22 minute read

Fiore di carne di Davide Magnisi

Antonio Pettierre e Fabio Zanello

Fiore di carne (1973)

Advertisement

di Davide Magnisi

Credevo fosse interessante fare qualcosa di stravagante e mostrare che ci possa davvero essere molto divertimento nel sesso. Che non ci deve sempre essere amore. Stavo cercando di esprimere la pienezza del sesso. Stavo cercando di liberare… me stesso, probabilmente o, almeno, gli spettatori, da qualsiasi senso di colpa possa suscitare divertirsi a letto. Con chiunque.

Paul Verhoeven

Fiore di carne è stato un fenomeno che in tempi come i nostri fatichiamo a capire e che solo nella spregiudicatezza del cinema degli anni ’70, e nella libertaria Olanda, si può ben contestualizzare. All’epoca della sua uscita al cinema, fu visto da più di un quarto della popolazione olandese; candidato all’Oscar per il miglior film straniero, è diventato il più grande incasso della storia nazionale fino ai giorni nostri. Non solo: un sondaggio proposto nel 1999 lo ha votato il film del secolo nella storia olandese.

La locandina presentava Fiore di carne come “ un incrocio tra Love Story e Ultimo tango a Parigi” .Adominarlo sono, esplicitamente, Eros e Thanatos, lo spirito maligno degli istinti della carne, nel godimento e nella sofferenza, una sorta di Ronde all’olandese, un girotondo erotico punteggiato da fantasie mortuarie. I ripetuti nudi e la libertina sfrontatezza dei protagonisti sono diventati l’autoritratto della controcultura di una nazione e di una città in particolare,Amsterdam, negli anni ’70, una fotografia della liberazione sessuale di quegli anni.

Fiore di carne è tratto dall’omonimo romanzo (“Turks Fruit” nell’originale, tradotto in Italia con “Olga la rossa”) di Jan Walkers, pub-

Il cinema di Paul Verhoeven

blicato nel 1969, un vero best seller in patria (è diventato anche un musical nel 2005). Benché ambientato negli anni ’50, il romanzo era un evidente riflesso di anni ribollenti sotto il profilo della battaglia sull’espressione dell’erotismo. A dare il tono del libro, la sua apertura ci presenta il narratore maschile (il punto di vista è quasi sempre il suo) mentre si masturba, guardando foto nude della sua ex moglie e leggendoci le sue lettere: “Mentre ti sto scrivendo, immagino la mia fica ti stia succhiando, come la bocca di un bambino i capezzoli della mamma” (o “Ti amo tanto, non lavarti il culo, te lo leccherò fino a che sarà pulito”). L’atmosfera picaresca e un certo candore sessuale, misto ad analogie anche sgradevoli, caratterizzano il romanzo, la cui protagonista è un’eroina disinibita, piena di potere trasgressivo, amante del sesso in ogni sua forma, che si prende gioco dei rituali borghesi e del mito della maternità; insomma il manifesto di una generazione che segnava una netta cesura nei confronti dei tabù e delle angosce delle proprie madri.

“Il libro non è affatto pornografico, ma profondamente umano. Non avevo paura di mostrare tutto quel realismo. […]. In Fiore di carne c’è molto sesso, ma è importante dal punto di vista dei sentimenti umani. Volevo preparare il pubblico sin dall’inizio del film ad aspettarsi una storia d’amore piena di nudi, raccontata in maniera libera”1 . In queste parole del regista ci sono due elementi fondamentali per comprendere Fiore di carne: da un lato, a livello stilistico, una fortissima esigenza di realismo che pervade la messa in scena, dall’altro, e lo si comprende bene nell’intero arco del racconto, il fatto che tutta quell’esplicita rappresentazione dei corpi non mira ad allettare pruriginosamente il pubblico, ma a mostrare realisticamente un rapporto di coppia. La fisicità esibita è la drammaturgia di una storia d’amore. Così il regista:

“Guardate come ritraggo il sesso nei miei film. La maniera viene considerata scandalosa e oscena perché mi piace esaminare accuratamente la sessualità umana. Bisogna essere realistici, altrimenti sono stronzate. […] La scena artistica in Olanda ha sempre cercato di essere realistica. I pittori olandesi di quattrocento anni fa erano meticolosa-

Antonio Pettierre e Fabio Zanello

mente realistici. L’esempio che sempre mi piace portare è un meraviglioso dipinto di Hieronymus Bosch intitolato Il figliol prodigo. Nel quadro è rappresentato un bordello e, nell’angolo, c’è un uomo che piscia contro un muro. Non troveresti mai qualcosa del genere in un dipinto italiano, francese o inglese dell’epoca. Gli olandesi sono sempre stati più scientifici, interessati al dettaglio, certamente meno idealistici e più realistici”2 .

