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di Antonio Pettierre e Fabio Zanello
Il cinema di Paul Verhoeven
Prefazione
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di Antonio Pettierre e Fabio Zanello
Quando leggerete queste righe la proiezione di Benedetta, il diciassettesimo lungometraggio di Paul Verhoeven con locations a Bevagna, Montepulciano e Perugia, è passato in concorso al 74° Festival di Cannes dopo il rinvio della sua uscita a causa della pandemia del Covid 19, pagando l’attesa di una cinefilia già duramente provata dal lockdown dei cinema, che ha particolarmente penalizzato l’industria cinematografica come pochi altri settori. E, pandemia a parte, da qui sorge anche il dubbio che vista la materia incandescente (Benedetta Carlini, badessa del XVII secolo con fantasie erotiche che viene demonizzata per il suo lesbismo) questa ultima fatica del maestro olandese sia nata davvero sotto pessimi auspici.
Un racconto filmico pregno di libertinaggio all’interno di un convento, scritto da David Birke, già sceneggiatore di Elle, che lo ha ricavato dal romanzo Atti impuri (1986) di Judith C. Brown, che ci riporterà sicuramente agli scandali cinematografici di Walerian Borowczyk,Andrzej Zulawski e Ken Russell, che toglievano il sonno negli anni Settanta al Vaticano e ai censori, anche se come sempre ciò che conta davvero è la qualità artistica del prodotto.
Eppure, Verhoeven non è mai stato un artista ermetico come David Lynch, con cui condivide l’interesse per le narratologie del sogno, o Terrence Malick, a cui possiamo accostarlo per le revisioni soggettive della Storia, ma al contrario l’olandese è sempre stato ben disposto a sviscerare la sua poetica ai media e (ri)mettersi in gioco. E, nonostante le tematiche scabrose, iconoclaste e caustiche dell’opera verhoeveniana, quella del regista è una modalità di mettersi a nudo assai elegante, priva di narcisismi autoriali, che insegna a pubblico e critica come vorrebbe
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che i suoi film fossero letti e interpretati. Questo approccio è leggibile come un parziale risarcimento alle dichiarazioni sfuggenti sulla collaborazione con Verhoeven, che Rutger Hauer, l’interprete feticcio, ha rilasciato in occasione della sua purtroppo definitiva apparizione pubblica al Lucca Film Festival del 2019, lasciando intravedere un rapporto tutt’altro che idilliaco fra attore e cineasta.
Meno insoddisfacente, invece, il fatto che attualmente i francesi, dopo la fruttuosa esperienza di Elle continuino a dare credito al regista per un altro progetto come Bel Ami, nuovamente di matrice letteraria, poiché la fonte è l’omonimo classico di Guy de Maupassant, destinato alla serializzazione televisiva. Nelle intenzioni dei realizzatori dovrebbero essere otto puntate di natura metariflessiva in quanto il décor è fornito stavolta direttamente dal circolo mediatico, giusto per traslare l’opera di Maupassant nella contemporaneità. Ma anche un segno dei tempi, perché a quanto pare possiamo ipotizzare che anche Verhoeven entrerà con Bel Ami nel novero dei registi assorbiti da una televisione che gioca nel XXI secolo un ruolo fondamentale nella trasformazione della fruizione cinematografica e, in particolare, del passaggio al piccolo schermo di autori che sono stati di importanza cruciale per il cinema degli ultimi decenni. Come per il già menzionato Lynch, anche per Verhoeven oggi diventa più semplice trovare finanziamenti e spazio nella serialità televisiva, poiché oggi più che mai il lavoro cinematografico è condizionato dagli introiti di un film, imponendo al regista una minore libertà espressiva. Meglio ancora: un certo tipo di eccentricità autoriale alla Lynch o alla Verhoeven può essere addirittura incentivata. Del resto prima di battere i territori dei generi erotico, thriller, horror, storico, fantascientifico e satirico, Verhoeven anticipava Lynch, Bruno Dumont e Steven Soderbergh, avendo già percepito che l’audiovisivo d’autore non era più solo destinato al cinema, ma doveva per forza adattarsi alle trasformazioni della medialità odierna, quando realizzò con Rutger Hauer la serie tv Floris (1969). Per Verhoeven, ne siamo certi, queste mutazioni industriali, mediali e di abitudini fruitive saranno un’opportunità
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da sfruttare al massimo, in quanto dopo un’esperienza spettatoriale come Elle il suo fermento creativo è lungi dall’esaurirsi, ma troverà nuove modalità e spazi per svilupparsi, arrivando al pubblico attraverso le piattaforme di streaming, di cui ormai abbonda la rete.
