MONICA E REALIZZATO DALLA FONDAZIONE APULIA FILM COMMISSION, CON IL SUPPORTO DELLA REGIONE PUGLIA. di STEFANIA COVELLA

«IL PUNTO DI PARTENZA DI UN FILM SPESSO È DEL TUTTO CASUALE PER UN REGISTA».

N

el corso del Festival è stata proiettata una selezione di dieci titoli tra i più

rappresentativi della filmografia di Winterbottom, premiato con l’Ulivo d’Oro alla carriera. Il regista inglese dagli occhi

azzurrissimi, ha iniziato la sua carriera lavorando per il piccolo schermo, per poi esordire come regista cinematografico nel 1990 con Forget about me, ma raggiunge la fama nel 1995 con Butterfly Kiss, la tragica storia d’amore tra due donne agli antipodi. Poco amante delle conferenze stampa e delle interviste, Michael Winterbottom preferisce che i suoi film parlino per lui. Sta lavorando a due progetti: The Wedding Guest e Greed. Cosa ci può dire in proposito? The Wedding Guest è un road-movie interamente ambientato in India. Dev Patel interpreta un cittadino inglese che intraprende un viaggio insieme a una donna, partendo dal Pakistan e attraversando l’India dal Punjab fino a Goa. Il film è incentrato sul rapporto tra loro due. Greed invece è una satira: racconta di un miliardario

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che ha fatto fortuna con l’abbigliamento, per poi attraversare un periodo di grande crisi. Per negare il suo malessere, organizza una festa sontuosa: invita tutti i suoi amici e si veste da imperatore, non sapendo che lo attende una fine tragica. Greed vuol dire letteralmente avidità, mi auguro che il pubblico rifletta sulle diseguaglianze e le disparità che caratterizzano la nostra società. La comunità di cineasti europei vive con grande preoccupazione la Brexit. Come la vedono i cineasti inglesi? Io guardo con terrore alla Brexit e la considero in modo assolutamente negativo. Quello che mi ha convinto a fare il cineasta quando ero giovane è stato proprio il cinema europeo. Gli

esponenti del cinema britannico hanno sempre avuto una posizione un po’ a parte, sia per quanto riguarda le coproduzioni, sia sul piano stilistico e si sono raramente avvicinati al grande cinema europeo. Sinceramente, devo dire che gran parte del cinema britannico aspira più a somigliare al cinema americano.

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Con il film documentario Cose di questo mondo ha vinto l’Orso d’oro al Festival di Berlino 2003.

Ha lavorato sia per la televisione che per il cinema, cosa pensa delle serie TV? Per me un film dipende dal soggetto, dal tema di cui tratta, non ha una grande importanza se sia fatto per la televisione o se sia confezionato per il cinema. Mi è capitato di fare film per entrambi i media. Oppure, come è stato per The Trip, avere una versione cinematografica e una televisiva dello stesso progetto. Non esprimo un giudizio su cosa sia meglio o peggio. La televisione di certo consente più spazio e tempo, se si hanno tante cose da dire e il desiderio di suddividerle in episodi. Tendo però a pensare che

una serie abbia un’estetica più formattata, poiché deve rispondere a determinati canoni televisivi che sono limitanti per un autore e questo porta i progetti a essere più mainstream. Concepire un’opera per il grande schermo è in qualche modo più liberatorio, credo, e in un certo senso sottopone anche a una minor pressione. Come ha iniziato a fare cinema? Ho cominciato a lavorare nel mondo del cinema come assistente montatore e, oltre a portare tazze di tè o caffè al capo-montatore, il

mio compito era quello di numerare i fotogrammi: ogni 16 fotogrammi dovevo tagliare e poi far combaciare la numerazione della banda del sonoro con quella delle immagini. Visto che si montava tutto a mano, mi capitava di dover cercare determinati fotogrammi, o un fotogramma che mancava, per fare un raccordo. Il tutto in una una situazione assolutamente caotica come quella della sala montaggio! Io sono per natura piuttosto disorganizzato, ma ero molto bravo a trovare i fotogrammi mancanti.

«IL MIO CONSIGLIO: MAI ESSERE IN RITARDO, SEMPRE PUNTUALI».

Con i suoi film lei ha raccontato spesso l’Italia: la Liguria con Genova, che vede Colin Firth protagonista, la Toscana con Meredith - The Face of an Angel e l’Italia dal Piemonte a Capri con The Trip. C’è ancora qualche aspetto del nostro paese che le piacerebbe raccontare? Il punto di partenza di un film spesso è del tutto casuale per un regista. Il caso di Meredith riguarda l’incontro con un libro che ho letto mentre mi trovavo negli Stati Uniti, inoltre mia figlia era partita per studiare all’estero, quindi mi sentivo toccato dalla storia dell’omicidio di Meredith Kercher. Volevo indagare l’attrazione morbosa per i dettagli scandalistici della vicenda, la tendenza a perdere completamente di vista il fatto che una ragazza sia stata uccisa, senza entrare nel merito delle indagini o fare ipotesi. Quindi è una casualità che il film fosse ambientato in Italia, lo stesso è avvenuto per il film Genova: ho trascorso parecchio tempo in questa città, volevo raccontare la storia di un padre e una figlia e ho pensato di ambientarla lì. Quindi il motivo per il quale ho deciso

di girare molti film in Italia ha a che vedere solo con l’assidua frequentazione che ho del vostro paese. 28

Quale consiglio avrebbe voluto ricevere a inizio carriera e quale consiglio darebbe ai giovani che vogliono fare cinema oggi? Non so se voglio dare un vero e proprio consiglio. Quello che mi sento di raccontare è che, quando ero giovanissimo, ho iniziato a lavorare non in ambito cinematografico, ma come ricercatore per un autore che si chiama Lindsay Anderson: stava realizzando un documentario che doveva essere sul cinema e lui, considerando com’era [ride], l’ha interpretato sul suo cinema. Era una persona da un lato estremamente divertente ed eccentrica e da un altro molto difficile, il tipo di uomo che sceglie apposta un argomento di conversazione per riuscire a litigare con il proprio interlocutore. Poi ho iniziato a conoscere un autore come Ingmar Bergman, che nella sua carriera ne ha fatti cinquanta di film. Lavorava con un gruppo ristretto di persone, ma era estremamente organizzato: decideva a ottobre che avrebbe girato in primavera e a quel punto preparava tutto in grande anticipo. Però il risultato è questo: Lindsay

Anderson, lo stravagante, ha fatto quasi cinque film, Bergman ne ha fatti cinquanta.

Ha potuto farlo grazie alla sua estrema precisione e alla disciplina che ha avuto nel gestire tutto. Io preferisco essere preciso come Bergman, quindi il mio consiglio è: mai essere in ritardo, sempre puntuali. Domanda finale di rito. Se dovesse descrivere il suo cinema in sole tre parole, quali sceglierebbe? Questa domanda è troppo difficile, non so come rispondere [dietro suggerimento del direttore del Festival, otteniamo una risposta divertita che riassume perfettamente Winterbottom e la sua personalità sibillina, ndr]. Go and see.


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L’esordio di Andrea Pazienza nel mondo del fumetto è l’autobiografico e onirico Le straordinarie avventure di Pentothal, pubblicato sulla rivista «Alter Alter».

PAZ Gli spazi espositivi del Mattatoio di Roma ospitano, dal 25 maggio al 15 luglio 2018, una grande mostra che racconta Andrea Pazienza attraverso una ricca selezione di fumetti, con incursioni nelle sue produzioni come vignettista e illustratore.

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MARINA COMANDINI, PITTRICE E FUMETTISTA, È STATA COMPAGNA DI VITA E DI LAVORO DI ANDREA PAZIENZA. CON LEI ABBIAMO RIPERCORSO ALCUNI DEI MOMENTI CHE HANNO SEGNATO GLI ANNI INSIEME, LA GESTIONE COMPLESSA E AFFASCINANTE DEL SUO PATRIMONIO E DELLA SUA MEMORIA E I POSSIBILI SPIRAGLI ESPRESSIVI PERSONALI, RICONQUISTATI CON FORZA DOPO LA DOLOROSA SCOMPARSA DI PAZ.

UNA CONTINUA SCOPERTA di MARCO PACELLA

L

o scorso 25 maggio si è aperta a Roma – in occasione della quarta edizione dell’Arf!, Festival di storie, segni e disegni – la grande mostra Andrea Pazienza, trent’anni senza, un’importante retrospettiva ospitata al Mattatoio di Testaccio fino al 15 luglio e dedicata a quello che da molti è definito il più talentuoso fumettista italiano e tra i maggiori artisti tout court del secolo scorso per inventiva, linguaggi e capacità espressive. Andrea Pazienza, in arte Paz, ha raccontato in presa diretta le contraddizioni politiche e culturali dell’Italia fra il movimento del Settantasette e il decennio successivo, fino a spegnersi prematuramente nel 1988, all’età di 32 anni. Da qui il titolo della rassegna, che sottolinea appunto il trentennale dalla sua scomparsa. Ed è proprio al Mattatoio, dopo un’affollata conferenza sull’artista a cui erano presenti fra gli altri Oscar Glioti, Mauro Uzzeo e Ratigher, che ci sediamo al tavolino di un caffè con Marina Comandini, curatrice della mostra, per parlare del passato e del presente. Come è stato riallestire una mostra su Andrea Pazienza a trent’anni dalla sua scomparsa? È un argomento delicato, una data molto importante, ovviamente. In realtà questa cosa dei “trent’anni senza” la sento più vicina io, perché in qualche maniera il pubblico ha avuto in questi anni modo di continuare a fruire dell’opera di Andrea senza interruzione. Sei un’artista anche tu e hai lavorato fianco a fianco con Andrea. Da questo punto di vista qual è stata la tua esperienza con lui? Quello che noi facevamo era un gioco, un modo per stare insieme, tutto ciò che riguardava il quotidiano noi lo condividevamo. Per cui lavoravamo, viaggiavamo insieme, vivevamo in campagna. C’erano

Tre disegni di Marina Comandini, il primo della serie Paglie d’oro, il secondo dipinto dal vivo per il Festival di Cosenza 2017, il terzo conservato al Museo di Samotracia.

tante cose che ci accomunavano, l’arte e la vita: io e Andrea siamo anche nati lo stesso giorno. Effettivamente avevamo molti punti in comune: l’amore per la natura, la socialità nei confronti degli altri, l’empatia, la voglia di divertirsi, il piacere di viaggiare. Quando ti trovi a riprendere in mano tutto il suo lavoro, per esempio nell’occasione di questa mostra, scopri anche qualcosa di nuovo oppure lo vedi come un’eredità da tramandare così com’è, dato il suo valore? Andrea ha prodotto almeno diecimila disegni nella sua breve vita, c’è sempre qualcosa che non abbiamo visto. Nel caso di questa mostra ci sono due inediti: uno è il ritratto di Stefano Tamburini, che gli ho visto disegnare e di cui quindi ho ricordi; mentre per quanto riguarda il meraviglioso quadro [un grande dipinto su tela

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Storia di Astarte è l’ultima opera, ambientata durante la Seconda Guerra Punica, in cui il protagonista è il capo dei cani da guerra di Annibale.

del 1983, che raffigura il personaggio di Massimo Zanardi a cavallo, ndr] che è di proprietà di Matteo Garrone, è stata una sorpresa completa: non sapevo nulla né di questo, né dell’occasione in cui lo ha dipinto, perché lo ha realizzato quando ancora non lo conoscevo personalmente. Andrea poi era velocissimo, ci metteva veramente un attimo a fare

un’opera, per cui ci sarà sempre qualcosa di nuovo da scoprire su di lui.

