Dalle belle città date al nemico

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Cesare Panizza

Dalle belle città date al nemico il PARTIGIANATO in provincia di ALESSANDRIA

€ 19,00

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Cesare Panizza, dottore di ricerca in Storia delle società contemporanee presso l’Università degli Studi di Torino, ricercatore dell’Istituto per la storia della resistenza e della società contemporanea in provincia di Alessandria “Carlo Gilardenghi”, è coordinatore del Comitato scientifico della rivista dell’ISRAL, “Quaderno di storia contemporanea”, ed attualmente docente a contratto di storia contemporanea presso l’Università degli Studi del Piemonte Orientale - sede di Alessandria. Il suo volume Nicola Chiaromonte. Una biografia (1905-1972) (Donzelli, 2017) ha vinto il Premio Acqui Storia 2018 e il Premio Giacomo Matteotti 2019.

Dalle belle città date al nemico il PARTIGIANATO in provincia di ALESSANDRIA

Chi sono questi partigiani? Quanti sono? Perché operano in quel territorio e non in un altro? In che misura riflettono i caratteri della società in cui operano? E come si rapportano con essa? Con quali componenti della società interagiscono? A queste domande e a molte altre il lavoro di Panizza cerca di fornire gli elementi per rispondere e per attivare percorsi che spostino in avanti la riflessione e la conoscenza. Questa operazione implica un costo, ossia la non facile leggibilità di un testo che può concedere poco alla bella scrittura e molto invece alla precisione dell’analisi. È però un costo necessario per il suo carattere di prova sperimentale da riprodurre su scale più ampie. Per uno scenario di studi che potrebbe presto diventare importante. Lo scorso anno il MIBACT e l’Istituto nazionale “F. Parri” si sono fatti promotori di un’iniziativa per la costruzione di un data base in cui raccogliere le schede di tutte e dieci le Commissioni regionali di riconoscimento delle qualifiche partigiane. Un obiettivo che richiederà molta cura e molte esperienze di “avvicinamento” come quella che con questo lavoro Cesare Panizza ha provato a fare e di cui gli dobbiamo essere grati.

Cesare Panizza

Presentazione di Claudio Dellavalle

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Cesare Panizza

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ALESSANDRIA


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EDIZIONI

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Cesare Panizza

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Questo volume è edito con il contributo della Direzione generale per le biblioteche, gli istituti culturali ed il diritto d’autore.


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Sommario

Presentazione di Claudio Dellavalle

p. 9

Premessa: la trama e l’ordito

p. 12

L’ordito: la resistenza alessandrina per provenienza geografica e sociale

p. 22

Inserto 1

p. 95

La trama: le formazioni partigiane

p. 104

Sguardo d’assieme sullle formazioni partigiane della provincia

p. 184

Conclusioni

p. 195

Inserto 2

p. 198


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Presentazione di Claudio Dellavalle

Cesare Panizza con questo lavoro affronta l’analisi del movimento di resistenza nel territorio alessandrino utilizzando in modo sistematico una fonte di tipo seriale. Si tratta delle schede con cui la Commissione piemontese per il riconoscimento delle qualifiche partigiane, istituita nell’immediato dopoguerra insieme ad altre nove Commissioni regionali, ha proceduto al riconoscimento delle attività svolte per la lotta di liberazione. Le schede sono state inserite in un data base, a cui è stato dato il nome di “Partigianato piemontese e società civile”. Iniziato in occasione delle celebrazioni del 50° anniversario della Liberazione il data base è stato integrato con successivi apporti. Vi hanno lavorato 6 Istituti di storia della Resistenza piemontesi, coordinati fra di loro, al fine di preservare e valorizzare attraverso gli strumenti digitali una fonte altrimenti utilizzabile solo in modo del tutto parziale. L’obiettivo è stato quello di fornire agli studiosi, e in generale ai cittadini, uno strumento fondamentale di conoscenza di una vicenda che resta centrale nella storia del nostro paese. Il data base oggi raccoglie 108.957 schede: consente la consultazione diretta delle singole schede e permette di aggregarne i dati per rispondere alle molteplici domande che nascono quando si cerca di avvicinare un fenomeno complesso e differenziato come è stato in Italia il movimento di liberazione. L’autore ha fatto parte del gruppo di ricercatori che in anni recenti ha compiuto operazioni di integrazione e ripulitura del data base e ha voluto con questo lavoro sperimentarne le potenzialità. Operazione che potrebbe sembrare relativamente semplice perché condotta su una parte limitata del territorio piemontese e che invece si è rivelata notevolmente complessa poiché il movimento partigiano non solo conosce forme assai differenziate di presenza sul territorio, ma tali informazioni variano nel tempo e nello spazio. Ne deriva perciò una massa notevole di cifre, di prospetti, di schemi, di grafici. Per razionalizzare questa complessa materia l’autore utilizza un’efficace metafora. Il tessuto del movimento partigiano viene definito attraverso i dati riguardanti la provenienza geografica e sociale dei suoi componenti (l’ordito) e secondo la forma organizzativa che assume la formazione partigiana di

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appartenenza (la trama). Per semplificare si può dire che l’insieme dei dati così organizzati concorre alla definizione di un identikit del movimento partigiano alessandrino composto da una serie di variabili “sociologiche” come i luoghi di nascita, di residenza, di sesso, di età, per arrivare alle variabili più connesse alla dimensione sociale come il titolo di studio (informazione purtroppo carente) o la professione o i riferimenti alle esperienze militari precedenti quella resistenziale. Infine si fa riferimento a variabili più marcatamente soggettive come l’organizzazione politico militare prescelta o le figure di comando delle sette divisioni partigiane attive nell’area alessandrina nella fase finale dell’esperienza resistenziale: la Divisione “Mingo”, la Divisione “Pinan Cichero”, la X Divisione Garibaldi “Italia”, la VII Divisione GL “Braccini”, la XVI Divisione Garibaldi “Viganò”, la Divisione Matteotti “Marengo”, la VII Divisione Autonoma “Patria”. Oppure con l’attenzione ai nomi di battaglia, che aprono una finestra sull’immaginario del mondo partigiano attraverso il gioco dei nomi che, da un lato nascondono e dall’altro rivelano qualcosa dell’identità di chi li assume. In entrambi i casi, quadri di comando e nomi di battaglia, si tratta di indicazioni di percorsi possibili per transitare dalla dimensione quantitativa, che è prevalente, a quella qualitativa, ossia a quella dimensione che fa di ogni formazione un qualcosa di unico. D’altra parte è l’esperienza partigiana nel suo insieme ad essere un fenomeno unico nella storia dell’Italia del Novecento. Ciò che la ricerca suggerisce è che attraverso queste procedure di studio che utilizzano strumenti e metodi in passato non disponibili si può dare un nuovo apporto alla riflessione storica che ora può disporre di nuovi elementi di conoscenza. Ad esempio, rendendo possibile seguire da vicino l’andamento di crescita, di sviluppo, ma anche in alcuni passaggi di crisi del movimento partigiano sottolineandone la variabilità nel tempo e dunque la specificità che non può essere quella di una struttura militare tradizionale, come invece cercano di essere, anche se non ci riescono, le forze armate della RSI. Certo, anche per il movimento partigiano la dimensione militare è imprescindibile; non a caso le forme organizzative per molti aspetti richiamano le forme, gli stilemi della tradizione militare. E tuttavia l’esperienza partigiana implica un elemento di soggettività irriducibile, che insiste nel principio della scelta del singolo e che a sua volta implica il principio della responsabilità. Scelta e responsabilità costituiscono i tratti originari della banda partigiana quale si struttura nelle fasi iniziali, ma in realtà caratterizzano tutta l’esperienza

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resistenziale. Perché se sono molteplici i percorsi con cui si compie la scelta partigiana sono anche molteplici i passaggi e le forme con cui questa viene confermata, come la ricerca di Panizza ci dice. Il dato di libertà, di scelta che fa di un civile un partigiano, resta un segno di fondo su cui si costruisce l’“unicum” dell’esperienza partigiana. È qui che si origina la forza morale, che si fa militare e politica, che tiene insieme il movimento e che si proietta sul dopoguerra. Di qui la necessità, il dovere di conoscere quell’esperienza con tutti gli strumenti di cui disponiamo per rispondere al meglio alle domande: Chi sono questi partigiani? Quanti sono? Perché operano in quel territorio e non in un altro? In che misura riflettono i caratteri della società in cui operano? E come si rapportano con essa? Con quali componenti della società interagiscono? A queste domande e a molte altre il lavoro di Panizza cerca di fornire gli elementi per rispondere e per attivare percorsi che spostino in avanti la riflessione e la conoscenza. Questa operazione implica un costo, ossia la non facile leggibilità di un testo che può concedere poco alla bella scrittura e molto invece alla precisione dell’analisi. È però un costo necessario per il suo carattere di prova sperimentale da riprodurre su scale più ampie. Per uno scenario di studi che potrebbe presto diventare importante. Lo scorso anno il MIBACT e l’Istituto nazionale “F. Parri” si sono fatti promotori di un’iniziativa per la costruzione di un data base in cui raccogliere le schede di tutte e dieci le Commissioni regionali di riconoscimento delle qualifiche partigiane. Un obiettivo che richiederà molta cura e molte esperienze di “avvicinamento” come quella che con questo lavoro Cesare Panizza ha provato a fare e di cui gli dobbiamo essere grati. Torino, gennaio 2020

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Premessa: la trama e l’ordito Da sempre – si sarebbe tentati di dire dal momento stesso in cui la resistenza ebbe corso e certo immediatamente dal suo termine – ci si è interrogati su quanti fossero e su chi fossero i partigiani. Due domande fra loro strettamente intrecciate, la cui non facile soluzione solleva immediatamente una terza questione, quella relativa a chi possa essere legittimamente definito “resistente”, una categoria descrittiva in cui l’inclusione/esclusione di determinati comportamenti politici e sociali è stata soggetta a una continua ridefinizione nel tempo, in ragione del lavoro degli storici come del mutamento di sensibilità e mentalità diffuse in proposito nella nostra società. Obiettivo di questo lavoro, condotto con gli strumenti della storia quantitativa, è allora quello di provare a fornire qualche risposta ai due primi quesiti (non ignorandone la connessione con il terzo), tracciando per un territorio limitato – quello della provincia di Alessandria – il profilo socio-demografico del partigianato. Esso si avvarrà come fonte del database “Partigianato piemontese e società civile”, disponibile in rete sul sito dell’Istituto piemontese per la storia della resistenza e della società contemporanea “Giorgio Agosti”. È come il lettore potrà constatare una fonte di eccezionale utilità sia per lo studio del movimento resistenziale, sia della società piemontese e italiana del tempo. Questo lavoro vorrebbe esplorarne le potenzialità, pur tenendone ben presenti i limiti intrinseci. Va dunque preliminarmente spesa qualche parola in proposito. La genesi del database “Partigianato piemontese e società civile” risale al 1992 quando nel quadro delle iniziative per il cinquantesimo anniversario della Liberazione gli istituti per la storia della resistenza piemontesi – quello regionale di Torino e gli istituti provinciali di Alessandria, Asti, Cuneo, Novara e Vercelli – avviarono un lavoro di ricerca comune, coordinato da Claudio Dellavalle e finanziato dalla Regione Piemonte, al fine di mettere a punto uno strumento in grado di quantificare il movimento resistenziale piemontese e consentire di precisarne il profilo demografico e sociologico. Si trattava di un’impresa ancora mai tentata dalla nostra storiografia, se non su aree molto più circoscritte e perlopiù su singole formazioni partigiane.1 In quelle proporzioni, l’avevano fino a quel momento sconsigliata, oltre alla tradizionale diffidenza italiana verso la storia quantitativa, l’enormità e la complessità dei

