Paul Verhoeven

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PAUL il cinema di VERHOEVEN

PAUL il cinema di VERHOEVEN !

PAUL il cinema di VERHOEVEN

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FALSOPIANO

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CINEMA


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EDIZIONI

FALSOPIANO

PAUL il cinema di VERHOEVEN


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Indice

Prefazione di Antonio Pettierre e Fabio Zanello

p. 9

La serie televisiva dei destini incrociati. Floris di Mario A. Rumor

p. 15

Gli strani amori di quelle signore di Roberto Lasagna

p. 21

Il frutto della passione: Fiore di carne di Francesco Saverio Marzaduri

p. 27

Fiore di carne di Davide Magnisi

p. 34

Kitty Tippel… quelle notti passate sulla strada di Roberto Lasagna

p. 47

Soldato d’Orange di Ilaria Dall’Ara

p. 55

Spetters di Roberto Lasagna

p. 61

La maniera dell’ambiguità: L’amore e il sangue di Francesco Saverio Marzaduri

p. 69

Il bacio della donna mantide nel neonoir verhoeveniano. Osservazioni sul genere e consonanze tematiche fra Il quarto uomo, Basic Istinct ed Elle di Fabio Zanello

p. 75


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Memorie di un’umanità perduta: RoboCop di Antonio Pettierre p. 92 Sogno o son desto? Atto di forza di Antonio Pettierre

p. 102

Basic Istinct di Aurora Auteri

p. 112

Ricostruendo Showgirls di Michele Raga

p. 121

Starship Troopers-Famteria dello spazio di Giorgio Placereani

p. 130

L’uomo senza ombra di Giuseppe Gangi

p. 143

AmeriCamp. Imagerie kitsch ed estetica camp nel cinema di Verhoeven di Giuseppe Gangi

p. 152

Alice attraversa il paese degli orrori. Black Book di Mario Molinari

p. 167

La democratica creazione delle ossessioni. Tricked di Elisa Torsiello

p. 173

Elle di Ilaria Dall’Ara

p. 178

Benedetta. Il cinema del proibito oggi di Fabio Zanello

p. 181

“Roy Batty sono io”: intervista a Rutger Hauer a cura di Francesco Saverio Marzaduri

p. 187

Filmografia

p. 196

Bibliografia

p. 213


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Il cinema di Paul Verhoeven

Prefazione di Antonio Pettierre e Fabio Zanello

Quando leggerete queste righe la proiezione di!Benedetta, il diciassettesimo lungometraggio di Paul Verhoeven con locations a Bevagna, Montepulciano!e!Perugia, è passato in concorso al 74° Festival di Cannes dopo il rinvio della sua uscita a causa della pandemia del Covid 19, pagando l’attesa di una cinefilia già duramente provata dal!lockdown dei cinema, che ha particolarmente penalizzato l’industria cinematografica come pochi altri settori.!E, pandemia a parte, da qui sorge anche il dubbio che vista la materia incandescente (Benedetta Carlini, badessa del XVII secolo con fantasie erotiche che viene demonizzata per il suo lesbismo) questa ultima fatica del maestro olandese sia nata davvero sotto pessimi auspici. Un racconto filmico pregno di libertinaggio all’interno di un convento,!scritto da David Birke, già sceneggiatore di!Elle, che lo ha ricavato dal romanzo!Atti impuri (1986) di Judith C. Brown,!che ci riporterà sicuramente agli scandali cinematografici di Walerian!Borowczyk, Andrzej Zulawski!e Ken Russell, che toglievano il sonno negli anni Settanta al Vaticano e ai censori, anche se come sempre ciò che conta davvero è la qualità artistica del prodotto. Eppure, Verhoeven non è mai stato un artista ermetico come David Lynch, con cui condivide l’interesse per le narratologie del sogno, o Terrence Malick, a cui possiamo accostarlo per le revisioni soggettive della Storia, ma al contrario l’olandese è sempre stato ben disposto a sviscerare la sua poetica ai media e (ri)mettersi in gioco. E, nonostante le tematiche scabrose, iconoclaste e caustiche dell’opera verhoeveniana, quella del regista è una modalità di mettersi a nudo assai elegante, priva di narcisismi autoriali, che insegna a pubblico e critica come vorrebbe

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Antonio Pettierre e Fabio Zanello

che i suoi film fossero letti e interpretati. Questo approccio è leggibile come un parziale risarcimento alle dichiarazioni sfuggenti sulla collaborazione con Verhoeven, che Rutger Hauer, l’interprete feticcio, ha rilasciato in occasione della sua purtroppo definitiva apparizione pubblica al Lucca Film Festival del 2019, lasciando intravedere un rapporto tutt’altro che idilliaco fra attore e cineasta. Meno insoddisfacente, invece, il fatto che attualmente i francesi, dopo la fruttuosa esperienza di Elle continuino a dare credito al regista per un altro progetto come Bel Ami, nuovamente di matrice letteraria, poiché la fonte è l’omonimo classico di Guy de Maupassant, destinato alla serializzazione televisiva. Nelle intenzioni dei realizzatori dovrebbero essere otto puntate di natura metariflessiva in quanto il décor è fornito stavolta direttamente dal circolo mediatico, giusto per traslare l’opera di Maupassant nella contemporaneità. Ma anche un segno dei tempi, perché a quanto pare possiamo ipotizzare che anche Verhoeven entrerà con Bel Ami nel novero dei registi assorbiti da una televisione che gioca nel XXI secolo un ruolo fondamentale nella trasformazione della fruizione cinematografica e, in particolare, del passaggio al piccolo schermo di autori che sono stati di importanza cruciale per il cinema degli ultimi decenni. Come per il già menzionato Lynch, anche per Verhoeven oggi diventa più semplice trovare finanziamenti e spazio nella serialità televisiva, poiché oggi più che mai il lavoro cinematografico è condizionato dagli introiti di un film, imponendo al regista una minore libertà espressiva. Meglio ancora: un certo tipo di eccentricità autoriale alla Lynch o alla Verhoeven può essere addirittura incentivata. Del resto prima di battere i territori dei generi erotico, thriller, horror, storico, fantascientifico e satirico, Verhoeven anticipava Lynch, Bruno Dumont e Steven Soderbergh, avendo già percepito che l’audiovisivo d’autore non era più solo destinato al cinema, ma doveva per forza adattarsi alle trasformazioni della medialità odierna, quando realizzò con Rutger Hauer la serie tv Floris (1969). Per Verhoeven, ne siamo certi, queste mutazioni industriali, mediali e di abitudini fruitive saranno un’opportunità

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Il cinema di Paul Verhoeven

da sfruttare al massimo, in quanto dopo un’esperienza spettatoriale come Elle il suo fermento creativo è lungi dall’esaurirsi, ma troverà nuove modalità e spazi per svilupparsi, arrivando al pubblico attraverso le piattaforme di streaming, di cui ormai abbonda la rete. “Il cinema di Paul Verhoeven” vuole essere un contributo critico a un regista, almeno in Italia, ampiamente sottovalutato, prima sconosciuto e poi relegato a creatore di prodotti mainstream. Verhoeven è stato un regista di prima grandezza nel suo paese, l’Olanda con la sua piccolagrande cinematografia che ha dato i natali a Joris Ivens, uno dei più grandi documentaristi del XX secolo, approcciandosi al cinema iniziando con la televisione e pellicole che hanno avuto successo locale. Fiore di carne è stato candidato all’Oscar come miglior film straniero ed è tuttora in cima alle classifiche degli incassi in Olanda. Soldato d’Orange è apprezzato a Hollywood e sarà proprio Steven Spielberg tra i primi a invitarlo nella mecca del cinema. Se, appunto, il primo periodo olandese è stato di crescita e di definizione del suo stile e approfondimento dei suoi temi, bisogna attendere l’arrivo negli Stati Uniti con RoboCop perché il pubblico mondiale iniziasse a conoscerlo veramente e la critica internazionale a parlarne. Durante la sua lunga trasferta a Hollywood, durata dal 1985 al 2000, in quindici anni dirige sei film mediamente sempre con un grande riscontro di pubblico. Ed è interessante come abbia affrontato per quattro volte il genere fantascientifico con opere di tutto rilievo e il miliare Basic Istinct che ha riscritto il noir negli anni Novanta. Anche il vituperato Showgirls, dalla critica e dal pubblico dell’epoca, è una storia fuori dagli schemi, coraggiosa, un film praticamente impossibile da girare oggigiorno per la sfrontatezza con cui affronta il sesso e l’utilizzo del corpo femminile per affermarsi nella società dello spettacolo di Las Vegas ipercompetitiva e cinica. Tornato nella terra natia, dopo la trasferta americana, Verhoeven ha centellinato le proprie produzioni, vuoi per la difficoltà nel trovare finanziamenti, vuoi per la scabrosità delle sue opere. Così negli ultimi vent’anni hanno visto la luce solo quattro pellicole: Tricked che non è

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Antonio Pettierre e Fabio Zanello

mai stato proiettato nelle sale italiane; Black Book ed Elle che, pur avendo avuto un riscontro da parte della critica, hanno incontrato difficoltà nella distribuzione; e la storia infinita di Benedetta, di cui abbiamo parlato all’inizio. Del resto, Verhoeven è autore, al tempo stesso, per lo stile ironico e scabro, la capacità di modellare i generi alla sua visione della realtà, dove il sesso e il sangue, la carne e la vitalità, la morte e la vita sono mostrati senza reticenza alcuna e, proprio per questo, appunto, “scomodo” e poco propenso a compromessi che non lo aiutino nei suoi scopi finali. In particolare, l’iterata rappresentazione del matrimonio tra l’erotismo – spesso spinto e con frequenti nudi maschili e femminili che provocano scandalo – e la morte, in un’estasi visiva sporca e cruda, hanno prodotto una forte resistenza al suo cinema, specialmente in Italia dove la sua fortuna è stata a dir poco altalenante. Così, “Il cinema di Paul Verhoeven” è operazione risarcitoria per un autore (consciamente lo definiamo tale) che ha attraversato gli ultimi cinquant’anni di storia del cinema non abdicando mai alla propria visione, parlando per immagini allo spettatore nel Vecchio e nel Nuovo Mondo sempre con la medesima voce. Il presente lavoro è costituito da una molteplicità di punti di vista i cui contributi mettono in risalto la complessità stilistica e tematica dell’intera filmografia di Paul Verhoeven. Nelle intenzioni dei curatori il differente e articolato approccio critico dei vari saggi fornirebbe, da un lato, un ventaglio di possibili avvicinamenti alla visione dei film del regista olandese, mentre dall’altro la diversificazione delle interpretazioni evidenzia la profondità del cinema del regista che non sempre si coglie subito, sviati dalla cruenta messa in scena della narrazione. Seguendo un fil rouge cronologico, sono presenti nel volume un ventaglio di metodi interpretativi dello stile e dei temi ricorrenti nelle pellicole. Mario A. Rumor introduce il lettore nel mondo verhoeveniano compiendo un’anamnesi di Floris, lavoro televisivo maturo e collaborazione con Rutger Hauer, suo alter ego nel primo periodo olandese. I film della prima parte di carriera - Gli strani

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Il cinema di Paul Verhoeven

amori di quelle signore, Fiore di carne, Kitty Tippel… quelle notti passate sulla strada, Soldato d’Orange, Spetters, L’amore e il sangue sono approcciati da Roberto Lasagna, Ilaria Dall’Ara e Francesco Saverio Marzaduri in analisi puntuali delle tematiche interne e della forma con cui sono espresse. Davide Magnisi si sofferma ulteriormente su Fiore di carne fornendoci una lettura del testo filmico che mette in risalto la forza della sessualità come collante estetico-narrativo. Fabio Zanello, invece, amplia la visione scrivendo un saggio approfondito sulla figura della femme fatale e declinando una definizione del neonoir verhoeveniano attraverso un viaggio che unisce temporalmente e spazialmente Il quarto uomo, Basic Instinct ed Elle. Antonio Pettierre si focalizza sui primi lavori in terra statunitense con due approcci differenti: da un lato, un’interpretazione filmologica di RoboCop, e, dall’altro, l’analisi iconologica di Atto di forza. Altre interpretazioni filmologiche le abbiamo nei saggi di Aurora Auteri in Basic Instinct, di Mario Molinari in Black Book, di Elisa Torsiello in Tricked e di Giuseppe Gangi in L’uomo senza ombra. Gangi scrive anche un ampio e documentato saggio estetico definendo il camp e il kitsch quali elementi caratterizzanti del periodo americano di Verhoeven. Abbiamo poi uno studio comparativo scritto da Giorgio Placereani per Starship Troopers – Fanteria dello spazio con assonanze e tradimenti tra il romanzo di Robert Heinlein e il film di Verhoeven. Michele Raga sceglie di analizzare la (s)fortuna critica di Showgirls in un lavoro dettagliato sulla ricezione dell’opera filmica e il suo impatto nella cultura pop. Non manca poi un punto di vista al femminile con Elle di Ilaria Dall’Ara, tra l’altro presente anche nei saggi di Aurora Auteri ed Elisa Torsiello. Il libro si chiude con l’intervista a Rutger Hauer raccolta da Francesco Saverio Marzaduri poco tempo prima della morte dell’attore. Insomma, un’ampia composizione che permette sia al cinefilo che voglia approfondire il cinema di Paul Verhoeven sia al semplice spettatore che si avvicini per la prima volta alle pellicole del regista olandese di avere a disposizione degli strumenti per una visione più consapevole e compiuta.