I curatori di Coconino Press e Fandango stanno preparando in questo momento due raccolte di cose mai viste che non sono entrate nei venti volumi della collana Tutto Pazienza pubblicati da «la Repubblica», questo dà l’idea della quantità di disegni che Andrea ha fatto nella sua vita. E nonostante ciò ci sarà ancora del materiale che non rientrerà in questa operazione. Uno dei canali su cui state lavorando è quello della traduzione all’estero del lavoro di Andrea. Quali sono i punti di forza e quali invece le difficoltà di un’operazione del genere? Diciamo che Andrea era un incredibile disegnatore, sicuramente quella è la parte che viene apprezzata e acquisita per prima; ma la sua scrittura è altrettanto significativa. La traduzione non è mai un’operazione matematica, quindi è molto difficile restare completamente fedeli al testo. Infatti le traduzioni sono la prima cosa che invecchia rispetto a un volume, molto più dei testi originali,

perché risentono del periodo storico, del contesto culturale, di tanti altri fattori che condizionano poi la scelta del traduttore. In uno degli incontri ospitati dal festival Arf! hai raccontato della tua esperienza subacquea. Come si collega questa al tuo lavoro? Sulla copertina di uno dei miei libri, intitolato Solinga, volendo, pubblicato dagli Editori del Grifo tempo fa, si vede la protagonista immersa in acqua coi piranha. Un’illustrazione profetica, visto che allora non facevo immersioni: si trattava di pesci che avevamo pescato anni prima io e Andrea in Amazzonia, da lì veniva la suggestione. Ma appunto all’epoca non avevo ancora scoperto questo mio lato marino – nomen omen –, anzi mi chiedevo il motivo del mio nome, visto che, pur essendo una brava nuotatrice, ho avuto a lungo paura del mare dopo la morte di Andrea. Poi pian piano ho cominciato a riacquistare il piacere di vivere e ho scoperto la subacquea, che mi ha messo alla prova, mi ha costretto ad andare avanti sul recupero della mia vita. Mi riprometto ora di occuparmi

di più dell’acqua, del mare. Ho già scritto alcune cose pronte per essere trasposte in fumetto. Da quando ho

cominciato con le immersioni, ho sentito la necessità di dipingere ambienti acquatici e ho realizzato delle installazioni legate al mare, dei mobiles con i pesci. Quindi in qualche modo ho già lavorato su questo tema, ma credo di avere ancora molto da dire.

Prima di dedicarsi al fumetto, Paz è stato un pittore la cui attività è testimoniata da una lunga serie di mostre e premi.

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- Arts -

Simone Angelini Con ANUBI, un corposo fumetto incentrato sulla decadenza dell’antico dio sciacallo egizio nella profonda provincia italica, hanno scritto una pagina importante nel FUMETTO D’AUTORE nostrano, segnata da PREMI e dal plauso della critica.

di MARCO PACELLA

alla vastità dello spazio. Come mai questo salto? Esatto, dalle stalle alle stelle. Malloy è nato dalla parola

«OGNI LIBRO FATTO INSIEME È UN AVVICINARSI TRA DUE MONDI». Avete un preciso metodo di lavoro che riproponete in tutti i progetti insieme oppure ogni libro fa storia a sé? Il metodo ce lo siamo costruiti con quasi otto anni di collaborazione. Ogni libro fatto insieme è stato un avvicinarsi tra due mondi, quello del fumettista e quello dello scrittore. Con il passaggio

a fumetti di respiro più ampio, come Anubi e Malloy, ci siamo perfezionati dando vita al “metodo del ping pong”. Per prima cosa decidiamo insieme il tipo di partita, le regole,

chi avere in squadra e su che campo giocare. In questa fase mi occupo del character design. Poi Marco batte con una sceneggiatura non definitiva, rispondo con la suddivisione in pagine e una prima parte di storyboard, da lì in poi è uno scambio continuo che ci porta ad avere in un annetto il fumetto finito e pronto per la revisione finale. Credo che questo metodo sia fondamentale per unirci in un’unica voce autoriale.

UNA PARTITA A PING PONG Da lì in poi nuovi fumetti e un linguaggio narrativo che si è via via consolidato nel tempo. Entrambi abruzzesi, il fumettista Simone Angelini e lo scrittore Marco Taddei sono da alcuni anni una firma stabile e riconosciuta della nona arte. Abbiamo chiesto ad Angelini di ricostruire il suo percorso autoriale fra riferimenti, metodi di lavoro e l’indelebile marchio della provincia. Qual è il tuo percorso formativo e come ti sei avvicinato al fumetto? Sono autodidatta. Ho una maturità scientifica e una laurea in Architettura, ma ho da sempre desiderato fare il fumettista, cominciando da piccolo senza più fermarmi. Ho iniziato a leggere fumetti con Topolino che collezionava mio cugino, in casa mia c’era Tex perché lo leggeva mio padre, Dylan Dog e L’Intrepido erano tra le letture che ci scambiavamo tra amici nell’adolescenza. In seguito la curiosità mi ha portato in tutte le

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“Crack” che Maurizio Ceccato ci aveva sottoposto come spunto per il primo volume dell’antologico B-Comics ‒ Fucilate a strisce. Da quell’onomatopea avremmo dovuto creare una storia a fumetti. Crack, o meglio Craq, divenne un pianeta e tutto intorno nacque il resto. Fino ad arrivare alla recente avventura estesa pubblicata da Panini Comics. Fantascienza a colori, ma vicinissima in realtà al mondo della provincia: non riusciamo proprio a togliercela di dosso… Sul piano visivo mi son divertito molto con i colori, le ambientazioni, la tecnologia retrò e una suddivisione della pagina molto più ritmata e sperimentale rispetto ad Anubi. Con Malloy abbiamo inaugurato un mondo nuovo ancora tutto da esplorare. Qualche mese fa l’editore Coconino ha annunciato che tu e Marco siete al lavoro su un nuovo fumetto che dovrebbe uscire entro quest’anno. Cosa puoi anticiparci? Sono felicissimo che Ratigher ci abbia voluto nella nuova Coconino che sta forgiando. Ci conosciamo da diversi anni e c’è stima reciproca. Lo vedo come un grande “zio” rivoluzionario, anche se siamo quasi coetanei. Del fumetto dico solo il titolo, 4 Vecchi di merda ‒ Una storia d’orrore e che sarà un lavoro più maturo perché parla di vecchi [ride].

Il vostro Anubi, vincitore tra l’altro del Premio Boscarato nel 2016, ha rappresentato un felice caso editoriale nel fumetto italiano. Quanto questo successo vi ha dato in termini di consapevolezza e crescita professionale? Con Altre storie brevi c’erano già stati ottimi riscontri da parte di amici, giornalisti, lettori, arrivando a vincere il premio Missaglia come esordienti al Treviso Comic Book Festival nel 2014. Lì Anubi era già in pista, nel senso che avevamo trovato un editore in Grrrz Comic Art Book pronto a scommettere su di noi.

Anubi venne lanciato come centravanti della casa editrice più sperimentale in quel periodo. Non credo

direzioni: dall’underground americano ai manga, dai supereroi Marvel e DC ai lavori di Pazienza, Magnus e tanti altri.

avrebbe avuto lo stesso risalto se fosse uscito per altri editori blasonati, ma con un parco testate più vasto e dispersivo. Da Anubi in poi è stato tutto in discesa e la crescita professionale è una conquista che vedo sotto tre aspetti: riuscire a fare i fumetti che voglio con gli editori che ritengo più adatti per quel preciso progetto; poter vivere di questa passione; riaffacciarmi all’autoproduzione quando ne sento la necessità.

Come è nata la collaborazione con Marco Taddei? A Pescara nel 2009 era nata Carta straccia, una fanzine autoprodotta e a distribuzione gratuita, ideata da me e da un amico illustratore, Fabio di Campli. Avevamo generato un polo magnetico per tutti i carbonari dispersi nella realtà alienante della provincia adriatica. Sulla fanzine realizzavo a cadenza mensile delle storie brevi a fumetti. Un giorno, in una delle riunioni di redazione, non ricordo se in un bar, in un circolo o a casa mia, si presentò Marco. Portò con sé dei racconti brevissimi che mi colpirono molto e pubblicammo subito. Ci eravamo annusati come fanno i cani e ci

Anubi, dio sciacallo egizio qui decaduto e relegato in provincia, può avere diversi punti di contatto col vostro ambiente. Quanto c’è di autobiografico nel libro? C’è tantissimo del nostro vissuto. Ma ci siamo tenuti alla larga dal renderlo un fumetto autobiografico. La città è la nostra, o meglio, è una città assemblata con stretti vicoli e ampie aperture sul mare di Vasto e la periferia scomposta e industriale di Pescara. Siamo coetanei, con una storia molto simile, e questo ci ha permesso di raccontare un microcosmo adriatico che è universale e familiare a diverse generazioni. Qui tutti lottano ogni giorno con i compromessi di una vita difficile, ma al tempo stesso con la valigia sotto il letto e pronti a cogliere la prima occasione per andare via.

presentò con la Storia della Candelabra; successivamente intorno a quel fumetto breve ne radunammo altri per dar vita alla versione demo di Storie brevi e senza pietà.

Con Malloy ‒ Gabelliere spaziale si assiste invece a una maturazione narrativa e (apparentemente) a un cambio di registro, almeno nelle ambientazioni, passando dal microcosmo della provincia

eravamo piaciuti, quindi provare a far una storia a fumetti insieme fu abbastanza naturale. L’occasione si

Anubi ha vinto, tra gli altri, il premio come Miglior Fumetto del 2015 per i lettori di «Repubblica XL».

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CHICKENBROCCOLI È UN SITO PER CHI “AMA ODIARE IL CINEMA”. DAL 2009 RECENSISCE FILM SENZA PIUME SULLA LINGUA. IL CHICKEN È IL FILM BELLO, IL BROCCOLO È IL FILM ORRIPILANTE. CHICKENBROCCOLI CONCILIA IL CINEMA CON L’ILLUSTRAZIONE REALIZZANDO POSTER, MAGAZINE E MOSTRE ITINERANTI. www.chickenbroccoli.it

di SEBASTIANO BARCAROLI TRAMA: MA È ‘NA GIOIA!

LA PAZZA GIOIA

(2016) DI PAOLO VIRZÌ CON MICAELA RAMAZZOTTI, VALERIA BRUNI TEDESCHI, MARCO MESSERI

C’

è una citazione, ormai diventata MEME, che trovo spesso appiccicata in contesti assurdi tipo immagini con rose e tazzine da caffè o unicorni o su vari profili di social a caso: “Perché per me l’unica gente possibile sono i pazzi, quelli che sono pazzi di vita, pazzi per parlare, pazzi per essere salvati, vogliosi di ogni cosa allo stesso tempo, quelli che mai sbadigliano o dicono un luogo comune, ma bruciano, bruciano, bruciano, come favolosi fuochi artificiali color giallo che esplodono come ragni attraverso le stelle e nel mezzo si vede la luce azzurra dello scoppio centrale e tutti fanno Oooohhh.”

L’ha scritta Jack Kerouac, in un libro specifico, frutto di esperienze specifiche (la maggior parte sotto benzedrina) e se fai un giretto sull’Internet vedrai che la trovi

anche tu, magari nel profilo di tua cugina o sotto la pubblicità di un detersivo. Forse da qualche parte l’hai messa pure tu. Ecco. Allora. Volevo dire una cosa. Essere pazzi fa schifo al cazzo. BREAKING NEWS: essere pazzi non è farsi i capelli rosa, non è essere un po’ fuori dal coro, non è essere strambetti tipo Amelie Poulain, essere pazzi, pazzi veri, fa schifo. Fate conto che lo so e basta. Sono esagerato se penso che sia quasi imperdonabile la leggerezza con cui si usa la parola “pazzo”? Tutto il preambolo degno di un Basaglia de’ noantri solo per dire che approcciarsi a La pazza gioia non è stata una passeggiata di salute (mentale). Il film è bellissimo, di quella bellezza tenera, educata, intelligente e mai mortifera anche negli argomenti più pesanti che solo Virzì sa infondere nelle sue opere, ed è pesantissimo.

