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Spetters di Roberto Lasagna
Il cinema di Paul Verhoeven
Spetters (1980) di Roberto Lasagna
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Realizzato tra Il soldato d’Orange e Il quarto uomo, Spetters è un racconto di sesso e istinti selvaggi, tra violenze che incombono portando sangue in un’Olanda proletaria dei tardi anni Settanta. Tre ragazzi, Eef, Hans e Rien, con la comune passione per il motocross, sono impegnati in gare arrischiatissime, vissute come la sola possibilità di riscatto in queste terre di sconsolata tristezza. Tutti sognano di diventare un campione come il carismatico Gerrit Witkamp interpretato nel film da Rutger Hauer. Se la critica in futuro ricorderà soprattutto l’esperienza di Fiore di carne (1973), considerato in Olanda un punto di riferimento del periodo, è Spetters il vero film-scandalo dell’epoca, sorta di oscuro American Graffiti nel sobborgo di Rotterdam, affresco disturbante in cui il futuro regista di RoboCop e Basic Instinct si trova a dipanare la matassa di un film realistico e autenticamente scomodo, specchio di un’epoca che appare, con i segni della cultura di massa americana importata nelle abitazioni e persino nelle scelte musicali, ai suoi albori di scoperta e identificazione per i giovani del nord Europa. Sulle pareti delle case, persino nel chiosco ambulante di friggitoria in cui vive l’avvenente ed energica biondina Fientje, svettano i manifesti di John Travolta e Olivia Newton John, mentre in discoteca passa Off the Wall di Michael Jackson assieme a successi che invitano a buttarsi nella mischia. Gli allenamenti e le corse dei tre giovani si alternano alle rispettive vicende sentimentali, accomunate dalla frequentazione di Fientje, la quale si difende con energia e cerca un riscatto nella normalità che lei intravvede in un lavoro e nella possibilità di mantenersi. Lo dice chiaramente: per lei l’amore è una cosa da ricchi; ciononostante ci prova a trovarlo, non a caso si concede ai tre protagonisti che s’innamorano di lei.
Rien, il prediletto, resta però paralizzato in un incidente di banale spietatezza, si attorciglia attorno alla sua rabbia, regala le moto e vede
Antonio Pettierre e Fabio Zanello
un’ ultima volta Fientje che quindi egli rifiuta, e infine, si uccide. Eef invece, scopre maldestramente la sua omosessualità, vorrebbe affrontare il padre, un fanatico religioso, ma si prende le botte prima di rinunciare alle corse e accettare la sua identità. Hans infine, messe da parte le ambizioni di diventare campione, alla fine si mette con Fientje lasciando a suo fratello il chiosco ambulante, e insieme comprano il bar del padre di Rien per ripartire con una vita insieme.
In una carriera, quella di Verhoeven, in cui ogni tassello è una provocazione, Spetters riesce a scuotere e scandalizzare molti anni prima di Basic Instinct e senza risparmiare il pubblico, né quello femminile né quello omosessuale, prendendosela tanto con i moralisti borghesi quanto con i bigotti religiosi. In tanta deliberata disinvoltura, lo sguardo d’autore è scomodo, affronta direttamente la materia, senza giudicare nulla e mostrando di comprendere bene l’assetto disincantato di questi personaggi di carne.
Rinomato come un film “maledetto” , che fu motivo della chiusura delle porte di Hollywood per Verhoeven (trovatosi a un passo dall’ottenere la regia de L’impero colpisce ancora e poi scartato perché al colloquio con i produttori aveva portato con sé una copia del film), Spetters non è un momento vacuo o banalmente scandalistico, ma rappresenta anzi l’esempio più radicale del periodo olandese del regista in cui l’ambiguità morale dei personaggi ferisce, riflesso del mondo squallido di Eef, Hans e Rien. I loro corpi vivono la frenesia dell’evasione sempre ricercata tra le periferie post-industriali che fanno sbiadire come un ricordo lontanissimo i moti del ’68. Anche lo sport, motivo di possibile rivalsa o rivendicazione, in realtà non ha nulla di sano nel film, coniugandosi con l’arrivismo più intransigente e con la prevaricazione sessuale. Non si risparmiano neppure sequenze sul filo della pornografia, di sesso esplicito raffiguranti anche atti di sopraffazione: scelta di sfrontatezza che colma il vuoto politico lasciato dalle stagioni precedenti e tra i pochi contenuti della quotidianità di questi ragazzi. Individui la cui incertezza si alimenta dello squallore degli approcci, sia che si tratti di sedurre poliziotti o giornalisti, come fa l’abile
Il cinema di Paul Verhoeven
Spetters (1980)
Antonio Pettierre e Fabio Zanello
biondina, sia che si tenti la scalata sportiva, le prospettive rimangono quelle squallide di ragazzi a cui è sottratta un’adesione partecipata alla vita civile, sostituita, all’occorrenza, da furtive o improbabili avvisaglie di successo.