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dati su cui ci si sarebbe dovuti esercitare, ma anche la mancanza di una fonte seriale sufficientemente omogenea – per informazioni in essa contenute e modalità di produzione delle stesse – per tutto il territorio regionale. Mentre lo sviluppo delle tecnologie informatiche rendeva infine superabile il primo problema, diminuendo notevolmente la mole di lavoro necessaria, il secondo era risolto dall’acquisita disponibilità di una documentazione finalmente adatta all’obiettivo, quale quella prodotta dalla Commissione regionale piemontese per il riconoscimento delle qualifiche partigiane, custodita presso l’Archivio dell’Ufficio per il riconoscimento delle qualifiche e delle ricompense ai partigiani al Ministero della difesa (RICOMPART).2 Con il decreto luogotenenziale del 21 agosto 1945, n. 518, erano state costituite dieci commissioni regionali (Piemonte e Val d’Aosta, Liguria, Lombardia, Emilia-Romagna, Veneto-Trentino-Friuli Venezia Giulia, Toscana, Umbria, Marche, Lazio, Campania) e una Commissione d’appello – competente anche per chi avesse combattuto nel movimento di liberazione di altri paesi – per definire e valutare la posizione di coloro che avevano preso parte alla resistenza. Le commissioni, presiedute da un militare ma composte da rappresentanti dell’ANPI, avrebbero lavorato fino al 1948, ma nei decenni successivi seppur per breve tempo si aprirono “brevi finestre” per sottoporre nuove domande o fare richiesta di rivalutazione. Il decreto stabiliva i criteri per la concessione della qualifica di partigiano combattente, caduto, mutilato o invalido, per ottenere il quale era necessario aver militato in una formazione partigiana per un periodo non inferiore ai tre mesi e aver preso parte ad almeno tre azioni militari. A quanti pur avendo aderito attivamente a una formazione partigiana non soddisfacessero pienamente i criteri sopra menzionati, veniva invece riconosciuta la qualifica di «patriota». Va qui segnalata una prima specificità piemontese. Sulla base di un precedente decreto luogotenenziale (Dll. del 5 aprile 1945, n. 158), la commissione regionale piemontese introdusse una categoria ulteriore, quella di «benemerito» per gratificare coloro che, pur non avendo preso direttamente parte ai combattimenti, avessero comunque svolto un’opera di supporto al movimento di liberazione. Era un’estensione della definizione di «resistente», che adottando un criterio non puramente militare, riconosceva – anche se imperfettamente – il ruolo di quella “resistenza senz’armi” che innervando la società civile durante i “venti mesi” aveva precostituito la possibilità stessa dell’esistenza del movimento partigiano. Infine, il decreto luogotenenziale stabiliva l’equiparazione a tutti gli ef-

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fetti dei partigiani combattenti ai militari volontari operanti nelle unità regolari delle Forze armate durante la guerra di Liberazione, estendendola nei soli aspetti economici anche alle donne. La competenza delle commissioni regionali non coincideva necessariamente con i confini amministrativi. Il decreto infatti prevedeva che i richiedenti dovessero istruire la propria domanda di qualifica, indipendentemente dal luogo di residenza, presso la commissione della regione in cui la loro formazione partigiana era stata smobilitata dopo la fine del conflitto. Nel caso piemontese, questo significò per migliaia di persone l’obbligo di presentare domanda presso la commissione ligure – gli afferenti alle formazioni della provincia di Alessandria e in parte di Cuneo impegnate nella liberazione di Genova e Savona – o presso quella lombarda – gli afferenti alle formazioni della provincia di Novara impegnate nella liberazione di Milano. Come vedremo i dati di questi individui vennero acquisiti molto più tardi dal database del partigianato piemontese, mentre le informazioni riportate nelle schede che li riguardano – che peraltro si discostano parzialmente da quelle in uso in Piemonte – appaiono assai meno ricche di informazioni. Quale fonte per la costituzione del database vennero utilizzate le schede riassuntive compilate dalle commissioni per ciascuna domanda e non i ben più ampi – ma non standardizzati nel loro contenuto – fascicoli personali. Le schede presentano i dati essenziali relativi ai richiedenti, a partire da quelli anagrafici, alcune informazioni relative al profilo socio-professionale (titolo di studio, occupazione) e alla carriera partigiana (con le indicazioni delle formazioni nelle quali il richiedente aveva militato – con la possibilità di indicarne fino a tre –, del momento in cui si era fatto ingresso in formazione e del tempo trascorsovi, del nome di battaglia, di eventuali responsabilità di comando e dei gradi ottenuti), la carriera militare precedente all’esperienza resistenziale (con l’indicazione dell’arma, del grado, del distretto di arruolamento), l’eventuale incorporamento nelle file della RSI, la qualifica ottenuta. Non mancano naturalmente alcuni dati biografici relativi all’esperienza della guerra di liberazione rilevanti ai fini del riconoscimento della qualifica: in particolare gli arresti, i ferimenti o le violenze subite e per i caduti il luogo, la data e le modalità della morte. Nei casi più controversi si hanno anche brevi annotazioni che rimandano spesso alla documentazione contenuta nei fascicoli. Il lavoro di riversamento dei dati in ambito digitale si è concluso definitivamente solo nel 1997. Per dare un’idea della sua mole basti ricordare che si

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trattò di fotocopiare e trascrivere più di 160.000 pagine. Nel 1995, in occasione del 50° anniversario della Liberazione, nel convegno “Partigianato piemontese e società civile” (Torino, 27-28 aprile 1995) si tentò anche una prima elaborazione delle informazioni ottenute. Restituendo un’immagine meno stereotipata del partigianato piemontese e della sua complessità sociale e geografica, quella ricognizione rappresentava un solido punto di partenza per approfondimenti successivi, che però necessitavano di un ulteriore affinamento dei dati3. In questa prima fase, sia per ragioni di tempo, sia soprattutto per rispetto della fonte, le informazioni erano infatti state trascritte come si presentavano sulle schede, rimandando a un momento successivo il non semplice problema della loro uniformazione, nonché della individuazione e correzione di eventuali inesattezze, riconducibili anche alla quantità dei passaggi e delle rielaborazioni che i dati avevano conosciuto: dalla dichiarazione del richiedente, alla loro registrazione da parte degli addetti alla raccolta e al vaglio delle domande, fino al loro riversamento nel database (le schede erano state talvolta compilate a mano). La questione della normalizzazione dei campi, già di per sé complessa per quanto riguardava nomi, cognomi, toponimi riportati in maniera errata o secondo l’uso locale, diveniva di ancor più difficile soluzione in merito alle professioni – spesso indicate in maniera generica o ambigua – e alle formazioni partigiane, per la presenza di più varianti della stessa denominazione e per la confusione operata dagli stessi richiedenti fra divisioni, brigate, distaccamenti, bande ecc. Vedremo come ciò invaliderà in parte il tentativo qui effettuato di ricostruire il profilo socio-demografico di tutte le formazioni dell’Alessandrino. Caricato originariamente in una scheda informatica realizzata in DB IV e successivamente trasferito in Access, il database Partigianato piemontese e società civile – grazie al contributo della Compagnia di San Paolo – è stato nel 2004 reso consultabile prima nella rete intranet dell’Istituto piemontese per la storia della resistenza e della società contemporanea (ISTORETO) e dal maggio 2005 pubblicato on-line4. In questa occasione, con il fine di migliorarne le funzioni di ricerca è stata realizzata da Carlo Pischedda (che per l’istituto piemontese ne cura la revisione) una pratica interfaccia di accesso ai dati. Nel corso degli anni successivi il database è stato oggetto di una costante manutenzione da parte dell’ISTORETO con il supporto degli altri istituti piemontesi. Con la sua pubblicazione in rete il lavoro di revisione si è avvalso anche del riscontro degli utenti – in particolare ma non solo delle famiglie dei

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richiedenti qualifica – che possono richiedere la correzione di dati eventualmente errati presentando una adeguata documentazione. Nel 2016 è stata intrapresa da un gruppo di ricercatori degli istituti piemontesi – a cui chi scrive ha partecipato su designazione dell’Istituto per la storia della resistenza e della società contemporanea in provincia di Alessandria “Carlo Gilardenghi” – una sua parziale revisione finalizzata a uniformare complessivamente parte delle informazioni presenti, in particolare normalizzando i dati relativi ai comuni e alle provincie di nascita e di residenza. Il lavoro era infatti stato promosso nell’ambito di una ricerca più complessiva sul Partigianato meridionale in Piemonte, finanziata dalla Struttura di missione per gli anniversari di interesse nazionale della Presidenza del Consiglio, diretta da Claudio Dellavalle e condotta dagli istituti storici della resistenza di Piemonte, Puglia, Calabria, Campania, Sardegna e Sicilia.5 Per permettere l’individuazione del maggior numero di partigiani originari delle regioni meridionali, la revisione del database si è concentrata sulla precisazione dei toponimi (e sull’attribuzione laddove mancante della provincia di nascita e/o di residenza) – ma si è anche proceduto alla normalizzazione fin dove possibile delle informazioni relative alla professione – nonché sull’integrazione delle schede di coloro che, come accennato, pur militando in formazioni partigiane insistenti sul territorio piemontese, avevano presentato la domanda di qualifica presso la commissione ligure o lombarda (rispettivamente 4.573 e 12.009 persone). Il numero dei nominativi nella banca dati del partigianato piemontese è così giunto alla ragguardevole cifra di 108 mila. I 7.922 meridionali fra essi presenti sono confluiti in un ulteriore database6 che, integrato con il metarchivio “Archos biografie”, ha completato qualitativamente le informazioni contenute nelle singole schede, arricchite ora dal prezioso lavoro di ricerca svolto sul campo dai ricercatori degli istituti meridionali. Fin qui, ad oggi, la storia della nostra fonte. Per un suo uso corretto, vista peraltro la sua vastità, ne vanno però tenuti conto – come si accennava – i limiti intrinseci. In primo luogo, il fatto di costituire, contrariamente alla documentazione prodotta direttamente dalle formazioni partigiane, una fonte non coeva – in taluni casi successiva anche di diversi anni (benché nella maggior parte dei casi la richiesta di qualifica fosse stata avanzata nell’immediato dopoguerra) – alle vicende cui essa si riferisce, producendo inevitabilmente delle distorsioni sulle informazioni in esso contenute. Secondariamente il fatto di essere il risultato del lavoro di tre diverse commissioni – oltre alla piemontese,