Merito della storia, della regia, della sceneggiatura, ma, soprattutto, merito delle due protagoniste. Non c’è bisogno di ripetere che Virzì fa recitare anche i comodini. Proprio lui prende un comodino e quello dopo sei mesi vince un David di Donatello battendo Marinelli, Santamaria, Giallini e un vecchiardo a caso. Ma questa volta c’è qualcosa in più, questa volta riesce in una sorta di miracolo: fa diventare Valeria Bruni Tedeschi un’attrice incredibile, piena di sfumature, esilarante e profonda, e vi assicuro che mai e poi mai avrei pensato di dire una cosa del genere della Bruni Tedeschi. Aggiungete poi quella pazzia fatta di manie persecutorie miscelate a entusiasmi eclettici, istrionismo egocentrico e down depressivi abissali (ve l’ho detto che fa schifo al cazzo), e un personaggio indimenticabile vi si parerà davanti agli occhi. La Bruni Tedeschi si carica tutto, ma proprio tutto il film sulle spalle e se lo porta dove vuole a bordo di una decappotabile rossa fiammante, alla ricerca di una felicità che non può esistere. E la Bruni Tedeschi si trascina dietro anche la Ramazzotti che, sarà per il personaggio depresso pesantissimo con tendenze autodistruttive e violenza repressa (fa sempre schifo al cazzo la pazzia, eh... non è che fa schifo al cazzo meno...), brilla un po’ meno, ma forse solo perché la luce della Bruni Tedeschi è talmente luminosa che forse era anche giusto rimanere nell’ombra. Virzì non perde mai la sua vena malinconica, filtrata da parentesi assolutamente esilaranti (l’irruzione alla festa è degna di Hollywood Party), e riesce, ancora una volta, a farci ridere mentre dagli occhi ci escono dei lacrimoni grossi così. Perché lo sa anche lui che, nonostante lo sguardo d’amore, essere pazzi fa schifo.

CHICKEN

MA QUANDO (RI)SENTI CANZONI COME SENZA FINE DI GINO PAOLI (N’ALTRO PAZZO DE’ NIENTE), NON PENSI ANCHE TU CHE TUTTA LA MUSICA DELL’ULTIMO VENTENNIO POTREBBE SPARIRE, ANZI LO FARÀ, SENZA LASCIARE TRACCIA? PERCHÉ NON PARLIAMO TUTTI TOSCANO, MI CHIEDO, È BELLISSIMO. LO ASCOLTEREI SENZA FINE..

BROCCOLI

LA FINZIONE CINEMATOGRAFICA HA RICHIESTO DI EDULCORARE UN PO’ LE REALTÀ DEI CENTRI DI IGIENE MENTALE. QUELLO DEL FILM INFATTI SOMIGLIA PIÙ A UN AGRITURISMO UN PO’ LUNATICO.

FRANCESCA PROTOPAPA “IL PISTRICE” [Pì-stri-ce] s. f. Esemplare femminile in perenne movimento tra Italia e Francia, capelli scuri, lunghe orecchie da coniglio, non mangia troppo, non beve troppo, parla troppo, ama il bello e adora i mostri marini. Nata a Roma nel 1979, nel 2004 si è trasferita a Parigi dove tuttora vive e lavora. Alla fine del 2011 fonda il progetto SQUAME, che attraverso pubblicazioni e mostre promuove una selezione internazionale di giovani illustratori. pistrice.com • squame.net

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FABRIQUE PER REA ACADEMY

REA ACADEMY… QUI SI FA CINEMA Quante volte vi sarà capitato di avere un’idea in testa per una sceneggiatura ma non possedere le capacità, le conoscenze e i fondi per poterla realizzare?

Gli studenti di Rea Academy probabilmente si sono trovati in questa situazione più di una volta: tanta è stata quindi la sorpresa quando una delle accademie più prestigiose di Roma e d’Italia ha deciso di mettersi in produzione e realizzare il primo di, ci dicono, una serie di lungometraggi che avranno sempre e solo un protagonista: lo studente. È infatti in produzione in questo periodo il primo lungometraggio targato ReCommunication, la società di produzione di Rea Academy, spin off di un laboratorio dove crescono alcuni tra quelli che saranno probabilmente i più importanti professionisti delle arti visive di domani, dal cinema, alla fotografia, alla comunicazione. Il produttore, oltre che Ceo & Founder di Rea Academy, Paolo Secondino, ci spiega l’idea: «È un progetto didattico, ma inserito in un ambito di produzione del tutto professionale, con un budget messo a disposizione totalmente finanziato, con mezzi e know how della Rea Academy e della nostra società di produzione

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cinematografica. Abbiamo un’aspettativa di riuscita molto elevata, inutile negarlo, la storia è potente, l’energia profusa e la volontà dei professionisti e degli studenti sta facendo il resto». Investire nel cinema indipendente, qual è il valore oggi? «Il mio è senz’altro un punto di vista interessato, sono prima un direttore di accademia che un produttore: legare queste realtà significa portare la scuola in produzione, del talento farne una professione… il nostro slogan, appunto». Sotto la supervisione del regista Aldo Iuliano, del montatore Alessandro Visciano e del produttore esecutivo Andrette Lo Conte, pluripremiati professionisti e docenti di Rea Academy, il soggetto di Federico Majorana è divenuto una sceneggiatura già apprezzata e applaudita da addetti ai lavori che si sono immersi in una storia di ragazzi di periferia dal titolo provvisorio di Outline. Ce ne parla lo stesso Federico: «Sono molto contento di questa opportunità perché finalmente posso guardare

su schermo ciò che ho immaginato e veder prendere vita una storia a cui sono molto legato. È una vicenda tratta dalle mie esperienze e dalle mie sofferenze, sono soddisfatto nel vedere come le cose che ho vissuto vengano sentite e condivise dai miei compagni». Federico, dopo un attento casting insieme al regista Gabriele La Bianca, che insieme a Gabriele Capuani è alla sua opera prima, è stato scelto tra decine di attori per il ruolo da protagonista: «La classe e io – ci racconta Gabriele – abbiamo cominciato a lavorare sull’aspetto visivo del film. La cosa sorprendente è che mentre scrivevamo la regia, la successione delle inquadrature, abbiamo letteralmente iniziato a vedere il film. Ragazzi, è fantastico». «Questo film è vissuto da tante persone che ci hanno investito l’anima. Vitali, giovani, ai primi dannatissimi passi di una pazzia creativa: quella di vivere di arte. Di cinema e, quindi, di verità. Essere fra loro, con loro e abbracciare questa idea di “confine” è stato sorprendente» è il pensiero di Gioia Perpetua, che cura l’edizione del film. Segretaria di produzione e aiuto regia, quando si lavora con un low budget bisogna saper fare più cose insieme. Livia Boccacesi per ora sta interpretando molto bene entrambi i ruoli: «A 20 anni tutto avrei pensato, tranne quello di girare un film vero e proprio e totalmente diretto da noi ragazzi alla prima esperienza. L’opera che ci apprestiamo a girare sarà un’esperienza unica, difficile ma allo stesso tempo indimenticabile».

Docente di direzione della fotografia in Rea Academy, Davide Manca ha delegato questo importantissimo ruolo a Maria Elena Cirillo, che insieme a Gioele Vettraino firma la fotografia: «Ho scelto il ruolo di direzione della fotografia, perché vorrei fare questo mestiere e amo davvero creare atmosfere e scenari attraverso la luce. Sto aiutando anche come assistente segretaria di produzione, e sono piacevolmente sorpresa di aver scoperto questo ruolo difficilissimo ma che porta enormi soddisfazioni». Andrea Fabiani è nel settore elettricisti e attrezzisti: «Essere coinvolti in un lungometraggio a 20 anni è un’occasione unica. La cosa più bella di quest’esperienza è che sarà un film realizzato da ragazzi di un’accademia di cinema con il sogno di lavorare in questo ambiente». Attualmente il film è in produzione, la fase di post produzione inizierà a luglio e sarà montato nelle apposite sale dell’accademia che si trovano sulla Cristoforo Colombo dagli studenti dei corsi di montaggio con Avid Media Composer (Rea Academy è Avid Learning Partner), Avid Pro Tools per audio (responsabile Christian Valente), e Davinci Resolve per la color correction (Daniele Cipriani) presso prestigiosi studi dei docenti di post. A questo punto non ci resta che attendere il primo teaser del film, che sarà in distribuzione da ottobre, facendo già da ora i complimenti e un grosso in bocca al lupo a quello che possiamo considerare il futuro del cinema italiano.

Via Cristoforo Colombo, 440, 00145 Roma RM, Italia - www.romeuracademy.it

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- Making of -

Puntata 08 Interno giorno. Scena dell’acido (l’iniziazione al crimine), Jumbo 9kw da entrambe le finestre per ricreare il caldo e il sole accecante della Sicilia.

Puntata 11 È una scena d’azione, il PM insegue un criminale. Per amplificare la corsa e definire la pioggia, l’otturatore è stato impostato a 45 gradi e inserito un forte controluce a luce fredda.

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Foto 1: Francesco Foti (Carlo Mazza) nella sala intercettazioni (fluorescenze verdi anni ’90). Foto 2: Francesco Montanari e Marco Rossetti (Barone e Zaza). Foto 3: Edoardo Pesce (Giovanni Brusca) al crepuscolo. Foto 4: Paolo Briguglia (Tony Calvaruso) nelle scene all’Ucciardone.

› È una serie internazionale di 12 episodi da 50 minuti l’uno, andata in onda su RAI 2 e poi su Amazon Prime, prodotta dalla Cross Productions di Rosario Rinaldo. Il cacciatore è stato girato con due Red Dragon e una

I L

CACCIATORE

È UNA SERIE INTERNAZIONALE DI 12 EPISODI DA 50 MINUTI L’UNO, ANDATA IN ONDA SU RAI 2 E POI SU AMAZON PRIME, PRODOTTA DALLA CROSS PRODUCTIONS DI ROSARIO RINALDO. a cura di DAVIDE MANCA foto FLORIANA DI CARLO E STEFANIA ROSINI

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Blackmagic 4K, con la serie di ottiche Cook S4 e uno zoom Canon CN-E 30-300mm t2.9. Due le differenti testate fluide: una O’Connor Ultimate 2575d e una Cartoni Master mk2 con batterie Granite Bluespahe e trasmettitori video Teradeck bolt pro 300.

regia STEFANO LODOVICHI (EPISODI 1-6) DAVIDE MARENGO (EPISODI 7-12) sceneggiatori MARCELLO IZZO, SILVIA EBREUL, STEFANO LODOVICHI, FABIO PALADINI, MARZIO PAOLTRONI

L’idea fotografica era restituire un’immagine cosmopolita ma con una forte connotazione italiana: il mio riferimento, dopo avere letto la sceneggiatura, è sempre stato il lavoro fatto da Pasqualino De Santis nei film di Francesco Rosi (primo fra tutti Il caso Mattei). Nel confronto con Davide Marengo (regista degli episodi dal 7 al 12) abbiamo deciso che la grana tipica della pellicola anni ’70 avrebbe pienamente soddisfatto la nostra idea di realismo “sporco” e reso al meglio l’osservazione tipica della ripresa documentaristica con la luce il più possibile naturale e un alto contrasto. Il progetto è stato condiviso con Stefano Lodovichi, regista degli episodi dall’1 al 6, con l’obiettivo di mantenere uno stile visivo costante per tutta la serie.

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«L’IDEA FOTOGRAFICA ERA RESTITUIRE UN’IMMAGINE COSMOPOLITA MA CON UNA FORTE CONNOTAZIONE ITALIANA». La caratteristica del sensore Low Light Optimizer

della Dragon a 800iso sottoesposto ed esasperato (push) di uno “stop” di diaframma

Per ottenere lo stesso risultato di fumo nei diversi ambienti, abbiamo usato tre tipologie di macchine del fumo e della nebbia con altrettanti sistemi di ventilazione.

ci ha permesso di ricreare un effetto grana delicato e tuttavia efficace, senza intaccare l’incarnato degli attori, ma dando alle zone in ombra una sensazione materica perfetta per la caratteristica dell’immagine che cercavamo. Un’altra delle richieste della regia era di avere i visi degli attori con una luce morbida ma con un elevato rapporto di contrasto nelle zone in ombra: per ottenere questo risultato abbiamo dotato i proiettori di softbox Chimera e usato molta luce riflessa.

Il colore ha svolto un ruolo fondamentale nella descrizione delle azioni e dei personaggi, in una sorta di personalità cromatica assegnata in modo puntuale a ogni personaggio principale con prevalenza di sfumature di giallo e verde acido, scelte e realizzate in totale sinergia con i reparti Scenografie e Costumi. Lo scenografo Marcello Di Carlo ha inventato delle strutture a tre piani con carrelli elevatori per ricreare il rifugio della famiglia Brusca, arsenale e prigione del boss. Per questa location abbiamo concordato un’illuminazione diegetica lavorando sui neon acidi presenti in scena e sulle torce a luci fredde scelte per i protagonisti.

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Foto 5: Stefano Lodovochi (regia episodi 1-6) e Francesco Montanari (Saverio Barone). Foto 6: Davide Marengo (regia episodi 7-12) e Davide Manca (DOP). Foto 7: Alessio Praticò (Enzo Brusca). Foto 8: Tipici props di scena.