“Il cinema di PaulVerhoeven” vuole essere un contributo critico a un regista, almeno in Italia, ampiamente sottovalutato, prima sconosciuto e poi relegato a creatore di prodotti mainstream. Verhoeven è stato un regista di prima grandezza nel suo paese, l’Olanda con la sua piccolagrande cinematografia che ha dato i natali a Joris Ivens, uno dei più grandi documentaristi del XX secolo, approcciandosi al cinema iniziando con la televisione e pellicole che hanno avuto successo locale. Fiore di carne è stato candidato all’Oscar come miglior film straniero ed è tuttora in cima alle classifiche degli incassi in Olanda. Soldato d’Orange è apprezzato a Hollywood e sarà proprio Steven Spielberg tra i primi a invitarlo nella mecca del cinema. Se, appunto, il primo periodo olandese è stato di crescita e di definizione del suo stile e approfondimento dei suoi temi, bisogna attendere l’arrivo negli Stati Uniti con RoboCop perché il pubblico mondiale iniziasse a conoscerlo veramente e la critica internazionale a parlarne. Durante la sua lunga trasferta a Hollywood, durata dal 1985 al 2000, in quindici anni dirige sei film mediamente sempre con un grande riscontro di pubblico. Ed è interessante come abbia affrontato per quattro volte il genere fantascientifico con opere di tutto rilievo e il miliare Basic Istinct che ha riscritto il noir negli anni Novanta.Anche il vituperato Showgirls, dalla critica e dal pubblico dell’epoca, è una storia fuori dagli schemi, coraggiosa, un film praticamente impossibile da girare oggigiorno per la sfrontatezza con cui affronta il sesso e l’ utilizzo del corpo femminile per affermarsi nella società dello spettacolo di Las Vegas ipercompetitiva e cinica.
Tornato nella terra natia, dopo la trasferta americana, Verhoeven ha centellinato le proprie produzioni, vuoi per la difficoltà nel trovare finanziamenti, vuoi per la scabrosità delle sue opere. Così negli ultimi vent’anni hanno visto la luce solo quattro pellicole: Tricked che non è
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mai stato proiettato nelle sale italiane; Black Book ed Elle che, pur avendo avuto un riscontro da parte della critica, hanno incontrato difficoltà nella distribuzione; e la storia infinita di Benedetta, di cui abbiamo parlato all’inizio.
Del resto, Verhoeven è autore, al tempo stesso, per lo stile ironico e scabro, la capacità di modellare i generi alla sua visione della realtà, dove il sesso e il sangue, la carne e la vitalità, la morte e la vita sono mostrati senza reticenza alcuna e, proprio per questo, appunto, “scomodo” e poco propenso a compromessi che non lo aiutino nei suoi scopi finali. In particolare, l’iterata rappresentazione del matrimonio tra l’erotismo – spesso spinto e con frequenti nudi maschili e femminili che provocano scandalo – e la morte, in un’estasi visiva sporca e cruda, hanno prodotto una forte resistenza al suo cinema, specialmente in Italia dove la sua fortuna è stata a dir poco altalenante.