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quella ligure e quella lombarda – ciascuna con propri criteri di valutazione e con gradi differenti di accuratezza nella raccolta dei dati. Valga ad esempio il fatto che la maggioranza dei richiedenti qualifica presso la commissione ligure omisero il dato della residenza. Non è possibile stabilire se ciò avvenisse per loro sciatteria e di chi istruiva le domande o perché, ancora vigenti le disposizioni anti-urbanesimo fasciste, quello della residenza era in qualche modo un dato sensibile. Quale ne fossero le ragioni, dal momento che riguarda perlopiù richiedenti qualifica della provincia di Alessandria, quella sufficienza nel raccogliere i dati di allora inficia molte delle elaborazioni possibili oggi. Last but not least, non va poi naturalmente dimenticato come non tutti coloro che presero parte al movimento partigiano abbiano fatto domanda di qualifica, vuoi per ignoranza, vuoi intenzionalmente: tutto lascia pensare che alcune categorie sociali e demografiche siano quindi sottorappresentate (perlopiù le donne e i partigiani forestieri rientrati nelle zone d’origine dopo la guerra). E all’inverso, va detto che nel database sono presenti anche le schede di coloro la cui richiesta di qualifica ebbe esito negativo. Essi non sono stati esclusi dalla banca dati del partigianato piemontese così come dalla nostra indagine in forza di due ragioni. In primo luogo, perché nella grande maggioranza dei casi il rigetto della domanda non fu dovuto a una millantata attività partigiana, ma a difetto di documentazione, a trascorsi motivi disciplinari e soprattutto all’esiguità temporale della vita di banda. In secondo luogo, perché includerli avrebbe potenzialmente permesso di riflettere sui criteri di valutazione adottati dalle commissioni per il rilascio della qualifica, e dunque sul contesto – politico e culturale – in cui avvenne la compilazione di quelle domande. In questo senso e più in generale, proprio la considerazione più esatta possibile di quel contesto è l’avvertenza metodologica maggiore che è necessario adottare nell’accostarsi a questa tipologia di fonti, sforzandosi di tenere conto del ventaglio di aspettative e intenzioni potenziali sia di chi compilava le domande di qualifica, sia di chi poi le avrebbe valutate. Non sarebbe altrimenti possibile comprendere le ragioni per cui – per esempio – la qualifica di resistente fu invece assegnata a molte vittime civili, spesso anziani o bambini, pur essendo state queste chiaramente estranee a qualsiasi attività militare e politica. Era una forma di risarcimento – non solo simbolico – ai famigliari che suonava anche come un riconoscimento del ruolo svolto dalle comunità di appartenenza (paesi, quartieri, frazioni...) a sostegno del movimento resistenziale. Dunque per tutti questi motivi l’immagine che il database ci permette di

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scattare non può essere sovrapposta senza mediazioni a quella della nostra resistenza, e chiede piuttosto – come peraltro qualunque altra fonte storica – di essere interpretata. Anche l’oggetto di questo lavoro, la resistenza alessandrina, è solo apparentemente un concetto dai contorni definiti. Non solo perché nel caso piemontese – come si è detto – la commissione decise di riconoscere con la qualifica di benemerito anche coloro che oggi potremmo definire “resistenti civili”, allargando così – certo giustamente e ai nostri fini utilmente – il perimetro del movimento di liberazione, ma finendo con l’attribuirgli dei confini molto più sfumati e porosi di quelli assai più rigidi che sarebbero derivati dall’adozione esclusiva del criterio militare. Vi possono almeno essere tre diversi insiemi estraibili dal database del partigianato piemontese che possono essere ricondotti alla “resistenza alessandrina”: l’insieme dei richiedenti qualifica nati in provincia di Alessandria, quello dei residenti in provincia di Alessandria (si badi all’atto della compilazione della domanda!), e quello di coloro che hanno militato in formazioni partigiane presenti nel territorio alessandrino. Quest’ultimo insieme, quello su cui è indubbiamente più utile e interessante ragionare, è anche quello più difficile – come si vedrà – da circoscrivere: quali sono le formazioni partigiane operanti nella nostra provincia che possiamo considerare ad essa esclusivamente pertinenti? Tale problema si porrebbe in qualsiasi altra porzione del territorio italiano interessata dal fenomeno resistenziale, dal momento che le formazioni partigiane nel loro peraltro molto variabile dispiegarsi sul terreno, certo non si strutturarono in base ai confini amministrativi, per quanto questi avessero comunque una loro cogenza, anch’essa variabile, vuoi in funzione delle caratteristiche storiche, geografiche, demografiche e socio-economiche dei singoli contesti, vuoi per le vicende belliche. Esso fu però particolarmente avvertito nel caso alessandrino, ossia di una provincia storicamente di frontiera e anche per questo caratterizzata da una marcata tendenza centrifuga dei suoi centri zona rispetto a un capoluogo strutturalmente “debole” in termini di capacità d’indirizzo. Non è una difficoltà evidente solo sul lato meridionale di quel triangolo cui idealmente – e con molte forzature – possiamo ridurre il territorio provinciale, su cui forte era l’influenza esercitata da una realtà metropolitana come Genova di cui l’oltregiogo alessandrino costituiva storicamente il naturale retroterra, ma anche sugli altri due. A quale ambito provinciale è per esempio possibile riportare le formazioni delle colline monferrine?

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Questo stato di fatto, in fondo, non condiziona solo il terzo degli insiemi ricavabili dal nostro database, ma anche gli altri due, apparentemente, nei loro criteri costitutivi, il luogo di nascita e il luogo di residenza, più certi: la prossimità alla Liguria e soprattutto alla Lombardia fa sì che molti alessandrini, magari militanti in formazioni partigiane contigue alle città e ai paesi di nascita o di residenza, scompaiano quasi del tutto (nel caso ligure, per il quale disponiamo di un database analogo al piemontese ma meno completo dal punto di vista delle voci interrogabili) o del tutto (nel caso lombardo) alla nostra vista. Solo il confronto fra i tre insiemi – fra loro naturalmente fortemente intersecantisi ma non sovrapponibili – può permetterci per approssimazioni progressive di avvicinarci a un’immagine non distorsiva, per quanto sfocata e incompleta possa risultare, della resistenza alessandrina. L’obiettivo di questo lavoro è dunque quello di tradurre la freddezza dei numeri in un’immagine che potremmo dire “cartografica” della resistenza in provincia di Alessandria, tracciandone i rilievi, gli avvallamenti, le increspature, i punti di contatto e quelli di frattura. Come in un ideale arazzo la trama sarà rappresentata dalla sua scomposizione per formazione partigiana, l’ordito da quella per provenienza geografica e sociale. La prima ci restituirà un paesaggio presumibilmente mosso e multiforme, con i suoi salienti e con tutte le sue eventuali eccentricità morfologiche, il secondo ci darà qualche elemento per sondare le forze profonde e stratificate che lo hanno modellato nel tempo. Fuor di metafora, l’indagine ci permetterà di sfaccettare e approfondire l’immagine del partigianato evocata dalla canzone partigiana citata nel titolo di questo volume, composta da Luciano Rossi “Lanfranco” su parole di Emilio Casalini “Cini” (fucilato a Voltaggio l’8 aprile del 1944), quale inno della III Brigata Garibaldi Liguria, operante nell’Ovadese. Se è vero che un gran parte dei resistenti – ma non la maggioranza – viveva nelle belle città date al nemico o comunque apparteneva a titolo diverso a un contesto sociale ormai “urbano”, è altrettanto vero che in molte zone del nostro territorio al centro del movimento resistenziale vi fu indubbiamente il mondo delle campagne. O forse – almeno questo è quanto ci suggeriscono i risultati della nostra indagine – è il caso di stemperare quell’opposizione, parlando piuttosto di un partigianato specchio di una società in transizione – dal mondo rurale a quello urbano – a cui insomma quelle aride montagne per le quali i partigiani dovettero lasciare case, scuole e officine (ma curiosamente non campi) erano tutt’altro che estranee.

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NOTA METODOLOGICA: L’estrazione del campione dalla banca dati Partigianato piemontese e società civile è avvenuta nella primavera del 2017. Soggetto come si è detto a una continua manutenzione, il database da quella data è stato naturalmente arricchito di nuove informazioni. Si tratta però di interventi minimi, perlopiù correttivi, tali cioè da non pregiudicare la validità delle elaborazioni qui esposte. Va notato poi che successivamente all’estrazione e prima dell’analisi dei dati, chi scrive ha dovuto procedere a un ulteriore loro affinamento, nel senso di una uniformazione maggiore di alcuni campi – fra tutti quelli relativi alle formazioni – e della creazione di altri. Questo lavoro preparatorio – vista la mole delle informazioni – ha richiesto forse più tempo e ha presentato certo maggiori difficoltà rispetto alla stessa analisi dei dati.

L’idea di questo libro è nata nel 2016 lavorando assieme ad altri ricercatori della rete piemontese degli istituti della resistenza alla revisione del database “Partigianato piemontese e società civile”: era infatti una nostra aspirazione comune, una volta terminato quel lavoro, solo apparentemente arido, avviare un cantiere di ricerca sul partigianato piemontese. Ai componenti di quel gruppo – Valentina Colombi, Matteo Lovera, Elisa Malvestito, Valerio Pulga, Werther Spessa – e a chi lo ha coordinato e seguito – Barbara Berruti, Claudio Dellavalle e Carlo Pischedda –, al nostro continuo confronto di merito e di metodo e alle suggestioni che me ne sono derivate, debbo molto. Anche se non fu coinvolto direttamente, voglio qui poi ricordare – avendo avuto negli anni modo di apprezzarne in più di un’occasione competenza storiografica e doti non comuni di umanità – Flavio Febbraro che tante volte ha alleggerito le nostre giornate all’ISTORETO con il suo sense of humor. Questo libro non sarebbe stato possibile senza il supporto dell’ANPI provinciale di Alessandria e dell’Istituto per la storia della resistenza e della società contemporanea in provincia di Alessandria “Carlo Gilardenghi”. Voglio pertanto ringraziare il presidente dell’ANPI provinciale, Roberto Rossi, l’allora presidente dell’ISRAL, Carla Nespolo, e il suo successore Mariano G. Santaniello, e tutto il gruppo dell’istituto – Antonino Andronico, Marco Biglia, Paolo Carrega, Antonella Ferraris, Donatella Gennaro. Al direttore dell’ISRAL, Luciana Ziruolo, debbo un ringraziamento particolare, per aver voluto questa ricerca e per la partecipazione con cui l’ha pazientemente seguita. Suggestioni, consigli e indicazioni critiche utili mi sono venute durante il lavoro da diverse persone. Oltre a quanti ho già citato, voglio qui ringraziare

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Laurana Lajolo – che ha avuto la pazienza di leggere il lavoro in una primissima stesura –, Alberto Ballerino, Franco Castelli, Giorgio Gatti, Cesare Manganelli, Vittorio Rapetti, Mario Renosio e Santo Peli. Infine, non posso qui non ricordare il mio nonno paterno, Gianfranco Panizza, partigiano – con la qualifica di patriota – nella Divisione Marengo, che con i suoi racconti su quegli anni – talvolta simpaticamente picareschi – mi ha regalato la passione per la storia e mi ha insegnato per quali ragioni essa rappresenti una conoscenza irrinunciabile. Alla sua memoria – nella speranza di essere capace di trasmettere il senso profondo di quella sua scelta di libertà e di umanità anche ai miei figli, Lorenzo e Cecilia – questo librò è dedicato. Note 1 A tale proposito vanno ricordati gli studi davvero pioneristici di M. Giovana, La composizione sociale delle formazioni GL in Piemonte, «Il movimento di liberazione in Italia», gennaio 1951, pp.20-29; A. Bendotti-G. Bertacchi, Il difficile cammino della giustizia e della libertà: l’esperienza azionista nella resistenza bergamasca, Il Filo di Arianna, Vilminore di Scalve 1983; A. Ardigò, Società civile e insorgenza partigiana. Indagine sociologica sulla diffusione dell’insorgenza partigiana in provincia di Bologna, Cappelli, Bologna 1979.

Cfr. Carlo M. Fiorentino, Il fondo archivistico dell’Ufficio per il servizio riconoscimento qualifiche e per le ricompense ai partigiani (Ricompart), in Enzo Fimiani (a cura di), La partecipazione del Mezzogiorno alla Liberazione d’Italia (1943-1945), ANPI, Le Monnier, Firenze, 2016, pagg.249-261. 2

3 Cfr. C. Dellavalle, Partigianato piemontese e società civile, in Resistenza. Gli attori, le identità, i bilanci storiografici, «Il Ponte», n.1, gennaio 1995, pp. 18-35; Id. (a cura di), Con le armi, senza le armi. Partigiani e resistenza civile in Piemonte (1943-1945), Regione Piemonte-Comitato per il 50° della Resistenza, Torino 1995. Partendo dai dati contenuti nel database, la scala provinciale è stata invece fatta oggetto di ricerca da Enrico Pagano (Partigianato piemontese e società civile. I resistenti del biellese e del vercellese, «l’impegno», a. XVIII, n.1, aprile 1998); da Mario Renosio (Resistenza, resistenze: una lettura quantitativa e territoriale, in «Asti contemporanea», n.10, 2004); e per l’Alessandrino da Franco Castelli, Chi erano i partigiani, pubblicata sul sito dell’Istituto per la storia della resistenza e della società contemporanea in provincia di Alessandria “Carlo Gilardenghi”, all’indirizzo: https://www.isral.it/wp-content/uplo-

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ads/2018/07/Chi-erano-i-partigiani.pdf. Cesare Manganelli ha invece raccolto le schede dei partigiani della città di Alessandria (Libro d’onore della resistenza. Partigiani, Patrioti e Benemeriti di Alessandria, ISRAL-Falsopiano, Alessandria, 2007). 4

http://intranet.istoreto.it/partigianato/default.asp.

Cfr. Claudio Dellavalle, Dalle terre a sud del Volturno: partigiani meridionali nella Resistenza piemontese. Questioni di metodo e problemi storiografici in Enzo Fimiani (a cura di), La partecipazione del Mezzogiorno alla Liberazione d’Italia (1943-1945), cit., pp. 209-247. Al testo di Fimiani, e ai saggi di Isabella Insolvibile, Chiara Donati e Toni Rovatti in esso contenuti, si rimanda per una esplicitazione, relativamente al caso della resistenza meridionale, delle potenzialità del Fondo Ricompart per la ricerca sul partigianato. 5

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http://intranet.istoreto.it/partigianatomeridionale/default.asp.


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L’ORDITO: LA RESISTENZA ALESSANDRINA PER PROVENIENZA GEOGRAFICA E SOCIALE 1. Alcuni dati macroscopici Nell’approcciarci alla resistenza alessandrina1 attraverso i dati oggi disponibili estrapolabili dal database partigianato e società civile piemontese e pur tenendo conto di quelle avvertenze metodologiche richiamate in premessa, è bene analizzare inizialmente – quasi ad avvicinare gradualmente al nostro oggetto – i dati macroscopici del fenomeno. I richiedenti qualifica presso la commissione piemontese nati in provincia di Alessandria risultano essere 9222 (le donne sono 314, il 3,4%), all’incirca l’8,5% su un totale di 108957 richiedenti a livello regionale. Sono pochi o sono tanti? Sono in linea con le dinamiche della popolazione piemontese dell’epoca oppure no? A prima vista non sembrerebbe: al censimento del 1936 – l’ultimo prima della guerra – la provincia di Alessandria aveva infatti 493.698 abitanti corrispondenti a circa il 14,5% (3.418.300) dell’intero Piemonte. È vero che stiamo confrontando dati fra loro disomogenei, il primo riferito al luogo di nascita, il secondo alla residenza. Se assumiamo a criterio però quest’ultima, un dato peraltro poco affidabile visto che come si è detto esso non compare in molte delle schede compilate dai richiedenti qualifica presso la commissione Liguria e che – va ribadito – si riferisce pur sempre all’indirizzo all’atto della compilazione, il numero dei resistenti alessandrini sul totale regionale si riduce ulteriormente, scendendo appunto a 7856, ovvero al 7,2% (le donne sono 159, all’incirca il 2%). Si tratta di una flessione attesa dato quanto conosciamo della demografia del territorio alessandrino, all’epoca caratterizzato da un saldo migratorio prevalentemente negativo. Sempre al censimento del 1936 – dove l’ISTAT aveva omesso di chiedere agli italiani di indicare il luogo di nascita per non certificare il fallimento della politica fascista nel governo delle migrazioni interne – la popolazione della provincia di Alessandria risultava diminuita del 2,7% rispetto al 1931 (e del 7,4% rispetto al 1921!). Si trattava di un calo demografico imputabile a robusti spostamenti di popolazione, visto che il saldo naturale nel quinquennio considerato era stato positivo (+2.630 individui).2 Se ci limitassimo a questo grezzo confronto, dovremmo dunque concludere che il contributo alessandrino alla resistenza sia stato nettamente infe-

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riore a quanto sarebbe naturale attendersi in base allo stock di popolazione. Se scomponiamo però il dato regionale su base provinciale quei numeri assumono un diverso significato. Nel nostro database i nati in provincia di Torino sono 28570 (26,4%), quelli in provincia di Cuneo 14436 (13,3%), di Asti 5765 (5,3%), di Vercelli 5712 (5,3%), di Novara 4713 (4,3%), di Aosta 2490 (2,3%) (vedi primo inserto grafico §1). Sommati fra loro i resistenti piemontesi per nascita sono 70908, appena il 65,4% del totale. Al netto dunque di coloro che sono nati fuori regione o di cui non si conosce il luogo di nascita (più di un terzo degli individui presenti nel nostro database), il contributo della provincia risulta sostanzialmente in linea con il dato generale della popolazione regionale, risalendo, infatti, al 13%. Se ripetiamo ora l’operazione prendendo in esame il criterio della residenza, il panorama assume un aspetto ancora diverso: i 7856 richiedenti qualifica residenti in provincia di Alessandria risultano essere infatti solo il 9,1% dei residenti in Piemonte, circa il 50% dei quali (43003) risulta residente in provincia di Torino, mentre ben il 15,8% (13600) lo è in quella di Cuneo, l’8,2% (7010) in quella di Novara, il 7,8% (6685) in quella di Vercelli, il 5,4% (4674) di Asti e il 3,7% (3186) in Valle d’Aosta, per un totale di 86102 individui. Sono invece 22319 (circa il 20% del totale) i richiedenti qualifica che all’atto della compilazione della domanda non erano residenti in regione o di cui la residenza è ignota. È ancora una volta un dato molto alto, ma che va attentamente soppesato. Di 6139 individui non conosciamo infatti la residenza. Di questi un po’ più di un terzo è concentrato fra quanti smobilitati a Genova inoltrarono la domanda di qualifica alla commissione ligure (2420 su 4573), come si è detto apparentemente meno scrupolosa nella raccolta dei dati. Si tratta come si avrà modo di lamentare altre volte, soprattutto di partigiani militanti nella Pinan-Cichero e nella Mingo, il che in parte interviene a spiegare la sotto-rappresentazione nel database di resistenti qualificabili come alessandrini qualora si assuma a criterio dell’interrogazione appunto la residenza. Anche con questa avvertenza, lo scostamento tra la suddivisione per nascita e quella per residenza del partigianato piemontese ci restituisce dunque un primo, fondamentale elemento di contesto, la forza delle dinamiche migratorie interne che investirono il territorio piemontese e in termini appunto negativi l’Alessandrino fra le due guerre, a vantaggio soprattutto dell’area metropolitana di Torino, il cui sviluppo industriale di quegli anni ne stava ulteriormente esaltando il ruolo di centro strutturante la composizione

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demografica e la maglia urbana piemontesi. A tutto ciò va sommata la dispersione demografica dovuta alla guerra stessa, la cui traccia più evidente nel database fu innanzitutto la presenza nella nostra regione dopo l’8 settembre di migliaia di soldati meridionali, cui era impossibile in ragione dell’occupazione tedesca e dell’evoluzione della situazione bellica il rientro a casa. Sono dinamiche demografiche che il database ci permette di esplorare almeno parzialmente, dal momento che non si può certo pretendere, non trattandosi di un campione casuale della popolazione piemontese, che esso rispecchi in maniera uniforme le tendenze in quel momento in corso. Vediamo con quali risultati nel caso dell’Alessandrino. Incrociando l’insieme degli individui presenti nel database nati in provincia di Alessandria (9222) con quello di quanti in essa sono residenti all’atto della domanda (7856), i resistenti alessandrini nati e residenti in provincia risultano essere 6363 (il 69% rispetto ai nati), gli emigrati risultano essere 1514 (circa il 16,4% dei nati), gli immigrati 1444 (il 18,3% dei residenti). Di per sé che gli immigrati in numeri assoluti quasi pareggino gli emigrati non rappresenta affatto una controtendenza rispetto alle dinamiche demografiche generali della popolazione, ma appunto un riflesso delle lacune della nostra fonte prima ricordate. Mentre infatti solo per 49 individui residenti in provincia non conosciamo il luogo di nascita, non disponiamo del dato della residenza per ben 1345 individui nati in provincia. Non va poi dimenticato che il database per sua natura registra sostanzialmente solo i flussi in ingresso nel territorio piemontese e non quelli in uscita, se non nel caso di chi emigrato fuori regione avesse comunque fatto – perché tornato appositamente o perché avesse lasciato il Piemonte successivamente alla guerra – la resistenza nel nostro territorio (e vi fosse rientrato per avanzare la domanda di qualifica). Che peraltro il territorio alessandrino, più di altri, fosse esposto a queste dinamiche, vista la sua collocazione geografica, è cosa indubbia. A ben vedere, i dati che possiamo estrapolare confermano piuttosto la tendenza generale di quegli anni a un forte turn-over nella popolazione.3 Anche con i limiti sopra ricordati (ossia nella consapevolezza di una strutturale sotto-rappresentazione dei flussi in uscita rispetto a quelli in entrata), il database ci dice che circa un terzo di coloro che possiamo considerare come “resistenti alessandrini”, vuoi per residenza, vuoi per nascita, aveva alle spalle, all’atto della compilazione della domanda, un’esperienza di emigrazione almeno interprovinciale. Se poi prendiamo in considerazione i 6363 alessandrini per nascita e per residenza, possiamo verificare come in 1267 abbiano

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cambiato comune di residenza (il 20% circa). Questo significa che il 35% (2750) dei nati in provincia di Alessandria (9221) al netto di coloro di cui non abbiamo la residenza (1345), viveva in un comune diverso da quello di nascita. Torneremo più avanti, riflettendo su provincie e comuni di nascita e di residenza, su questi intensi movimenti di popolazione in cui – come è noto – vi erano migrazioni a lungo raggio (interregionali), a medio raggio (interprovinciali) e a brevissimo raggio (interne alla stessa provincia). In buona parte migrazioni definitive – dalla campagna alla città e alla fabbrica – e dunque legate alla modernità industriale, ma in una misura ancora robusta frutto di una circolarità – un andare e venire fra spazi urbani e mondo rurale – antichissima e che la “grande trasformazione” successiva al secondo conflitto mondiale avrebbe definitivamente estinto. 2. Per qualifica ottenuta Troviamo – come si dirà – un riscontro dei processi che investivano allora la demografia piemontese anche qualora si assuma a criterio di interrogazione del database la qualifica ottenuta. Rispetto agli esiti del procedimento relativo alla qualifica partigiana i 9222 individui nati in provincia di Alessandria sono così suddivisibili: partigiani 4116 (44,6%), patrioti 2268 (24,6%), benemeriti 1499 (16,3%), combattenti 26, civili 1, caduti 411 (4,5%), caduti civili 55, dispersi 9, dispersi civili 3, feriti 30, invalidi 56, invalidi civili 11, mutilati 14, mutilati civili 1, esclusi 48, non riconosciuti 674 (7,3%). In base allo stesso criterio i 7856 residenti in provincia di Alessandria sono così suddivisi: partigiani 3611 (46%), patrioti 1682 (21,4%), benemeriti 1390 (17,6%), combattenti 11, civile 1, caduti 353 (4,5%), caduti civili 56, dispersi 7, disperso civile 3, feriti 25, invalidi 52, invalidi civili 12, mutilati 15, mutilati civili 1, esclusi 57, non riconosciti 580 (7,4%). Operiamo sotto questo profilo un primo confronto con l’insieme dei resistenti piemontesi che in base alla qualifica ottenuta risultano così suddivisivi: partigiani 38874 (35,8%), patrioti 21453 (19,8%), benemeriti 18173 (16,8%), combattenti 4250 (3,9%), caduti 6665 (6,1%), caduti civili 427, civili 20, dispersi 63, dispersi civili 3, feriti 776, invalidi 555, invalidi civili 33, mutilati 381, mutilati civili 3, in sospeso 1, esclusi 357, nessuna o non riconosciuta 16387 (15,1%). [vedi primo inserto grafico § 2]

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Si viene così a isolare una caratteristica del caso alessandrino su cui occorre soffermarsi: il tasso più basso di respingimento delle domande di qualifica. Minore severità di giudizio verso gli alessandrini per nascita o per residenza da parte delle commissioni preposte o distorsione prodotta dalla fonte utilizzata? Parrebbe più probabile la seconda ipotesi. Mentre le schede dei richiedenti qualifica la cui domanda fu respinta dalla commissione piemontese furono comunque riversate nel database, nel caso delle domande presentate presso la commissione ligure disponiamo solo di quelle che ebbero esito positivo. Si tratta, come abbiamo già detto, di una difformità nei dati a nostra disposizione che riguarda soprattutto il territorio alessandrino. Questa condizione spiega però solo parzialmente la variazione rispetto al dato generale che si produce nel caso dei “resistenti alessandrini” cui la qualifica fu rifiutata. Se si ripete l’estrazione del dato escludendo sia nel caso dei nati che in quello dei residenti in provincia di Alessandria coloro che presentarono domanda presso la commissione ligure, infatti, si ottiene una risalita solo parziale, rispetto al dato complessivo, della frequenza con cui le domande di qualifica vennero respinte, che nel primo caso si attesta al 9,6%, nel secondo all’8,5%. Per spiegare dunque la ragione di questo scostamento – essendo oggettivamente assurdo pensare a un trattamento di favore – occorrerebbe dunque innanzitutto un’indagine specifica, a livello regionale, che ci restituisse appunto le caratteristiche di coloro ai quali non venne riconosciuta la qualifica di resistente. Un sondaggio in tal senso ci fornisce un dato interessante: dei 16378 individui cui la domanda fu respinta ben 4408 (il 26%) erano residenti fuori regione – più dunque del dato complessivo dei residenti fuori regione che si aggira attorno al 20%. La spiegazione della variazione da noi osservata sembrerebbe risiedere quindi non in una specificità alessandrina, ma da un lato nella limitatezza della fonte (le differenze nel riversamento dei dati fra quelli prodotti dalla commissione ligure e dalla commissione piemontese), dall’altro nella maggior frequenza con cui venivano respinte le domande dei non residenti in regione (per l’effettiva più alta presenza fra gli immigrati di persone che per diverse ragioni non soddisfacevano i criteri per l’ottenimento della qualifica o in virtù del fatto che le domande di queste persone venivano stralciate avendole essi presentate anche nella regione di residenza?). Ciò suggerisce che – come si verificherà anche per altre variabili – la ragione di un più basso tasso di domande respinte fra gli “alessandrini” sia da ricercare piuttosto nella composizione sociale stessa del nostro partigianato, dove, diversa-

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mente da quello che avviene nel capoluogo, è meno esteso il fenomeno della “resistenza senz’armi” e di quella di fabbrica legata al modello delle SAP, anagraficamente più anziana, i cui aderenti più facilmente potevano vedersi respinta la domanda. È cioè piuttosto un segno di debolezza – innanzitutto organizzativa – piuttosto che di forza. A confermare questa affermazione è anche la mancanza di una relazione positiva – come invece ci si dovrebbe attendere – fra basso tasso di domande respinte e frequenza fra i richiedenti qualifica di coloro che vennero incorporati nelle file della Repubblica sociale. Gli arruolati nella RSI – a qualsiasi titolo ciò accadesse – sono 609 (il 6,6%) fra i nati in provincia di Alessandria, e 689 (8,8%) fra i residenti in provincia, un dato nel primo caso leggermente più basso, nel secondo sensibilmente più alto di quello complessivo dei richiedenti qualifica presenti nel nostro “database” in cui essi risultano essere il 7,2% circa (7811) (al netto – però va detto – di quei casi in cui – evidentemente non ad opera del richiedente – viene riportata l’indicazione «non ha giurato», che priva di altre informazioni rimane di difficile interpretazione). Sull’arruolamento nelle file della RSI per quanto riguarda il territorio alessandrino si avrà modo di tornare. Non si pensi però a una maggiore peraltro molto relativa propensione dei residenti in provincia di Alessandria al reclutamento nelle file della RSI. Questo dato dipende piuttosto dal differente profilo demografico dei richiedenti qualifica una volta disaggregati per provincia. È probabile che nel caso dei residenti la media regionale venga abbassata notevolmente dal tasso di maggiore anzianità dei richiedenti qualifica della provincia di Torino e dal concentrarsi nel capoluogo regionale di individui nati e residenti fuori regione non interessati dal reclutamento fascista. 3. Sesso e età È bene estrapolare preliminarmente alcune altre caratteristiche della struttura demografica della resistenza alessandrina, verificando in primo luogo se esistano differenze sostanziali e non accidentali fra resistenti alessandrini per residenza o per nascita, in questo caso procedendo innanzitutto alla scomposizione per classi di età e per genere. Preso nel suo complesso – ossia esaminando i 10715 individui nati in provincia di Alessandria e/o residenti in essa – il panorama per sesso e per età della resistenza alessandrina è il seguente: le donne sono 352 (dunque appena

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il 3,3%); di 143 individui non conosciamo l’anno di nascita, 25 individui sono nati fra 1866 e 1879 (hanno quindi a fine guerra fra i 79 e i 66 anni), 50 sono nati fra il 1880 e il 1884, 93 fra il 1885 e il 1889 (lo 0,8% dei 10576 di cui conosciamo la data di nascita), 235 fra il 1890 e il 1894 (2,22%), 303 fra il 1895 e il 1899 (2,86%), 535 fra il 1900 e il 1904 (5,05%), 717 fra il 1905 e il 1909 (6,70%), 1120 fra il 1910 e il 1914 (10,60%), 1330 fra il 1915 e il 1919 (12,6%), 3439 fra il 1920 e il 1924 (32,53%), 2652 fra il 1925 e il 1929 (17,59%), 73 negli anni successivi. [vedi primo inserto grafico § 3] Come era naturale attendersi il partigianato alessandrino risulta in gran parte composto dalle classi di età più giovani. La stragrande maggioranza dei richiedenti qualifica ha meno di quarant’anni (l’88%), mentre il 58,3% ha meno di venticinque anni. L’età media complessiva – calcolata a partire dall’anno e non dalla data di nascita e prendendo come riferimento il 1° gennaio 1945 – è attorno ai 27 anni (27,11). Detto ciò, però, l’appartenenza a classi chiamate per la leva o richiamate alle armi dalla Repubblica sociale non sembra essere certo l’unica motivazione per la partecipazione alla resistenza. La somma (2636) dei richiedenti qualifica alessandrini nati fra il 1924 e il 1926 – 848 nel ’24, 1008 nel ’25, 780 nel 1926 – e quella (2591) delle classi 1920-1923 – 578 nel 1920, 580 nel 1921, 676 nel 1922, 757 nel 1923 – rappresentano rispettivamente il 24,6% e il 24,5% del totale. Pure l’impressione di una svolta nella partecipazione alla resistenza che come il nostro grafico testimonia si produrrebbe a partire dal 1920 è da sfumare, trovando una spiegazione anche in fattori strettamente demografici. Il biennio 1919-1920 segnò infatti l’inizio del recupero della natalità nel nostro paese, a seguito del vistoso calo prodotto dalla Prima guerra mondiale e dalla successiva epidemia della “spagnola”. Senza dimenticare il peso che nel produrre questa partecipazione per età fu giocato dalle conseguenze della fase precedente del conflitto, quella “guerra fascista” che aveva sfoltito i ranghi delle classi precedenti il 1924. Dunque ben più della metà dei “resistenti” alessandrini non compie sicuramente la scelta resistenziale per sottrarsi al reclutamento nell’esercito di Salò (va però detto che le classi dal 1914 al 1919 pur non richiamate alle armi dalla Repubblica sociale, non erano del tutto immuni da obblighi militari, almeno per chi fosse stato precedentemente incorporato, nel periodo 1940-’43, nel regio esercito). Lo dimostra ampiamente la “tenuta” della partecipazione alla resistenza per le classi successive al 1926.

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Questo quadro non si modifica in maniera sostanziale anche qualora si restringa il campo alla sola componente militare della resistenza: se guardiamo infatti alle qualifiche e prendiamo in considerazioni i combattenti “certificati” (patrioti, partigiani, combattenti, compresi i dispersi, caduti, mutilati eccetera), si può verificare come i nati dal 1924 al 1926 ammontino al 25,9% (2070 individui), e quelle dal 1920 al 1923 al 25,6% (2048) sul totale. Troviamo un ulteriore conferma nella distribuzione per età delle 352 resistenti “alessandrine”, la cui scelta resistenziale ovviamente non fu dettata dal volersi sottrare all’arruolamento, che si presenta non difforme da quella degli uomini: 42 nascono prima del 1900, 47 fra 1900 e 1909, 71 fra 1910 e 1919, 118 fra 1920 e 1924, 64 fra 1925 e 1929, 7 dopo il 1930. Di 3 non abbiamo la data di nascita. Il che significa che al netto di queste ultime (su 349) il 54% è nato dopo il 1920, in linea dunque con il dato generale (l’anno di nascita più frequente è il 1922, con 36 individui). Sarebbe utile confrontare questi dati con la scomposizione per età della popolazione provinciale nel suo insieme. In tal senso l’unica fonte utilizzabile è il censimento del 1931 ma anche in questo caso con grandi avvertenze: al 1931 la provincia comprendeva ancora il territorio astigiano (il censimento del 1936 è a tal fine non utilizzabile perché manca della scomposizione della popolazione per anno solare di nascita). Inoltre, quei dati sono riferiti alla popolazione residente al momento del censimento e dunque andrebbero piuttosto confrontati con i richiedenti qualifica residenti in provincia, se non fosse che adottando quel criterio si escluderebbe una parte considerevole del campione e che il fatto che fra le due fonti intercorrano ben 15 anni toglie molta credibilità alla loro correlazione. Se operiamo tuttavia il confronto, limitandoci al solo sesso maschile, fra i richiedenti qualifica per anno di nascita nati e/o residenti in provincia di Alessandria e i residenti in provincia di Alessandria per anno di nascita al 1931 (con una correzione in negativo del dato del 30% tenendo proporzionalmente conto della perdita di popolazione prodotta nel 1934 dalla creazione della provincia di Asti) si ottiene per gli anni dal 1919 al 1930 un tasso di partecipazione alla resistenza attorno al 20% nelle classi 1924-’25-’26, con la punta del 23% nel caso del 1925, del 17% per il 1923 e attorno al 14% per il 1922; mentre per le classi di età precedenti o successive il tasso oscilla attorno al 12%. [vedi primo inserto grafico § 4]. In sintesi, di primo acchito, i dati presenti nel nostro database ci restituiscono un quadro estremamente composito del fenomeno resistenziale nel ter-

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ritorio alessandrino alla cui formazione concorrono tutte le classi di età e in cui non sembra potersi assolutizzare il nesso fra renitenza alla leva/scelta partigiana. Esso peraltro incide differentemente sulle classi 1920-’21-’22-’23, già falcidiate dalla partecipazione alla fase precedente del conflitto (1940-1943) e dalle conseguenze dell’8 settembre (l’internamento in Germania) e sulle classi 1924-’26. 3.1 Sesso e età per luogo di nascita e di residenza Vale la pena da questo punto di vista, introdurre altre variabili, verificando innanzitutto se esistano differenze nel comportamento delle diverse classi di età in base al luogo di nascita e di residenza, all’essere immigrato o emigrato. Confrontiamo per prima cosa sotto questo profilo i richiedenti qualifica nati in provincia di Alessandria e quelli residenti in provincia. La loro età media (calcolata in base all’anno di nascita medio al 1° gennaio 1945) è per i primi attorno ai 27 anni e mezzo, per i secondi attorno ai 26 anni e mezzo; nel primo caso il 58,3% è nato dopo il 1° gennaio 1920 mentre i nati fra il 1924-’25-’26 ammontano al 24,9%; nel secondo caso i nati dopo il 1° gennaio 1920 sono 61,3% e quelli fra il 1924-’25-’26 il 26,1%. Se proiettiamo su un grafico [vedi primo inserto grafico § 5] il loro andamento per anno, però, otteniamo due curve sostanzialmente identiche fra loro. Come spiegare allora il leggero scostamento nell’età media fra nati e residenti? A prima vista tutto sembra indicarne la ragione negli spostamenti di popolazione. Se isoliamo gli emigranti dalla provincia di Alessandria possiamo infatti osservare come l’età media si alzi bruscamente di quattro anni (31,8) e come si registri una distribuzione per età dei nostri “resistenti” assai più equilibrata: il 57,5% è nato prima del 1° gennaio 1920, mentre le classi chiamate alle armi dalla RSI si attestano solo al 16,9%. Se invece prendiamo in considerazione la distribuzione per età degli immigrati in provincia di Alessandria verifichiamo uno scostamento meno netto dall’andamento generale. L’età media si aggira infatti anche nel loro caso attorno ai 27,8 anni. Il 54,4% ha meno di 25 anni, mentre le classi 1924-’25-’26 risalgono al 22,6%. Si prendano invece gli alessandrini per nascita al netto degli emigrati (7708 individui, ottenuti mettendo dunque in questo insieme anche coloro di cui non abbiamo però la residenza all’atto della compilazione della domanda e dunque non possiamo escludere siano a loro volta emigrati): la loro età media è poco più di 26 anni

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e mezzo (26,6); il 61,8% è nato dopo il 1° gennaio 1920 mentre i nati nel triennio 1924-’25-’26 rappresentano il 26,5% del totale. Visti questi dati sembrerebbe esserci una correlazione fra età, scelta partigiana e migrazione, nel senso che quanti hanno fatto esperienza della mobilità territoriale in entrata o in uscita dal territorio provinciale hanno fatto ingresso nelle file della resistenza mediamente più tardi di quanti non hanno mutato residenza o l’hanno fatto solo all’interno dei confini della nostra provincia. Questo scostamento rispetto agli “stanziali” è lieve per gli immigrati in provincia di Alessandria, ed è invece più netto per gli emigranti. A parte che non possiamo conoscere quanti di questi movimenti siano avvenuti prima e quanti dopo l’esperienza resistenziale, il fenomeno può trovare diverse spiegazioni. La più banale, ma per noi assolutamente non dimostrabile, potrebbe essere la differenza nello stock di popolazione fra stanziali e migranti. Potrebbe cioè darsi che semplicemente questo secondo insieme sia anagraficamente più anziano, come peraltro, in assenza di dati, suggerirebbe anche la logica (lo status di immigrato non è ascritto, ma si assume durante il corso dell’esistenza). Al di là di questa ovvietà, è poi noto che a emigrare stabilmente – cioè cambiando anche la propria residenza legale – siano soprattutto individui in età da lavoro e che hanno pressoché stabilizzato la condizione lavorativa nel contesto di emigrazione. Inoltre, è possibile che la popolazione più giovane – quella in sostanza nata a partire dagli anni Venti – sia stata in misura maggiore interessata dalle disposizioni contro l’urbanesimo assunte dal regime per impedire i movimenti di popolazione dalle campagne ai centri maggiori e che si risolse, come è noto, nell’aumentare le presenze irregolari nei grandi centri urbani (di fatto si cambiava domicilio, ma non la residenza). È ipotizzabile però che le ragioni di questi scostamenti siano anche altre, legate innanzitutto alle caratteristiche dei movimenti migratori di quel periodo: pur senza assolutizzare questo dato va infatti ricordato che la maggioranza di quelli osservabili nel nostro database avvengono lungo la direttrice città/campagna. È noto come in ambito urbano gli individui abbiano generalmente a disposizione una gamma di opzioni assai più ampia e dunque possano mettere in gioco risorse e strategie diverse difronte all’incalzare degli eventi, sfuggendo con più facilità la pressione del gruppo o della comunità di appartenenza a conformare le proprie scelte individuali. Dobbiamo però immaginare nell’economia del nostro discorso che questo potesse significare sia una minore cogenza in città della scelta resistenziale – per es. come modalità per sottrarsi

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ai bandi di reclutamento della Repubblica sociale – rispetto a quanto non accadesse in campagna, sia in senso contrario una maggiore possibilità di essere socializzati alle ragioni della resistenza. Nel caso specifico, la maggiore anzianità dei richiedenti qualifica emigrati dalla nostra provincia può essere però spiegata a partire dalle caratteristiche del loro contesto di emigrazione che per lo più è, come si dirà, costituito dal capoluogo regionale dove, attive e organizzate le SAP cittadine – che invece nel caso alessandrino non assumono dimensioni e funzioni paragonabili a quelle svolte a Torino in occasione dell’insurrezione – permettono anche a chi più anziano è rimasto al lavoro di partecipare al movimento resistenziale. A questo proposito si può innanzitutto osservare se vi siano delle differenze significative fra il capoluogo, principale area urbana della provincia, e il resto del territorio. Se prendiamo in considerazioni i residenti nel comune di Alessandria (si tratta di 1370 individui di 23 dei quali non conosciamo l’età) notiamo che l’età media è di 28,6 anni, dunque leggermente più alta del totale. I nati dopo il 1° gennaio 1920 sono il 49,8% (671), dunque poco meno del 50%, mentre le classi 1924-’25-’26 assommano al 19,7%. Questo dato però potrebbe essere letto come una conferma ulteriore della maggiore anzianità delle città rispetto alle campagne, vuoi per il tasso di crescita naturale vuoi nel nostro contesto per la mobilità della popolazione. Non è di per sé sufficiente a dimostrare una correlazione fra ambiente urbano e una particolare composizione anagrafica della resistenza. Proviamo comunque a fare un confronto più generale, opponendo le aree urbane (capoluogo e centri zona) a quelle rurali, pur sapendo che operiamo una semplificazione grossolana, dal momento che la distinzione di queste aree in base ai confini amministrativi è discutibile (le frazioni per es. dei centri urbani non andrebbero in taluni casi considerate rurali?) e che è un conto vivere a Pozzolo Formigaro o a Felizzano e un conto vivere a Pian Castagna o a Cabella Ligure. Se si prendono in esame i nati in provincia di Alessandria che hanno continuato a risiedere in essa (7708, includendo fra i residenti alessandrini anche coloro di cui manchiamo del dato della residenza), si ottiene questa distribuzione geografica: nei centri minori sono nati 5369 individui (69%), nei centri zona (Alessandria, Acqui, Novi, Tortona, Ovada, Valenza) 2339 (31%). I due terzi dei resistenti nati in provincia di Alessandria che in essa sono anche residenti è dunque nato in un piccolo comune. Vale la pena confrontare questo dato con il censimento del 1936, in cui risultavano essere residenti nei

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centri zona 197640 individui, ovvero il 40,03% della popolazione complessiva: al netto dei movimenti di popolazione avvenuti successivamente, le aree urbane sarebbero quindi sottorappresentate rispetto alle zone rurali (il che peraltro contrasta con l’idea tutta da verificare e dettata da buon senso, che soprattutto fra i resistenti residenti nei piccoli centri fosse più alta – per minore pervasività delle informazioni – la quota di coloro che non fecero domanda di qualifica partigiana). Di primo acchito, insomma, il volto del partigianato alessandrino sembra essere innanzitutto legato ai piccoli centri, e al mondo delle campagne, per quanto si debba sfumare la contrapposizione fra rurale e urbano (vivere in un centro minore non significa non svolgere magari professioni urbane, non va dimenticato il fenomeno già all’epoca molto diffuso del pendolarismo). È indubbio che questa particolare composizione del nostro partigianato sia infatti più il risultato delle dinamiche demografiche del tempo – è la popolazione della nostra provincia a nascere innanzitutto rurale – che di una maggiore predisposizione di chi è nato o vive in campagna alla scelta resistenziale. È anche vero però che se ripetiamo l’operazione prendendo a criterio il luogo di residenza osserviamo una lieve ripresa del contributo proporzionalmente offerto dai centri zona, di appena 10 punti percentuali, al 41,1%. E non è un risultato che si possa ragionevolmente imputare per intero alle manchevolezze della nostra fonte circa la rilevazione della residenza. Occorre approfondire ulteriormente se vi siano delle differenze fra i richiedenti qualifica alessandrini (nati e residenti in provincia) a partire dalla variabile del luogo di nascita e di residenza e dell’età. L’età media dei nati nei centri zona (26,46 anni) e di chi è nato nei centri minori (26,65) è pressoché identica. In entrambi i casi, i nati dopo il 1920 sono circa il 60% del totale (il 61,9% per i “rurali”, il 61,7% per i “cittadini”). Fra i nati nei centri minori le classi di età 1924-’25’-26 chiamate alle armi da Salò rappresentano il 27,6% del totale; fra i “cittadini” il 25,7%. Apparentemente, dunque, non compaiono rilevanti differenze. Se si analizza però il dato anno per anno è possibile osservare alcuni sfasamenti interessanti [vedi primo inserto, grafico § 6]. Il più rilevante è rappresentato proprio dal diverso comportamento delle tre classi di età su cui si abbatte la leva della RSI, ovvero il 1924-’25-’26. Nel caso dei nati nei centri zona il 1924 offre un contributo in linea con le due annate precedenti (attorno al 7% del totale) mentre i valori massimi sono toccati nel 1925 e 1926 con il 9% circa, per poi ridiscendere al 6% del 1927; nel caso dei rurali la curva anticipa di circa un anno i valori mas-

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simi, toccati dai nati nel biennio 1924-1925 (rispettivamente sopra il 9% e il 10%) per poi scendere a poco meno del 7% per i nati nel 1926 (inferiori in questo caso ai nati del 1922-’23) e crollare al 4% per i nati nel 1927. Più in generale le due curve sembrano seguire grosso modo lo stesso andamento, sennonché nel caso dei nati nei centri minori la crescita per gli anni successivi al 1919 è decisamente più pronunciata. Il differenziarsi della curva per le classi 24’-25’-26’ non sembra poter essere spiegato con fattori demografici ma probabilmente risiede in un divaricarsi nelle scelte fra chi vive in città e chi vive in campagna: contrariamente alle altre due classi il 1926 fu richiamato nel corso del 1944 e solo per i nati nei primi sei mesi, ed è probabile che a quell’altezza la debole e intermittente presenza delle istituzioni repubblichine nelle zone rurali avesse diminuito fra i giovani l’impulso a arruolarsi nelle file della resistenza con la principale motivazione di sottrarsi al reclutamento fascista (vi ritorneremo). Al contrario il differente tasso di crescita della partecipazione alla resistenza per i nati a partire dal 1920 è probabilmente un riflesso di una composizione demografica differente, ovvero della minore anzianità delle zone rurali (in base alle quale la rapida discesa del 1926 diviene ancor più significativa). Altro elemento da notare è la presenza fra i richiedenti qualifica nati nei centri minori di diversi anziani (nati prima del 1880) e di molti ragazzini, perlopiù assenti nel caso dei richiedenti qualifica nati nei centri zona. Approfondiamo ora la nostra analisi introducendo anche il criterio della residenza, seppure sappiamo il dato sia mancante per una parte consistente del nostro database, e scomponiamo i nostri nati in provincia in quattro insiemi differenti – nati e residenti nei centri minori, nati e residenti nei centri zona, nati nei centri minori ma trasferitisi nei centri zona, originari dei centri zona ma trasferitisi nei centri minori. Va osservato innanzitutto come il primo gruppo sia di gran lunga il più numeroso, mentre l’ultimo è naturalmente il più esiguo. Nel caso dei 3752 individui che sappiamo essere nati e residenti nei centri minori della nostra provincia l’età media – intesa al 1945 – è di 25,9 anni, il 65% è nato dopo il 1° gennaio 1920 e gli appartenenti alle classi di età 19241926 ammontano al 28,2%. Nel caso dei 1923 individui nati e residenti nei centri zona, l’età media è un po’ più alta, 26,5; il 61,5% è nato dopo il 1° gennaio 1920, gli appartenenti alle classi 1924-1926 rappresentano il 25,7% del totale. L’età media è invece più alta – 28,67 – nel caso dei 475 individui nati nei centri minori ma trasferitisi nei centri zona: qui il 56,3% è nato dopo il 1° gen-

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naio 1920 mentre i nati negli anni 1924-1926 ammontano al 23%. Infine, i 416 individui nati nei centri zona ma trasferitisi nei comuni minori presentano un’età media di 26,6 anni: nel loro caso i nati prima del 1° gennaio 1920 rappresentano il 62,7% del totale, quelli appartenenti alle classi 1924-’25-’26 il 25,2%. Anche in questo caso dunque riscontriamo un’età media più alta in correlazione con l’esperienza della mobilità e soprattutto registriamo come l’insieme dei “rurali”, sia caratterizzato da una età media al contrario leggermente più bassa e in proporzione da un lieve maggior contributo da parte delle classi di età soggette ai bandi di reclutamento della RSI. Se si proiettano i dati per anno in un grafico [vedi primo inserto, grafico § 7] si può però osservare il differenziarsi rispetto agli altri tre dell’insieme rappresentato dai nati e residenti nei centri rurali la cui curva ha un andamento molto più accentuato per il 1924 e il 1925 e un brusco crollo per il 1926, laddove negli altri casi non solo il triennio 1924-1926 non si stacca con la stessa forza rispetto agli anni precedenti, ma non presenta sostanziali differenze al suo interno. Si può dunque constatare come l’apporto alla resistenza delle classi di età interessate dalla leva della Repubblica sociale sia maggiore nel contesto rurale che altrove, mentre in ambito urbano questa variabile non sia così decisiva rispetto a quella più generale della giovane età. Dunque, da quanto abbiamo finora visto vi sarebbe una correlazione fra esperienza della migrazione e età di ingresso nelle file della resistenza, sensibilmente più alta per coloro che sono emigrati al di fuori della provincia di Alessandria, leggermente più alta della media per gli immigrati, più bassa per coloro che non hanno fatto esperienza di migrazione. Se si assume a criterio la residenza si verifica come l’età media dei partigiani sia leggermente più alta in città che in campagna. E dato ancora più interessante, rispetto alla popolazione nel suo complesso, la scelta partigiana sembra più diffusa nei centri minori, piuttosto che in quelli maggiori. È possibile avere una conferma di questo scenario, qualora si interroghi il database assumendo a criterio la qualifica ottenuta. Prendiamo in considerazione i residenti in provincia di Alessandria, uniti a coloro di cui, nati in provincia, non conosciamo la residenza, in modo da non escludere dal nostro ragionamento il grosso delle formazioni della fascia meridionale del territorio alessandrino. Se si assume come criterio la qualifica riconosciuta – ossia se si isola la componente esclusivamente “militare” – estrapoliamo su 9204 individui, 6550 no-

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minativi. I partigiani/patrioti residenti in città sono 2034 ovvero solo il 31,05%, un dato sensibilmente più basso rispetto a quello generale. Se guardiamo all’età invece la distribuzione è questa: di 76 individui non abbiamo l’anno di nascita, 327 sono nati prima del 1900 (5%), 1311 fra 1900 e 1914 (20%), 876 fra 1915 e 1919 (13,5%), 2236 fra 1920 e 1924 (34,5%), 1726 dopo il 1925 (26,6%). Dunque anche in questo caso, non registriamo particolari scostamenti rispetto all’età – se non naturalmente una tendenza a una età anagrafica relativamente più bassa, 26,6, ma non difformità evidenti nella loro distribuzione – mentre risulta ulteriormente accentuato il contributo del mondo non urbano. Se infatti si analizza il dato incrociandolo con residenza e luogo di nascita, si osserva come nel caso dei nati e residenti nei centri minori ben il 77,4% dei richiedenti qualifica abbia ottenuto la qualifica di partigiano, patriota o assimilabili; nel caso dei nati nei centri zona o in essi residenti il dato scende al 67,1%, in quello degli immigrati dai centri minori ai centri zona al 61,1%. 4. Mese di ingresso in formazione Dunque finora parrebbe di poter dire che il volto del partigianato alessandrino sia sostanzialmente rurale, pur con tutte le avvertenze con il quale usare questo termine. Forse, qualcosa di più preciso può però esserci restituito procedendo ad altri incroci di dati. Per esempio, la data di ingresso in formazione. Ecco qual è la distribuzione da questo punto di vista per i residenti e i nati in provincia di Alessandria. Nel loro complesso, essi si distribuiscono così: senza indicazione 919, 282 settembre 1943, 267 ottobre 1943, 110 novembre 1943, 74 dicembre 1943, 219 gennaio 1944, 249 febbraio 1944, 394 marzo 1944, 318 aprile 1944, 532 maggio 1944, 667 a giugno 1944, 580 a luglio 1944, 961 ad agosto 1944, 862 a settembre 1944, 1066 a ottobre del 1944, 514 a novembre 1944, 434 dicembre 1944, 773 a gennaio 1945, 433 a febbraio 1945, 581 a marzo 1945, 480 aprile 1945. [vedi primo inserto, grafico § 8] Si tratta di un andamento sinuoso che conosce due punti alti, la primavera del 1944 con una progressione netta fino a giugno, e soprattutto l’estate-autunno del ’44. Sorprende che il mese con in assoluto più adesioni alla resistenza sia ottobre del 1944 – un momento di forti rastrellamenti e prossimo alla fase di ripiegamento invernale – così come sorprende il picco di gennaio 1945. Dal punto di vista percentuale, al netto degli individui di cui manchiamo di questa

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informazione, e dunque su 9803, abbiamo questa distribuzione per quadrimestri: settembre-dicembre 1943 7,4% (733), gennaio-aprile 1944 12,1% (1180), maggio-agosto 1944 27,9% (2740), settembre-dicembre 1944 29,4% (2876), gennaio-aprile 1944 23,2% (2274). Non ci sarebbe dunque stata – non in maniera in fondo così rilevante – la corsa a farsi partigiano a vittoria acquisita. A fine estate 1944 già il 47,4% dei richiedenti risultava inquadrato in formazione. Vediamo se questo scenario si modifica incrociando il mese di ingresso in formazione con il luogo di residenza [vedi primo inserto, grafico § 8]. Nel caso dei soli residenti in provincia di Alessandria gli ingressi in formazione sono così distribuiti (gli individui di cui manchiamo della data d’ingresso sono 756 su 7856): 565 (8%) per il 1943 (212 a settembre 1943, 221 a ottobre 1943, 83 a novembre, 49 a dicembre), 888 (12,5%) per il primo quadrimestre del 1944 (136 a gennaio, 196 a febbraio, 306 a marzo, 250 a aprile 1944), 2097 (29,5%) per il secondo quadrimestre del 1944 (438 a maggio, 483 a giugno, 431 a luglio, 745 a agosto), 2002 (28,2%) per il terzo quadrimestre del 1944 (647 a settembre, 671 a ottobre, 369 a novembre, 315 a dicembre), 1548 (21,8%) per i primi mesi del 1945 (581 a gennaio, 307 a febbraio, 326 a marzo, e 333 ad aprile). Assumendo a criterio dunque la residenza in provincia di Alessandria, si osserva una leggerissima tendenza rispetto alla totalità dei “resistenti” alessandrini ad anticipare l’ingresso in formazione: il 50% dei residenti entra nella resistenza entro la fine dell’estate del 1944. L’andamento mensile degli ingressi in formazione dei soli residenti in provincia di Alessandria non si discosta però nella sostanza da quello generale, tranne per il non presentare la curva un picco significativo in corrispondenza della fine della guerra. Entrambi questi leggeri scostamenti dal dato generale riscontrati a proposito dei richiedenti qualifica residenti in provincia di Alessandria hanno un corrispettivo – e trovano quindi la loro spiegazione – in quanto è osservabile invece a proposito degli emigrati dalla provincia. Analizzandone il mese di ingresso in formazione si verifica come la loro adesione alla resistenza avvenga mediamente dopo coloro che non hanno cambiato residenza. Per gli alessandrini che hanno lasciato la nostra provincia, esaminando questa variabile, la distribuzione è infatti la seguente: di 136 non disponiamo del dato, 138 (10%) nel periodo settembre – dicembre, 176 (12,8%) nel periodo gennaio-aprile 1944, 388 (28,1%) nel periodo maggio-agosto 1944, 344 (24,9%) nel periodo settembre-dicembre 1944, e 333 (24,2%) nel periodo gennaio-aprile 1945. Il mese di più intenso ingresso in formazione è proprio l’aprile 1945, come ben

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evidenzia la loro rappresentazione grafica. La spiegazione di questa anomalia può anche in questo caso essere spiegata a partire dal contesto di emigrazione – come detto prevalentemente quello torinese – e cioè alla costituzione, in vista dell’insurrezione generale, delle squadre di azione patriottica urbane. Nel caso invece degli immigrati in provincia di Alessandria, l’andamento degli ingressi in formazione per quadrimestre è il seguente: settembre-dicembre 1943 9,5% (126), gennaio-aprile 1944 11,2% (149), maggio-agosto 1944 28,6% (379), settembre-dicembre 1944 26,8% (355), gennaio-aprile 1944 23,9% (317). Dunque a fine estate 1944 era in formazione il 49,3% circa dei richiedenti qualifica immigrati in provincia di Alessandria, sostanzialmente in linea con l’insieme dei residenti, così come analogo è l’andamento della curva disegnata dai loro ingressi nelle file del partigianato piemontese. In ultimo, si veda l’andamento dei nati e residenti in provincia di Alessandria (possediamo questo dato per 7092 su 7708 individui) – al netto dunque di immigrati e emigranti – dove come in precedenza abbiamo assegnato d’ufficio la residenza in provincia anche laddove questo dato mancasse. La ripartizione per quadrimestre è la seguente: settembre-dicembre 1943 6,6% (192), gennaio-aprile 1944 12,1% (855), maggio-agosto 1944 27,8% (1973), settembre-dicembre 1944 30,7% (2179), gennaio-marzo 1945 22,8% (1616). Come è possibile verificare dalla rappresentazione grafica è proprio questo gruppo a sostenere due dei picchi – ottobre 1944 e marzo 1945 – conosciuti nel loro andamento generale dai reclutamenti partigiani ed è in questo insieme in cui l’ingresso in formazione risulta essere mediamente più tardivo (a fine estate 1944 è entrato in formazione il 46,5% degli individui). Il fatto che la curva dei nati e residenti si distacchi da quella dei soli residenti così come da quella degli emigrati è dovuto all’andamento negli ingressi in formazione proprio di quei richiedenti qualifica che avevano presentato la domanda alla commissione ligure omettendo il dato della residenza. Ovvero come si dirà agli appartenenti alle Divisioni Mingo e Pinan Cichero. Vale la pena, allora, restringere ulteriormente il campo e verificare se per es. vi siano differenze significative fra aree urbane e aree rurali della nostra provincia. Il grafico [primo inserto, grafico § 9.1] ci restituisce gli ingressi in formazione dei richiedenti nati e residenti in provincia di Alessandria in base al luogo di residenza. Possiamo osservare il divaricarsi in alcuni punti fra l’andamento relativo ai nati e residenti nei centri zona e quello relativo ai nati e residenti nei centri rurali.

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La linea dei primi presenta un andamento molto più pronunciato. Vi sono poi alcuni “picchi” nella sua evoluzione che non hanno corrispondenza in quelle degli altri gruppi come ottobre 1943 e marzo 1945 – che però anticipa in qualche modo quanto fra i “cittadini” avverrà ad aprile. “Rurali” e “cittadini” poi si differenziano nella tarda primavera-inizio estate del 1944 quando mentre gli ingressi in formazione continuano la loro ascensione fra i primi, essi discendono abbastanza nettamente fra i secondi. Per analizzare meglio queste oscillazioni può essere allora utile affiancare i numeri assoluti con la loro proiezione in termini percentuali [vedi primo inserto, grafico § 9.2]. Essa conferma il lungo trend di crescita degli ingressi in formazione relativi ai nati e residenti nei centri minori, fra l’aprile e l’agosto del 1944, e invece l’andamento assai più oscillante dei reclutamenti fra i “cittadini” A questo punto può essere ulteriormente interessante confrontare l’andamento dei reclutamenti per classe d’età, anche per chiarire il peso che in esso possono aver avuto i bandi della repubblica sociale. Il grafico [primo inserto, grafico § 10] presenta l’andamento per anno di nascita, accorpando e confrontando classi di età nelle stesse condizioni rispetto agli obblighi militari stabiliti da Salò (1920-1921, 1922-23, 1924-25, 1926, 1927). Dalla proiezioni in numeri assoluti non è possibile rilevare una qualche difformità sostanziale di andamento fra le diversi classi di età. È osservabile però come in coincidenza con il bando Graziani del febbraio 1944, richiamante alle armi le classi del 1922 e del 1923, si registri una prima intensissima fase di crescita del movimento partigiano di cui però sono piuttosto protagoniste le classi 1924-’25, già chiamate alle armi nel precedente mese di novembre. È l’effetto probabilmente dell’introduzione della pena di morte come sanzione per tutti i renitenti alla leva. Si noti invece l’andamento degli ingressi in formazione relativo alla classe 1926, che inizia ad essere pronunciato a partire dall’aprile del 1944 dunque prima del bando, nel giugno, che la chiamerà alle armi assieme alle classi 1920-1921, ma che è l’unica in cui la crescita della curva non flette dopo l’agosto 1944, che segna il punto momentaneo di arresto del movimento partigiano. È altrettanto vero che per la classe di età 1926 solo il 15% circa degli ingressi in formazione si produce prima del giugno 1944, mentre nel caso delle classi 1920-1921 questo dato si rialza al 22,5%. Considerato che sul totale degli individui di cui ci stiamo occupando lo stesso dato è del 23,8%, possiamo affermare che il bando del 1944 è decisivo, nel determinare l’ingresso nelle file della resistenza, per la classe 1926, non per quella del 1920 o del 1921. Del resto, l’impatto dei bandi di Salò non può che

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