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- Teatro -

© Eesti Draamateater

© Alessandro Pezzali

DAVIDE CARNEVALI © Pino Montisci

«DA BAMBINO VOLEVO DIVENTARE UN CALCIATORE O UNO SCRITTORE. HO FATTO IL CALCIATORE FINO A 16 ANNI. QUANDO ERA IL MOMENTO DI FARE IL CALCIATORE SUL SERIO, HO INIZIATO A FARE LO SCRITTORE».

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© Filipe Ferreira

Davide Carnevali si è aggiudicato il 52esimo Premio Riccione per il Teatro nel 2013 con l’opera Ritratto di donna araba che guarda il mare.

CHE NON PRENDE SUL SERIO NÉ SE STESSO, NÉ IL PERSONAGGIO».

di ANDREA PORCHEDDU

© Filipe Ferreira

PER SCRIVERE MI ISPIRO A MESSI

«MI PIACE VEDERE L’ATTORE CHE GIOCA CON IL SUO ESSERE ATTORE,

S

i presenta così, non senza (auto)ironia, Davide Carnevali, autore e teorico, classe 1981, tra i pochi – se non l’unico – giovani drammaturghi italiani capaci di lavorare, richiestissimo, in tutta Europa. Si fece notare nel 2009, con un lavoro intitolato Variazioni sul modello di Kraepelin, e da allora non ha smesso di presentare i suoi spettacoli a Barcellona o a Berlino, a Parigi o a Lisbona e i suoi testi sono tradotti anche in estone, in rumeno, in greco e in polacco. Strapremiato per la sua produzione drammaturgica, Davide Carnevali si racconta tra una prova e l’altra: «Ho sempre scritto cose differenti tra loro, per progetti differenti, e questa ricerca di diversificazione ha marcato molto la mia scrittura. Ci sono testi che nascono perché sento la necessità di scriverli, e che poi vivono vite proprie, messi in scena da altri, in luoghi e tempi altri; e testi che sono determinati da un incarico o progetti specifici, che sono legati a una certa opzione di messa in scena. Sono due processi creativi che hanno poco in comune, che mettono in gioco tratti distinti della personalità dell’autore: più viscerali, i primi; più cerebrali, i secondi. Quando scrivo per me, preferisco mantenermi lontano dalla scena, per la seconda tipologia, invece, un confronto con le persone che

lavoreranno sul testo è utile, perché in questo caso le mie parole sono semplicemente materiale da usare sulla scena». Ma in questo duplice binario compositivo il rapporto con la regia non è certo indifferente: naturale allora chiedere all’autore quale dialettica si instauri con il regista quando è un’altra persona a “impossessarsi” del testo dell’autore e cosa significhi fare regia. «Mi interessa – spiega Carnevali – la varietà di prospettive che offre, ma non sono un regista, mi approccio alla pratica come un autore che prova a mettere in scena un suo testo insieme agli attori, e cerco di sfruttare questo approccio naïf come un vantaggio. A Buenos Aires ho imparato che si può fare ottimo teatro con poco: un buon testo e buoni attori. L’esperienza di Maleducazione transiberiana è nata pensando di riproporre il modello di produzione del teatro off argentino e non avrei potuto farlo senza la collaborazione degli attori. Nei prossimi anni curerò altri progetti di creazione, ma questo non significa che io diventi un regista». Davide Carnevali si è “scoperto” drammaturgo a ventun’anni in un seminario dell’attrice e autrice Laura Curino, una delle protagoniste del teatro di narrazione italiano. La svolta è avvenuta con il trasferimento a Barcellona, dove ha seguito workshop alla

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© Sefora Delli Rocioli

© May Zircus

- Zona Doc/1 -

Nel 2013, Davide Carnevali è stato incluso tra i 35 autori più rappresentativi della storia dello Stückemarkt del Theatertreffen, il festival del teatro che si tiene annualmente a Berlino.

antipodi; ma da entrambi ho imparato tanto. A Buenos Aires comunque si mangia meglio».

Una vita movimentata, quanto meno geograficamente, a far humus per la scrittura, per l’elaborazione di una lingua scenica che si è presto tramutata in testi, in opere compiute. Ma tra Italia, Catalogna, Germania e Argentina, che lingua usa Davide Carnevali per scrivere i suoi testi? «Il teatro è il luogo privilegiato del rapporto tra linguaggio verbale, immagine mentale e realtà materiale. Questa può darsi in differenti modi rispetto alla parola: può compiere le aspettative che essa genera, oppure può frustrarle. Ma non solo: la realtà, quando appare davanti allo spettatore, può sembrare distorta rispetto all’immagine mentale che la parola aveva generato. Questo scarto mette a nudo l’incapacità del linguaggio di “com-prendere” la realtà, e può manifestarsi in tutta la sua violenza davanti allo spettatore solo in teatro. Credo sia a questo che mira il mio linguaggio teatrale. Di solito – continua – non creo personaggi, ma funzioni drammaturgiche di supporto alla lingua e all’azione. Detto così sembra complicato, in realtà non lo è, ma può risultare molto problematico per attori abituati a costruirsi un percorso psicologico e a cercare a tutti i costi la coerenza della storia. A me piace vedere l’attore che gioca con il suo essere attore, che non prende sul serio né se stesso, né il personaggio». Dal suo osservatorio di girovago, di autore che ha casa in strutture e città diverse, Carnevali rivendica

lo frequenti troppo, distorca la tua percezione della realtà; spesso manca di sincerità, di coscienza critica e soprattutto di autoironia. La Catalogna mi ha dato tanto a livello di formazione; in Germania, è iniziata la mia carriera di autore. Il primo incarico come docente universitario l’ho avuto in Argentina. Le prime pubblicazioni dei miei testi in Francia, con Actes Sud, mentre il mio libro di teoria è stato pubblicato in Messico. Nessun paese è il paradiso, però ci sono posti in cui il teatro conserva ancora un ruolo nel dibattito sociale e ha mantenuto un rapporto con il pubblico molto più saldo. Cercare di fare in modo che questo torni ad accadere anche in Italia è il presupposto su cui è nata la mia collaborazione con il regista Claudio Longhi e il teatro Nazionale dell’Emilia Romagna per il prossimo triennio». Ma cosa cambia nello scrivere per il teatro italiano e per quello di altri paesi? Carnevali non ha dubbi: «Il senso dell’umorismo». E a questo proposito, tra il serio e l’ironico, ci parla di quelli che considera i suoi maestri: «Credo che il Barcelona di

Guardiola tra il 2008 e il 2012 sia uno dei picchi più alti raggiunti dall’arte performativa in questo secolo. Seguo

il Barça dall’anno della prima Liga di Rijkaard, ho visto debuttare Messi: vederlo giocare per tutti questi anni è stata una grande ispirazione, dico sul serio. Se lo vedi giocare ogni settimana ti accorgi che la sua Weltanschauung non è differente da quella di Cézanne, Kafka, Beckett, Sarah Kane o Tommy York». Ovvero? Possibile paragonare Leo Messi a Kafka o Cézanne? «Messi ha la genialità di un bambino, per cui tutto è potenzialmente sempre possibile; la realizzazione di questo potenziale ha molto a che vedere con la capacità di non autocensurarsi e liberare l’immaginazione – cosa che in fin dei conti vale anche nella scrittura. E la concezione di gioco di Guardiola è stata fondamentale per lo sviluppo della mia concezione drammaturgica, perché implicava allo stesso tempo l’accettazione e il rifiuto di uno schema portante, cioè la costruzione e al contempo la distruzione di una logica. Così ho lavorato per testi come Variazioni sul modello di Kraepelin, Sweet Home Europa o Menelao. Cercare di scrivere come Messi gioca: con quella libertà, quella necessità viscerale di rendere possibile l’impossibile, è stato un po’ il mio obiettivo». E il cinema? «Mi piacerebbe scrivere per il cinema – conclude Carnevali – ma non me l’hanno mai chiesto. Certo, mi piacerebbe anche giocare nel Barça, ma neanche quello me l’hanno mai chiesto».

«MI PIACEREBBE SCRIVERE PER IL CINEMA MA NON ME L’HANNO MAI CHIESTO». 46

HO RUBATO LA MARMELLATA

l’importanza di lavorare fuori dall’Italia: «Per me è stato molto sano. Ho l’impressione che l’ambiente teatrale, se

© Pino Montisci

Sala Beckett, un vivacissimo spazio teatrale votato alla nuova drammaturgia. Tra gli incontri di quel periodo, Carnevali evoca alcuni tra i migliori autori europei: Carles Batlle, Martin Crimp, José Sancis Sinisterra, Biljana Srbljanovic. «In quella sala – racconta ancora – ho conosciuto il drammaturgo Juan Mayorga e l’ho proposto al critico teatrale e editore Franco Quadri. Così è nata la collaborazione con la casa editrice Ubulibri: lavorarci è stata un’esperienza ricchissima; così come lo è stato scrivere per il trimestrale di teatro «Hystrio» e per altre riviste internazionali, perché mi ha permesso di portare avanti parallelamente la teoria e la pratica. A quel punto ho capito che restare all’estero poteva diventare una risorsa. In quegli anni a Barcellona potevi leggere molti autori contemporanei tradotti in catalano, che in Italia non arrivavano, e vedere tanto teatro tedesco e argentino. Mi sono poi iscritto a un dottorato in Teoria del Teatro, ho frequentato un corso di Hans-Thies Lehmann, teorico tedesco del teatro postdrammatico; da lì la decisione di andare a Berlino. Poi, tra il 2011 e il 2012, sono stato a Buenos Aires per capire come si lavora nel circuito off argentino. Il teatro tedesco e argentino sono forse agli

V I TA

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P O L I T I C A M E N T E

S C O R R E T T O

Non è un semplice documentario biografico. È il racconto appassionato e irriverente del percorso di un uomo che amava la vita e ne assaporava avidamente ogni attimo, con coraggio ed entusiasmo. di CHIARA CARNÀ

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accontare un uomo che ha vissuto più vite: questo l’obiettivo dichiarato del film Ho rubato la marmellata, presentato prima al Festival Italia Doc del MAXXI e poi su SkyArte il 21 giugno, in occasione del

terzo anniversario della scomparsa di Remo Remotti, protagonista della pellicola. «Quando un artista non c’è più ‒ racconta Federica, figlia di Remo e produttrice ‒ non è facile per la sua famiglia continuare a trasmetterne lo spirito. Io ci sto provando. Non ce l’avrei fatta senza il fondamentale contributo dei registi Gioia Magrini e Roberto Meddi. Erano vecchi amici di mio padre, e sono cineasti specializzati in biografie. Sono stati molto attenti a rispettare con professionalità e affetto la figura di Remotti. Avevano a che fare con una tematica delicata e piena di contenuti e hanno capito cosa togliere e cosa aggiungere. Sarebbe stato bello avere materiale più recente, ma questo ostacolo si è trasformato in un grande punto di forza». Nel film sfilano i ricordi di un personaggio eclettico e sopra le righe, accanto alle testimonianze dello scrittore Michele Serra, del critico d’arte Gianluca Marziani, del drammaturgo e regista Giampiero Solari, dell’attore e regista Massimiliano Bruno, della moglie di Remotti, Luisa Pistoia, e della figlia Federica. «Sono onorata che il mio nome, come produttrice, appaia a fianco di quello dell’Istituto Luce, della Regione Lazio e di SkyArte ‒

continua Federica ‒, grazie ai materiali d’archivio dell’Istituto Luce riprende vita l’atmosfera degli

avvenimenti vissuti nel corso dell’esperienza professionale e non di mio padre. Ho fatto il

possibile per creare, con i registi, un forte nesso nella storia; di raccontare non solo con gli occhi di chi ha conosciuto direttamente Remo Remotti. Il supporto di personaggi del mondo dello spettacolo ci ha aiutato a realizzare un collante sia a livello affettivo che di ricerca».