Così,
“Il cinema di Paul Verhoeven” è operazione risarcitoria per un autore (consciamente lo definiamo tale) che ha attraversato gli ultimi cinquant’anni di storia del cinema non abdicando mai alla propria visione, parlando per immagini allo spettatore nel Vecchio e nel Nuovo Mondo sempre con la medesima voce. Il presente lavoro è costituito da una molteplicità di punti di vista i cui contributi mettono in risalto la complessità stilistica e tematica dell’intera filmografia di Paul Verhoeven. Nelle intenzioni dei curatori il differente e articolato approccio critico dei vari saggi fornirebbe, da un lato, un ventaglio di possibili avvicinamenti alla visione dei film del regista olandese, mentre dall’altro la diversificazione delle interpretazioni evidenzia la profondità del cinema del regista che non sempre si coglie subito, sviati dalla cruenta messa in scena della narrazione. Seguendo un fil rouge cronologico, sono presenti nel volume un ventaglio di metodi interpretativi dello stile e dei temi ricorrenti nelle pellicole. MarioA. Rumor introduce il lettore nel mondo verhoeveniano compiendo un’anamnesi di Floris, lavoro televisivo maturo e collaborazione con Rutger Hauer, suo alter ego nel primo periodo olandese. I film della prima parte di carriera - Gli strani
Il cinema di Paul Verhoeven
amori di quelle signore, Fiore di carne, Kitty Tippel… quelle notti passate sulla strada, Soldato d’Orange, Spetters, L’ amore e il sangue sono approcciati da Roberto Lasagna, Ilaria Dall’Ara e Francesco Saverio Marzaduri in analisi puntuali delle tematiche interne e della forma con cui sono espresse. Davide Magnisi si sofferma ulteriormente su Fiore di carne fornendoci una lettura del testo filmico che mette in risalto la forza della sessualità come collante estetico-narrativo. Fabio Zanello, invece, amplia la visione scrivendo un saggio approfondito sulla figura della femme fatale e declinando una definizione del neonoir verhoeveniano attraverso un viaggio che unisce temporalmente e spazialmente Il quarto uomo, Basic Instinct ed Elle. Antonio Pettierre si focalizza sui primi lavori in terra statunitense con due approcci differenti: da un lato, un’interpretazione filmologica di RoboCop, e, dall’altro, l’analisi iconologica di Atto di forza. Altre interpretazioni filmologiche le abbiamo nei saggi diAuroraAuteri in Basic Instinct, di Mario Molinari in Black Book, di Elisa Torsiello in Tricked e di Giuseppe Gangi in L’ uomo senza ombra. Gangi scrive anche un ampio e documentato saggio estetico definendo il camp e il kitsch quali elementi caratterizzanti del periodo americano di Verhoeven. Abbiamo poi uno studio comparativo scritto da Giorgio Placereani per Starship Troopers – Fanteria dello spazio con assonanze e tradimenti tra il romanzo di Robert Heinlein e il film di Verhoeven. Michele Raga sceglie di analizzare la (s)fortuna critica di Showgirls in un lavoro dettagliato sulla ricezione dell’opera filmica e il suo impatto nella cultura pop. Non manca poi un punto di vista al femminile con Elle di Ilaria Dall’Ara, tra l’altro presente anche nei saggi di Aurora Auteri ed Elisa Torsiello. Il libro si chiude con l’intervista a Rutger Hauer raccolta da Francesco Saverio Marzaduri poco tempo prima della morte dell’attore. Insomma, un’ampia composizione che permette sia al cinefilo che voglia approfondire il cinema di PaulVerhoeven sia al semplice spettatore che si avvicini per la prima volta alle pellicole del regista olandese di avere a disposizione degli strumenti per una visione più consapevole e compiuta.
Antonio Pettierre e Fabio Zanello
A margine, Antonio Pettierre desidera ringraziare: innanzi tutto, le autrici e gli autori che hanno permesso con il loro lavoro la realizzazione de “Il cinema di Paul Verhoeven”; i colleghi della redazione di Ondacinema per l’appassionante continuo confronto sempre proficuo e foriero di idee e spunti critici; i propri genitori per essere sempre presenti e per avergli trasmesso l’amore per il cinema; l’amata Rossella per l’appoggio incondizionato e la sua complicità.
Infine, i due curatori vogliono dedicare questo libro alla memoria di Rutger Hauer.