Giulio Bruno
L’esca di Alarico un’altra indagine del commissario Giannitteri
ISBN: 978-88-6829-043-6 © 2012 Falco Editore Piazza Duomo, 1 – tel. 0984.23137 87100 – COSENZA E-mail: info@falcoeditore.com www.falcoeditore.com Finito di stampare nel mese di settembre 2013 da Grafica Pollino Srl – Castrovillari (CS) per conto di Falco Editore è vietata la riproduzione, anche parziale o ad uso interno o didattico, con qualsiasi mezzo effettuata, non autorizzata dall’Editore in ogni Paese
A Tonino e Brunella, Walter e Gigi, mia moglie Stefania e mio figlio Antonio
Capitolo 1
Quanti gliene mancavano di preciso? E, soprattutto, quali ancora non aveva nominato? Ad occhio e croce una ventina, pensò serio con lo sguardo fisso nel vuoto, gli occhi iniettati di sangue cerchiati dalla stanchezza e dal sonno. Avvertiva un malessere diffuso, un dolore diventato col passare delle ore insopportabile che gli martoriava il cranio e gli faceva pulsare le tempie. Escludendo Eulalia, Isidoro martire, Eriberto, i santissimi Fermo e Rustico, Eleuterio, Giovita, Verdiana e qualche profeta, per il resto i santi li aveva “invocati invano” praticamente tutti. E quelli più importanti e conosciuti, i “big” del miracolo, più di una volta. La festività di Ognissanti era scivolata via tra imprecazioni dissacranti e blasfemie di ogni genere e grado. L’orologio a parete del salotto segnava le tre e venticinque del mattino di un martedì due novembre che si preannunciava a dir poco catastrofico. Stravaccato sulla poltrona, al buio, davanti al televisore dall’audio azzerato che irradiava con luce sinistra le immagini in bianco e nero di un film di guerra degli anni Settanta, Federico Marcillei provava strenuamente a contrastare, tra bestemmie impronunciabili e fitte lancinanti, il mal di denti che da quasi una settimana lo tormentava. Tutto era cominciato con un semplice fastidio vicino al molare, un pizzico quasi impercettibile che lui aveva minimizzato, come sempre accadeva quando si trattava di questioni attinenti alla sua salute. Poi il fastidio era diventato sempre più insistente, al punto che nelle ultime quarantott’ore era stato costretto ad abolire di fatto tutti i cibi solidi. Si nutriva ormai con succhi di frutta (che detestava) e brodini vari. Nonostante la sua proverbiale avversione ai medicinali, si era lasciato vincere dalla disperazione e aveva prestato ascolto alla moglie Tania imbottendosi, obtorto collo, di antidolorifici, cortisonici, antibiotici. Purtroppo non era servito pressoché a nulla. Il dolore gli sembrava addirittura aumentato, con l’aggravante che col passare delle ore era subentrato un forte senso d’irrequietezza, una 7
crescente prostrazione e, come conseguenza, una progressiva mancanza di lucidità. Ce l’aveva con il mondo intero, in primis con la moglie per i consigli rivelatisi inefficaci, e poi con la scienza che produceva e metteva in commercio farmaci inutili. La sua mente vagava senza costrutto, persa dietro a riflessioni prive di senso logico, senza capo né coda. Perché diavolo si chiamano “antibiotici”? Si è mai sentito un umano al quale è stato diagnosticato di essere affetto da una malattia che si chiama “biotico” e che quindi necessità degli “anti” per curarsi?, si chiese a metà tra l’incazzato e il paranoico. «Signore, lei ha gli biotici alti e fuori controllo, mi prenda queste pastiglie due volte al giorno, sempre a stomaco pieno, e vedrà che nel giro di una settimana i suoi biotici cattivi saranno debellati» mormorò a voce bassa in falsetto, nel tipico slang medico. Che stronzata!, pensò mentre lo sguardo allucinato si incantava sull’ipnotico gioco di ombre e luci che le immagini del televisore proiettavano come impazzite sulle pareti della stanza. «C’è poco da fare…» provò a convincersi aspirando dal Montecristo ridotto quasi alla fine. La soluzione al problema era una soltanto: decidersi una volta per tutte a prenotare la visita dal suo dentista di fiducia, e provare a mettere fine a quello strazio. Tuttavia, c’erano almeno un paio di elementi che lo trattenevano dal compiere un gesto per lui così eroico. Il primo, manco a dirlo, era una fifa terribile, anzi, il terrore allo stato puro, per dirla con parole adeguate. Benché, dopo un pellegrinare durato anni, era finalmente riuscito a trovare un dentista paziente e comprensivo – che di fronte alle sue riluttanze da bambino di terza elementare non si perdeva d’animo e con calma certosina portava a termine il lavoro – sempre di dentista si trattava! E lui, che da adolescente aveva vissuto la traumatica esperienza dell’estrazione di un molare, adesso al solo pensiero di trovarsi al cospetto della poltrona equipaggiata dei vari attrezzi di tortura si sentiva letteralmente svenire. E un paio di volte nel recente passato se l’era addirittura data a gambe. Il secondo motivo era la scarsa cura prestata ai suoi denti cosicché, contravvenendo alle indicazioni che lo stesso dentista in qualche rara visita gli aveva dato, puntualmente si ritrovava a dover rimediare alle proprie negligenze nelle settimane (a volte nei giorni) che precedevano l’incontro.
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Mi raccomando, signor Marcillei, adoperi il filo interdentale e mi faccia gli sciacqui col collutorio, la semplice pulizia con lo spazzolino tre volte al giorno non è sufficiente, gli sembrava di sentire l’eco delle perentorie esortazioni ormai imparate a memoria. «Tre volte al giorno!!!», si lasciò scappare affranto e dolorante. Lui, lì per lì, annuiva poi, come al solito, faceva di testa sua. I denti li lavava solo la sera prima di andare a letto (figurarsi se portava in banca, sul posto di lavoro, lo spazzolino e il dentifricio!), il filo interdentale non sapeva nemmeno come si adoperasse e il collutorio non era mai entrato in contatto col suo palato. Per cercare di farla franca al cospetto del dentista, utilizzava la stessa tattica degli studenti che provano a recuperare un anno trascorso senza aprire libro passando l’ultima settimana a bombardarsi di nozioni nel vano tentativo di ingannare i professori: nell’approssimarsi dell’appuntamento con l’odontoiatra, si tormentava le gengive fino a farle sanguinare lavandosi i denti anche sei volte al giorno! Il risultato, tutt’altro che lusinghiero, era la solita classica figura di merda. In ultimo, tirate le somme, andava considerato anche un ulteriore motivo che lo frenava dal fissare l’appuntamento: l’inosservanza del piano annuale di incontri. Si ricordi, ragioniere, almeno due volte l’anno per la pulizia e un controllo, gli veniva sempre ribadito, ma era come se il dentista predicasse nel deserto, a lui da un orecchio entrava e dall’altro usciva. Le sue apparizioni si materializzavano solo quando il fastidio diventava insopportabile, quindi con una frequenza all’incirca pari a quella dei mondiali di calcio, una volta ogni quattro anni. Stremato dal dolore, si alzò dalla poltrona e si avvicinò alla portabalcone che dava sul giardinetto, scostando le tende per guardare fuori. Lo spazio antistante, una cinquantina di metri quadrati in tutto, era affogato nel buio della notte, sferzato dalla pioggia battente e da forti raffiche di vento. La sottile struttura in ferro battuto del gazebo, priva della copertura in tela verde che lui provvedeva a rimuovere alla fine di ogni estate, sussultava ad ogni folata, ma inchiodata com’era al pavimento, non si sarebbe divelta. Sul tavolo in pietra lavica l’acqua scivolava veloce per accanirsi su quel che restava dei suoi adorati gerani. Gli alberi d’arancio e di albicocco, come pure l’alta siepe che delimita-