Il presunto esplicito scandaloso erotismo di Fiore di carne è, quindi, realisticamente inteso per entrare nella psicologia umana: raccontare le delusioni, i sogni, le paure e le fragilità di personaggi attraverso la chiave dell’erotismo che non si riduce, nel film, solo all’atto sessuale. Ciò che è affascinante, infatti, all’interno della pellicola, è ciò che ruota intorno al sesso, il modo in cui, in quest’ottica, i protagonisti si rapportano tra loro e con la società, i genitori, il mondo delle convenzioni e a come guardano il loro corpo e quello degli altri, funzioni fisiologiche comprese. L’erotismo del film non è solo sesso (o, peggio ancora, esposizione di corpi nudi commercialmente messi in vetrina), ma rappresentazione della vita, osservazione delle personalità, dialettica tra io e società, nodi che si creano tra istinti e norme di una comunità, intrecci che ci definiscono.

Il film ha un inizio shock con alcuni efferati omicidi, ma scopriamo presto che sono solo le fantasie del protagonista Erik per vendicarsi della moglie che lo ha lasciato. Lui è ripreso senza vestiti nel suo letto, la casa uno sfacelo. Poi prende una foto nuda della su ex, la lecca per incollarla sul muro e ci si masturba davanti. Deciso a ricominciare, giunto al culmine dell’abiezione, il film diventa la catena di montaggio delle sue seduzioni e bizzarrie (come un album di ricordi delle sue conquiste sessuali, con attaccati cimeli come peli pubici). I nudi femminili riempiono il suo letto e lo schermo (anche con gag divertenti, per esempio la ragazza che, per non far piangere il suo bambino nel carrozzino, lo culla al ritmo degli amplessi di Erik), ma non il cuore del protagonista.

Il cinema di Paul Verhoeven

Un flashback ci riporta indietro nel tempo a due anni prima. Erik è un artista scapestrato e anticonformista. Insiste per scolpire realisticamente dei vermi su una statua di Lazzaro e scatena una rissa per aver trovato un occhio di cavallo in un pasticcio di carne (Verhoeven accumula sin dall’inizio tutta una serie di immagini al limite dello sgradevole). Facendo autostop conosce Olga. Subito ci prova con un linguaggio molto esplicito e prestissimo finiscono sui sedili ribaltabili con un paio di provocatorie gag, come la metafora eiaculatoria dello spruzzo del lavavetri sul parabrezza, azionato durante il rapporto sessuale, o le pinze chieste a un’allibita coppia di fattori di mezza età, perché Erik rimasto con il pene incastrato nella cerniera dei pantaloni.

Eros e Thanatos segnano i due ragazzi sin dal principio: Erik distrae Olga alla guida e sbattono contro un albero. Lui ricomincia il suo autostop, ma con il corpo di lei insanguinato tra le braccia. Tempo dopo, Erik, ancora zoppicante, la cerca nel negozio dei suoi genitori, ma viene cacciato in malo modo dalla madre, che diventerà l’incarnazione caricaturale della borghese benpensante I due ragazzi si ritrovano, per caso, mesi dopo in un luna park. Comincia una vera storia d’amore, sempre molto esplicitamente connotata eroticamente, sia nel linguaggio che nelle immagini. Ma Olga non è solo un altro corpo femminile che si aggiunge alla collezione di casa Erik: la stessa composizione visiva si fa più raffinata, a dire un diverso passaggio emotivo rispetto ai tanti nudi senza nome che avevano addobbato la sua stanza.Anzi, mentre lei è in bagno, costruisce intorno al letto una specie di altare, circondandolo di candele, insinuando, però, ancora una volta, una simbologia mortuaria, pur nella bellezza nuda della carne palpitante di lei. Anche lui va in bagno, ma, quando torna, la trova addormentata con un dito (allusivo e regressivo) in bocca. Lui prende una sedia e rimane a contemplarla. L’alba li ritrova, poeticamente, così.