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Antonio Pettierre e Fabio Zanello

A margine, Antonio Pettierre desidera ringraziare: innanzi tutto, le autrici e gli autori che hanno permesso con il loro lavoro la realizzazione de “Il cinema di Paul Verhoeven”; i colleghi della redazione di Ondacinema per l’appassionante continuo confronto sempre proficuo e foriero di idee e spunti critici; i propri genitori per essere sempre presenti e per avergli trasmesso l’amore per il cinema; l’amata Rossella per l’appoggio incondizionato e la sua complicità. Infine, i due curatori vogliono dedicare questo libro alla memoria di Rutger Hauer.

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Il cinema di Paul Verhoeven

La serie televisiva dei destini incrociati. Floris (1969) di Mario A. Rumor Quando la televisione nasceva pressoché in studio, in bianco e nero e con soggetti tutto sommato addomesticati a budget risicati, in Olanda fa la sua comparsa una serie per ragazzi ambientata nel tardo medioevo che pare un omaggio raffazzonato a Robin Hood, ma in realtà è qualcosa di più. Si intitola Floris ed è trasmessa da NTS, la rete pubblica, oggi diventata NTR. L’anno è quello dello sbarco sulla luna, il 1969, eppure quello scricciolo di televisione riesce a tenere gli occhi del pubblico incollati a terra, mentre si susseguono sullo schermo combattimenti con la spada, inseguimenti a cavallo ed espedienti di ogni sorta per battere gli avversari del protagonista, un nobile spogliato dei suoi beni. Il successo di Floris è senza precedenti, nel senso che la televisione olandese mai aveva sperimentato qualcosa di simile, lasciandosi di solito ammaliare da serial di analogo tenore ma prodotti nel vicino Belgio. Un successo che era stato capace di riunire davanti al televisore giovani e adulti. In onore alla serie e al suo indimenticato eroe, il Museum of the 20th Century di Hoorn, in Olanda, ha allestito addirittura una mostra su Floris a settembre 2019, nata grazie alla collaborazione di Jaap Kooimans, autore dell’unico libro dedicato “all’eroe della giovinezza” Floris: “Floris. Het complete verhaal achter de succesvolle televisieserie” (“Floris. La storia completa della fortunata serie televisiva”, Dato, 2018). Al di là della sua veste ultrapopolare e l’ammissione nelle teche televisive, Floris è memorabile anzitutto per una ragione pratica. Rappresenta infatti l’incontro tra un regista alle prime armi, un attore ventiquattrenne senza particolare talento e un insegnante passato alla scrittura che sognava di scrivere per il cinema. Paul Verhoeven ha 29 anni quando riceve in seconda battuta la proposta di dirigere una serie televisiva per la rete di stato: si era rivelato autore di apprezzati docu-

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mentari negli anni di formazione all’accademia cinematografica e sembrava non possedere lo snobismo di quanti all’epoca consideravano la televisione un mezzo di espressione inferiore al cinema e al teatro (come farà il primo candidato al ruolo di regista di Floris, vale a dire Frans Weisz). L’attore si chiama invece Rutger Hauer e, prima della chiamata di Floris, recitava in una minuscola compagnia teatrale itinerante, la Noorder Compagnie, grazie alla quale lui e la moglie Ineke riuscivano a malapena a sbarcare il lunario pur portando in scena un repertorio di classici (Shakespeare e Molière) e qualche autore moderno (Eugène Ionesco). Gerard Soeteman, che era stato insegnante e spesso aveva allestito commedie teatrali, è già a buon punto come autore e produttore televisivo: in quegli anni aveva anche realizzato brevi documentari sulla vita in provincia, conoscendo in tal modo Hauer e la Noorder Compagnie. Mancano pochi anni ancora alla formulazione liberatoria e furiosa di Fiore di carne (Turks Fruit, 1973), il film da lui scritto e diretto per l’appunto da Verhoeven che lo catapulterà nell’olimpo degli scrittori olandesi per il cinema. Floris, senza pentimento, è un tassello integrante di quell’olimpo creativo dal quale, a 83 anni, egli non è ancora sceso. La sodale collaborazione dei tre va inquadrata come anticamera alle rispettive carriere cinematografiche, che tradotte in numeri equivale a ben tredici pellicole scritte da Soeteman e dirette da Verhoeven, alcune delle quali interpretate da Rutger Hauer. Col senno di poi, e con l’immagine primigenia e forse naïf di Floris, il loro insediamento nell’industria dello spettacolo appare una girandola vorticosa in cui numerosi temi affrontati nella serie televisiva finiscono riacciuffati, ampliati, esacerbati o privati di quell’ingenuità giovanile in film come Soldato d’Orange (Soldaat van Oranje, 1977) e soprattutto L’amore e il sangue (Flesh+Blood, 1985) il cui protagonista Martin è sempre stato considerato dal suo interprete Rutger Hauer una versione matura e più cruda di Floris. L’amore e il sangue in particolare si paleserà quale estradizione in piena regola del simpatico personaggio televisivo; tra l’altro Hauer lo aveva girato praticamente in contemporanea all’altro suo più celebre film ambientato nel medioevo: Ladyhawke (1985). Una simile

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abbuffata di quel periodo storico si rivela essere anch’essa frutto di fortunati incroci e coincidenze: l’interesse di Verhoeven per il medioevo; il desiderio di un produttore nel coinvolgere il regista in un film simile, ma per un pubblico adulto, grazie alla fortuna di Floris. D’altra parte, non va dimenticato che Gerard Soeteman per documentarsi e scrivere la serie aveva scelto come testo principe nientemeno che il classico di Johan Huizinga, “Autunno del Medioevo”. C’è un punto inoppugnabile nella genesi del progetto di Floris. Rutger Hauer la pone con drastica lucidità nella sua autobiografia “All Those Moments” (Harper Entertainment, 2008), scritta assieme a Patrick Quinlan: la televisione olandese negli anni Sessanta a malapena esisteva e ciò che veniva prodotto era a dir poco pietoso. Tre canali e una programmazione da fame. Ma bastava guardare i vicini di casa per figurarsi tutto un altro mondo. La Tv belga in quel periodo poteva vantare numerosi programmi per ragazzi, alcuni ambientati proprio nel medioevo (un esempio: Gianni e il magico Alverman del 1965). Oppure bastava volgere lo sguardo ai classici televisivi inglesi Ivanhoe (1958), lo stesso Robin Hood (1955) o il francese Thierry La Fronde (1963) per tentare un rapido raffronto. Ed è a quei serial che guarda con ammirazione il direttore dei programmi televisivi Carel Enkelaar (un tempo popolare giornalista e primo caporedattore del telegiornale della rete NTS). Nel 1967 Enkelaar decide di avviare qualche innovazione coinvolgendo per primo il capo del dipartimento dei programmi per ragazzi Ben Klokman. Tre scrittori vengono invitati a presentare un progetto: Ann Rutgers van der Loef, Miep Diekman e Gerard Soeteman. Salteremo la parte in cui i primi due entrano in conflitto con la rete, per balzare direttamente al momento in cui la spunta Soeteman: dei tre il più abile nel proporre un pitch in linea con le direttive e il budget richiesto. Si tratta ovviamente di Floris en de Fakir (Floris e il fachiro, primo titolo con cui la serie è conosciuta), in cui egli aveva immaginato un nobile, Floris van Roozemond, vagamente ispirato al conte Floris V della storia olandese, di ritorno nei Paesi Bassi agli inizi del 1500 da un lungo viaggio per mare in Oriente accompagnato dall’indiano Sindala. Qui

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scopre che il suo castello è stato usurpato da uno sgherro del duca Karel van Gelre; dopo essere stato imprigionato, Floris fugge e da quel momento affronta in più occasioni i suoi avversari. Paul Verhoeven una volta convocato da Ben Klokman, con il solo curriculum documentaristico in suo possesso, è inizialmente scettico sulla decisione da prendere: Floris è promettente ma resta pur sempre una serie televisiva dal destino effimero una volta esaurita la sua corsa. Preferirebbe di gran lunga un adattamento cinematografico. Mosso da spirito pioneristico e forse un po’ di avventatezza (non avendo mai gestito grandi set e un cospicuo numero di attori e comparse) si convince che il progetto è alla sua portata e assieme a Soeteman, nell’aprile 1968, perfeziona le sceneggiature mentre parte alla ricerca dei luoghi (i castelli di Doornenburg, Loevenstein e Hernen) e dell’attore principale. Il primo in lizza è Carol von Herwignen, ma la compagnia Theater Rotterdam in cui lavorava si rifiuta di lasciarlo libero. Soeteman si ricorda allora di Rutger Hauer e delle sue qualità di spadaccino in scena e gli offre la parte, nella speranza che sappia pure cavalcare. Con un budget iniziale di 355 mila fiorini, destinato a lievitare fino a un milione e 200 mila attirando sul direttore Enkelaar non poche critiche, Floris viene girato in bianco e nero paradossalmente per contenere i costi ma anche per trarre vantaggio nello svantaggio: il pubblico si sarebbe mai accorto del diverso colore di un costume o di una barba posticcia? Certamente no. In linea di principio la serie si rivela la produzione pioneristica auspicata dai suoi produttori, e di proporzioni notevoli: 45 membri dello staff, 80 attori e migliaia di comparse, sette cavalli in scena e addirittura una scimmietta (che vedremo nell’episodio 2). Le riprese sono programmate da metà luglio a fine ottobre del 1968, ma le condizioni del tempo e imprevisti di varia natura rallentano la scaletta di marcia con un Paul Verhoeven autodidatta eppure rigoroso nel tenere sotto controllo l’intero baraccone (e per questo più libero di improvvisare). Dopo un mese, egli ha realizzato solo un dieci per cento di quanto programmato, facendo impensierire la rete che quindi gli affianca un ispettore di produzione con calcolatrice alla mano.

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Floris viene girato interamente on location, perfino gli interni si filmano all’interno dei castelli, ma l’approccio di Verhoeven è già cinematografico, egli lavora con inusuale precisione e un ideale di riprese effettuate non in ordine cronologico ma in verticale per ambientazioni, attori in scena, eccetera, andando così a comporre un immenso mosaico televisivo da montare soltanto alla fine. A causa dei ritardi, la serie viene passata da tredici a dodici episodi, con una puntata divisa in due parti. La recitazione immatura di Rutger Hauer, inclusi alcuni suoi stunt spericolati, mette in agitazione il regista, pertanto egli si vede costretto a ridurre il numero delle battute dell’attore. Verhoeven nota un miglioramento in corso d’opera e una maggiore spavalderia davanti alla macchina da presa spesso vedendolo avanzare di un passo rispetto alla posizione assegnata, quasi a voler dominare la scena come accadeva a teatro. Questo spiega due cose: il cambiamento del titolo originale in un semplice “Floris” e la prevalenza delle scene d’azione che coinvolgono Rutger Hauer quando è ripreso a cavallo, mentre è portatore di ambasce o supera indenne le imboscate, o quando visita l’appassionata di poemi romantici Lady Ada (Diana Dobbelman). Alle battute migliori o alle trovate brillanti ci pensa solitamente l’attore Jos Bergman nella parte di Sindala, e spesso anche i personaggi di supporto: un esempio riuscito è l’ammiraglio Pier (Hans Boskamp) con il suo abbigliamento piratesco. Anche se può apparire dimesso nell’aspetto, televisivamente parlando, Floris è un gagliardo prodotto seriale capace di reggere il confronto con il tempo, grazie alla frizzante concentrazione di personaggi bizzarri ma piacevoli, e a una voluta leggerezza di fondo. Fin dal primo episodio, seguito all’epoca da oltre due milioni e mezzo di telespettatori, la serie afferma di essere una cosa (una copia di Robin Hood), per poi affrontare direzioni inaspettate basate sull’affermazione eroica del protagonista e sulla complicità con il fidato Sindala. Nel girone ben collaudato di episodi talvolta legati fra loro, trovano posto assalti ai castelli, potenti cannoni da sabotare, astute ruberie, matrimoni di convenienza, eccetera. Ogni situazione narrata è spesso filtrata dall’ironia (dame che

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incrociano gli occhi, gli avventori dell’osteria in fuga al suono del nome “Pier”, il banchiere scrupoloso) e da ammiccamenti ai tempi moderni: i giochi di magia del prigioniero muto, il pollice su di Floris, l’arguzia di Sindala, qualche numero musicale. In tale affresco di variabili narrative, Paul Verhoeven muove la camera con dinamicità, cercando spesso angolature “da grande schermo” o arricchendo la qualità scenica tramite riferimenti pittorici come vediamo accadere nell’episodio uno, Het Gestolen Kasteel (Il castello rubato), con le dame circondate da levrieri nella sala delle udienze. Girare in esterni, inoltre, gli consente di catturare la bellezza delle città olandesi (un po’ meno efficaci e ridondanti si dimostrano invece le riprese di boschi e campagne). Per tutto il tempo della sua permanenza sullo schermo, Floris vive di questa sua luce trasversale sulla Storia rivisitata con umorismo e avventura, consapevole di prendersi sul serio ma fino a un certo punto. Baciata da uno strepitoso successo di pubblico, la serie trasmessa nell’ottobre 1969 non ottiene la tanto desiderata seconda stagione a causa dei costi (nel 2004 viene prodotto un film scritto da Soeteman ma senza Hauer). Tutto l’entusiasmo di Verhoeven e Soeteman, e le idee accantonate dalla produzione finiscono pertanto riciclate nelle produzioni cinematografiche a seguire. Rutger Hauer diventa inaspettatamente una star alla tenera età di 25 anni, ma continua a recitare per la Noorder Compagnie. Del successo televisivo di Floris approfittano infine un po’ tutti: in quel periodo escono album a fumetti, fiabe con illustrazioni a colori e perfino gomme da masticare con l’effige del protagonista. Dal pantano “feudale” in cui si trovava, grazie a Floris e a Paul Verhoeven la televisione olandese entrò di diritto nell’età del progresso e della modernità.