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va il confine del giardinetto, sembravano impazziti in quel frenetico rock and roll che il vento imponeva a un ritmo impetuoso. Era affascinato dalle tempeste e da tutti gli elementi che si scatenavano, il temporale sconvolgeva la calma piatta e l’ordinarietà delle cose. Preferiva senza dubbio l’inverno con freddo e pioggia annessi alla insopportabile calura estiva. Quel clima, paradossalmente, lo rinvigoriva e gli procurava piacevoli sensazioni restituendogli vitalità, a differenza delle banali e afose giornate estive. Sarebbe rimasto a godersi lo spettacolo della pioggia persino con quel mal di denti sennonché un lampo improvviso abbagliò per pochi istanti l’ambiente, e il fragore del tuono a seguire provvide a scuoterlo da quello stato di catalessi. La stanchezza stava prendendo il sopravvento, per cui si convinse che era meglio provare a prendere sonno, nella speranza di riuscire a riposare almeno qualche ora prima che la sveglia delle sei decretasse l’inizio di un’altra settimana di lavoro. «Sai che ti dico?», sussurrò a se stesso in un impeto di determinazione e rabbia. «Domattina prima chiamo il direttore Rafizio e lo avviso che non vado al lavoro, poi telefono a ’sto cazzo di dentista e prendo appuntamento per domani stesso. Così la chiudiamo lì!» affermò immaginando con sadica soddisfazione la faccia smunta del suo superiore nell’apprendere la notizia della sua assenza. Lavorava in banca da una ventina d’anni, e il suo rapporto con Rafizio era da sempre condizionato da una sincera antipatia. Quella flebile euforia venne bilanciata per contrappasso e si spense nel giro di qualche nanosecondo al pensiero dell’inevitabile incontro ravvicinato col dentista. Tirò rassegnato l’ultima boccata dal sigaro, spense la tv e quasi trascinando i piedi fece una breve sosta in bagno, giusto il tempo di constatare che il gonfiore del suo viso, dovuto all’ascesso in corso, non era diminuito neppure un po’. O così almeno gli sembrava. Esitò qualche istante di fronte allo specchio. La barba lunga di tre giorni favoriva e risaltava l’incipiente peluria bianca che, in modo inesorabile, continuava ad estendere i propri confini sul suo viso di quasi quarantacinquenne come in uno spietato Risiko da conquistare. Quell’immagine pressoché inedita catturò la sua attenzione fino a quando l’ennesimo tuono esplose senza preavviso con rinnovato vigore. Di colpo andò via la luce e la casa fu inghiottita dal buio cosmico.
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In lontananza si udiva l’abbaiare nevrotico dei cani mentre lo scroscio della pioggia andava via via aumentando d’intensità. Considerata la precaria situazione, rinunciò allo sciacquo con aceto, altro rimedio – rivelatosi inefficace – che suo padre gli aveva “venduto” come autentico toccasana, e con svogliata lentezza iniziò a salire a tentoni le scale interne verso la camera da letto. Sembrava un alpinista in arrampicata verso la cima più ardua, ma dopo appena quattro gradini si impose, suo malgrado, di fare una breve sosta costringendosi desolatamente ad ascoltare. Dal piano superiore, infatti, giungevano inequivocabili i suoni prodotti da coloro che nemmeno le cannonate temporalesche avevano ridestato dal letargo profondo nel quale ogni maledetta, santissima notte precipitavano. Un ronzio soffuso ma persistente, simile a quello delle lavatrici di penultima generazione, proveniva dalla stanza da letto dove riposava la moglie. Dal lato opposto del piccolo corridoio, un ronfo a tratti baritonale generava certe lugubri sonorità che ricordavano le atroci sofferenze pre-mortali dell’orso Grizzly del Montana. Suo padre Antonio Marcillei, quasi settantacinquenne, sordo da un orecchio e con un principio di Alzheimer, si era trasferito a casa loro da sette mesi, da quando in pratica era rimasto vedovo. Dopo un’estenuante trattativa tra le parti, gli era stata concessa in “diritto d’uso” la stanzetta del nipote di