Inizia un rapporto la cui intimità Verhoeven ci rappresenta senza i consueti confini cinematografici, ma come qualcosa di viscerale, frenetico, quasi eccentrico nel modo in cui, naturalmente e innocentemente, i due amanti mescolano i loro fluidi corporei, rovesciando nelle

Antonio Pettierre e Fabio Zanello

immagini l’esibita castità di storie d’amore che avevano segnato l’epoca, come Un uomo, una donna o Love Story. Georges Bataille ci ha indicato come l’erotismo sia un’infrazione dei divieti e Verhoeven evidentemente scardina la visione della messinscena per un grande pubblico rispetto alle comuni norme borghesi.Alla fine, i due si sposano in un rito collettivo e laico, arrivando in ritardo alla cerimonia con un tocco alla Bande à part, che ci ricorda anche quella matrice Nouvelle Vague senza cui un film del genere non sarebbe stato possibile. Tutta una serie di gag contorna la sequenza. Le donne delle altre tre coppie sono tutte incinte, una di loro, con il vestito bianco da sposa, ha le doglie prima che cominci la celebrazione e sporca di sangue l’abito immacolato e la sedia su cui era: un cagnolino si lancia a leccare quei fluidi, rimarcando un aspetto molto presente nel film e il contrappunto della presenza e l’azione simbolica di animali in alcuni passaggi chiave.

Acasa, nudi e felici, festeggiano. Lui la cosparge di champagne, ma il loro è un continuo coitus interruptus da fattorini che portano messaggi e regali. Si susseguono scene erotiche e gag, in uno sberleffo dei riti borghesi, come quando lui distrugge un servizio da tè appena arrivato in dono da un fantomatico zio Omero. Poi suona alla porta anche il padre di Olga e sono costretti a una festa nuziale, filmata da Verhoeven con tocchi quasi espressionistici nel mostrare l’ambigua pretenziosità della madre di lei e il disagio di Erik di fronte a tanta ipocrisia (nella notte d’amore che i due passano nella vecchia camera di Olga, scopriamo anche che la signora ha avuto un cancro al seno e porta un palloncino nel reggipetto).

I novelli sposi vanno in viaggio di nozze e campeggiano su una spiaggia sabbiosa deserta. Lei quasi sempre nuda, tra pensieri al futuro e scherzi, come quando lui finge di morire, incupendola. La sequenza è caratterizzata da una fotografia bellissima, preziosa di tramonti che di certo, da un lato, con quelle silhouette di amanti stagliati nella luce, replica e, in qualche modo, parodizza scene simili viste in tante altre storie d’amore cinematografiche, tuttavia, il montaggio, i primi piani, la forza dei corpi degli attori e i colori della natura, hanno una tale ener-

Il cinema di Paul Verhoeven

gia che dipingono grandi quadri visivi.

Erik riceve la committenza di una statua sulla maternità da installare in un ospedale e lei gli fa, nuda, da modella. Il discorso, implicito per immagini, sull’arte, è uno dei fili conduttori del film, in quanto è un’altra delle sfide alla morale corrente e al principio di realtà, rappresentando l’ordine della sensualità contro quello della repressione. La psicoanalisi, se ce ne fosse stato bisogno, ci ha infatti insegnato come l’arte abbia sempre le sue radici in un principio del piacere che è, in Fiore di carne, la stessa vita e storia del film.