Del tutto coerente con il suo cinema oltranzista, il regista scandisce i ritmi stretti del suo racconto attorno a un nucleo di amici, come nel precedente kolossal bellico Soldato d’Orange, e sono le tensioni personali e le ambizioni a distruggere i rapporti, prima della stessa Fientje, la quale, disillusa, ma non per questo anche smarrita, non si fa troppe illusioni sui suoi compagni. La mancanza di sentimentalismo di questa lucida donna è come una lama che taglia di netto qualunque retorica, offrendo una nota d’inquietante realismo.
Alla sua vicenda fa coro l’amarezza della parabola di Eef, meccanico dei due amici motociclisti che sogna di fuggire in Canada e lasciare definitivamente quella vita grama, fatta di violenza, con un padre ortodosso pronto a curare lo stile di vita del figlio riempiendolo di calci e sberle. Per Eef è un vero calvario. L’abuso del padre si tramuta, esito di un’educazione improntata all’autorità più bieca, in una condotta di violenza quotidiana, tanto che vedremo Eef picchiare e rubare agli omosessuali il denaro necessario per il viaggio. Ma la violenza sarà propria anche del branco selvaggio, memore delle gesta dei Warriors e delle pose di personaggi di Laszlo Benedek, pronto a sfogare sul corpo di Eef una rabbia abietta, in una sequenza di stupro che non fa sconti allo spettatore e tantomeno a Eef. Il quale rinuncerà al suo viaggio per rimanere tra le braccia del fratello di Fientje, uno degli stupratori, e trovare lo scontro aperto con il padre, in una sequenza di botte e martirio pronta a ribadire la dimensione sofferta di un’omosessualità non accettata con semplicità e naturalezza. Verhoeven non trascura i dettagli più respingenti, nella sua riproduzione orizzontale, per nulla allusiva. L’abuso viene mostrato. Esso condiziona attitudini e bisogni, diventando tutt’ uno con la sofferenza e con reazioni che, nel maschio, non conoscono l’attesa, la pazienza. A Fientje va decisamente meglio, ma alla fine il relativo successo della ragazza registra la conferma della sua disillu-
Il cinema di Paul Verhoeven
Spetters (1980)
Antonio Pettierre e Fabio Zanello
sione verso l’amore.
In Verhoeven il sentimento non porta lontano, e le persone quando riescono si accontentano, scendono a patti con la mediocrità dei loro sogni. In questa sorta di versione spietata e senza ripensamenti di American graffiti d’Olanda, il senso generale della perdita non si ricuce nelle note di un film a tesi. L’originalità scomoda di Verhoeven è nel realismo dei personaggi che, anche nel momento in cui condividono l’inaugurazione di un locale, lasciano il sapore di una sconfitta in un angolo di mondo in cui lo squallore ribadisce l’assenza di orizzonti propria dei personaggi di Fiori di carne e Kitty Tippel; laddove, il realismo sociale e psicologico evitava programmaticamente le buone formule borghesi e affondava il colpo nella dolorosa consapevolezza di una vita in cui i padri, stupratori o suicidi, sono carogne disposte a conservare intatto lo stato delle cose.
Spetters, accusato di misoginia e omofobia, di derisione verso i portatori di handicap e messa in ombra del proletariato, è coraggiosamente ruvido e sgraziato, privo più che mai di reticenza, urtante nel suo tono in grado di rendere sgradevole la morale benpensante che Verhoeven non dimentica di contrastare. Ostracizzato e bandito, il film scorre bene e non ha cali di tensione narrativa, affilando i suoi colpi nel privato e tra la scena pubblica, come se, in realtà, non esistessero distinzioni di sorta tra le due dimensioni - almeno per la scena raffigurata e per i suoi personaggi.
Film scomodo anche per la mancanza di un esplicito punto di vista critico verso i ragazzi, nella polisemia ribelle del titolo (in italiano il termine “spetters” significa “schizzi” , che possono essere quelli dell’olio delle moto ma anche quelli dello sperma, così da certificare un effetto di “scivolata” delle relazioni) è presagita l’inconsistenza stessa dei sogni di gloria del trio; infranti in un lampo quando Hans rimane vittima dell’incidente e la nervosa rivendicazione collettiva crolla senza speranza. L’algido racconto di Verhoeven, sovente ritenuto, a torto, una sequela di provocazioni più o meno sfrontate, ha subito le accuse di una critica piuttosto gratuita e semplicistica. Nella fedeltà senza orpelli alla