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Il cinema di Paul Verhoeven

Gli strani amori di quelle signore (1971) di Roberto Lasagna L’opera prima di un cineasta tante volte si scopre rivelativa e nel caso di Verhoeven il primo lungometraggio non fa eccezione. Gli strani amori di quelle signore (1971) si affida a collaboratori che diverranno abituali (su tutti, il fotografo Jan De Bont) per imprimere dinamismo a una commedia già auto-ironica tratta dal romanzo di Albert Mol (autore che appare in carne e ossa nel cameo di un potenziale marito per l’amica della protagonista, dai modi arroganti e aristocratici, sdegnata per l’origine popolare della sua possibile consorte). Verhoeven definisce innanzitutto l’atmosfera surreale identificando una palazzina olandese in cui vivono le due protagoniste, Greet, prostituta dallo spiccato senso artistico, e la sua vicina e collega Nell, che cerca l’amore romantico nella scorribanda di clienti pronti a mettere in scena passivamente le proprie fantasie sessuali. Il sarcasmo disseminato lungo tutto il film è coniugato con un ritmo concitato, mentre la tensione verso l’eccesso è qui in embrione, pronta a caratterizzare le opere successive in quella dinamica fatta di accelerazioni e improvvise esplosioni. L’anarchica imprevedibilità di Spetters e di molto cinema di Verhoeven ha dunque la sua matrice originaria in questa commedia ricca di gag, in cui il salotto delle prostitute strizza l’occhio al cinema slapstick prima ancora che alla lanterna magica in chiave voyeuristica (il voyerismo sarà piuttosto oggetto delle attenzioni dissacranti di Kitty Tippel). La forma del film, in ogni caso, appare sbilanciata, sconquassata dai colpi della compulsività comica e sessuale. La critica avrebbe talvolta frettolosamente bollato l’esordio del cineasta olandese come una commedia pecoreccia, priva del sanguigno pathos delle migliori prove successive. Ma la critica talvolta non vede o non vuol vedere, soprattutto quando sarà più chiaro il disegno dell’autore attraverso le opere a venire.

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Antonio Pettierre e Fabio Zanello

Al centro della farsa e del disordine si muove Greet, la cui abitazione è adibita a teatro surreale, preparato con vera dedizione alla causa di venire incontro alle richieste più bizzarre dei suoi clienti. Greet è diretta, schietta, intuitiva. Usa il suo corpo per attirare la fauna di borghesi che vanno a trovarla e ugualmente mette alla berlina la loro ipocrisia, per i quali il tabù sessuale sembra poter essere soltanto oggetto di un lavoro creativo, una terapia senza qualifiche che ha per scopo l’esibizione “protetta” nel teatrino anonimo adibito dalla padrona di casa. Greet asseconda le richieste e i travestimenti più beffardi, portando in scena l’avvilimento di questi borghesi guardati con disprezzo, incapaci in realtà di provare vero piacere. Il godimento arriva fingendo di essere un gallo che insegue due galline, o la vittima di un mostro di un horror che ottiene di spaventare realmente un’altra vicina di casa di Greet. Il bordello minimale diviene una sorta di teatro di posa, in cui più che far riflettere, Verhoeven intende esibire in maniera divertita l’essenza dell’incontro come luogo di una recita, ripetuta e necessaria per provare piacere, dove la stessa prostituta è soprattutto un’attrice piuttosto che una professionista del sesso. Perché i rapporti carnali sono praticamente elusi, presentati quando già conclusi, oggetto delle aspirazioni dei personaggi maschili e condotti ad arte dalle protagoniste le quali, pur vivendo una specie di rivalsa nel dominare la lunga lista di uomini passivi capaci ad abbandonare nell’anonimato dell’appartamento il loro status sociale, rimangono nondimeno pronte a sognare una storia vera, come quella che potrebbe essere vissuta con il romantico Piet. Quello di Greet è pur sempre un lavoro, che la società tollera e alimenta tra le pareti dell’anonimato, nella “camera oscura” che assume inevitabilmente toni retrò, e i clienti sono molti, moltissimi, dettando i ritmi di una corsa forsennata, con i soldi che sono il materiale di scambio e il termine ultimo con cui concludere ogni incontro e spegnere il sorriso invitante. Se in futuro, nel cinema di Verhoeven, l’istintualità feroce prenderà il sopravvento, il divertimento dato dai travestimenti di questa commedia chiassosa non nasconde, anzi lascia divampare in più momenti, il

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Il cinema di Paul Verhoeven

Gli strani amori di quelle signore (1971)

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contrasto tra realtà e aspirazioni delle protagoniste più che dei frequentatori della palazzina olandese. Infatti, se i convenuti si sottomettono a rituali altrimenti umilianti in cui il tabù rimane sigillato nell’anonimato delle notti brave e per loro questi cerimoniali divengono compensatori di una vita di finzione, per Greet e Nell il desiderio/sogno/aspirazione di una relazione amorosa “alla pari” permane pur nella quotidianità della vita fatta di recite in cui l’uomo si finge sottomesso per provare piacere. In questo la commedia sarcastica anticipa tutto il cinema di rivendicazione femminile del cinema di Verhoeven che verrà, la cui complessità merita attenzione e di cui si intravedono momenti gustosi nel lungometraggio d’esordio. Greet, non a caso, ha un aspetto anche un po’ androgino e Gli strani amori di quelle signore non si sviluppa tanto come una satira sul perbenismo, ma come una presa d’atto della condizione femminile e della necessità di prendere parte a una finzione, meglio se con un ruolo attivo, “direttivo”, in cui tentare di muovere qualcosa a proprio favore nella scacchiera sociale del dominio. Lo sguardo nichilista che ritroveremo nei futuri lungometraggi si palesa nel disinganno di voler riconoscere una condizione un po’ inevitabile, in cui la donna, che si muove per denaro come vuole una società mercantilista, è vittima di un disordine talvolta fatale, in cui finiscono vittime soprattutto i sentimenti e le illusioni (il cui spazio sarà sempre più ridotto, come per la protagonista di Spetters). La farsa ha la sua nobiltà nella dimensione del caos forsennato in cui Verhoeven non si sottrae all’irruente baldanza di un mescolamento scenografico, narrativo e stilistico talvolta molto divertente e qua e là più stantio, dove il conformismo viene messo alla berlina da una protagonista beffarda e a tratti coriacea, veritiera nel suo ruolo di capo-recita. La rappresentazione smaschera la doppiezza psicologica costitutiva degli individui: anche i personaggi più negativi possiedono tratti che in alcuni momenti possono lasciar scorgere la loro fragilità, così come anche i personaggi più positivi non di rado raggiungono punte detestabili. Le armi narrative e stilistiche dell’eccesso si configurano allora in

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Gli strani amori di quelle signore (1971)

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Verhoeven come quelle forme che gli permettono di portare in scena racconti dinamici, incentrati sul contrasto tra realtà e aspirazioni, calati nel disprezzo verso la fauna benpensante, divincolati dalla prudenza, dal buon gusto a priori, come se il suo stesso cinema ci sganciasse dal Bon Ton imperante per mettere in mostra un’eterna recita in grado di raffigurare le ossessioni dei personaggi e nello stesso tempo di portare alle estreme conseguenze la raffigurazione della gabbia in cui il loro tempo li rende protagonisti passivi. Il grande caos esistenziale prende il sopravvento, ma qualcuno, negli orizzonti dell’autore, sembra riuscire a cambiare strada, magari nella consapevolezza che le grandi rivoluzioni sono soprattutto quelle piccole, oppure arrendendosi all’evidenza che un po’ di realismo e un po’ di concretezza possono contribuire a stare meglio. E probabilmente il realismo è anche riconoscere come sia necessario fingere per difendere le proprie aspirazioni, come riesce a fare Nell che si sposa. Mentre è pur vero che il mondo attorno non rimane del tutto indifferente alle asprezze, a guardare il trattamento riservato all’ex compagno di Nell, brutale e meschino, da parte di chi, vicino di casa o osservatore occasionale, ha potuto assistere alle violenze subite dalla donna. Verhoeven carica la sua scena come una commedia a orologeria, che esplode e diverte, lasciando il campo a scenari più inquietanti e raffigurazioni storiche disposte a cogliere lo spirito dei tempi nel rapporto problematico tra i sessi coniugato tra ossessioni e dispute di potere. Gli strani amori di quelle signore non è un grande successo ma si fa notare, aprendo la strada ai successivi lavori del regista che per il suo esordio lancia il sasso e inizia a provocare quello scalpore che abbandonerà di rado il destino dei suoi film.

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Il cinema di Paul Verhoeven

Il frutto della passione: Fiore di carne (1973) di Francesco Saverio Marzaduri

Il cinema deve schierarsi contro i pregiudizi e il moralismo. Paul Verhoeven

Il giovane e scanzonato Erik Vong, scultore e disegnatore, chiede un passaggio in autostrada. Glielo offre una bella ragazza, Olga Steffer, figlia di commercianti. I due fanno l’amore e, nel riprendere il viaggio, hanno un grave incidente che li separa. Invaghitosi di lei, Erik riesce a ritrovare la ragazza e, malgrado l’ostilità della madre, a sposarla. Per qualche tempo vivono felici amandosi, litigando e riappacificandosi. Ma qualcosa s’incrina nel rapporto, e Olga, mal consigliata dalla mamma, abbandona il marito e lo tradisce con un contabile con cui progetta di partire per l’America. Erik, che continua ad amarla, abbandona il lavoro, sogna di ucciderla e cerca effimere consolazioni con altre donne. Superata la crisi, il giovane ritrova l’ex moglie: ma la poverina morirà per un tumore al cervello. “Un incrocio tra Love Story e Ultimo tango a Parigi”, declamavano i flani pubblicitari all’uscita del film. Che ebbe persino la candidatura agli Oscar quale miglior opera straniera e, pur senza conquistare l’ambita statuetta, sbancò in patria i botteghini con 3.328.804 spettatori, circa il 27% degli abitanti del paese, successo ribadito dal riconoscimento di pellicola olandese del secolo, nel ’99. Un trionfo su scala industriale: perché d’industria, e di consapevole visione industriale, si trattava. I Paesi Bassi nei quali si forma e debutta Verhoeven attraversano il pe-

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riodo più affluente della propria Storia, figurando tra i paesi più emancipati ed evoluti d’Europa: l’economia tira, alcuni marchi olandesi sono leader mondiali del mercato, e questo – in termini sociali – implica un regime liberale, liberista in termini economici e libertario sui costumi. Nel contesto post-sessantottino, con in più le esaltazioni modaiole importate dalla Swinging London, Amsterdam sottrae a Parigi l’etichetta di capitale delle libertà assolute. In primis quella sessuale, in un mondo non ancora globalizzato ma vincolato all’immaginario erotico dell’epoca: l’industria del turismo sessuale e del suo indotto rappresenta di fatto una tra le prime entrate economiche nazionali. Più che intercettare lo spirito del tempo, il trentacinquenne Verhoeven ne è cinematograficamente il prodotto, invero ricorrendo a item e pattern mutuati da un’industria, quella del porno, già più che attiva e ben posizionata sul piano distributivo. Ne sortisce un softcore, talvolta esplicito – ma mai troppo – su un giovane bohemien ribelle, mistcast figlio dei tempi (e dei fiori). Un’opera di cui sarebbe improprio dissertare senza contestualizzarla nel tempo e nel luogo della sua produzione e della (contro)cultura vigente: non si può far a meno di vederla come un ampio catalogo di fantasie erotiche in costante scissione tra il camp e il pop, dove i riferimenti al fumetto o al fotoromanzo hard sono volutamente messi in chiaro. E dove la trasgressione, più che nel quarto d’ora introduttivo di film, interamente o quasi dedicato agli exploit erotici “usa e getta” del protagonista, occhieggia nell’esibizione di sessi maschili e pubi femminili, attenzioni diegetiche a forma e consistenza dei seni, fino a un campionario scatologico a base di sangue e mestruo, urina e feci. Altrettanto ineludibile, quindi, che il prodotto susciti reazioni controverse spaziando dall’acuta satira sociale (e c’è chi grida al capolavoro) al più sfacciato sfruttamento della sessualità a fini commerciali, in seguito al quale la pellicola è tacciata di sessismo, oscenità, nichilismo, e timbrata come pura pornografia. Partiamo dall’erotico parossismo con cui, a mo’ di ronde, il regista (che sceneggia a quattro mani col fido Gerard Soeteman il romanzo “Olga la rossa” di Jan Wolkers) introduce la vicenda. Nessuno pense-

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Il cinema di Paul Verhoeven

Fiore di carne (1973)

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rebbe che la sfera solitaria del biondo artista Erik, spalmato sul letto in un loft ridotto a tugurio e in preda a deliranti visioni omicide (fantastica di torturare una giovane coppia borghese e trucidarla mediante garrota), sia un tentativo di esorcizzare un perduto amore. Prima che una dicitura sveli che la situazione è di due anni successiva a una narrazione in flashback, segue un grottesco tourbillon di avventure fugaci del protagonista, che rimorchia nei modi più stravaganti, e di sbrigativi amplessi dall’alterno esito (in uno, è presente una carrozzina con un neonato che frigna), che restituiscono l’immagine d’un lussurioso per principio, la cui smania di sesso, più che da voluttà, pare innescata da frustrazione camuffata da cinismo. La donna nelle visioni non è che la moglie Olga, davanti alla cui foto, prima di ripulire casa (e se stesso) e ributtarsi nell’esistenza da single, Erik si masturba, e di fronte alla scultura che la ritrae s’arena pensoso, senza concedersi all’ennesima ragazza rimorchiata; né esita a cacciare di casa, seminuda, una giovane che ne smaschera l’offesa virilità avendo scoperto di essere un ripiego. All’esordio sul grande schermo, ancora fresco dell’esperienza del televisivo Floris, il ventinovenne Rutger Hauer già mostra i segni distintivi dell’icona irrequieta e disturbata, che le opere di culto destinate a consegnarlo all’immaginario collettivo stempereranno in caratterizzazioni più asciutte, la cui pur implodente tensione è ancora lungi dall’esagitazione che ne farà, in Verhoeven, un prototipo ribellista del suo tempo (come in altre coeve cinematografie lo furono Tom Courtenay, Jean-Pierre Léaud o Lou Castel). L’autore impiega parecchio prima di fornire un quadro esatto del Nostro, quali ne siano le origini o il destino o i progetti; e a parte l’implacabile voglia di sesso, il primo quarto d’ora di eccessi assortiti – inframezzato di gag da comica del muto, anche se forse solo per mascherare quanto pedestri siano situazioni e restituzioni delle medesime – sembra voler fare di Erik, e della sua ipotetica psicologia, un alter ego del cineasta il cui desiderio di sfottere le usuali, logore convenzioni borghesi imposte si riversa nell’atteggiamento maleducato e impertinente del personaggio, nei confronti di chicchessia. Non fa differenza che

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Fiore di carne (1973)

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l’uomo doni a una delle occasionali partner un calco (firmato) del proprio sesso eretto, o a un pranzo di gala, prima di suscitare una rivolta collettiva, faccia credere che in un piatto di consommé ci sia finito un occhio di cavallo; o ancora, in cerca di Olga dopo l’incidente stradale, il suo strillare alla codina, ipocrita madre di lei di averla scopata, o il conservare e catalogare peli pubici delle proprie fugaci conquiste. Se ne evince che lo sfottò è l’arma del giovane come la provocazione per Verhoeven, che la impiega quale cifra stilistica affinché l’opera, come la filmografia successiva, metta d’accordo chi lo giudica un talento in ascesa e chi lo stigmatizza come vendifumo avido di facili guadagni. Perché in Fiore di carne, nonostante il cambio di registro della seconda metà sterzi in direzione di imprevisti risvolti tragici, niente è (da prendere sul) serio, conservando un’aura gratuitamente scandalistica più che di effettivo scabroso, all’unico scopo di provocare i benpensanti. Feticcio del cineasta, il parallelo eros- thánatos non va però oltre lo schema da giornaletto hard, come quando Erik e Olga copulano alla selvaggia mentre il padre di lei agonizza nell’altra stanza, e quando la madre appare sulla soglia quasi si scusa del disturbo. Anche la pasión fatal che dovrebbe possedere i due è più citata che recitata, e se il film, girato in una quarantina di giorni, si rifà esplicito all’innovativa ortografia della Nouvelle Vague (montaggio rapido, cinepresa a spalla, luce naturale, recitazione improvvisata, dialoghi post-sincronizzati), lo straniamento à la Brecht non sembra sortire lo stesso effetto. Per contro, Douglas Keesey e Paul Duncan scrivono che la spensierata carnalità degli amanti è espressione d’una salutare brama di vivere, sublimandosi nella sperimentazione della fisicità in ogni aspetto, e annovera tutto ciò che concerne il corpo accettato insieme all’anima, così come nella carne – parafrasando il titolo italiano – risiede la bellezza spirituale. Senza dubbio ci si serve di modelli di consumo, e d’importazione, dalla vicina Germania e ancor più, come detto, dall’Inghilterra: la controcultura underground e certo inquieto immaginario giovanile non oscurano la formula mélo risultata vincente negli Stati Uniti con Love Story (la malattia di Olga è lì a mostrarlo), riportata a un contesto con-

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tinentale in cui l’attenzione ai giovani Forman e Fassbinder – oltreché alla produzione inglese, da Russell a Roeg – s’impongono con chiarezza. Lo stile di vita di tali neo-ribelli senza causa, figli dei tempi e della rivoluzione dei costumi, per i quali la sessualità è parte integrante di esso, si scaglia contro il sistema borghese volto a soffocarne la disinibizione, come allegoricamente riverberano il pene di Erik incastrato nella cerniera dei jeans (che le pinze prestategli da un’anziana coppia riescono a sbloccare) e la pelliccia posta dall’uomo sulle spalle di Olga, che provoca l’incidente. Ancora, l’ipocrisia benpensante mostruosamente raffigurata dalla madre di Olga infetta quest’ultima, ne fa un facsimile perbenista lussurioso per poi tradursi nel tumore al cervello di cui muore; se altresì Erik è una creatura libera e selvaggia – e nell’epilogo, magari più consapevole – è perché il suo letterale rigetto è specchio d’un atteggiamento avverso a chi ostile alla vita nella sembianza più naturale e all’amore nel più genuino desiderio. Sicché il senso di colpa di Olga – convinta di aver trasmesso un cancro alla mammella a chi, come lei, commette adulterio col primo venuto – e la sua paura verso gravidanza e bambini fa il paio con l’egoismo del partner verso il suo corpo, che forse giudica mero strumento per la sua arte e le sue voglie (e, dopo la morte della giovane, lo cede all’ospedale dietro compenso). Ma qualcosa rimane, tra le pagine chiare e le pagine scure: l’amore verso un gabbiano ferito, da Erik liberato su una spiaggia (e che curiosamente anticipa la colomba di Blade Runner), è frutto d’un sentimento malato, quasi un’araba fenice risorta dalle ceneri della spazzatura (con la parrucca indossata da Olga prima di morire), che assurge a espiatoria catarsi trascendendo la blasfema dichiarazione “Scopo meglio di Dio”. Segno che talora, dietro echi stile Meyer – e non solo – che odorano di subliminale, e scelte di campo condotte a un’inverosimile maniera (mai umoristica fino in fondo, ma di cui si rammenterà il nostro Brass), la provocazione concede una chiave di lettura. Involontaria o no, non è dato saperlo. Ma l’esito ne conferma, in fondo, l’esistenza.

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Fiore di carne (1973) di Davide Magnisi Credevo fosse interessante fare qualcosa di stravagante e mostrare che ci possa davvero essere molto divertimento nel sesso. Che non ci deve sempre essere amore. Stavo cercando di esprimere la pienezza del sesso. Stavo cercando di liberare… me stesso, probabilmente o, almeno, gli spettatori, da qualsiasi senso di colpa possa suscitare divertirsi a letto. Con chiunque. Paul Verhoeven Fiore di carne è stato un fenomeno che in tempi come i nostri fatichiamo a capire e che solo nella spregiudicatezza del cinema degli anni ’70, e nella libertaria Olanda, si può ben contestualizzare. All’epoca della sua uscita al cinema, fu visto da più di un quarto della popolazione olandese; candidato all’Oscar per il miglior film straniero, è diventato il più grande incasso della storia nazionale fino ai giorni nostri. Non solo: un sondaggio proposto nel 1999 lo ha votato il film del secolo nella storia olandese. La locandina presentava Fiore di carne come “un incrocio tra Love Story e Ultimo tango a Parigi”. A dominarlo sono, esplicitamente, Eros e Thanatos, lo spirito maligno degli istinti della carne, nel godimento e nella sofferenza, una sorta di Ronde all’olandese, un girotondo erotico punteggiato da fantasie mortuarie. I ripetuti nudi e la libertina sfrontatezza dei protagonisti sono diventati l’autoritratto della controcultura di una nazione e di una città in particolare, Amsterdam, negli anni ’70, una fotografia della liberazione sessuale di quegli anni. Fiore di carne è tratto dall’omonimo romanzo (“Turks Fruit” nell’originale, tradotto in Italia con “Olga la rossa”) di Jan Walkers, pub-

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blicato nel 1969, un vero best seller in patria (è diventato anche un musical nel 2005). Benché ambientato negli anni ’50, il romanzo era un evidente riflesso di anni ribollenti sotto il profilo della battaglia sull’espressione dell’erotismo. A dare il tono del libro, la sua apertura ci presenta il narratore maschile (il punto di vista è quasi sempre il suo) mentre si masturba, guardando foto nude della sua ex moglie e leggendoci le sue lettere: “Mentre ti sto scrivendo, immagino la mia fica ti stia succhiando, come la bocca di un bambino i capezzoli della mamma” (o “Ti amo tanto, non lavarti il culo, te lo leccherò fino a che sarà pulito”). L’atmosfera picaresca e un certo candore sessuale, misto ad analogie anche sgradevoli, caratterizzano il romanzo, la cui protagonista è un’eroina disinibita, piena di potere trasgressivo, amante del sesso in ogni sua forma, che si prende gioco dei rituali borghesi e del mito della maternità; insomma il manifesto di una generazione che segnava una netta cesura nei confronti dei tabù e delle angosce delle proprie madri. “Il libro non è affatto pornografico, ma profondamente umano. Non avevo paura di mostrare tutto quel realismo. […]. In Fiore di carne c’è molto sesso, ma è importante dal punto di vista dei sentimenti umani. Volevo preparare il pubblico sin dall’inizio del film ad aspettarsi una storia d’amore piena di nudi, raccontata in maniera libera”1. In queste parole del regista ci sono due elementi fondamentali per comprendere Fiore di carne: da un lato, a livello stilistico, una fortissima esigenza di realismo che pervade la messa in scena, dall’altro, e lo si comprende bene nell’intero arco del racconto, il fatto che tutta quell’esplicita rappresentazione dei corpi non mira ad allettare pruriginosamente il pubblico, ma a mostrare realisticamente un rapporto di coppia. La fisicità esibita è la drammaturgia di una storia d’amore. Così il regista: “Guardate come ritraggo il sesso nei miei film. La maniera viene considerata scandalosa e oscena perché mi piace esaminare accuratamente la sessualità umana. Bisogna essere realistici, altrimenti sono stronzate. […] La scena artistica in Olanda ha sempre cercato di essere realistica. I pittori olandesi di quattrocento anni fa erano meticolosa-

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mente realistici. L’esempio che sempre mi piace portare è un meraviglioso dipinto di Hieronymus Bosch intitolato Il figliol prodigo. Nel quadro è rappresentato un bordello e, nell’angolo, c’è un uomo che piscia contro un muro. Non troveresti mai qualcosa del genere in un dipinto italiano, francese o inglese dell’epoca. Gli olandesi sono sempre stati più scientifici, interessati al dettaglio, certamente meno idealistici e più realistici”2. Il presunto esplicito scandaloso erotismo di Fiore di carne è, quindi, realisticamente inteso per entrare nella psicologia umana: raccontare le delusioni, i sogni, le paure e le fragilità di personaggi attraverso la chiave dell’erotismo che non si riduce, nel film, solo all’atto sessuale. Ciò che è affascinante, infatti, all’interno della pellicola, è ciò che ruota intorno al sesso, il modo in cui, in quest’ottica, i protagonisti si rapportano tra loro e con la società, i genitori, il mondo delle convenzioni e a come guardano il loro corpo e quello degli altri, funzioni fisiologiche comprese. L’erotismo del film non è solo sesso (o, peggio ancora, esposizione di corpi nudi commercialmente messi in vetrina), ma rappresentazione della vita, osservazione delle personalità, dialettica tra io e società, nodi che si creano tra istinti e norme di una comunità, intrecci che ci definiscono. Il film ha un inizio shock con alcuni efferati omicidi, ma scopriamo presto che sono solo le fantasie del protagonista Erik per vendicarsi della moglie che lo ha lasciato. Lui è ripreso senza vestiti nel suo letto, la casa uno sfacelo. Poi prende una foto nuda della su ex, la lecca per incollarla sul muro e ci si masturba davanti. Deciso a ricominciare, giunto al culmine dell’abiezione, il film diventa la catena di montaggio delle sue seduzioni e bizzarrie (come un album di ricordi delle sue conquiste sessuali, con attaccati cimeli come peli pubici). I nudi femminili riempiono il suo letto e lo schermo (anche con gag divertenti, per esempio la ragazza che, per non far piangere il suo bambino nel carrozzino, lo culla al ritmo degli amplessi di Erik), ma non il cuore del protagonista.