In una scena che segue, Olga esce sconvolta dal bagno, temendo di avere il cancro perché le sue feci sono rosse. Erik le controlla e Verhoeven ci mostra come le prenda in mano, un gesto d’amore che indica devozione e cura nei confronti della donna. Non c’è alcuna sensazione di degradazione in quello che fa (in precedenza si era proposto di leccarla dopo altri servizi fisiologici), semplicemente, mostra l’intensità del suo affetto per lei, teneramente, senza indietreggiare di fronte ad alcuni aspetti considerati sporchi od osceni del corpo dell’amata. Verhoeven con grande abilità utilizza elementi solitamente considerati tabù per farci comprendere i suoi personaggi, insieme allargando la sfera del mostrabile al cinema. Erik la rassicura, dicendole che è solo l’effetto delle barbabietole mangiate il giorno prima. Poi le infila un fiore rosso tra le chiappe e comincia a sculacciarla, macerandolo sul suo corpo, in un’estensione dei presagi di morte che aleggiano nel film.

Il giorno dell’inaugurazione dell’opera è occasione per altre gag. A causa del caldo, Olga è talmente scollata da mostrare i seni al vento, inconcepibile in concomitanza con l’arrivo di Sua Maestà. In maniera ilare, il comitato politico di benvenuto fa di tutto per coprire la presenza dell’artista e la sua compagna, con la banda o trattenendoli nelle retrovie con la forza: sono due outsider, che continuano a prendersi gioco dei rituali borghesi, come quando, dopo la cerimonia, portano a spasso delle piccole copie della statua sulla maternità in un carrozzino e, poi, le buttano divertiti nel fiume.

Arrivati a casa, Erik adagia Olga sul letto, le apre la camicetta e le

Antonio Pettierre e Fabio Zanello

mette dei fiori sul petto: “La prossima statua la chiamerò Persefone” . Nell’inquadratura sembra una camera ardente, lei una morta, Persefone è la dea dell’Averno. Chiamato al telefono, Erik riceve la notizia che il padre di Olga sta molto male. Le toglie i fiori dal petto e su quello si muovono molti vermi lasciati dal bouquet. Il film è ripetutamente attraversato da queste immagini mortuarie (che ne costituiscono in parte la fascinazione), spesso simbolizzate dai vermi (o la spazzatura), analogie di un’orribile decadenza e consumo della vita e, insieme, lavorio incessante di riciclo della natura. Sono opposti che si attraggono e incontrano nel film, la morte e la riproduzione, Thanatos ed Eros, la negazione e l’affermazione della vita: “Essa è in primo luogo tributaria della morte, che le fa posto; in secondo luogo della putrefazione che segue alla morte e che rimette in circolazione le sostanze indispensabili alla produzione incessante di nuovi esseri”3 .

Il padre di Olga è, in effetti, moribondo. Lo spettacolo è particolarmente penoso e disgustoso perché il regista mostra l’incontinenza dei fluidi corporei dell’ uomo, che colano in alcune bacinelle poste sotto il suo letto. Lo stesso odore è intollerabile.Verhoeven associa subito dopo, di fronte allo spettacolo della carne votata alla morte, il corpo vivo del sesso, inquadrando i due ragazzi che fanno l’amore nella camera di sopra, mentre si sentono i lamenti della madre di Olga che si dispera: è lei stessa a interromperli, entrando nella stanza della figlia: “Venite se volete vederlo ancora vivo” (“Eros è ciò che rende possibile l’instaurazione del principio empirico del piacere, ma che sempre e necessariamente trascina con sé Thanatos”4). L’ uomo se ne va, lasciando interrotta una barzelletta che stava raccontando a Erik, ma è sul corpo e le sue funzioni fisiologiche che, fino in fondo, ancora una volta si concentra Verhoeven:

“L’orrore che ci incutono i cadaveri è simile al sentimento suscitato in noi dalla vista degli escrementi umani. L’accostamento ha tanto più valore in quanto noi proviamo un analogo orrore per gli aspetti della sensualità che definiamo osceni. I condotti sessuali evacuano liquidi

Il cinema di Paul Verhoeven

escrementizi […]. Si è formato, attraverso progressivi slittamenti, un ambito della sporcizia, della putrefazione e della sessualità, le cui connessioni appaiono evidentissime”5 .

Il tono sarcastico del regista non viene meno neanche di fronte alla morte, per come satireggia il ridicolo senso estetico e la vanità della madre di Olga, che si ritrae in posa con il cadavere del marito nella bara. Si fa fare più scatti, come se fosse una foto di coppia o due turisti per un’immagine ricordo. La ridicolaggine trova il suo apice mordace quando il velleitario cattivo gusto immorale della donna distribuisce quella foto, in un accurato bianco e nero, ai partecipanti al funerale.