Nei filmati, Remotti narra della sua infanzia a Roma, durante il Fascismo, fino ad arrivare alla scoperta della pittura, della scultura, dell’arte; della sua esperienza a Berlino, con le rivolte studentesche; del suo mestiere di attore, in teatro e poi al cinema, con registi come Marco Bellocchio, Nanni Moretti, Francis Ford Coppola. «Era affamato di vita, uno spirito libero che non si poneva mai dei limiti. Questo è il messaggio che arriva forte e chiaro anche a chi ha visto il documentario senza sapere chi fosse. Dopo le proiezioni sono stata contattata da moltissimi che, pur non conoscendo Remotti, mi hanno ringraziato. Hanno percepito il desiderio, da parte di mio padre, di stimolare costantemente la mente con energia e curiosità e di sperimentare, sempre. C’è chi mi ha raccontato di aver trovato la determinazione per iscriversi in palestra o il desiderio di comprare un libro... Chi invece lo conosceva da vicino mi ha confessato di aver scoperto, con sorpresa, qualcosa in più».


- Zona Doc/2 lungometraggio ottiene il finanziamento dell’atelier ed entra in produzione (all’iniziale adesione di Parallelo 41 Produzioni si è poi aggiunta anche RAI Cinema). Così nel 2015 Silvia Bellotti inizia a girare presso l’Istituto Autonomo Case Popolari di Napoli: gli impiegati che

accolgono con entusiasmo la piccola troupe si aspettano, fraintendendo la situazione, una settimana di riprese “giornalistiche”; la regista invece inizia a girare “cinematograficamente” prevedendo sei mesi di lavoro. L’arco complessivo

IL “MISTERO BUFFO” DELLA BUROCRAZIA

Aperti al pubblico, esordio al cinema di Silvia Bellotti, è un documentario d’osservazione classico che ritrae con leggerezza cristallina il confronto quotidiano tra i cittadini e il più temibile dei volti dello Stato. di SILVIO GRASSELLI

V

incitore del premio per il

Miglior Documentario all’ultima edizione di Visioni Italiane ‒ festival

organizzato presso la Cineteca di Bologna e dedicato agli esordi nei formati brevi, cortometraggi e mediometraggi, e al documentario ‒, Aperti al pubblico è l’esordio di Silvia Bellotti. Frutto di una lunga ricerca sul campo, il film è prima di tutto il risultato maturo di un percorso di apprendistato al cinema documentario. Silvia Bellotti si avvicina

per la prima volta all’audiovisivo da giornalista, dopo aver ottenuto una laurea in Architettura, e dopo gli studi presso la Fondazione Lelio Basso a Roma. A Palermo iniziano le prime inchieste

e i primi esperimenti con il video. Arrivano le prime conferme, i riconoscimenti, le opportunità (tra le altre, una collaborazione con «Il Fatto Quotidiano»), ma

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contemporaneamente si chiarisce un nuovo limite: il racconto giornalistico non può fare a meno della notizia, del dato utile, della sintesi stringente. Silvia Bellotti si sposta allora a Napoli, dove

si iscrive all’Atelier di Cinema del Reale Filmap diretto da Leonardo Di Costanzo, tra i padri del documentario italiano contemporaneo, già docente dei rinomati corsi di

cinema documentario degli Atelier Varan, a Parigi. Ancora durante i mesi del corso, Silvia gira Il foglio, suo primo corto documentario, centrato sulla varia umanità e sulle dinamiche di autogestione in risposta alla burocrazia, che si raccolgono davanti a uno degli uffici dell’Agenzia delle Entrate nella città partenopea: s’inaugura così la stessa linea di ricerca che anima e muove il successivo Aperti al pubblico. Alla fine del periodo di formazione, il progetto del film di

di permanenza di Silvia e dei suoi pochi collaboratori tecnici (Eduardo di Pietro, Giovanni Sorrentino come fonici e Claudia Brignone anche in funzione di aiuto regista) presso gli uffici dello I.A.C.P. sarà alla fine di quasi due anni. In questi lunghi mesi la documentarista registra molti incontri, volti e voci che negli uffici dell’ente pubblico mettono in scena il confronto diretto, talvolta drammatico, talvolta comico, più spesso tragicamente ridicolo con il più temibile dei volti dello Stato: la burocrazia. Utenti e impiegati però, non sono ritratti come contendenti che si battono su fronti avversi. Nella

serie di quadri che compongono il film ‒ e che gradualmente mutano coloritura emotiva e organizzazione simbolica ‒ è ricostruita una sola e unica lotta che quotidianamente si svolge con tempi e modi degni di un “mistero buffo”, quasi un rito scenico di resistenza e di sacrificio.

Silvia Bellotti ‒ che dal videogiornalismo dice di aver appreso la dimensione simbiotica con la camera e la determinazione al racconto ‒ riprende l’ordinaria amministrazione, la routine mai scontata che ogni giorno ricomincia intorno alle scrivanie, nei corridoi, addirittura per le scale e dentro gli ascensori dell’istituto; non riprende sempre, non riprende tutto: qualche volta basta uno sguardo dell’impiegato a suggerire la delicatezza del momento, altre volte è sufficiente che la sua presenza negli uffici ‒ che dopo pochi giorni inizia a non essere più notata ‒ si faccia sentire come inopportuna, che la filmmaker senta il disagio del suo sguardo e scelga l’astensione. Nell’inverno del 2016, con le riprese ancora in corso, Bellotti inizia a lavorare al montaggio insieme a Lea Dicursi e Claudia Brignone: comincia la scrematura delle molte ore di girato, la cernita delle storie interne, la definizione di un disegno ritmico, emotivo, drammaturgico. La linea guida però è essenziale: accumulare i momenti di più intensa esplicitazione del rapporto tra utenti e impiegati, momenti nei quali si esprime più forte l’emozione degli uni e degli altri ‒ le reciproche solidarietà e le piccole scaramucce, lo scontro formale e la sostanziale alleanza ‒ attraverso la

«LA REGISTA RIPRENDE L’ORDINARIA AMMINISTRAZIONE, LA ROUTINE MAI SCONTATA CHE OGNI GIORNO RICOMINCIA INTORNO ALLE SCRIVANIE». L’Istituto Autonomo per le Case Popolari di Napoli, palcoscenico del documentario, gestisce i 40.000 alloggi presenti in città e nella provincia.

proverbiale teatralità partenopea, la messa in scena del gioco delle parti, la rappresentazione delle dinamiche irrazionali, paradossali e grottesche che regolano il sorprendente, surreale, sempre precario equilibrio alla base del funzionamento dell’istituzione pubblica. Alcune delle storie, degli esperimenti, dei temi formali e delle soluzioni visive sono accantonati, tagliati via del tutto o ‒ più raramente ‒ conservati in brevi apparizioni puntuali. Il film che esce da questa ulteriore ultima fase è un documentario d’osservazione classico che si giova della cancellazione della presenza della regista dalle immagini a favore di una scrittura leggera e cristallina: la materia è lo scambio tra le persone dentro un gioco sociale terribile e spassoso, antico e modernissimo, crudele e pietoso, che registra toni e gesti estroversi, eclatanti, scenografici, ma anche impercettibili vibrazioni, silenzi, pause, accenni, temperando i primi e amplificando i secondi in un’abile partitura audiovisiva che mescola dramma e commedia. Nella struttura complessiva che intesse giustapposizioni e intrecci di scene separate, si riconosce l’evoluzione dell’approccio alla ripresa che matura lungo il passare del tempo speso dalla regista negli uffici dell’ente pubblico: il punto di vista, la distanza rispetto ai soggetti ripresi, la prontezza nel cogliere, quasi anticipandoli, tic e microvariazioni nei volti e nei corpi si spostano tutti in direzione di una maggiore intelligente e laica intimità. In questo piccolo diorama enciclopedico che tenta una illustrazione implicita della burocrazia nell’Italia del tempo presente ‒ esplorando un edificio intero,

dai sotterranei nei quali sono raccolti a migliaia i fascicoli e i faldoni delle pratiche aperte, fino alle più alte finestre che dominano la città, suggerendone finalmente una dimensione quasi simbolica ‒ si ritrova lo sguardo lucido e

appassionato dell’architetto urbanista, l’acume e la sintesi perspicace della giornalista, l’attesa consapevole e la prontezza della documentarista che pensa e racconta registrando e riscrivendo il mondo attraverso il riflesso mediato dell’audiovisione.

Il film, prodotto da Parallelo 41 Produzioni e Arci Movie con il contributo di RAI Cinema, è stato sviluppato nell’ambito di FilmaP, centro per la formazione e produzione di cinema a Ponticelli diretto da Leonardo di Costanzo e coordinato da Antonella Di Nocera.

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- Attori -

SMART PEOPLE Giovani protagonisti crescono.

Con la leggerezza della loro età , in abiti casual e grintosi, guardano al futuro ancora tutto da scrivere.

Determinati e contemporanei, eppure sospesi nel tempo attraverso il filo dei ricordi e delle ispirazioni. creative producer TOMMASO AGNESE direttore di produzione MASSIMO ROSSETTI foto JACOPO GENTILINI stylist STEFANIA SCIORTINO assistente fotografo GIULIO CAFASSO hair ADRIANOCOCCIARELLI@HARUMI trucco SARA BRUSCHINI e DARIA NUCCI per REA ACADEMY thanks to TSHIRT LOCAL AUTHORITY; SUNGLASSES L.G.R. IN LOCATION - CONTEMPORARY CLUSTER - Via dei Barbieri 7

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«Piangi quanto vuoi, ma ora è qui che devi stare».

MAURO LAMANNA 28 anni

Studi: Diplomato al Centro Sperimentale di Cinema in recitazione, ho approfondito gli studi tra la Shanghai Theatre Academy in Cina e in America a New York, presso la scuola Esper Studio. Mi avete visto in: Dopo piccoli ruoli con Marco Tullio Giordana in Lea e con i Manetti Bros ne L’ispettore Coliandro, quest’anno ho avuto l’onore di essere uno dei protagonisti italiani di Trust, la serie del premio Oscar Danny Boyle, con i premi Oscar Donald Sutherland e Hilary Swank.

NINA FOTARAS 18 anni

Studi: Ho iniziato a studiare recitazione quando avevo 8 anni, prendendo parte a un corso di teatro a scuola. Ho proseguito con dei laboratori tra cui Alla scoperta del decalogo di Kieslowski tenuto da Eljana Popova presso il Centro Sperimentale di Cinematografia. Verso i 16 anni ho iniziato un percorso di studi con un’insegnante di recitazione cinematografica e teatrale, Marialuce Cangiano.

Mi vedrete in: Al momento sto lavorando a un progetto da regista. Qual è la canzone che ti ispira? • Sono particolarmente legato a Le aquile non volano a stormi di Franco Battiato. Un giorno di qualche anno fa ero a New York in piena estate a studiare e i miei compagni di classe erano tutti americani. I primi giorni dopo le lezioni ero completamente solo nella Grande Mela e sui social vedevo i miei amici al mare o alle feste estive a divertirsi. Mi ricordo che un pomeriggio mi sono steso a Bryant Park con le cuffie alle orecchie e ho iniziato a piangere, convinto di aver fatto un errore. D’un tratto, parte in cuffia questo brano che parla della dignità, del valore di seguire le proprie idee e il proprio cuore, anche quando le circostanze sembrano avverse. Quella canzone in qualche modo mi diceva “Piangi quanto vuoi, ma ora è qui che devi stare”. E aveva ragione.

Mi avete vista in: • Don Matteo 11 nel ruolo di protagonista di puntata e Skam Italia, il remake italiano di una serie web norvegese che racconta gli adolescenti di oggi. Mi vedrete in: • Il primo re, il nuovo film di Matteo Rovere, le cui riprese si sono svolte tra settembre e novembre 2017 • Al momento sto girando la serie Il nome della rosa, adattamento del romanzo di Umberto Eco. Qual è la canzone che ti ispira? • Ammetto che ci ho dovuto pensare molto: amo la musica, ne ascolto tanta di tutti i generi e quasi a ogni titolo lego un ricordo. Forse in particolare Moon River che, oltre a essere la canzone di Colazione da Tiffany e a ricordarmi Audrey Hepburn, anche se già questo basterebbe, è quella che usavo come base musicale per un monologo tratto da Teresa Raquin di Émile Zola, a cui sono molto legata, ed è anche una canzone che suonavo col violino in orchestra quando ero piccola.

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«Amo la musica e quasi a ogni titolo lego un ricordo». 53


ALESSANDRO SARDELLI

CATERINA BIASIOL

Studi: Diploma come Perito Informatico e delle Telecomunicazioni. Corso di recitazione presso Estad di Daniele Monterosi.