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Un flashback ci riporta indietro nel tempo a due anni prima. Erik è un artista scapestrato e anticonformista. Insiste per scolpire realisticamente dei vermi su una statua di Lazzaro e scatena una rissa per aver trovato un occhio di cavallo in un pasticcio di carne (Verhoeven accumula sin dall’inizio tutta una serie di immagini al limite dello sgradevole). Facendo autostop conosce Olga. Subito ci prova con un linguaggio molto esplicito e prestissimo finiscono sui sedili ribaltabili con un paio di provocatorie gag, come la metafora eiaculatoria dello spruzzo del lavavetri sul parabrezza, azionato durante il rapporto sessuale, o le pinze chieste a un’allibita coppia di fattori di mezza età, perché Erik rimasto con il pene incastrato nella cerniera dei pantaloni. Eros e Thanatos segnano i due ragazzi sin dal principio: Erik distrae Olga alla guida e sbattono contro un albero. Lui ricomincia il suo autostop, ma con il corpo di lei insanguinato tra le braccia. Tempo dopo, Erik, ancora zoppicante, la cerca nel negozio dei suoi genitori, ma viene cacciato in malo modo dalla madre, che diventerà l’incarnazione caricaturale della borghese benpensante I due ragazzi si ritrovano, per caso, mesi dopo in un luna park. Comincia una vera storia d’amore, sempre molto esplicitamente connotata eroticamente, sia nel linguaggio che nelle immagini. Ma Olga non è solo un altro corpo femminile che si aggiunge alla collezione di casa Erik: la stessa composizione visiva si fa più raffinata, a dire un diverso passaggio emotivo rispetto ai tanti nudi senza nome che avevano addobbato la sua stanza. Anzi, mentre lei è in bagno, costruisce intorno al letto una specie di altare, circondandolo di candele, insinuando, però, ancora una volta, una simbologia mortuaria, pur nella bellezza nuda della carne palpitante di lei. Anche lui va in bagno, ma, quando torna, la trova addormentata con un dito (allusivo e regressivo) in bocca. Lui prende una sedia e rimane a contemplarla. L’alba li ritrova, poeticamente, così. Inizia un rapporto la cui intimità Verhoeven ci rappresenta senza i consueti confini cinematografici, ma come qualcosa di viscerale, frenetico, quasi eccentrico nel modo in cui, naturalmente e innocentemente, i due amanti mescolano i loro fluidi corporei, rovesciando nelle

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immagini l’esibita castità di storie d’amore che avevano segnato l’epoca, come Un uomo, una donna o Love Story. Georges Bataille ci ha indicato come l’erotismo sia un’infrazione dei divieti e Verhoeven evidentemente scardina la visione della messinscena per un grande pubblico rispetto alle comuni norme borghesi. Alla fine, i due si sposano in un rito collettivo e laico, arrivando in ritardo alla cerimonia con un tocco alla Bande à part, che ci ricorda anche quella matrice Nouvelle Vague senza cui un film del genere non sarebbe stato possibile. Tutta una serie di gag contorna la sequenza. Le donne delle altre tre coppie sono tutte incinte, una di loro, con il vestito bianco da sposa, ha le doglie prima che cominci la celebrazione e sporca di sangue l’abito immacolato e la sedia su cui era: un cagnolino si lancia a leccare quei fluidi, rimarcando un aspetto molto presente nel film e il contrappunto della presenza e l’azione simbolica di animali in alcuni passaggi chiave. A casa, nudi e felici, festeggiano. Lui la cosparge di champagne, ma il loro è un continuo coitus interruptus da fattorini che portano messaggi e regali. Si susseguono scene erotiche e gag, in uno sberleffo dei riti borghesi, come quando lui distrugge un servizio da tè appena arrivato in dono da un fantomatico zio Omero. Poi suona alla porta anche il padre di Olga e sono costretti a una festa nuziale, filmata da Verhoeven con tocchi quasi espressionistici nel mostrare l’ambigua pretenziosità della madre di lei e il disagio di Erik di fronte a tanta ipocrisia (nella notte d’amore che i due passano nella vecchia camera di Olga, scopriamo anche che la signora ha avuto un cancro al seno e porta un palloncino nel reggipetto). I novelli sposi vanno in viaggio di nozze e campeggiano su una spiaggia sabbiosa deserta. Lei quasi sempre nuda, tra pensieri al futuro e scherzi, come quando lui finge di morire, incupendola. La sequenza è caratterizzata da una fotografia bellissima, preziosa di tramonti che di certo, da un lato, con quelle silhouette di amanti stagliati nella luce, replica e, in qualche modo, parodizza scene simili viste in tante altre storie d’amore cinematografiche, tuttavia, il montaggio, i primi piani, la forza dei corpi degli attori e i colori della natura, hanno una tale ener-

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gia che dipingono grandi quadri visivi. Erik riceve la committenza di una statua sulla maternità da installare in un ospedale e lei gli fa, nuda, da modella. Il discorso, implicito per immagini, sull’arte, è uno dei fili conduttori del film, in quanto è un’altra delle sfide alla morale corrente e al principio di realtà, rappresentando l’ordine della sensualità contro quello della repressione. La psicoanalisi, se ce ne fosse stato bisogno, ci ha infatti insegnato come l’arte abbia sempre le sue radici in un principio del piacere che è, in Fiore di carne, la stessa vita e storia del film. In una scena che segue, Olga esce sconvolta dal bagno, temendo di avere il cancro perché le sue feci sono rosse. Erik le controlla e Verhoeven ci mostra come le prenda in mano, un gesto d’amore che indica devozione e cura nei confronti della donna. Non c’è alcuna sensazione di degradazione in quello che fa (in precedenza si era proposto di leccarla dopo altri servizi fisiologici), semplicemente, mostra l’intensità del suo affetto per lei, teneramente, senza indietreggiare di fronte ad alcuni aspetti considerati sporchi od osceni del corpo dell’amata. Verhoeven con grande abilità utilizza elementi solitamente considerati tabù per farci comprendere i suoi personaggi, insieme allargando la sfera del mostrabile al cinema. Erik la rassicura, dicendole che è solo l’effetto delle barbabietole mangiate il giorno prima. Poi le infila un fiore rosso tra le chiappe e comincia a sculacciarla, macerandolo sul suo corpo, in un’estensione dei presagi di morte che aleggiano nel film. Il giorno dell’inaugurazione dell’opera è occasione per altre gag. A causa del caldo, Olga è talmente scollata da mostrare i seni al vento, inconcepibile in concomitanza con l’arrivo di Sua Maestà. In maniera ilare, il comitato politico di benvenuto fa di tutto per coprire la presenza dell’artista e la sua compagna, con la banda o trattenendoli nelle retrovie con la forza: sono due outsider, che continuano a prendersi gioco dei rituali borghesi, come quando, dopo la cerimonia, portano a spasso delle piccole copie della statua sulla maternità in un carrozzino e, poi, le buttano divertiti nel fiume. Arrivati a casa, Erik adagia Olga sul letto, le apre la camicetta e le

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mette dei fiori sul petto: “La prossima statua la chiamerò Persefone”. Nell’inquadratura sembra una camera ardente, lei una morta, Persefone è la dea dell’Averno. Chiamato al telefono, Erik riceve la notizia che il padre di Olga sta molto male. Le toglie i fiori dal petto e su quello si muovono molti vermi lasciati dal bouquet. Il film è ripetutamente attraversato da queste immagini mortuarie (che ne costituiscono in parte la fascinazione), spesso simbolizzate dai vermi (o la spazzatura), analogie di un’orribile decadenza e consumo della vita e, insieme, lavorio incessante di riciclo della natura. Sono opposti che si attraggono e incontrano nel film, la morte e la riproduzione, Thanatos ed Eros, la negazione e l’affermazione della vita: “Essa è in primo luogo tributaria della morte, che le fa posto; in secondo luogo della putrefazione che segue alla morte e che rimette in circolazione le sostanze indispensabili alla produzione incessante di nuovi esseri”3. Il padre di Olga è, in effetti, moribondo. Lo spettacolo è particolarmente penoso e disgustoso perché il regista mostra l’incontinenza dei fluidi corporei dell’uomo, che colano in alcune bacinelle poste sotto il suo letto. Lo stesso odore è intollerabile. Verhoeven associa subito dopo, di fronte allo spettacolo della carne votata alla morte, il corpo vivo del sesso, inquadrando i due ragazzi che fanno l’amore nella camera di sopra, mentre si sentono i lamenti della madre di Olga che si dispera: è lei stessa a interromperli, entrando nella stanza della figlia: “Venite se volete vederlo ancora vivo” (“Eros è ciò che rende possibile l’instaurazione del principio empirico del piacere, ma che sempre e necessariamente trascina con sé Thanatos”4). L’uomo se ne va, lasciando interrotta una barzelletta che stava raccontando a Erik, ma è sul corpo e le sue funzioni fisiologiche che, fino in fondo, ancora una volta si concentra Verhoeven: “L’orrore che ci incutono i cadaveri è simile al sentimento suscitato in noi dalla vista degli escrementi umani. L’accostamento ha tanto più valore in quanto noi proviamo un analogo orrore per gli aspetti della sensualità che definiamo osceni. I condotti sessuali evacuano liquidi

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escrementizi […]. Si è formato, attraverso progressivi slittamenti, un ambito della sporcizia, della putrefazione e della sessualità, le cui connessioni appaiono evidentissime”5. Il tono sarcastico del regista non viene meno neanche di fronte alla morte, per come satireggia il ridicolo senso estetico e la vanità della madre di Olga, che si ritrae in posa con il cadavere del marito nella bara. Si fa fare più scatti, come se fosse una foto di coppia o due turisti per un’immagine ricordo. La ridicolaggine trova il suo apice mordace quando il velleitario cattivo gusto immorale della donna distribuisce quella foto, in un accurato bianco e nero, ai partecipanti al funerale. La sequenza che segue è l’unica in cui si vede Olga lavorare, triste e alienata, come operaia in una fabbrica (simbolicamente, è alla catena di montaggio ad avvitare bottiglie di latte). Tutto appare meccanico e repressivo di quella straripante vitalità sensuale che l’ha sempre connotata. Qui si mostra come un ingranaggio rotto. Al ritorno a casa, litiga con Erik perché ha venduto, a un morboso acquirente, lì ancora presente, un disegno di lei nuda. Si riappacificano facendo una specie di Singin’ in the Rain nude look. Poi le va con un’amica e lui prepara a casa una cenetta romantica per due, ma, mentre sta per mettere a cuocere la carne, Olga lo chiama per chiedere di raggiungerlo dai suoi amici. Nel locale, c’è anche la madre che già se la intende con il capocommesso del suo negozio. Tutti ridono a crepapelle disgustosamente, con la pellicola virata al rosso. Battute e situazioni grossolane. Uno degli amici ci prova con Olga in bagno e lei ci sta. Erik vede. Iperrealismo e provocazioni. Erik si alza e letteralmente vomita, prima addosso alla madre, poi alla figlia, tutto il suo disgusto. La scena sembra quella di un melodramma fassbinderiano, i volti vagamente distorti, l’ubriachezza lasciva, le facce come massa indifferenziata che ridicolizza Erik e la sua mancanza di controllo sui desideri di Olga, che qui sembra proiettata verso il suo mondo di provenienza. Ma Verhoeven va al di là, ancora una volta esaltando la fisicità delle interpretazioni, con una visceralità che, ancora una volta, si riflette nella rappresentazione dei fluidi corporei.

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Erik schiaffeggia la moglie e va via, ma, quando, al telefono, lei gli dice che non tornerà più da lui, la implora di ripensarci. Al suo netto rifiuto, esplode: “Schifosa puttana, vatti a far fottere, tu e quella battona di tua madre». In preda all’ira distrugge tutte le opere che avevano lei per modella, urlando «lurida! Maiala! Baldracca! Mignotta!”. Ma a un certo punto si blocca in lacrime di fronte all’ennesimo ritratto di lei. Dei vermi mangiano avanzi di cibo nella casa, in sfacelo e distruzione, come all’inizio del film. Erik è di nuovo nudo su quello stesso letto. Ricomincia a immaginare, con un sorriso di soddisfazione, gli stessi vendicativi omicidi prima che cominciasse il flashback, espediente linguistico con cui il cinema cerca di sconfiggere il tempo in un mondo linearmente dominato dal tempo. Verhoeven ne fa un uso particolare perché, subito dopo, fa ricominciare a Erik la caccia a Olga. Riesce a entrare nella sua casa/negozio di famiglia con la scusa di parlare del divorzio. Fronteggia l’ostilità di madre e figlia. Dorme lì. Al mattino, osserva la signora portare a spasso il suo cane. Verhoeven inquadra l’animale che fa la cacca e viene ripulito dalla donna, una scena che, ancora una volta, ci espone funzioni fisiologiche: “Non importano le differenze, il regista sembra dirci, in questi aspetti cruciali uomini e cani sono perfettamente uguali: mangiano, cacano, fottono, muoiono”6. Erik approfitta dell’assenza della donna per infilarsi nel letto di Olga e penetrarla mentre ancora dorme (sempre col pollice in bocca – praticamente uno stupro). Lei si sveglia e chiama urlando la madre. Erik: “Sei mia”. Lei gli dice che è stata con tanti altri, ma lui: “Non me ne importa. Ti amo”, sembrano cominciare a fare l’amore passionalmente, ma entra nella camera la madre, furiosa, vestaglia e bigodini, e comincia a picchiarlo. Entrambe le donne lo prendono a calci. Lui solleva e butta la madre sulla figlia, scappando. Tempo dopo, mentre Erik sta creando nuove opere (con delle bambole), Olga va a trovarlo per riprendersi la sua roba. Lui le dichiara ancora una volta il suo amore, ma lei lo respinge. Ha un nuovo fidanzato, americano, “ci sposiamo e poi ce ne andiamo in America”. Lui libera simbolicamente un gabbiano che aveva involontariamente ferito in una

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discarica (e poi curato e guarito), sulla spiaggia della loro luna di miele (forte la suggestione di associare il gesto alla colomba liberata nel finale di Blade Runner). A un certo punto riconosce Olga in un grande magazzino, anche se lei di spalle e bionda. È tornata dall’America, sempre provocante, ma pallida, diversa, sovraeccitata. Va in bagno e sviene. La ricoverano in ospedale. Erik la va a trovare: è calva dopo un’operazione per un tumore alla testa. Le porta una parrucca in regalo e lei ritrova il sorriso. Si abbracciano, di nuovo insieme. In maniera straniante, infantile, Olga ha anche difficoltà a leggere (proprio un brano di amore e morte da una rivista). È in una di queste sequenze che Erik le porta da mangiare, tra mille capricci, i dolci Turks Fruit del titolo originale. Lui la assiste fino a che, una mattina, con un rantolo, muore davanti ai suoi occhi. Nell’ultima scena, Erik passa davanti alla statua della maternità cui Olga aveva fatto da modella, poi butta la parrucca nella spazzatura che sta per essere ritirata. Parte della grande forza di Fiore di carne risiede in questa finale sterzata emotiva che Verhoeven riesce a dare al film. Pur se dominata da immagini erotiche, è una magnifica storia d’amore che ci racconta il regista, trasgressiva e assoluta, ma piena di sincera tenerezza. Un amore bambino, innocente e indecente com’è quell’età. Verhoeven riesce a rendere il film ruvido e disturbante sino alla fine, pur includendo quel dono da innamorato adolescente, i pasticcini turchi, l’addio a un amore che non diventerà mai adulto né mai si conformerà alla routine borghese da cui i due protagonisti sono contornati. Il regista non sembra neanche temere quell’immediatamente riconoscibile finale alla Love Story, il giovane amore guastato dalla tragedia della malattia che aveva sbancato i botteghini e fatto epoca pochi anni prima. Se quel film narrava una specie d’amore spirituale, che si comprende non finirà mai perché eterna è l’anima, quello raccontato da Verhoeven ha a che fare con la carne, con il vuoto lasciato dalla morte, che l’arte redime solo in quanto memoria, come l’inquadratura della statua di Olga dopo il suo trapasso. La natura, e in questo senso l’immagine finale della spazzatura è perfetta-

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mente allineata con tutto il resto del film, continua a fare il suo corso: quel che rimane di Olga viva è una parrucca che finirà riciclata, come faranno i vermi con il suo corpo. “La natura, quasi invidiosa del bene che ci dona, ci dichiara spesso e ci dimostra di non poterci lasciare a lungo quel poco di materia che ci impresta, giacché non può rimanere nelle stesse mani e deve essere eternamente scambiata: ne ha bisogno per altre forme, la richiede per altre opere”7. Gli stessi esseri umani finiscono per essere rifiuti e quei corpi che avevamo visto dinamicamente preda del desiderio e bellezza per gli occhi, destinati all’ultima e più indicibile corruzione: “La sessualità e la morte non sono che le fasi culminanti di una festa che la natura celebra con la moltitudine infinita delle creature viventi; e l’una e l’altra danno il senso dello spreco illimitato […]. A lunga o breve scadenza, la riproduzione esige la morte di coloro che generano, che generano soltanto per prolungare l’annientamento”8. Verhoeven prende i codici narrativi delle storie d’amore hollywoodiane, il gusto estetico del film sentimentale, e li depura di ogni alone romantico, costruendo un melodramma della carne dallo sguardo antropologico viscerale, andando sempre al di là delle convenzioni, delle aspettative, anche delle limitazioni emotive comunemente associate al genere (sentimentale, ma anche erotico). Lo stesso espediente del flashback è usato in maniera particolarmente originale dal punto di vista narrativo, spezzando la linearità e portandoci, dopo il passato, l’origine della storia, al presente e oltre. In quell’oltre spingendo i protagonisti a sviluppi emozionali degli eventi che li ridefiniscono completamente, spiazzando lo spettatore sia dal punto di vista emotivo che narrativo. Proprio questi continui cambi di tono, questa continua fluida tensione tra i generi e gli umori, dalla violenza all’erotismo, dalla storia d’amore fino alla commedia nera, dal tono hippie alla straziante tragedia strappalacrime, rendono Fiore di carne sorprendente e scandaloso, ma più per l’esibizione della sua cruda e istintiva emozionalità che per i molti nudi integrali. Se Verhoeven è giustamente definito “un regista consacrato al con-

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cetto di shock”9, lo è per la radicalità della sua visione, capace qui di creare un dramma erotico meravigliosamente pieno di invenzioni, un film appassionato che padroneggia le provocazioni: un amour fou che mette in scena i fantasmi della vita di coppia, della dipendenza dall’altro, di quanto questo sentimento possa essere distruttore e tumultuoso, libero, strada per un’emancipazione dei costumi sessuali che Verhoeven esprime con tutta la sua rabbia di vivere. In questo senso, Fiore di carne è una specie di spregiudicato film manifesto. Il suo spirito ribelle e scanzonato richiama la cultura hippie (e, linguisticamente, la Nouvelle Vague), ma il regista utilizza quelle forme di coscienza per fare del cinema una specie di campo di battaglia, per avanzare la sua idea del bello e del visibile, mettendo sempre al centro il corpo. Verhoeven mostra, lungo tutto il suo cinema, una fascinazione per la sensualità in tutte le sue forme e per i processi corporei, nella loro incontrollabile vitalità, compresi, oltre il sesso, la malattia, la violenza, gli umori, gli odori. Al di là di equivoci aspetti voyeuristici, Fiore di carne raffigura il ciclo della vita ed è un film sorprendentemente stratificato, insieme fisico e concettuale. Scava, infatti, nel modo in cui la società vede la sessualità, come forza disgregatrice e sovversiva, antagonista della famiglia tradizionale, del mondo del lavoro, della ragione che deve antagonisticamente frenare i sensi in nome dell’ordine. Il corpo lasciato ai suoi piaceri è materia accordata a chi è fuori dalle regole della collettività: pervertiti, puttane, artisti. E qui si trova un’altra delle chiavi interpretative del film, che coinvolge la dimensione estetica di Fiore di carne e del suo protagonista. Da sempre, nell’immaginario comune, la vita degli artisti è ai margini, non è dentro il principio di realtà che vale per la morale comune quotidiana di tutti gli altri: “I valori estetici possono avere una funzione nella vita come ornamento o elevazione culturale, e come passatempi privati, ma vivere con questi valori è privilegio del genio o segno del bohémien decadente. Davanti al tribunale della ragione teorica e pratica che ha formato il mondo del principio di prestazione, l’esistenza estetica è condannata”10.

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Di certo Fiore di carne non sarebbe così ben riuscito senza le strepitose interpretazioni dei due attori protagonisti, che costruiscono una chimica grazie alla quale tutto sembra naturale, pur nella sua audacia. Rutger Hauer aveva già lavorato insieme a Verhoeven in una serie in dodici puntate per la televisione olandese, Floris (1969), trampolino di lancio per la carriera di entrambi. Al suo debutto cinematografico, costruisce un personaggio estremamente carismatico, caricandosi tutte le contraddizioni di Erik, la sua animalità, la sua giocosità, ma anche l’intensità emotiva, un intrepido anticonformista, anche un po’ villano, ma pure un vulnerabile innamorato. Debuttante la giovanissima Monique Van de Ven, sensuale e straordinaria nella naturalezza con cui si aggira nuda per quasi tutta la storia. La sua interpretazione restituisce intensamente tutta la gioia di vivere di Olga, la sua mancanza d’inibizioni anche un po’ infantile, riuscendo a restituire, al di là della bellezza fisica che riempie la scena, tutta la sfera di emozioni che attraversa, come la carne le nostre vite, il film.

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Kitty Tippel... quelle notti passate sulla strada (1975) di Roberto Lasagna Kitty Tippel… quelle notti passate sulla strada (1975) si apre come una ricostruzione storica sull’epopea drammatica di una famiglia poverissima impegnata, nella seconda metà dell’Ottocento, in continui viaggi tra Amsterdam e il Belgio, per cercare una stabilità economica: il film di Verhoeven, da queste ampie premesse, si avvia quindi a definire il racconto di formazione di una ragazza squattrinata che scopre se stessa in una vicenda di sacrifici, di sfruttamento del corpo femminile e dei lavoratori. Esperienze che un giorno saranno raccolte nei tre volumi autobiografici della sua vita avventurosa scritti da Nell Doff, di cui Kitty è l’alter-ego letteraria, celebre per aver raccontato l’indigenza e la prostituzione della giovinezza e un percorso di maturazione e consapevolezza che avrebbe arricchito pagine destinate alla nomina per il Nobel della letteratura. In un luogo e in un periodo poco rappresentati dal cinema, l’Olanda di fine Ottocento, Verhoeven, al terzo lungometraggio, sfodera una riflessione sul capitalismo fortemente intrecciato alle pulsioni umane, in cui le donne trovano uno spazio quasi soltanto per poter mettere in vendita il loro corpo, mentre i lavoratori sono maltrattati dai padroni, come il padre di Kitty a cui, al momento dell’assunzione, vengono controllati i denti come se fosse un cavallo da soma. Istinti bestiali di uno scenario capitalistico i cui tratti brutali pervasivi sono ripetutamente sbeffeggiati da Verhoeven che diverte anche nelle situazioni di sopraffazione, quando non ci sarebbe molto da ridere. Ma il regista va fino in fondo, non lesina dettagli e restituisce schiaffi a questi individui che non conoscono l’amore ma sono dominati dalle pulsioni basse, incapaci di immaginare e prospettare un proscenio differente, come le ombre cinesi animate da Kitty che qualcuno interrompe con la sua

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ombra fallica. Le pulsioni bestiali segnano come un filo rosso i film del cineasta, ed è anche un tratto di coerenza, tanto che a un primo sguardo Kitty Tippel sembrerebbe proporsi come una versione in costume della commedia d’esordio Gli strani amori di quelle signore (1971), dove il mestiere delle protagoniste è sempre quello più vecchio del mondo; ma a guardare bene, il racconto di formazione di Kitty, assecondato dalla vitalità corporea e sorridente di Monique Van De Ven nuovamente al lavoro con il regista dopo Fiore di carne, dietro la sua parvenza di film scollacciato ci parla a cuore aperto di uno spirito di libertà rimarcato anche dai ripetuti riferimenti alla figura della Marsigliese, pronta a rivendicare l’esigenza (al contempo morale ed estetica) di un nuovo sguardo sulla realtà. Uno sguardo necessariamente politico che emerge attraverso scene di scioperi in strada in cui la giovane Kitty, dal bel corpo e dal sorriso irresistibile, si sente inevitabilmente travolta. Uno sguardo che troverà in Kitty la possibilità di raccontare il punto di vista di una donna che ha conosciuto l’oppressione e una povertà anche culturale sconcertanti, dove per le ragazze carine il destino della prostituzione è considerato quasi un obbligo sociale. Alzando la testa, provando sulla sua pelle il dolore e lo sconforto di lavori che non tutelano né il fisico né la psiche, Kitty sperimenta le scosse di un percorso in cui il corpo e il denaro si legano e dettano la temperatura di un film di sguardi scrutanti, dove gli uomini non hanno rispetto per il sentire di una ragazza spronata dalla sorella maggiore a lavorare sulla strada, così come sulla strada la vuole anche la madre. Libertà sessuale, quella che vive Kitty, da mettere tra le dovute virgolette, visto che si manifesta alla mercé di uomini insensibili alla sua reale condizione, costretta alla strada perché è lei la sola davvero in grado di portare qualcosa da mangiare a casa, mentre, a quanto pare, a nessuno preoccupava che, prima di fare la prostituta, lei si rovinasse le mani lavando i panni con la candeggina (con il datore di lavoro, pronto a provare le sue grazie, che riceveva da lei solo uno sputo in faccia). La bella lavanderina cambierà allora presto il lavoro, verrà violen-

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tata, si adatterà e un giorno vivrà il sogno di aver finalmente trovato un uomo diverso, quell’Hugo di cui la ragazza s’innamorerà e che stravede per lei (prende a pugni nello stomaco uno dei vecchi clienti di Kitty dando l’illusione di un nuovo provvidenziale equilibrio di coppia, pronto a risarcire lo stato d’animo di una ragazza in tal modo apparentemente ripagata di tanti compromessi). Ma Hugo (con il volto di Rutger Hauer al secondo film di Verhoeven), responsabile dei prestiti di un’importante banca, sebbene coinvolto dalla ragazza, è un cinico che considera la relazione con la bella Kitty unicamente come un contratto a tempo determinato; si troverà senza un soldo, mollerà la giovane per sposare una ricca nobildonna, lasciando alla ragazza il ruolo previsto e stereotipato dell’amante (che Kitty però rifiuterà). Film scopertamente politico nel ritratto di una futura scrittrice della rivendicazione proletaria, Kitty Tippel conferma il talento del regista olandese impegnato in una ricostruzione storica dello sfruttamento del corpo femminile, con momenti gustosi ma caratteri poco approfonditi. Il film vive però di una genuina schiettezza anche grazie alla personificazione originale e vitale di Kitty da parte di Monique van de Ven, personaggio il cui destino è di essere ceduto e conteso, scrutato senza rispetto, questioni che mettono anche in (non poche) difficoltà il regista impegnato con il produttore Rob Houwer, scettico in special modo per le sequenze degli scioperi in strada e per i contenuti contestatori del film. Nel cinema del regista olandese i personaggi femminili assumono un ruolo di forza rispetto agli uomini, mossi di solito dai loro istinti, e sul set agitato di Kitty Tippel una situazione di tensione in più è originata dalla relazione tra il direttore della fotografia, Jan de Bont, e Monique van de Ven, conosciuta sul set di Fiore di carne. De Bont non gradisce che la fidanzata compaia in scene di nudo sul set e il regista, per smorzare la gelosia, chiamerà a collaborare persino sua moglie, di professione psicologa. Il viso e il corpo di Kitty sono le risorse di questa ragazza che, come la sua famiglia e molti altri nella seconda metà dell’Ottocento, si muove per migliorare la propria condizione econo-

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mica, con un avvio tra baracche fredde e umide dove lo sguardo di Verhoeven non dimentica di ridere sui battibecchi tra le sorelle, in un realismo doppiato più avanti dalle pagine della futura scrittrice il cui realismo descrittivo la farà paragonare dai suoi contemporanei a Émile Zola. Il freddo e l’umidità sono una costante dell’esistenza di Kitty, che muovendosi tra il voyeurismo e la violenza del desiderio sessuale maschile, sopravvive con il suo viso e il suo corpo, sole risorse di un sistema sociale in cui la prostituzione è grottesca via per il riscatto economico, mentre lavori ingrati e maternità definiscono un copione consueto. Ma l’esperienza di vendersi per sopravvivere, che la madre e persino Hugo incoraggiano, ferisce nell’animo la ragazza quando scopre che il suo sogno di amore e di cambiamento veritiero si scontra con un cinismo radicato e irriducibile, mentre ogni relazione umana è destinata a rimanere vuota e arida. Verhoeven, in un racconto dalle cadenze letterarie, mostra via via una maggiore eleganza espressiva; il suo film regala note saporite disegnando il percorso verso la coscienza di classe di una ragazza che riceve di continuo sguardi voraci: in un impeto “Nouvelle Vague”, la sua protagonista attraversa i momenti di perversione sessuale conoscendo il peggio dei maschi in momenti quasi comici o decisamente ridicoli, dove i corpi e i volti caricaturali degli uomini danno impulso per contrasto a una lotta rivoluzionaria che non può sottrarsi al riscatto della carne. Una graduale liberazione, quella di Kitty, che scorre come il film attraverso i guizzi e i sorrisi di una protagonista pronta a cantare e protestare, a fare le smorfie e a non contenersi dal picchiare chi la maltratti. Una liberazione come esibizione di vitalità, dove alla pulsione bestiale dell’uomo si affianca il comportamento della protagonista che a un certo punto, pur innamorata di quella faccia da schiaffi di Hugo, trova altrove i primi sguardi maschili non brutali, quelli di George e André. Il primo è un pittore che accoglie la richiesta della ragazza di voler trascorrere del tempo insieme, il quale le propone un’altra via per sbarcare il lunario, usandola come modella per i propri dipinti: è anche il primo a guardarla non come un oggetto sessuale ma come un soggetto estetico, facendola

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diventare personaggio della Marsigliese di un suo dipinto e indicando come la politica sia anche un fatto estetico di rivendicazione di un punto di vista sulla realtà sociale. Il secondo, amico rispettoso che volle proteggerla dallo sguardo bramoso di Hugo colto a spiarla durante un’esibizione di nudo, diventerà il marito di Kitty, il solo che non le ha mai chiesto niente che lei non desideri davvero. Perché alla fine la ragazza, che si ritrovava di colpo una dama quando riceve in dono da Hugo due fiorini d’oro per comprarsi un abito decoroso, si scontrerà con i padroni e non potrà fare a meno di aderire a moti di ribellione, a quegli scioperi che simbolizzano un altro sguardo sulla società e il proprio tempo. Dove il sesso è la comune moneta di scambio di uno scenario in cui i lavoratori proletari, come le prostitute, sono piegati a doversi vendere al padrone per sopravvivere alla miseria, il canto orgoglioso della Marsigliese francese può evocare l’uscita da un sistema di regole in cui il potere, dileggiato da Verhoeven anche con momenti di gustosa leggerezza, trova una rappresentazione schietta della sua malignità. Pur con tratti un po’ sfocati, le pagine del racconto cinematografico esibiscono in Kitty Tippel un’eleganza non artificiosa. Tra la crudezza fatta di gelo e povertà, sangue e sesso esplicito, Verhoeven non dimentica l’allegria e la risata beffarda, a cadenzare gli incontri nei bordelli e gli scontri con la polizia. Quello che nel suo film manca in profondità si riscatta in anticonformismo e sfrontatezza elegante. La rappresentazione di un mondo durissimo per una ragazza riserva anche la sottolineatura di un elemento di fascinazione per la pulsione sessuale dell’uomo prontamente raffigurata come grottesca, lasciando un desiderio sessuale gelido, goffo, crudele e deviato, ricorrente nella futura filmografia del regista olandese. Non è un caso se la conclusione del film avvenga con Kitty che riporta André nella sua ricca dimora e poi si ripresenta a lui scontrandosi dapprima con l’odiosa madre e arrivando all’uomo, disteso sul letto, a cui lei porge un bacio sulla ferita alla fronte, in questo modo accennando a curarlo come (ricorda lei) si faceva quando si era bambini. Una via per l’amore che passa allora come gesto di riparazione e cura, esat-

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tamente l’opposto delle relazioni che Kitty ha potuto conoscere sino a questo momento, sempre destinate a ferirla e a uccidere ogni sua illusione. La sessualità disumana e il dominio del più potente troveranno nelle pagine della futura scrittrice il racconto maturo di una consapevolezza proletaria che ha fatto pensare a Kitty, confortata dalla compagnia “alla pari” di André, come “i soldi fanno più male che bene”. Ed è allora il denaro, nei suoi molti travestimenti, a condizionare più di tutto la vita di Kitty e di chi la circonda, intrecciandosi in una riflessione più ampia sulla violenza con le note dello stile schietto e anticonvenzionale di un regista a suo agio nel dosare il dramma e i toni grotteschi. La chiusura del film riporta forme eleganti, come durante la partenza in nave nelle sequenze d’apertura. Il racconto non è sempre così compiuto, ma dove perde in eloquenza formale guadagna in gusto irriverente. Quando esce nelle sale Kitty Tippel è la produzione più costosa della storia del cinema olandese sino a quel momento, ma ripaga lo sforzo diventando, come il precedente Fiore di carne, sempre interpretato da Monique van de Ven, un grande successo della stagione.

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Il cinema di Paul Verhoeven

Soldato d’Orange (1977) di Ilaria Dall’Ara

Soldato d’Orange è il quarto lungometraggio di Paul Verhoeven, distribuito nel 1977, dopo Gli strani amori di quelle signore (Wat zien ik!?,!1971), Fiore di carne (Turks fruit,!1973) e Kitty Tippel... quelle notti passate sulla strada!(Keetje Tippel,!1975) e prima sua opera in cui abbandona il genere prettamente drammatico e si cimenta in un’avventura a sfondo bellico. Più precisamente in Soldato d’Orange Verhoeven affronta uno degli episodi più cruenti e traumatici della storia olandese, vale a dire l’occupazione tedesca dei Paesi Bassi tra il 1940 e il 1945. Lo stesso regista, nato nel 1938, era appena un bambino durante la Seconda Guerra Mondiale e crebbe a L’Aia, ripetutamente bombardata dagli Alleati, quindi non sorprende che in numerose interviste abbia dichiarato come il fatto di essere venuto a contatto ravvicinato con la morte in tenera età abbia fortemente condizionato la sua coscienza e il suo approccio alla violenza. Ma quello che fa Verhoeven con Soldato d’Orange non è affatto un mero resoconto degli avvenimenti storici che innalza suoi protagonisti a eroi senza macchia e senza paura, anzi. Liberamente tratto dal!romanzo!Soldaat van Oranje ’40-’45 pubblicato nel 1971 e scritto dall’eroe di guerra!Erik Hazelhoff Roelfzema, il film solleva una questione controversa in merito a quella che si pensava essere stata un’onorevole resistenza da parte della nazione olandese nei confronti della Germania nazista, che diversi storici e giornalisti avevano già iniziato a contestare a partire dagli anni Sessanta. Ciò fu dovuto per esempio al fatto che la sezione olandese delle Waffen SS (forza armata della Germania nazista) era la più grande fra quelle non tedesche e che il numero di ebrei olandesi presenti pre-guerra e poi deportati nei campi di concentramento tedeschi fu a dire poco cospicuo (ben 100.000 su 140.000, la proporzione più alta tra tutte le nazioni europee).

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Antonio Pettierre e Fabio Zanello

Roelfzema, interpretato nel film da un giovane e aitante Rutger Hauer, che dimostra talento da vendere e una fisicità che buca lo schermo, alla terza delle cinque collaborazioni con Verhoeven (le prime furono Fiore di carne del 1973 e Kitty Tippel del 1975, e le successive saranno poi Spetters del 1980 e L’amore e il sangue del 1985), studente dell’università di Leida, nell’Olanda meridionale, che si unì alla resistenza, fuggì in Inghilterra, divenne pilota della RAF per poi ritornare in Olanda come aiutante sul campo della Regina Guglielmina durante la Liberazione. Ma più che concentrarsi solo sulle sue gesta, Soldato d’Orange è un racconto corale che illustra gli avvenimenti che coinvolsero una mezza dozzina di studenti universitari privilegiati e l’impatto che la guerra ebbe su di loro. Il film si apre brutalmente con una cerimonia di iniziazione di una confraternita in cui dei nuovi studenti dalle teste rasate vengono brutalizzati dai compagni più vecchi. Già questa prima scena denota potentemente il tono dell’opera: da una parte conferma l’attitudine di Verhoeven di autore libero e contro corrente, che non ha remore a scioccare il suo pubblico, dall’altra ci introduce in un mondo dove si intuisce chiaramente quanto un atteggiamento di stampo violento e fascista venga tollerato e anzi accettato con facilità, anche in ambienti cosiddetti “privilegiati”. Un mondo dove l’annuncio dell’inizio della guerra verrà successivamente accolto con superficialità dagli studenti viziati, suscitando il loro interesse solo come l’ennesima avventura in cui possono competere, un modo come un altro per mettere in mostra il proprio machismo e spinti più dal cameratismo che da un reale interesse politico. In Soldato d’Orange quindi vengono narrate le vicende intrecciate tra loro di diversi personaggi, tra cui appunto il protagonista Erik (Rutger Hauer), che incarna la spavalderia, il senso dell’onore e la voglia di avventura, si distinguerà sul campo e diventerà un elemento di fondamentale importanza nella Resistenza olandese, arrivando a guadagnarsi il rispetto della Regina Guglielmina. Abbiamo poi Alex (Derek de Lint),

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Soldato d’Orange (1977)

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Antonio Pettierre e Fabio Zanello

alter ego di Erik, fortemente provato dall’internamento della madre di origine tedesca, dopo aver servito nell’esercito olandese, decide di unirsi alla divisione delle Waffen SS. I due si incontreranno due volte ancora: una durante una parata militare e un’altra, alla fine, a un ballo, dove si evince che la loro amicizia sia più importante del fatto che siano su fronti opposti. Altro personaggio chiave delle vicende è Robby (Eddy Habbema), entrato a far parte della Resistenza come operatore radio, successivamente scoperto dalla Gestapo, si vedrà costretto a tradire i suoi compagni per proteggere la fidanzata ebrea Esther (Belinda Meuldijk) dalla deportazione. C’è poi Jacques (Dolf de Vries), unico sopravvissuto insieme a Erik, che trascorre tutta l’occupazione con la testa nella sabbia, concentrandosi unicamente sul portare a termine la sua laurea positivamente; ed ancora Nico (Lex van Delden), ragazzo serio e molto attivo nella Resistenza che finirà ucciso in una trappola a causa di Robby; e Jan (Huib Rooymans), unico ebreo del gruppo, appassionato di pugilato, che dopo essere entrato nell’esercito, verrà catturato dalle SS durante una fuga e finirà fucilato. Senza alcun dubbio il personaggio su cui Verhoeven accentra gli avvenimenti, oltre a Erik, è Guus, interpretato da Jeroen Krabbé, altro attore di forte spessore e che, oltre a Soldato d’Orange, lavorerà con il regista anche nei suoi successivi due film, Spetters e Il quarto uomo. Guus, presidente della confraternita universitaria, diventerà il miglior amico di Erik e si distinguerà per il suo coraggio e spirito di sacrificio, morendo poi alla fine ghigliottinato in un campo di concentramento. Curiosamente è l’unico particolare che si discosta dagli eventi reali: Guus infatti fu ispirato dal vero Peter Tazelaar, che sopravvisse alla guerra, divenendo poi un agente della CIA, fino alla sua morte, nel 1993. Soldato d’Orange consolidò la fama di Verhoeven di regista fuori dagli schemi, controverso, estremo ed eccessivo, e non ricevette critiche positive in patria, ma nonostante ciò fu un enorme successo al box office e risaltò non solo per la sua audacia nel rivelare un passato scomodo sul suo paese, ma anche perché fu in sintesi un grande e riuscito

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Soldato d’Orange (1977)

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Antonio Pettierre e Fabio Zanello

film di intrattenimento. Verhoeven dimostrò di saperci fare e mise in mostra tutto il suo talento tecnico come filmmaker, tra scene di azione e di guerra, un ritmo forsennato e un notevole realismo a livello di violenza grafica (una gamba tranciata dal corpo, carne umana sciolta su una porta, torture anali). Dopo Soldato d’Orange, Verhoeven girerà in Olanda ancora Spetters e Il quarto uomo, ma aveva già suscitato l’interesse di Hollywood. Mike Medavoy, vicepresidente della Orion Pictures affermò che “era un film estremamente ben fatto, e realizzato per davvero con pochi soldi secondo gli standards americani”. Steven Spielberg chiamò Verhoeven dopo aver visto il film, chiedendogli cosa stesse ancora facendo in Olanda e invitandolo a lavorare negli Stati Uniti, dove si sarebbe divertito molto di più. E come ben sappiamo, l’olandese pazzo ci andò eccome negli States e per ben quindici anni, tra il 1985 e il 2000, vi girò ben sette film, lasciando certamente il segno, tra alti e bassi al botteghino, e spaziando tra i generi di azione, thriller, horror, fantascienza e dramma, prima di ritornare in patria con un altro splendido film di guerra, Black Book (2006). E credo che ci sia divertito anche molto a girarli; noi di sicuro ne abbiamo goduto pienamente e gli saremo sempre grati per la sua temerarietà e versatilità.

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Il cinema di Paul Verhoeven

Spetters (1980) di Roberto Lasagna Realizzato tra!Il soldato d’Orange e!Il quarto uomo,!Spetters è un racconto di sesso e istinti selvaggi, tra violenze che incombono portando sangue in un’Olanda proletaria dei tardi anni Settanta. Tre ragazzi,!Eef, Hans e Rien, con la comune passione per il motocross, sono impegnati in gare arrischiatissime, vissute come la sola possibilità di riscatto in queste terre di sconsolata tristezza. Tutti sognano di diventare un campione come il carismatico Gerrit Witkamp interpretato nel film da Rutger Hauer. Se la critica in futuro ricorderà soprattutto l’esperienza di!Fiore di carne (1973), considerato in Olanda un punto di riferimento del periodo, è!Spetters!il vero film-scandalo dell’epoca, sorta di oscuro!American Graffiti nel sobborgo di Rotterdam, affresco disturbante in cui il futuro regista di!RoboCop e!Basic Instinct si trova a dipanare la matassa di un film realistico e autenticamente scomodo, specchio di un’epoca che appare, con i segni della cultura di massa americana importata nelle abitazioni e persino nelle scelte musicali, ai suoi albori di scoperta e identificazione per i giovani del nord Europa. Sulle pareti delle case, persino nel chiosco ambulante di friggitoria in cui vive l’avvenente ed energica biondina Fientje, svettano i manifesti di John Travolta e Olivia Newton John, mentre in discoteca passa!Off the Wall di Michael Jackson assieme a successi che invitano a buttarsi nella mischia. Gli allenamenti e le corse dei tre giovani si alternano alle rispettive vicende sentimentali, accomunate dalla frequentazione di Fientje, la quale si difende con energia e cerca un riscatto nella normalità che lei intravvede in un lavoro e nella possibilità di mantenersi. Lo dice chiaramente: per lei l’amore è una cosa da ricchi; ciononostante ci prova a trovarlo, non a caso si concede ai tre protagonisti che s’innamorano di lei. Rien, il prediletto, resta però paralizzato in un incidente di banale spietatezza, si attorciglia attorno alla sua rabbia, regala le moto e vede

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Antonio Pettierre e Fabio Zanello

un’ultima volta Fientje che quindi egli rifiuta, e infine, si uccide. Eef invece, scopre maldestramente la sua omosessualità, vorrebbe affrontare il padre, un fanatico religioso, ma si prende le botte prima di rinunciare alle corse e accettare la sua identità. Hans infine, messe da parte le ambizioni di diventare campione, alla fine si mette con Fientje lasciando a suo fratello il chiosco ambulante, e insieme comprano il bar del padre di Rien per ripartire con una vita insieme.! In una carriera, quella di Verhoeven, in cui ogni tassello è una provocazione,!Spetters!riesce a scuotere e scandalizzare molti anni prima di!Basic Instinct e senza risparmiare il pubblico, né quello femminile né quello omosessuale, prendendosela tanto con i moralisti borghesi quanto con i bigotti religiosi. In tanta deliberata disinvoltura, lo sguardo d’autore è scomodo, affronta direttamente la materia, senza giudicare nulla e mostrando di comprendere bene l’assetto disincantato di questi personaggi di carne. Rinomato come un film “maledetto”, che fu motivo della chiusura delle porte di Hollywood per Verhoeven (trovatosi a un passo dall’ottenere la regia de!L’impero colpisce ancora!e poi scartato perché al colloquio con i produttori aveva portato con sé una copia del film),!Spetters non è un momento vacuo o banalmente scandalistico, ma rappresenta anzi l’esempio più radicale del periodo olandese del regista in cui l’ambiguità morale dei personaggi ferisce, riflesso del mondo squallido di Eef, Hans e Rien. I loro corpi vivono la frenesia dell’evasione sempre ricercata tra le periferie post-industriali che fanno sbiadire come un ricordo lontanissimo i moti del ’68. Anche lo sport, motivo di possibile rivalsa o rivendicazione, in realtà non ha nulla di sano nel film, coniugandosi con l’arrivismo più intransigente e con la prevaricazione sessuale. Non si risparmiano neppure sequenze sul filo della pornografia, di sesso esplicito raffiguranti anche atti di sopraffazione: scelta di sfrontatezza che colma il vuoto politico lasciato dalle stagioni precedenti e tra i pochi contenuti della quotidianità di questi ragazzi. Individui la cui incertezza si alimenta dello squallore degli approcci, sia che si tratti di sedurre poliziotti o giornalisti, come fa l’abile

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Il cinema di Paul Verhoeven

Spetters (1980)

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Antonio Pettierre e Fabio Zanello

biondina, sia che si tenti la scalata sportiva, le prospettive rimangono quelle squallide di ragazzi a cui è sottratta un’adesione partecipata alla vita civile, sostituita, all’occorrenza, da furtive o improbabili avvisaglie di successo. Del tutto coerente con il suo cinema oltranzista, il regista scandisce i ritmi stretti del suo racconto attorno a un nucleo di amici, come nel precedente kolossal bellico!Soldato d’Orange, e sono le tensioni personali e le ambizioni a distruggere i rapporti, prima della stessa Fientje, la quale, disillusa, ma non per questo anche smarrita, non si fa troppe illusioni sui suoi compagni. La mancanza di sentimentalismo di questa lucida donna è come una lama che taglia di netto qualunque retorica, offrendo una nota d’inquietante realismo. Alla sua vicenda fa coro l’amarezza della parabola di Eef, meccanico dei due amici motociclisti che sogna di fuggire in Canada e lasciare definitivamente quella vita grama, fatta di violenza, con un padre ortodosso pronto a curare lo stile di vita del figlio riempiendolo di calci e sberle. Per Eef è un vero calvario. L’abuso del padre si tramuta, esito di un’educazione improntata all’autorità più bieca, in una condotta di violenza quotidiana, tanto che vedremo Eef!picchiare e rubare agli omosessuali il denaro necessario per il viaggio. Ma la violenza sarà propria anche del branco selvaggio, memore delle gesta dei!Warriors e delle pose di personaggi di Laszlo Benedek, pronto a sfogare sul corpo di Eef una rabbia abietta, in una sequenza di stupro che non fa sconti allo spettatore e tantomeno a Eef. Il quale rinuncerà al suo viaggio per rimanere tra le braccia del fratello di Fientje, uno degli stupratori, e trovare lo scontro aperto con il padre, in una sequenza di botte e martirio pronta a ribadire la dimensione sofferta di un’omosessualità non accettata con semplicità e naturalezza. Verhoeven non trascura i dettagli più respingenti, nella sua riproduzione orizzontale, per nulla allusiva. L’abuso viene mostrato. Esso condiziona attitudini e bisogni, diventando tutt’uno con la sofferenza e con reazioni che, nel maschio, non conoscono l’attesa, la pazienza. A Fientje va decisamente meglio, ma alla fine il relativo successo della ragazza registra la conferma della sua disillu-

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Spetters (1980)

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Antonio Pettierre e Fabio Zanello

sione verso l’amore. In Verhoeven il sentimento non porta lontano, e le persone quando riescono si accontentano, scendono a patti con la mediocrità dei loro sogni. In questa sorta di versione spietata e senza ripensamenti di American graffiti d’Olanda, il senso generale della perdita non si ricuce nelle note di un film a tesi. L’originalità scomoda di Verhoeven è nel realismo dei personaggi che, anche nel momento in cui condividono l’inaugurazione di un locale, lasciano il sapore di una sconfitta in un angolo di mondo in cui lo squallore ribadisce l’assenza di orizzonti propria dei personaggi di Fiori di carne e Kitty Tippel; laddove, il realismo sociale e psicologico evitava programmaticamente le buone formule borghesi e affondava il colpo nella dolorosa consapevolezza di una vita in cui i padri, stupratori o suicidi, sono carogne disposte a conservare intatto lo stato delle cose.! Spetters, accusato di misoginia e omofobia, di derisione verso i portatori di handicap e messa in ombra del proletariato, è coraggiosamente ruvido e sgraziato, privo più che mai di reticenza, urtante nel suo tono in grado di rendere sgradevole la morale benpensante che Verhoeven non dimentica di contrastare.! Ostracizzato e bandito, il film scorre bene e non ha cali di tensione narrativa, affilando i suoi colpi nel privato e tra la scena pubblica, come se, in realtà, non esistessero distinzioni di sorta tra le due dimensioni - almeno per la scena raffigurata e per i suoi personaggi. Film scomodo anche per la mancanza di un esplicito punto di vista critico verso i ragazzi, nella polisemia ribelle del titolo (in italiano il termine “spetters” significa “schizzi”, che possono essere quelli dell’olio delle moto ma anche quelli dello sperma, così da certificare un effetto di “scivolata” delle relazioni) è presagita l’inconsistenza stessa dei sogni di gloria del trio; infranti in un lampo quando Hans rimane vittima dell’incidente e la nervosa rivendicazione collettiva crolla senza speranza. L’algido racconto di Verhoeven, sovente ritenuto, a torto, una sequela di provocazioni più o meno sfrontate, ha subito le accuse di una critica piuttosto gratuita e semplicistica. Nella fedeltà senza orpelli alla

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Il cinema di Paul Verhoeven

vita desolata dei tre ragazzi, Spetters non conosce pietismo, ma la sua efficacia si coniuga con lo sguardo realistico sulla profonda desolazione della provincia olandese.

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Antonio Pettierre e Fabio Zanello

L’amore e il sangue (1985)

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PAUL il cinema di VERHOEVEN © Edizioni Falsopiano - 2021 via Bobbio, 14 15121 - ALESSANDRIA www.falsopiano.com Progetto grafico e impaginazione: Daniele Allegri In copertina: L’uomo senza ombra (2000) In quarta di copertina: Sharon Stone in Basic Instinct (1992) Prima edizione - Luglio 2021


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