La sequenza che segue è l’ unica in cui si vede Olga lavorare, triste e alienata, come operaia in una fabbrica (simbolicamente, è alla catena di montaggio ad avvitare bottiglie di latte).Tutto appare meccanico e repressivo di quella straripante vitalità sensuale che l’ha sempre connotata. Qui si mostra come un ingranaggio rotto. Al ritorno a casa, litiga con Erik perché ha venduto, a un morboso acquirente, lì ancora presente, un disegno di lei nuda. Si riappacificano facendo una specie di Singin ’ in the Rain nude look. Poi le va con un’amica e lui prepara a casa una cenetta romantica per due, ma, mentre sta per mettere a cuocere la carne, Olga lo chiama per chiedere di raggiungerlo dai suoi amici. Nel locale, c’è anche la madre che già se la intende con il capocommesso del suo negozio. Tutti ridono a crepapelle disgustosamente, con la pellicola virata al rosso. Battute e situazioni grossolane. Uno degli amici ci prova con Olga in bagno e lei ci sta. Erik vede. Iperrealismo e provocazioni. Erik si alza e letteralmente vomita, prima addosso alla madre, poi alla figlia, tutto il suo disgusto. La scena sembra quella di un melodramma fassbinderiano, i volti vagamente distorti, l’ ubriachezza lasciva, le facce come massa indifferenziata che ridicolizza Erik e la sua mancanza di controllo sui desideri di Olga, che qui sembra proiettata verso il suo mondo di provenienza. MaVerhoeven va al di là, ancora una volta esaltando la fisicità delle interpretazioni, con una visceralità che, ancora una volta, si riflette nella rappresentazione dei fluidi corporei.

Antonio Pettierre e Fabio Zanello

Erik schiaffeggia la moglie e va via, ma, quando, al telefono, lei gli dice che non tornerà più da lui, la implora di ripensarci.Al suo netto rifiuto, esplode: “Schifosa puttana, vatti a far fottere, tu e quella battona di tua madre». In preda all’ira distrugge tutte le opere che avevano lei per modella, urlando «lurida! Maiala! Baldracca! Mignotta!” . Ma a un certo punto si blocca in lacrime di fronte all’ennesimo ritratto di lei.

Dei vermi mangiano avanzi di cibo nella casa, in sfacelo e distruzione, come all’inizio del film. Erik è di nuovo nudo su quello stesso letto. Ricomincia a immaginare, con un sorriso di soddisfazione, gli stessi vendicativi omicidi prima che cominciasse il flashback, espediente linguistico con cui il cinema cerca di sconfiggere il tempo in un mondo linearmente dominato dal tempo. Verhoeven ne fa un uso particolare perché, subito dopo, fa ricominciare a Erik la caccia a Olga. Riesce a entrare nella sua casa/negozio di famiglia con la scusa di parlare del divorzio. Fronteggia l’ostilità di madre e figlia. Dorme lì.Al mattino, osserva la signora portare a spasso il suo cane. Verhoeven inquadra l’animale che fa la cacca e viene ripulito dalla donna, una scena che, ancora una volta, ci espone funzioni fisiologiche: “Non importano le differenze, il regista sembra dirci, in questi aspetti cruciali uomini e cani sono perfettamente uguali: mangiano, cacano, fottono, muoiono”6 .

Erik approfitta dell’assenza della donna per infilarsi nel letto di Olga e penetrarla mentre ancora dorme (sempre col pollice in bocca – praticamente uno stupro). Lei si sveglia e chiama urlando la madre. Erik: “Sei mia” . Lei gli dice che è stata con tanti altri, ma lui: “Non me ne importa. Ti amo” , sembrano cominciare a fare l’amore passionalmente, ma entra nella camera la madre, furiosa, vestaglia e bigodini, e comincia a picchiarlo. Entrambe le donne lo prendono a calci. Lui solleva e butta la madre sulla figlia, scappando.