Studi: La Sapienza, facoltà di Lettere e Filosofia, e Centro Sperimentale di Cinematografia.

20 anni

23 anni

Mi avete visto in: • La macchinazione (2016) di David Greco • Manuel (2018) di Dario Albertin • No one like us (2018) di Stefano Calvagna (in post-produzione). Mi vedrete in: • Attualmente sul set di un promo pilota diretto da Kassim Yasmin Saleh che punta a diventare una serie. Qual è la canzone che ti ispira? • Tutto il resto è noia di Franco Califano, perché mi ricorda un periodo della mia adolescenza in cui avevo dei problemi alle corde vocali e non potevo cantare. Ascoltavo questo pezzo a me molto caro soprattutto per via del testo triste, malinconico e cinico che rispecchiava perfettamente la personalità sfaccettata di questo meraviglioso cantautore.

«Tutto il resto è noia è un pezzo a me caro per il testo triste, malinconico e cinico».

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Mi avete vista al cinema in: • Slam!‒ Tutto per una ragazza regia di Andrea Molaioli (nel cast Jasmine Trinca, Luca Marinelli, Ludovico Tersigni) • Non c’è campo regia di Federico Moccia (nel cast Gianmarco Tognazzi, Vanessa Incontrada, Claudia Potenza). Mi avete vista in televisione in: • Amore pensaci tu regia di Pavolini e Terracciano. Mi vedrete al cinema in: • Smitten! regia di Barry Morrow, premio Oscar per la sceneggiatura di Rain Man. Smitten! è il primo film che Morrow, oltre ad aver scritto, ha anche diretto (nel cast Madalina Ghenea, Darren Chriss, Angela Molina, Lorenzo di Stefano). Ma la vera sfida mi aspetta quest’estate con un progetto che mi fa tremare d’entusiasmo, una serie Mediaset di cui posso dire solo che è un crime ambientato tutto in un piccolo paesino vicino al mare. Qual è la canzone che ti ispira? • Dreams dei Cranberries. L’ho conosciuta tramite una cover in cinese (non chiedetemi come) e ho scoperto solo tanto tempo dopo che era dei Cranberries, durante un viaggio in macchina verso Nazaré, in Portogallo. Nazaré è la città dove hanno fatto il record mondiale di onda più alta mai surfata (circa 30 metri). Una delle giornate più belle nella mia memoria: non era ancora estate e ricordo queste onde giganti che si infrangevano su una spiaggia sterminata e deserta, il vento, l’odore dell’oceano. «Oh my life is changing everyday in every possible way» sono le prime parole della canzone e, quando l’ascolto, ho sempre la sensazione che stia parlando proprio con me.

«La vera sfida mi aspetta quest’estate».

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«Heroes mi dà fiducia e non mi fa mai passare la voglia di fare questo lavoro».

«Knockin’ on Heaven’s Door è la prima canzone che ho suonato con la band del liceo».

ALESSIO PRATICÒ

GIORDANA FAGGIANO

Studi: Mi sono laureato in Architettura e successivamente ho studiato recitazione alla Scuola del Teatro Stabile di Genova. Ho studiato anche canto e chitarra.

Studi: Diplomata al Teatro Stabile di Genova. Ho iniziato a studiare recitazione a 6 anni e da lì non mi sono più fermata.

32 anni

Mi avete visto in: • Al cinema ho lavorato in Antonia, opera prima di Ferdinando Cito Filomarino e in Lea di Marco Tullio Giordana. • In televisione ho lavorato in Solo di Michele Alhaique, in The Young Pope di Paolo Sorrentino, ne Il cacciatore di Stefano Lodovichi e Davide Marengo, in Trust di Danny Boyle e ne Il miracolo di Niccolò Ammaniti, Francesco Munzi e Lucio Pellegrini. Al momento sto preparando uno spettacolo teatrale, un testo inglese di drammaturgia contemporanea, di cui curerò la regia. Qual è la canzone che ti ispira? • Non esiste una canzone in particolare che mi ispiri perché in realtà ce ne sono tante. Ognuna è legata a un periodo della mia vita. Però, se proprio devo dirne una, direi Knockin’ on Heaven’s Door di Bob Dylan. Nella versione rifatta dai Guns N’ Roses. È la prima canzone che ho suonato con i miei amici durante gli anni del liceo. È legata a quel periodo, anni in cui avevamo da poco iniziato insieme l’avventura in una band: mi proietta in quei momenti trasmettendomi positività.

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22 anni

Mi avete visto in: • 48 ore con la regia di Eros Puglielli con Claudio Amendola e Claudia Gerini • Peopling The Palace con la regia di Peter Greenaway • Ultimamente ho girato La mafia uccide solo d’estate regia di Luca Ribuoli • sono in scena al Teatro Eliseo con La cucina, regia di Valerio Binasco. Mi vedrete in: • L’anno prossimo riprenderò la tournée di Don Giovanni nel ruolo di Donna Elvira accanto a Gianluca Gobbi, con la regia di Valerio Binasco. Qual è la canzone che ti ispira? • Heroes di David Bowie, il titolo dice già tutto! Era la canzone degli applausi al Teatro Greco di Siracusa alla fine delle Fenicie, spettacolo di Valerio Binasco in cui interpretavo Antigone e con Guido Caprino che recitava nel ruolo di Eteocle. Quello di Siracusa è stato un periodo meravigliosamente felice. Heroes mi dà fiducia e non mi fa mai passare la voglia di fare questo lavoro, anche nei periodi in cui le cose non vanno!

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- Soundtrack -

OVUNQUE TU SARAI

DA DOVE SI PARTE QUANDO SI VUOLE RACCONTARE L’AMICIZIA? DALLE COSE CHE ACCOMUNANO TUTTI, DA UN VIAGGIO, DA UNA PASSIONE GRANDE COME IL CALCIO E, SOPRATTUTTO, DALLA MUSICA.

GRAZIE, ROMA Ovunque tu sarai segna l’esordio cinematografico di Roberto Capucci, classe 1975, dopo una lunga gavetta in pubblicità, videoclip e cortometraggi.

di ANDREA PASSERI

Q

uesta è la sintesi di Ovunque tu sarai, questo è il pensiero che mi gira in testa dopo aver chiacchierato a ruota libera con Roberto Capucci, il regista, e Marco Conidi, perno centrale dell’Orchestraccia e curatore d’eccezione della colonna sonora del film. Parlando con loro vado a scavare, cerco di ricostruire come si sia strutturato il mantello musicale che avvolge e protegge tutto il film, riscoprendo un viaggio emozionale prima che effettivo, ricucendo gli strappi di un’opera prima sincera, alla quale gli spettatori si sono affezionati. Non è difficile ottenere informazioni da Roberto Capucci, che come un fiume in piena mi investe con il suo entusiasmo, la sua soddisfazione umana prima che professionale nel ripercorrere le tappe di avvicinamento al film, raccontandomi di come, un pezzo dopo l’altro, si siano incastrati tutti gli ingranaggi della macchina. Il suo incontro con

Marco Conidi è stato quasi fortuito, un conoscente in comune che li porta a cena insieme: «Hai presente quando non ti conosci ma sei amico da una vita?».

Roberto non trova altre parole per spiegare come sia nato un rapporto da subito molto forte. Un’intera sera a parlare di idee, di Roma, della Roma, di esistenze distanti che però condividono lo stesso background culturale, le stesse emozioni. Proprio da questi presupposti nasce il film e da questi presupposti nasce un’amicizia e una collaborazione che parte dal titolo, quell’Ovunque tu sarai che proviene

naturalmente dal famoso coro della Sud e da un estratto del testo di Mai sola mai, canzone di Conidi dedicata alla sua A.S. Roma, ma che attraversa emozionalmente qualunque tifoso di calcio.

«Orgogliosamente ti dico che è un film musicale» mi racconta Roberto «c’è una matrice rock che accompagna tutto il film, e che ci accompagna da Roma fino in Spagna.

Poi c’è un’unione di molti generi: abbiamo inserito continui riferimenti alla musica, a cominciare dal pulmino dei Triana, un gruppo realmente esistito che proponeva un rock progressive con sonorità spagnole». La storia esordisce con la confessione di uno dei protagonisti, con il suo sogno di diventare una rockstar, poi non possiamo che innamorarci di Abre la puerta proprio dei Triana, prima di scoprire la versione spagnola della canzone Ovunque tu sarai scritta da Marco Conidi per il film e cantata nella pellicola dalla deliziosa Ariadna Romero, per poi stupirci nel riascoltare Comprami di Viola Valentino, retaggio di un’epoca cinematografica così distante e così indimenticabile. Tendenzialmente nei film a basso budget e nelle opere prime la musica si usa per riempire i vuoti, ma è spesso una musica preconfezionata, fatta di sonorità di circostanza. Nel caso di Ovunque tu sarai, invece, la musica dà ritmo al film grazie

all’apporto essenziale di Conidi e degli altri due collaboratori per le musiche, Valerio Calisse e Daniele Bonavire, uno dei chitarristi di flamenco più importanti in Europa. Prima di congedarlo parliamo del videoclip della title-

Ringraziamo per la collaborazione FRANCESCA PIGGIANELLI e ROMA VIDEOCLIP

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Ricky Memphis, Primo Reggiani, Francesco Apolloni e Francesco Montanari vestono i panni di tifosi di calcio in viaggio verso Madrid per seguire la squadra del cuore.

«CREDO CHE IL DIALETTO ABBIA UNA CAPACITÀ DI TRASMETTERE SENSAZIONI CHE MANCA ALL’ITALIANO». track, firmato sempre da lui, gli chiedo se fosse stato solo un piccolo sforzo collaterale al film oppure no: Roberto mi rivela che senza il videoclip non avrebbe avuto il finale del film, in cui sono state riutilizzate le scene del pulmino girate per la canzone, in una congiunzione quasi magica. L’idea del video nasce proprio così: un’unione visiva tra i componenti dell’Orchestraccia impegnati a cantare e i ragazzi del film che li passano a caricare con il loro pulmino, aggiungendo una tappa ulteriore a quelle che vediamo nella storia. Per Marco Conidi, che intercettiamo poco prima che entri in sala prove, non è la prima volta al cinema, è sempre stato attore e cantante, le uniche due cose che da piccolo si era ripromesso di non fare nella vita ‒ ma si sa che le cose non vanno come uno se le immagina. Marco è navigato,

conosce il linguaggio dei film e quello della musica, conosce Roma e i messaggi che sa comunicare, quindi è stato l’interlocutore ideale per un progetto come questo. Le colonne

sonore sono una delle sue passioni e dopo aver conosciuto Capucci si è lasciato subito coinvolgere. Ma quando è arrivato, ha trovato musiche d’appoggio, riempitive, insieme a tutta una serie di riferimenti a canzoni che spaziavano dai Queen, ai Rolling Stones fino a Elvis: «Ci mancava solo Let it be dei Beatles e le avevano prese tutte, gli ho detto mettici sei milioni per i diritti e ce le hai tutte ’ste canzoni», ci racconta Marco con un sorriso. Il suo problema dunque era creare qualcosa che non deludesse il regista, perché quando hai in testa delle canzoni così potenti sopra una scena, è difficile poi abituarsi a qualcos’altro senza la sensazione che manchi qualcosa: «Il film ha tanta musica, più della maggior parte degli altri film, e questo si nota, si sente. Quindi c’era bisogno di una colonna sonora che facesse sentire qualcosa, non solo per riempire

i silenzi. Credo che con Valerio e Daniele ci siamo riusciti». Mi viene spontaneo chiedergli com’è scrivere per qualcosa che già esiste, che nasce dall’ispirazione di qualcun altro. Così torniamo a parlare del suo rapporto con il cinema, di come ha sempre scritto canzoni immaginandosi un film. Per Marco è naturale che le due cose coincidano, le sue canzoni e la sua scrittura, ci confessa, nascono per immagini:

«Le mie canzoni sono delle mini sceneggiature, cerco di raccontare una scena, qualcosa di vivo, qualcosa che mi immagino davanti agli occhi».

Prima di lasciarlo ai suoi impegni, gli chiedo un accenno sulla citazione che dà il la alla canzone Ovunque tu sarai, quel Famme resta’ co’ te, sinnò me moro che ci riporta alla mente Gabriella Ferri e una Roma che ci manca anche se non l’abbiamo vissuta. Quella canzone, mi spiega, l’ha sempre amata, si sente molto coinvolto da quel testo, dalle possibilità di comunicazione che solo il dialetto può dargli: «Credo che il dialetto abbia una capacità di sintesi, un’empatia, una capacità di trasmettere sensazioni che manca all’italiano. Se io dico Sinnò me moro tu capisci subito la situazione, con l’italiano avrei bisogno di articolare frasi molto più lunghe». Marco è un fan del romano “nobile”, quello che non è forzato e che non è volgare, ma che fa parte della tradizione italiana profonda e antica dei dialetti, una tradizione che dovrebbe unire il paese invece di dividerlo. Nei concerti dell’Orchestraccia, ricorda infine, la band ha spesso accostato sonetti di

Belli a versi di Sciascia, di Pavese e Trilussa, cercando di dimostrare come l’Italia sia in realtà corta e indivisibile, e che certi temi e alcune

“sensibilità” l’abbiano attraversata interamente, anche grazie all’espressione dialettale capace di raccontare bene qualunque emozione, a Nord come a Sud.

Protagonisti della colonna sonora del film sono Marco Conidi, Luca Angeletti e Giorgio Caputo.

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DEAKIDS, IL CANALE DI DE AGOSTINI EDITORE, SI È AVVALSO DI DUE PARTNER PER LA PRODUZIONE DELLA SUA PRIMA SITCOM PER RAGAZZI: MAESTRO PRODUCTION E BEACHWOOD CANYON, COORDINATI DALL’HEADWRITER FRANK VAN KEEKEN. Al centro di New School ci sono le vicende di Nick, Rudy e Anna, un gruppo di “primini” della prestigiosa scuola media internazionale McGaffin International Middle School.

fotografia, visto che uno dei nostri asset è quello di incoraggiare produzioni originali per i nostri canali. Inoltre volevamo un team di lavoro un po’ visionario», continua Alba Rondelli. Qui entra in gioco la Maestro Production, una realtà giovane nel mondo della produzione dell’audiovisivo, che ha l’insolita caratteristica di avere solo dipendenti under 35. «Giovani, ma che lavoravano a livello altissimo» spiega Antonio Giampaolo, fondatore e produttore esecutivo della Maestro. Nata e cresciuta senza aver mai ricevuto sovvenzioni pubbliche né prestiti bancari, oggi è una delle prime case di produzione italiane per la realizzazione di videoclip come quelli di Thegiornalisti, Maneskin, Fedez, Annalisa, Michielin, Motta e molti altri. «New School ci ha permesso di fare un salto di qualità notevole.

caratteristiche che hanno consentito l’instaurarsi di dinamiche emozionali fondamentali per lo sviluppo del lavoro. Un elemento importante per la riuscita della sitcom è stato, come si diceva, l’iter della scrittura: dalla prima stesura di mano italiana per passare attraverso il lavoro del team di Van Keeken e infine arrivare alla rielaborazione del copione con i dovuti adattamenti linguistici e culturali. «Anche se un ragazzo è un ragazzo», come ricorda Van Keeken, le differenze culturali tra Canada e Italia ci sono. Si tratta di tradurre e rendere comprensibili battute, giochi di parole e scherzi. Ora negli studi della Maestro fervono i preparativi per la realizzazione della seconda stagione. La struttura è composta da studi, un’area di post produzione e un reparto di scenografia. Per le riprese sono previste due troupe e due registi, Edoardo

NEW SCHOOL di ELENA CIRIONI foto LUCIA IUORIO

Il progetto New School nasce dall’incontro tra la professionalità di Alba Chiara Rondelli, Head of Productions per i canali TV De Agostini, la Maestro di Antonio Giampaolo e la sceneggiatura innovativa ideata in Canada da Frank Van Keeken (nella pag. a destra).

«INVESTIRE SUI NUOVI TALENTI SIGNIFICA SCOMMETTERE SULLA PASSIONE E SULLA VOGLIA DI FARE».

I

ragazzi dell’istituto tra libri, amicizie e cotte hanno un’unica ambizione: quella di stare sul Wall

of Celebrities, la parete del bagno della scuola dove sono appese le fotografie dei ragazzi-leggenda che hanno lasciato il segno nella storia della scuola. Per conquistare il posto sul muro delle

celebrità, i ragazzi sono pronti a tutto, anche ad affrontare avventure esilaranti e sopra le righe. Un grande successo trasmesso sul canale 601 di Sky che ha portato alla realizzazione di una seconda stagione. Fabrique è andata negli studi della Maestro Production per incontrare i produttori e gli autori della serie. L’ideazione e la realizzazione di New School sono stati un lavoro molto lungo, come ci spiega Alba Chiara Rondelli, Head of Productions per i canali TV De Agostini, «la DeAgostini ha

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iniziato a lavorare sulle serie da due anni, ci siamo messi alla ricerca di concept interessanti. La prima stesura è stata scritta da autori italiani, poi abbiamo deciso di affidarci a una scrittura nord americana e abbiamo scelto il gruppo di autori guidati da Frank Van Keeken, sceneggiatore, showrunner, produttore e regista californiano operativo in Canada e due volte vincitore ai Bafta Kid’s Vote con la serie The Next Step». Questo modello misto ha valorizzato il prodotto, dando alla scrittura un’impronta originale, considerando che il Canada è uno dei paesi più avanzati per quanto riguarda la realizzazione di serie per ragazzi. Mentre gli autori canadesi lavoravano sulla scrittura, una struttura interna della DeAgostini si è occupata del casting e di scegliere un partner per la produzione esecutiva: «Per la serie volevamo un’impronta fortemente cinematografica, sia nella regia che nella

Dopo questa esperienza la Maestro è in grado di gestire produzioni con un budget elevato, mantenendo le sue caratteristiche» precisa Giampaolo e aggiunge quali sono i pilastri della sua casa di produzione: creare rapporti umani con il cliente, far crescere le professionalità, scoprire nuovi autori. Tutte le persone coinvolte nella realizzazione di New School nascono da un percorso fatto in comune: «Ci piace far crescere in casa i nostri collaboratori: la nuova generazione del cinema italiano ha una professionalità molto elevata». Come lo scenografo Mauro Vanzati e il direttore della fotografia Davide Manca, entrambi coinvolti nella realizzazione del progetto. Un altro punto fondamentale della sitcom è la regia, trattandosi di dirigere ragazzi molto giovani, e il regista Edoardo Palma ha tenuto come riferimento l’importanza del gioco, dell’ironia,

Palma e Emanuele Gateano. Squadre giovani che compongono la nuova generazione del cinema italiano. «Investire sui nuovi talenti significa scommettere sulla passione e sulla voglia di fare» conclude Antonio, che confessa anche una grande difficoltà, quella di far fatica a trovare personale di produzione qualificato con passione e forza di volontà. Il grande investimento fatto dalla DeAKids e lo spirito di innovazione e professionalità della Maestro hanno dato i loro frutti: al Mercato dell’Audiovisivo di Cannes il valore di New School è stato ampiamente riconosciuto. Il sogno per il futuro è che New School possa viaggiare anche all’estero, diventando un prodotto internazionale e un esempio di modello misto nato dalla commistione di strutture diverse. Impresa complessa, ma alla fine senz’altro vincente.

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- Effetti speciali -

ALL’AFFEZIONATO LETTORE DI FABRIQUE SEMPRE AGGIORNATO SULLE NOVITÀ DELL’INDUSTRY, COSÌ COME ALLO SPETTATORE MEDIO E A QUELLO CHE VA IN SALA SOLO PER DIGERIRE IL PANDORO O LA COLOMBA PASQUALE, SONO CERTO NON SFUGGIRÀ IL TREND DELLA CINEMATOGRAFIA MONDIALE DEGLI ULTIMI ANNI, I CUI CONTENUTI E GENERI SEMBRANO RIPROPORSI CON CICLICITÀ. di GIANLUCA DENTICI* *Senior Compositor e VFX Supervisor, ha lavorato ultimamente come Compositor ad Avengers Inifinity War, Dunkirk, Wonder Woman, Animali fantastici e dove trovarli Basato sull’omonimo romanzo di Ernest Cline, Ready Player One è ambientato nel 2045, in un mondo attanagliato dalla crisi energetica e dalle conseguenze del riscaldamento globale.

come Independence day (1996), Mars Attacks! (1996), Armageddon (1998), Deep Impact (1998), poi ancora Twister (1996), Volcano (1997), Dante’s peak (1997) e nel mucchio metterei anche Titanic (1997).

Gli anni intorno al 2000 sono stati invece gli anni del ritorno al musical con Moulin Rouge e

Chicago, che con il loro successo hanno traghettato la rinascita del genere provocando un’inarrestabile ondata di nuove uscite già a partire da Il fantasma dell’opera (2004), Sweeney Todd (2007), Mamma mia (2008), Les Miserables (2012), fino ai più recenti Into the Woods (2014), e La La Land (2016).

Il 2018 infine ha segnato il ritorno del genere sci-fi nella sua variante più sporca e cyber già anticipato con l’uscita di Blade Runner 2049 a fine 2017, che ha portato a casa due Oscar per la Migliore Fotografia e i Migliori Effetti Visivi, quindi importanti riconoscimenti sul versante delle immagini.

Dopo il ritorno in questi ultimi anni della fantascienza “sporca” (Blade Runner 2049, Mute, Altered Carbon), l’ultimo Spielberg di Ready Player One (in queste due pagine alcune immagini) segna un passo avanti nel genere.

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S

ono altresì convinto che nessuno ritenga che ciò accada per casuali e irrefrenabili ispirazioni artistiche, ma che sia in gran parte dovuto a manovre economiche e mediatiche attentamente pianificate; non ci giriamo attorno, i blockbuster ‒

perché è di quello che stiamo parlando ‒ sono macchine per fare soldi. Tanti.

Lavorando nel settore degli effetti visivi all’estero, mi rendo ancora più conto di quanto gli sforzi che noi “tecnici” facciamo per realizzare scene mozzafiato siano indirizzati a creare immagini per stupire e intrattenere lo spettatore: tutti gli artisti che vi partecipano amano tantissimo questo lavoro, e la passione che viene profusa si traduce in un successo visivo garantito, anche se a volte la narrazione può risultare debole rispetto all’impatto delle immagini.

L’ETERNO RITORNO DEL FUTURO In ogni caso, come anticipavo, la ciclicità dei contenuti e dei generi è sotto gli occhi di tutti, ed è talmente palese che le macchine produttive hanno cominciato a offrire al loro pubblico dei prodotti la cui matrice narrativa è già conosciuta ma reinterpretata in chiave differente, oppure spostata più indietro o in uno spazio-tempo parallelo. In altre parole il fenomeno degli spin-off (Il signore degli anelli, Avatar – in arrivo fino al numero 5! –, Animali fantastici e dove trovarli, riuscitissimo spin-off di Harry Potter, e naturalmente tutti gli Star Wars). Vediamo dunque le tendenze tematiche e di genere che hanno caratterizzato gli ultimi anni. A cavallo

fra Ventesimo e Ventunesimo secolo si moltiplicano – non a caso – i film cosiddetti “catastrofici” che non hanno risparmiato né ambientazioni spaziali né terrestri. Titoli

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Takeshi Kovacs è il protagonista di Altered Carbon, detective in azione nel 2384 a Bay City, dove la vita degli uomini può essere quasi eterna.

È d’obbligo (e romantico) sottolineare che il regista Denis Villeneuve ha fatto un grande uso di miniature per la realizzazione di molte delle inquadrature a volo d’uccello sulla città, ben 38, alcune alte fino a 4.5 metri di altezza. Un grande omaggio a quella che fu

la tecnica del primo film datato 1982 e che, nonostante gli anni e l’ormai standardizzato impiego della computer grafica, ha dimostrato di saper ancora dar vita a immagini suggestive e realistiche. Ma, a testimonianza dell’attualità del genere, anche le holding delle piattaforme digitali hanno deciso di mettersi in gioco producendo serie televisive di stampo fantascientifico. Altered Carbon, tratto dal romanzo cyberpunk Bay City di Richard K. Morgan, è stata una delle prime serie interamente prodotte da Netflix e a cui ho avuto, tra l’altro, l’opportunità di lavorare. La produzione ha puntato molto sulla qualità delle immagini e sugli effetti visivi, che poco hanno da invidiare ai veri e propri film. Girata alla risoluzione di 5K e andata poi in onda a 4K, la serie rappresenta infatti uno dei primi esperimenti di prodotti ad altissima risoluzione destinati alla fruizione casalinga. I dieci episodi si concentrano sulla rappresentazione di una società futuristica dove l’identità umana può essere codificata e immagazzinata digitalmente per essere ricaricata chirurgicamente nella colonna spinale e

«I SUPEREROI STANNO PRENDENDO IL SOPRAVVENTO, NE VEDREMO DELLE BELLE». trasferita da un corpo all’altro: ciò permette agli esseri umani di sopravvivere alla morte fisica facendo in modo che i ricordi e la coscienza siano “inseriti” in nuovi corpi sintetici, clonati o naturali, che vengono considerati come mere custodie della mente. Con un plot così suggestivo ovviamente non poteva non essere ricreata un’ambientazione coerente, così per tutta la durata degli episodi le storie si intrecciano sullo sfondo di palazzi avveniristici ricoperti di ologrammi, astronavi orbitanti, dormitori di containers sui ponti e le consuete fumose e pericolose strade dei bassifondi delle tipiche città futuristiche. Purtroppo forse tutta questa consuetudine estetica doveva essere accompagnata da un racconto meglio strutturato e, nonostante i molteplici espedienti, a mio avviso piuttosto didascalici, di rendere la serie più

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“cool” farcendola di nudità e scene di violenza alle volte al limite con lo splatter, viene comunque in superficie l’essenza di un prodotto degno di essere ricordato più per la sua estetica che per l’aspetto narrativo. Altra produzione di casa Netflix e diretto da Duncan Jones, Mute è anch’esso un film di genere sci-fi e ancora più evidentemente ispirato all’estetica di Blade Runner dal punto di vista delle ambientazioni e delle scelte artistiche in generale. Nonostante il risultato visivo a cui ho anche in questo caso personalmente contribuito, la storia di un uomo muto alla ricerca della sua fidanzata scomparsa nelle strade di una Berlino futuristica non convince e ha scatenato le opinioni, per lo più negative, di giornalisti e appassionati che da molto tempo attendevano questo film. È stato definito come “un disastro” dalla stampa internazionale, davvero un peccato visto che le precedenti opere di Jones (Moon, Source Code) erano state apprezzate e, forse proprio per questo motivo, le aspettative erano ben altre. Ciò dimostra che il genere sci-fi è per un cineasta un territorio piuttosto pericoloso, dato che il gusto del pubblico si è molto evoluto e la ricetta del mood futuristico fatto di macchine volanti, grattacieli luminescenti, città inquinate e dark, personaggi stile cyber-punk e contenuti trasgressivi non sorprende più. Ci vuole una ricetta inedita, e a un certo punto arriva Mr. Spielberg e insegna a tutti come si fa. Quello stesso Spielberg che già tempo fa, in un’intervista congiunta con George Lucas, aveva previsto che le major si stavano interessando sempre più alle serialità televisive e prevedeva un’implosione del film in sala. Del resto, dobbiamo ricordare che il suo Lincoln è riuscito ad arrivare nei cinema solo perché sostenuto dalla sua personale casa di produzione, la Dreamworks, altrimenti sarebbe stato messo in onda da HBO. Ready Player One, ultima fatica del regista di Cincinnati, ha infatti un sapore del tutto nuovo. Nel film siamo proiettati in un mondo dove l’uso della realtà virtuale è ormai l’unica scappatoia da una realtà inquinata e squallida: sì, la ricetta sembra la medesima, ma Spielberg la impiega solo come premessa per sviluppare una trama ambientata nel cyber spazio dove possiamo essere tutto e niente, vivere anche dei veri sentimenti; inoltre l’intuizione di ambientare la vicenda in una sorta di über-anni-Ottanta, con molteplici accenni alla cultura del decennio più pop, restituisce un sapore estetico che è al tempo stesso crudo e nostalgico. Nel film assistiamo alla plausibile estremizzazione di quello che potrebbe succedere da qui ad alcuni anni, quando quello che attualmente facciamo in chat potrebbe diventare talmente interattivo grazie all’uso del visore, di guanti speciali e altre strumentazioni da poterci offrire le esperienze sensoriali più disparate. Il punto di vista del regista, evidente nel finale, sembra suggerire non solo l’accettazione di questa inarrestabile evoluzione, ma anche la possibilità di una pacifica convivenza tra il mondo reale e quello virtuale, a patto che quest’ultimo non intenda fagocitare la vita vera e le relazioni che vi si intrecciano. Con questo film Steven Spielberg diventa il primo regista della storia dal punto di vista del box office, poiché in totale le sue opere hanno incassato ben 10 bilioni di dollari; ma, mentre scrivo, in questo 2018 i supereroi stanno prendendo il sopravvento, quindi anche quest’anno ne vedremo delle belle.


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20 APRILE 2018

per Brunella Iorio

nationalities

8-19 MAGGIO 2018

Foto: Giulio Tiberi e Andrea Littera

submissions

1.300 70 5

GLI EVENTI DI FABRIQUE

sections

DIARIO

FABRIQUE AL FESTIVAL DI CANNES

Creative Studio

EX DOGANA, AL MODO DI FABRIQUE Il ritorno di Fabrique lo scorso 20 aprile all’Ex Dogana, divenuta ormai l’immancabile punto di riferimento per le serate romane in nome dell’intrattenimento, è all’insegna del cinema italiano.

Esperienza straordinaria quest’anno per Fabrique. La 71esima edizione del Festival di Cannes ha visto la nostra partecipazione con uno stand al Marché du Film in collaborazione con Prem1ere. Dall’8 al 19 maggio, il pubblico festivaliero ha trovato uno spazio nuovo ricco di materiali stampa e riviste, un luogo in cui trovare informazioni e novità, pensato per essere un punto di incontro di filmmaker italiani, europei e interazionali. Tutto organizzato con il consueto entusiasmo, la voglia di scambiare idee e crescere attraverso passioni e stimoli condivisi. 14 GIUGNO - 5 AGOSTO 2018

CINEMA GIARDINO Al modo di Fabrique, presentando i lavori dei nuovi registi che si affacciano al panorama cinematografico di casa nostra. Occasione imperdibile, l’uscita in sala lo scorso aprile del film Youtopia di Bernardo Carboni, che vede nel ruolo di protagonista Matilda De Angelis, il cui talento è stato già celebrato in occasione dei Fabrique du Cinéma Awards 2016, in cui si è aggiudicata il premio come Migliore Attrice. Il film, distribuito da Koch Films, si addentra in tematiche scottanti e di estrema attualità: la verginità all’asta nella dimensione virtuale del web che si intreccia inesorabilmente con la realtà. La serata prosegue con i nuovi promettenti artisti del cinema italiano, attraverso la presentazione di: Bismillah di Alessandro Grande, vincitore del premio come Miglior Cortometraggio ai David di Donatello 2018, Ieri e domani di Lorenzo Sepalone, candidato ai Nastri d’Argento 2018 e Cani di razza di Riccardo Antonaroli e Matteo Nicoletta, premiato come Migliore Opera Assoluta

al Festival Cortinametraggio 2018. Insieme al cinema, come sempre, immancabile protagonista è la musica live, con la voce della bravissima cantante inglese Mara Carlyle, il dj set di Diego De Gregorio e di Andrea Arcangeli. Ospite d’eccezione, l’inglese Andy Turner dei Plaid, esperienza unica per capire quali siano le potenzialità espressive più alte della “musica fatta con le macchine”. Ed Handley e Andy Turner sono attivi fin dalla fine degli anni ’80 con dischi come Not For Threes (1997), Double Figures (2001) e Spokes (2003), considerati pietre miliari nell’ambito dell’elettronica (e non solo). Gli autori, negli ultimi anni, si sono dedicati, in collaborazione con l’artista visuale Bob Jaroc, all’interazione tra musica e immagini con lavori eccezionali come il progetto multimediale Greedy Baby (2006). Nomi di punta dell’etichetta Warp, i Plaid sono da sempre ben al di là dell’elettronica più dozzinale o di moda. Una serata alla ricerca di un’arte raffinata e non scontata.

Tutti i mercoledì sera cinema targato Fabrique al Parterre Farnesina Social Garden, il nuovo luogo pronto ad animare le serate dell’estate romana, organizzato da Arte2o in collaborazione con l’hub culturale della Regione Lazio Officina delle Arti Pier Paolo Pasolini, Laziodisu, Alcazar Live e Spaghetti Unplugged. In programma proiezioni all’aperto e incontri con registi e attori curati dalla rivista. Oltre ai mercoledì, spazio al cinema di Fabrique anche i lunedì 18 giugno, 2 luglio e 9 luglio con gli appuntamenti di LunedìCinema assieme ai The Pills, il gruppo romano che ha conquistato il web approdando nelle sale cinematografiche. Musica, teatro e cinema immersi in 3000 mq di verde tra lo stadio Olimpico e Ponte Milvio; sette giorni su sette di concerti, spettacoli, food truck, beer garden, mixology bar, yoga, attività per bambini e relax immersi nella natura.

FABRIQUE DU CINÉMA

LA CARTA STAMPATA DEL NUOVO CINEMA ITALIANO ESTATE

2018

Numero

21

OPERA PRIMA

“LA TERRA DELL’ABBASTANZA”

Fabrique ha scelto gli spazi suggestivi dell’Ex Dogana di Roma per il suo party di primavera all’insegna del grande cinema.

D’Innocenzo: “Fare cinema è filmare il realismo delle emozioni”

ICONE

AVATI, WINTERBOTTOM E PAZ

Cinema italiano e internazionale, arte: tre maestri di ieri e di oggi

LA CARTA STAMPATA DEL NUOVO CINEMA ITALIANO

EFFETTI SPECIALI

DA SPIELBERG A NETFLIX

La sci-fi alla fine degli anni Dieci: l’eterno ritorno del futuro

ESPRIMI UN DESIDERIO E POI IMPEGNATI A REALIZZARLO CON TUTTO TE STESSO

È il consiglio della giovanissima e determinata Irene Vetere

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DOVE

Come e dove Fabrique

ROMA CINEMA BARBERINI | 06.42010392 | Piazza Barberini, 24/26 CASA DEL CINEMA | 06.423601 | Largo Marcello Mastroianni, 1 EDEN FILM CENTER | 06.3612449 | Piazza Cola di Rienzo, 74 GREENWICH | 06.5745825 | Via G. Battista Bodoni, 59 INTRASTEVERE | 06.5884230 | Vicolo Moroni, 3 MADISON | 06.5417926 | Via G. Chiabrera, 121 NUOVO SACHER | 06.5818166 | Largo Ascianghi, 1 TIBUR | 06.4957762 | Via degli Etruschi, 36 TREVI | 06.6781206 | Vicolo del Puttarello, 25 LOCALI BIG STAR | Via Mameli, 25 KINO | Via Perugia, 34 SCUOLE CENTRO SPERIMENTALE DI CINEMATOGRAFIA | Via Tuscolana, 1520 CINE TV ROSSELLINI | Via della Vasca Navale, 58 GRIFFITH | Via Matera, 3 IED | Via Giovanni Branca, 122 ROMEUR ACADEMY | Via Cristoforo Colombo, 573 SCUOLA D’ARTE CINEMATOGRAFICA GIAN MARIA VOLONTÉ | Via Greve, 61

MILANO CINEMA CINEMA ANTEO | Via Milazzo, 9 SPAZIO OBERDAN | Viale Vittorio Veneto, 2 LOCALI OSTELLOBELLO | Via Medici, 4 NUOVA ACCADEMIA DI BELLE ARTI | Via C. Darwin, 20

BERGAMO CINEMA LAB 80 FILM | Via Pignolo, 123

TORINO CINEMA CINEMA MASSIMO | Via Giuseppe Verdi, 18

BOLOGNA CINEMA CINEMA LUMIÈRE | Via Azzo Gardino, 65

FIRENZE CINEMA CINEMA STENSEN | Viale Don Giovanni Minzoni, 25 CINEMA ALFIERI | Via dell’Ulivo, 6

PISA CINEMA CINEMA ARSENALE | Vicolo Scaramucci, 2

FESTIVAL Cortinametraggio Festa del Cinema di Roma Ischia Film Festival Maremetraggio - International Shorts Film Festival Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia Roma Creative Contest Roma Web Fest Rome Independent Film Festival Visioni Italiane Cineteca di Bologna

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