otto anni, non senza resistenze di quest’ultimo che – di malavoglia e dietro ricompensa di tre videogiochi – aveva accettato il trasferimento nella camera da letto dei genitori. Purtroppo non era stato quello l’unico cambiamento apportato all’organizzazione familiare: la gestione del vecchio, con i suoi orari e le sue necessità, aveva costretto tutti a rimodulare per quanto possibile le proprie abitudini in funzione del nuovo ospite. Gli orari dei pasti, le uscite per la spesa, i periodi di vacanza, le cure e l’assistenza da prestare all’anziano genitore e perfino i programmi da guardare in televisione, dato che nonno Antonio era, al di là dell’aspetto mite, incline al perenne brontolio. Con il nipotino, che portava il suo stesso nome, nonostante il forte legame, esistevano alcuni punti di attrito: intanto la vertenza sempre aperta circa la titolarità della camera da letto e poi l’esclusiva sulla scelta dei programmi tv del primo pomeriggio. Contrariamente alle nefaste previsioni iniziali, la cosa più semplice da affrontare si era rivelata la gestione del periodo immediatamente successivo alla scomparsa della congiunta. Infatti, l’elaborazione del
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lutto da parte dell’anziano era avvenuta in tempi rapidissimi, senza che egli mostrasse di aver accusato più di tanto il colpo. Marcillei aveva in buona parte attribuito la cosa al progressivo rimbambimento del padre e ne aveva avuto conferma da un episodio a dir poco grottesco capitato in occasione della veglia funebre in chiesa, il giorno prima del funerale di sua madre. Con familiari e parenti stretti intorno al feretro, chi a testa bassa in silenzio e chi a piagnucolare pronunciando parole incomprensibili, l’aria impregnata di incenso, con la luce fioca e rarefatta dei lumini che ondeggiava su dipinti sacri e statue di gesso e marmo proiettando schizofreniche ombre sui muri, il vecchio se ne stava in silenzio con lo sguardo inchiodato sulla bara. Poi, tutto ad un tratto, una musica improvvisa squarciò quell’atmosfera di assoluta compostezza. Le note de Il cielo è sempre più blu, successo del compianto Rino Gaetano, invasero la navata centrale propagandosi dall’altare dove era posizionato il feretro fino al portone d’ingresso. Tra le occhiatacce e lo sconcerto dei presenti, una nipote della defunta si alzò trafelata dal banco in prima fila, non prima d’aver nervosamente frugato nella borsa ed estratto – dopo un lasso di tempo che era sembrato interminabile – il telefonino cellulare la cui suoneria, impostata al massimo del volume, veniva amplificata dalla forte eco. La poveretta, avanti negli anni e zitella per costrizione, nel tentativo di sottrarsi il prima possibile all’imbarazzo che la attanagliava, inciampò nell’inginocchiatoio proprio all’uscita del banco, finendo distesa a terra sotto il carrello a rotelle che sorreggeva la bara e trascinando con sé un paio di corone. Nell’urto contro il pavimento, il telefonino le sfuggì di mano e, senza smettere di suonare, andò ad infilarsi, come una biglia quando impatta con la stecca dopo un preciso colpo di biliardo, in una intercapedine alla base dell’altare. Si udì un tonfo secco e la musica cessò, nel mentre che la sventurata veniva aiutata a rialzarsi per poi essere portata fuori a spalla a prendere un po’ d’aria. La situazione si ricompose in pochi minuti, l’atmosfera tornò quella silente e raccolta di qualche istante prima, mentre il papà di Marcillei continuò come se nulla fosse accaduto a fissare la bara. Disgraziatamente, dopo pochi minuti, la musica riattaccò tra l’incredulità e lo sgomento generale. Con tutta probabilità, il telefonino era caduto in un pozzetto poco profondo rimanendo intatto, e chi aveva chiamato in precedenza senza ottenere risposta stava riprovando a mettersi in contatto con la proprietaria dell’apparecchio.
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La canzone durò circa due minuti, poi tornò il silenzio, molti si scambiarono uno sguardo di assenso e in modo quasi meccanico ritrovarono in un battito di ciglia l’espressione costernata prevista dal protocollo. Trascorse un quarto d’ora e nessuno pensava più all’incubo telefonico quando l’illusione della ritrovata calma fu violentemente spazzata via dalla voce di Rino Gaetano, che ricominciò a diffondere la sua hit più famosa tra i gridolini isterici delle donne, oltre ai vari Noooo!!!, Ancora?!?, E che cazzo!!!, fino agli improperi più indicibili pronunciati a denti stretti da Marcillei. Siccome stavolta la musica non accennava a placarsi, alcuni dei presenti decisero di fare qualcosa per cercare di porre rimedio al problema. Per prima cosa, spostarono il carrello della bara e infilarono la mano nell’intercapedine nel disperato tentativo di prelevare quel maledetto cellulare, ma la fessura si rivelò troppo stretta. Un fratello della defunta, un ex impiegato delle poste sulla settantina, allora propose di gettare dell’acqua nel pozzetto perché – raccontò – una volta gli era capitato che il cellulare gli cadesse nel bidet di casa andando fuori uso. «Non c’è stato verso, non si è più riacceso!» continuava a ripetere a mo’ di cantilena. A Marcillei giravano i coglioni stile pale eoliche, e ci mancò poco che dopo aver domandato allo zio la ragione per la quale faceva il bidet col cellulare in mano, la situazione non degenerasse completamente. Anche perché, nel frattempo, era sopraggiunto tutto trafelato il parroco, allarmato da un suono che non era quello abituale dell’organo e che, a suo dire, inquinava la sacralità del luogo. Come se tutto ciò non bastasse, impiegarono dieci minuti buoni a convincere l’anziano prelato che la musica non proveniva dall’interno della bara, visto che in un primo momento, dopo aver sostato per qualche secondo con l’orecchio sul cofano funebre, il prete aveva manifestato la necessità di aprire la cassa e ispezionarne il contenuto. Impassibile al cospetto del teatrino che si stava tenendo a pochi passi da lui, il papà di Marcillei non si mosse di un millimetro. Sembrava imbalsamato. Insomma, dato che la musica smetteva e ricominciava con estenuante regolarità, dopo circa tre quarti d’ora, parenti e familiari, coi nervi a fior di pelle, decisero di uscire dalla chiesa e di ritrovarsi il giorno
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dopo per il funerale, confidando nel fatto che la batteria del cellulare si sarebbe nel frattempo esaurita. L’ultima immagine di quella veglia fu la cassa da morto sistemata davanti all’altare di una chiesa malinconicamente deserta, con la voce di Rino Gaetano a fare da colonna sonora. Nel salutare i parenti davanti al sagrato, con l’eco della suoneria in sottofondo, finalmente il papà di Marcillei dette un segno di vita lasciandosi andare in un pianto disperato e irrefrenabile. Qualcosa di incomprensibile era scattato nel suo cervello. Dal quel momento in avanti, infatti, si sarebbe potuto parlare in sua presenza della defunta moglie, degli eventi del passato anche felici come nascite e matrimoni senza che il vecchio avesse la minima reazione. Quasi non ci faceva caso. Ma se per disgrazia la radio o la televisione o addirittura qualcuno avesse intonato le prime note de Il cielo è sempre più blu, la situazione sarebbe precipitata e si sarebbe reso necessario il ricorso ai sedativi. Fortunatamente il giorno successivo, quello del funerale, il cellulare restò muto. «Al primo accenno musicale, interrompo la funzione!» aveva minacciato il prete come se la cosa fosse dipesa da qualcuno di loro. L’unico disturbo fu provocato da qualche impercettibile bip che ogni tanto ricordava ai presenti che la batteria stava scaricandosi e che, nonostante tutto, il “mostro” era ancora vivo, pronto a scatenare i propri decibel al momento meno opportuno. Riprese a salire sconsolato le scale verso la stanza da letto, già consapevole che al dolore dei denti e alla stanchezza si sarebbe unito il doppio russare fastidioso di quel “concerto da camera per strumenti a fiato”, con la grancassa dei tuoni a fungere da accompagnamento. Nel lungo dormiveglia che lo accompagnò prima di un sonno agitato, quel mix di suoni si fuse nella sua testa diventando un unico terrificante ronzio, che lo fece rabbrividire di paura e gli aumentò l’agitazione: ricordava quello del trapano del dentista.
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