Tempo dopo, mentre Erik sta creando nuove opere (con delle bambole), Olga va a trovarlo per riprendersi la sua roba. Lui le dichiara ancora una volta il suo amore, ma lei lo respinge. Ha un nuovo fidanzato, americano, “ci sposiamo e poi ce ne andiamo in America” . Lui libera simbolicamente un gabbiano che aveva involontariamente ferito in una

Il cinema di Paul Verhoeven

discarica (e poi curato e guarito), sulla spiaggia della loro luna di miele (forte la suggestione di associare il gesto alla colomba liberata nel finale di Blade Runner).

A un certo punto riconosce Olga in un grande magazzino, anche se lei di spalle e bionda. È tornata dall’America, sempre provocante, ma pallida, diversa, sovraeccitata. Va in bagno e sviene. La ricoverano in ospedale. Erik la va a trovare: è calva dopo un’operazione per un tumore alla testa. Le porta una parrucca in regalo e lei ritrova il sorriso. Si abbracciano, di nuovo insieme. In maniera straniante, infantile, Olga ha anche difficoltà a leggere (proprio un brano di amore e morte da una rivista). È in una di queste sequenze che Erik le porta da mangiare, tra mille capricci, i dolci Turks Fruit del titolo originale. Lui la assiste fino a che, una mattina, con un rantolo, muore davanti ai suoi occhi. Nell’ ultima scena, Erik passa davanti alla statua della maternità cui Olga aveva fatto da modella, poi butta la parrucca nella spazzatura che sta per essere ritirata.

Parte della grande forza di Fiore di carne risiede in questa finale sterzata emotiva cheVerhoeven riesce a dare al film. Pur se dominata da immagini erotiche, è una magnifica storia d’amore che ci racconta il regista, trasgressiva e assoluta, ma piena di sincera tenerezza. Un amore bambino, innocente e indecente com’è quell’età. Verhoeven riesce a rendere il film ruvido e disturbante sino alla fine, pur includendo quel dono da innamorato adolescente, i pasticcini turchi, l’addio a un amore che non diventerà mai adulto né mai si conformerà alla routine borghese da cui i due protagonisti sono contornati. Il regista non sembra neanche temere quell’immediatamente riconoscibile finale alla Love Story, il giovane amore guastato dalla tragedia della malattia che aveva sbancato i botteghini e fatto epoca pochi anni prima. Se quel film narrava una specie d’amore spirituale, che si comprende non finirà mai perché eterna è l’anima, quello raccontato daVerhoeven ha a che fare con la carne, con il vuoto lasciato dalla morte, che l’arte redime solo in quanto memoria, come l’inquadratura della statua di Olga dopo il suo trapasso. La natura, e in questo senso l’immagine finale della spazzatura è perfetta-

Antonio Pettierre e Fabio Zanello

mente allineata con tutto il resto del film, continua a fare il suo corso: quel che rimane di Olga viva è una parrucca che finirà riciclata, come faranno i vermi con il suo corpo. “La natura, quasi invidiosa del bene che ci dona, ci dichiara spesso e ci dimostra di non poterci lasciare a lungo quel poco di materia che ci impresta, giacché non può rimanere nelle stesse mani e deve essere eternamente scambiata: ne ha bisogno per altre forme, la richiede per altre opere”7 .

Gli stessi esseri umani finiscono per essere rifiuti e quei corpi che avevamo visto dinamicamente preda del desiderio e bellezza per gli occhi, destinati all’ ultima e più indicibile corruzione: “La sessualità e la morte non sono che le fasi culminanti di una festa che la natura celebra con la moltitudine infinita delle creature viventi; e l’ una e l’altra danno il senso dello spreco illimitato […].Alunga o breve scadenza, la riproduzione esige la morte di coloro che generano, che generano soltanto per prolungare l’annientamento”8 .

Verhoeven prende i codici narrativi delle storie d’amore hollywoodiane, il gusto estetico del film sentimentale, e li depura di ogni alone romantico, costruendo un melodramma della carne dallo sguardo antropologico viscerale, andando sempre al di là delle convenzioni, delle aspettative, anche delle limitazioni emotive comunemente associate al genere (sentimentale, ma anche erotico). Lo stesso espediente del flashback è usato in maniera particolarmente originale dal punto di vista narrativo, spezzando la linearità e portandoci, dopo il passato, l’origine della storia, al presente e oltre. In quell’oltre spingendo i protagonisti a sviluppi emozionali degli eventi che li ridefiniscono completamente, spiazzando lo spettatore sia dal punto di vista emotivo che narrativo. Proprio questi continui cambi di tono, questa continua fluida tensione tra i generi e gli umori, dalla violenza all’erotismo, dalla storia d’amore fino alla commedia nera, dal tono hippie alla straziante tragedia strappalacrime, rendono Fiore di carne sorprendente e scandaloso, ma più per l’esibizione della sua cruda e istintiva emozionalità che per i molti nudi integrali.

Se Verhoeven è giustamente definito “ un regista consacrato al con-

Il cinema di Paul Verhoeven

cetto di shock”9 , lo è per la radicalità della sua visione, capace qui di creare un dramma erotico meravigliosamente pieno di invenzioni, un film appassionato che padroneggia le provocazioni: un amour fou che mette in scena i fantasmi della vita di coppia, della dipendenza dall’altro, di quanto questo sentimento possa essere distruttore e tumultuoso, libero, strada per un’emancipazione dei costumi sessuali che Verhoeven esprime con tutta la sua rabbia di vivere. In questo senso, Fiore di carne è una specie di spregiudicato film manifesto.

Il suo spirito ribelle e scanzonato richiama la cultura hippie (e, linguisticamente, la Nouvelle Vague), ma il regista utilizza quelle forme di coscienza per fare del cinema una specie di campo di battaglia, per avanzare la sua idea del bello e del visibile, mettendo sempre al centro il corpo. Verhoeven mostra, lungo tutto il suo cinema, una fascinazione per la sensualità in tutte le sue forme e per i processi corporei, nella loro incontrollabile vitalità, compresi, oltre il sesso, la malattia, la violenza, gli umori, gli odori.

Al di là di equivoci aspetti voyeuristici, Fiore di carne raffigura il ciclo della vita ed è un film sorprendentemente stratificato, insieme fisico e concettuale. Scava, infatti, nel modo in cui la società vede la sessualità, come forza disgregatrice e sovversiva, antagonista della famiglia tradizionale, del mondo del lavoro, della ragione che deve antagonisticamente frenare i sensi in nome dell’ordine. Il corpo lasciato ai suoi piaceri è materia accordata a chi è fuori dalle regole della collettività: pervertiti, puttane, artisti. E qui si trova un’altra delle chiavi interpretative del film, che coinvolge la dimensione estetica di Fiore di carne e del suo protagonista. Da sempre, nell’immaginario comune, la vita degli artisti è ai margini, non è dentro il principio di realtà che vale per la morale comune quotidiana di tutti gli altri: “I valori estetici possono avere una funzione nella vita come ornamento o elevazione culturale, e come passatempi privati, ma vivere con questi valori è privilegio del genio o segno del bohémien decadente. Davanti al tribunale della ragione teorica e pratica che ha formato il mondo del principio di prestazione, l’esistenza estetica è condannata”10 .

Antonio Pettierre e Fabio Zanello

Di certo Fiore di carne non sarebbe così ben riuscito senza le strepitose interpretazioni dei due attori protagonisti, che costruiscono una chimica grazie alla quale tutto sembra naturale, pur nella sua audacia. Rutger Hauer aveva già lavorato insieme a Verhoeven in una serie in dodici puntate per la televisione olandese, Floris (1969), trampolino di lancio per la carriera di entrambi. Al suo debutto cinematografico, costruisce un personaggio estremamente carismatico, caricandosi tutte le contraddizioni di Erik, la sua animalità, la sua giocosità, ma anche l’intensità emotiva, un intrepido anticonformista, anche un po’ villano, ma pure un vulnerabile innamorato. Debuttante la giovanissima Monique Van de Ven, sensuale e straordinaria nella naturalezza con cui si aggira nuda per quasi tutta la storia. La sua interpretazione restituisce intensamente tutta la gioia di vivere di Olga, la sua mancanza d’inibizioni anche un po’infantile, riuscendo a restituire, al di là della bellezza fisica che riempie la scena, tutta la sfera di emozioni che attraversa, come la carne le nostre vite, il film.

This article is from: