Piero Spila
UN’IDEA DI CINEMA [Itinerari d’autore fra eccesso e stupore]
EDIZIONI FALSOPIANO
VIAGGIO
IN ITALIA
una collana diretta da Fabio Francione
EDIZIONI
FALSOPIANO
Piero Spila
UN’IDEA DI CINEMA ITINERARI D’AUTORE FRA ECCESSO E STUPORE
Š Edizioni Falsopiano - 2010 via Bobbio, 14/b 15100 - ALESSANDRIA http://www.falsopiano.com Per le immagini, copyright dei relativi detentori Progetto grafico e impaginazione: Daniele Allegri - Roberto Dagostini Stampa: LaserGroup s.r.l. - Peschiera Borromeo Prima edizione - Febbraio 2010
SOMMARIO
Premessa Sull’eccesso e lo stupore, il cinema e la critica
p. 9
1. ERANO DÉI Lumière e la scena primaria
p. 19
Fritz Lang: il cinema inesorabile e le geometrie del destino
p. 22
Cecil DeMille e l’onnipotenza
p. 25
Luis Buñuel: la coscienza dell’irrealtà
p. 32
Henri Alekan: lo sguardo degli angeli
p. 36
L’effetto Manoel De Oliveira
p. 37
2. IL GRANDE CIELO Orson Welles: lontano da Hollywood
p. 43
Robert Bresson: la colpa e l’innocenza
p. 45
Oltre la linea: il metodo Rossellini
p. 47
Il cinema universale di Kurosawa
p. 54
Ritwik Ghatak: il Bengala è lontano
p. 56
Il primo Chabrol: il soliloquio raggiunto
p. 62
Il secondo Chabrol: piccoli omicidi fuori dal genere
p. 70
Jerry Lewis: la comicità, il caos, lo sperpero
p. 72
Jean-Luc Godard: la rivoluzione dentro
p. 75
Pasolini: l’omologazione e la differenza
p. 78
Ermanno Olmi: il valore della diversità
p. 82
Sergio Leone: elegia della circolarità
p. 88
John Huston: l’ultimo inno alla vita
p. 90
3. OMBRE ROSSE Gianni Amico: i piani sequenza di “Tropici”
p. 95
Straub-Huillet e lo stupore del cinema
p. 97
Straub-Huillet cineasti italiani (intervista)
p. 107
Andy Warhol: il cinema della semplicità
p. 119
Marco Ferreri: gli specchi e le maschere
p. 121
Carmelo Bene: maschere e rivoluzioni
p. 138
Mario Schifano: trilogia per un massacro
p. 141
Norman Mailer: immagine e demistificazione
p. 149
La Georgia di Otar Ioseliani
p. 156
Dennis Hopper: l’altra parte del fiume
p. 160
Nagisa Oshima: il dovere dello sguardo
p. 162
Brian De Palma: lo sguardo punito
p. 166
4. VERSO IL 2001, E OLTRE Gianni Amelio e le buone cause
p. 171
La guerra secondo Clint Eastwood
p. 175
Padri e figli nel cinema di Nanni Moretti
p. 177
David Lynch: delicati equilibri e orrori quotidiani
p. 187
Hou Hsiao-Hsien: sogni e incubi del nuovo millennio
p. 192
Michael Haneke: abissi, ossessioni, desideri
p. 194
Gli implacabili shock di Lars Von Trier
p. 197
Matteo Garrone e il discorso interrotto di Pasolini
p. 200
Nota editoriale di Fabio Francione
p. 205
Indice dei nomi
p. 207
Indice dei film
p. 214
Sull’eccesso e lo stupore, il cinema e la critica Più di quarant’anni fa passai buona parte dell’estate al Planetario di Roma, dove all’epoca la Cineteca Nazionale organizzava delle memorabili retrospettive. Era un luogo evidentemente adattato per altre funzioni, eppure sembrava inventato apposta per esaltare le virtù più spettacolari del cinema: la larga platea semicircolare, lo schermo sospeso che veniva giù dal soffitto, la volta altissima che la mattina si riempiva di stelle e pianeti per mostrare i misteri dell’universo. Fu lì, in quella specie di Cappella Sistina prestata ai cinefili, che vidi per la prima volta i capolavori dell’espressionismo tedesco, Lang e Murnau, il Golem e Nosferatu. Ed era anche la prima volta in cui mi sentivo un po’ diverso dallo spettatore che ero stato fino allora. Proprio in quei giorni, infatti, avevo la fortuna di partecipare alla nascita di una nuova rivista di cinema, “Cinema & Film”, che per un certo periodo avrebbe svolto un ruolo importante nella cultura cinematografica italiana e, per quanto mi riguarda, avrebbe impresso una svolta decisiva alla mia vita. Di quei film, a ripensarci col senno di poi, mi impressionavano soprattutto l’eccesso e lo stupore della messinscena (scenografie gigantesche, movimenti degli attori complicati e precisi, angolazioni inattese, luci mai viste prima…) e poi l’incanto di storie inverosimili e lontane, eppure piene di emozioni riconoscibili, destini segnati, passioni assolute e infelici: la morte di Sigfrido, colpito a tradimento durante una partita di caccia, i furori di Brunilde che non si dà per vinta, il duello mortale tra Mabuse e il procuratore Wenck, il ritorno a casa del giovane Hutter, in Nosferatu, condannato a vita dalla sua ossessione. Sarà stato anche per la suggestione del luogo e il momento (avevo vent’anni) ma quell’idea di un cinema pieno di eccessi e stupori è rimasta per me indelebile e, con gli anni, arricchita di esperienze (nel e al cinema) e messe a punto inevitabili, ha contribuito a formare un gusto e un criterio di giudizio, a definire se non un’estetica certamente una predilezione per certi film e autori. Occorre però intendersi bene sui termini e soprattutto non bisogna sovrapporre un giudizio di merito a favo9
re di un cinema rispetto ad un altro. Ci sono grandi autori che lavorano da sempre sull’eccesso e sulle punte estreme e altri, grandissimi, che lavorano sulla misura e “a togliere”, che anzi insistono a tal punto in questo procedimento espressivo da diventare a loro volta eccessivi ed estremi. Ci sono autori che operano sulla sperimentazione e sul limite, sull’invenzione e sui partiti presi stilistici, altri, concentrati sulla forma e lo stile, cesellano i loro film come fossero gioielli, dicendo sempre meglio quello che, opera dopo opera, hanno già detto benissimo. Gli uni lavorano sulla sorpresa, la sfida, la terra bruciata, gli altri sull’equilibrio incarnato e l’armonia della forma perfetta. Personalmente ho amato gli uni (Lang, Buñuel, Welles, Godard, Oshima…) e gli altri (Chaplin, Renoir, Ford, Hitchcock, Bertolucci…), ma chissà perché ho finito con lo scrivere di più sul lavoro dei primi. Ed è uno dei motivi che spiegano questo libro, una raccolta di testi pubblicati in più di quarant’anni di attività, tutti dedicati ad autori tra loro diversissimi per stile, intenzioni e mondi espressivi, e che pure in qualche modo è possibile collegare nel segno dell’eccesso (formale o produttivo) e dello stupore (le storie, le invenzioni stilistiche, gli scandali espressivi). All’interno di tale scelta di campo ci sono anche delle sorprese, perché accanto ad autori sicuramente rappresentabili sotto il segno dell’eccesso, come Buñuel, Ferreri o DeMille, ci sono altri, invece, in cui l’eccesso è più indiretto, qualche volta addirittura nascosto, comunque presente ed essenziale, ed ecco infatti: Rossellini e Welles (per la loro indipendenza e modernità), Olmi (per il ritmo dei suoi film e l’uso dei tempi morti), Amelio (per l’eticità dello sguardo), Moretti (per il narcisismo espressivo), Straub (per l’oltranzismo formale), Ghatak (per la capacità di coniugare ragioni stilistiche ed esistenziali). Alla fine sono 38 autori e ne mancano ancora molti altri che pure meriterebbero di esserci perché corrispondono perfettamente ai requisiti indicati (in elenco: Dreyer, Resnais, Tarkowsky, Malick, Sokurov, ecc.) ma su cui, un po’ misteriosamente, non mi è capitato di scrivere in maniera approfondita. Altri registi, invece, pur grandissimi, non sono presenti perché, come detto, appartengono ad un cinema dell’armonia, ad un’idea più classica della forma e dell’espressione. È per questo motivo che nel libro ci sono DeMille e non Spielberg, Rossellini e non Renoir, Ghatak e non Satyajit Ray, Lynch e non Kubrick. Mentre sono presenti, invece, autori “estremi” solo per un film: John Huston (per il suo commiato declinato sotto il segno della morte, The Dead) e Brian De Palma (per la sua riflessione spudorata sul porno e il voyeurismo in Body Double); o addirittura autori “estremi” solo per una scena, come capita a Murnau in Sunrise, quando il punto di vista della macchina da presa si trasforma all’improvviso, e in un unico movimento, da una ripresa oggettiva e “in terza persona” alla soggettiva del prota10
gonista, per condividerne il delirio amoroso. So bene, però, che come tutte le classificazioni anche questa potrà suscitare riserve e obiezioni ragionevoli e condivisibili. Ma tant’è. Una volta Godard (grande regista e altrettanto grande critico) fece una classificazione del genere e scrisse che Renoir (e altri autori con lui) era la musica e Rossellini la pittura. Non aggiunse altre spiegazioni, che forse non erano neppure possibili, solo un’idea, una suggestione, ma a me è sempre sembrato che avesse perfettamente ragione e che quell’indicazione potesse essere accolta con profitto e divertimento. Mi auguro che sia così anche in questo caso. Nel lavorare a questo libro mi è capitato di rimettere mano e rileggere (a volte sorprendendomi) testi pubblicati in più di quarant’anni di lavoro intenso e continuato, anche se spesso quasi clandestino (il destino delle riviste culturali), e di attraversare un bel tratto di storia della cultura e della critica cinematografica del nostro paese, dai periodi di massimo fulgore (brevissimi) alla desolante situazione attuale. L’avventura di “Cinema & Film”, a cui ho collaborato sin dal primo numero, inizia negli anni ’65-66 quando già erano presenti tutti i sintomi di ciò che sarebbe accaduto con il ’68, un periodo che abbiamo attraversato interamente al riparo della rivista e con la passione per il cinema. Anni travolgenti e irripetibili anche per la critica cinematografica perché l’aspetto teorico (molto presente) colludeva fisiologicamente con l’approccio politico. Si scriveva e si viveva di cinema ma ci si poneva domande su cosa significava fare cinema, cosa significava partecipare a operazioni culturali come i festival, quali erano e dovevano essere i rapporti tra cultura e industria, come era possibile incidere, anche interessandosi ad un’arte tanto “effimera” come il cinema, nei processi di produzione e dunque nell’evoluzione sociale del paese. Su questi temi, come sulla “politique des auteurs” o sull’amore per Hawks e Jerry Lewis, Anthony Mann e Melville, si stringevano rapporti e alleanze con riviste straniere come “Cahiers du Cinéma” e “Positif”, ci si confrontava con compagni e colleghi di altre testate, ancora più ideologizzate, come “Ombre rosse” di Goffredo Fofi e Gianni Volpi. Anni fondativi per tutti perché nell’esercizio critico erano stati introdotti nuovi strumenti teorici (la semiologia, lo strutturalismo) ma c’era anche la predisposizione ad aprirsi a diverse influenze espressive, come accadde ad esempio con l’irruzione dell’Underground, il cinema sperimentale americano che rivoluzionò l’intero apparato linguistico e produttivo del cinema, imponendo un approccio ancora più libero ed emotivo, addirittura psicoanalitico. Dopo il ’68, tutto questo finì. “Cinema & Film” di colpo interruppe le pubblicazioni per una strana e collettiva demotivazione, per un’improvvisa stan11
chezza che, in diversa misura, riguardò anche altre riviste di riferimento, prima fra tutte i “Cahiers du Cinéma”, che prese una deriva pesantemente ideologizzata, addirittura maoista. Le cause erano evidenti: iniziavano anni difficili e confusi per tutti e c’era una posizione maggioritaria che considerava il “fare critico” come un’esercitazione insufficiente, e quindi si puntava ad operare nel cinema in modo più diretto, come registi, sceneggiatori, operatori culturali o organizzatori di festival. Tipico l’itinerario di un collega come Enzo Ungari che, conclusa l’esperienza di “Cinema & Film”, gestì per qualche anno, con Adriano Aprà, uno dei fondatori della rivista, il Filmstudio, un cineclub storico di Roma, in cui praticamente veniva continuato il percorso critico tracciato dalla rivista, programmando i film di cui si parlava, organizzando retrospettive sugli autori che amavamo. Successivamente, Ungari collaborò alle “Estati romane” di Renato Nicolini, che si svolgevano alla Basilica di Massenzio, una grande cineteca all’aperto dove si proiettavano i film fino all’alba, e poi alla Mostra d’arte cinematografica di Venezia, a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, nelle edizioni dirette da Carlo Lizzani, in cui inventò tra l’altro la sezione “Mezzogiorno Mezzanotte”. Come si vede, tutte esperienze molto pratiche, un modo vitalistico di vedere e fare il cinema che però raccoglieva e metteva a frutto una serie di stimoli seminati negli anni precedenti. Altri colleghi di “Cinema & Film”, come Maurizio Ponzi o Luigi Faccini, cominciarono a fare film, altri ancora si dispersero in varie attività e interessi. Per quanto mi riguarda continuai a fare critica, nei modi e negli spazi possibili. Vicende personali mi portarono ad accettare un incarico di responsabilità presso il settore audiovisivi di una grande impresa pubblica (le Ferrovie dello Stato): doveva essere per poco tempo e invece durò più di 30 anni. Un impegno professionale che pose dei limiti ma anche dei privilegi. I limiti erano quelli del tempo a disposizione, che ad esempio mi ha impedito, tranne per un breve periodo a “Reporter”, di svolgere attività da critico quotidianista; i privilegi perché la relativa sicurezza economica mi ha consentito di scrivere e di occuparmi di cinema solo quando reputavo che ne valesse davvero la pena. Nascono così le collaborazioni a varie testate specialistiche e non, da “Nuovi Argomenti” a “Dolce vita”, da “Prima Fila” a “Il Patalogo”, da “Linea” a “Cinecritica” e così via. E non ho mai smesso, in un periodo in cui il cinema in generale e, più in particolare, la critica cinematografica, hanno affrontato una lunga stagione di difficoltà e progressivo degrado, il cui inizio è assolutamente certo. Il 28 luglio 1976 la Corte Costituzionale pubblica la famosa sentenza con cui si stabilisce la liberalizzazione dell’etere, un colpo mortale per il sistema mediologico nazionale, che da quel momento in poi viene lasciato crescere e consolidare secondo la legge del più forte (e del più protetto). Una battaglia che ha fatto 12
soprattutto due vittime: la sala cinematografica tradizionale e il cinema di qualità, ovvero il cinema “della riflessione e della meditazione” (Miccichè). Con una conseguenza diretta e pesante anche sul futuro della critica. Questo libro raccoglie testi pubblicati nell’arco di più di 40 anni su varie testate e in diverse occasioni e contesti: il risultato è una serie di interventi molto dissimili tra loro, sia per la lunghezza sia per il tono e lo stile di scrittura, testi d’occasione e saggi di maggiore respiro. Il primo articolo è del 1967 (“Cinema & Film”), l’ultimo scritto poco tempo fa (“Cinecritica”). Tra l’uno e l’altro è trascorsa una vita, c’è stato uno sviluppo del pensiero, del modo di vedere le cose e, in particolare, di guardare e apprezzare il cinema. Di certo è cambiato il modo di affrontare gli argomenti e di interloquire con il lettore. In questo senso confesso di rileggere i miei testi di fine anni Sessanta con notevole imbarazzo, ci riconosco il rigore e la fatica, ma non condivido certamente la forma involuta, criptica, che per la verità era un segno distintivo del tempo e, in particolare, di “Cinema & Film”, ma che per me diventava anche una forma di difesa, una denuncia di insicurezza. Abbiamo deciso di pubblicarli così come erano, con il loro presente storico e con minimi interventi di editing per eliminare imprecisioni e refusi. L’alternativa era riscriverli interamente ma si sarebbe persa l’atmosfera del tempo e del contesto e soprattutto si sarebbe contraddetto lo spirito antologico del libro. Alla fine, tuttavia, tra i testi antichi e più recenti, quelli più analitici o impressionistici e leggeri, credo sia possibile rinvenire un filo rosso comune che riguarda sia l’interesse per un cinema autentico e mai banale, sia una forma molto precisa di fare critica cinematografica. Proprio quel tipo di critica che attualmente, nel nostro paese, è diventata sempre più marginale ed evanescente. Capita infatti che un esercizio della ragione e del sapere, un modo di confrontarsi con il cinema che ha conosciuto momenti altissimi e fondamentali, è di fatto quasi scomparso dalla carta stampata, relegato, almeno per quanto riguarda la ricerca specialistica e l’approfondimento, in spazi istituzionali e sociali ben delimitati (le cattedre universitarie) o faticosamente coltivato in qualche rivista sempre sull’orlo della chiusura. Un cinema attento soprattutto a fare di conto (che non sarebbe di per sé negativo), però incapace di riflettere su se stesso in termini di linguaggio e forme estetiche ed espressive non ha un grande futuro. Ed è questa la situazione con cui conviviamo. Per chi fa critica cinematografica c’è sicuramente un problema di spazi (ma il mercato non è mai stato generoso con chi non è controllabile), c’è però nella critica stessa, in genere, anche un’attitudine a modificare progressivamente ruolo e natura, ad appiattirsi troppo sugli eventi, limitandosi alla superficie dei fenomeni e mai alle loro ragioni, con l’ossessione di “perdere il contatto” con il pubblico “che va al cinema”, e dunque alla 13
fine omologandosi ad un modello informativo che contraddice o rende vano ogni tentativo di approfondimento, ogni riserva, ogni interpretazione alternativa, ogni eccezione. Che sono proprio le caratteristiche del cinema fatto dagli autori di cui si parla in questo libro. La sensazione è di battersi a mani nude nei confronti di un cinema in cui ha assunto un totale sopravvento la dimensione industriale, un cinema autoreferenziale in termini solo economici, che si guarda allo specchio (il box office) e si compiace o si deprime sempre all’eccesso, senza aspettare le possibili controprove, senza tentare strade innovative, senza rischiare sui tempi lunghi. È così che a perdere sono insieme il cinema e la riflessione critica. Nella mia attività a “Cinecritica”, mi capita spesso di imbattermi in giovani critici e studiosi di cinema che chiedono consigli e pareri sul modo e la possibilità di coltivare professionalmente la loro passione. Le risposte purtroppo non possono che essere vaghe. Mi viene sempre in mente però una scena dell’ultimo film di Tarkowskij, Sacrificio. Quando Alexander, l’anziano protagonista del film, pianta un albero in riva al mare e racconta al bambino muto che lo accompagna il poetico apologo di un uomo votato per la vita a compiere quell’identico gesto. Ecco, gli dice, basterebbe che ognuno di noi, ogni mattina, versasse un bicchiere d’acqua nella terra dove sta piantato l’albero e il mondo sarebbe diverso e migliore. Tarkowskij nel suo millenarismo laico parlava di volontà e sacrificio individuali contro la cecità e la violenza collettiva, più modestamente noi parliamo di una specializzazione da coltivare con impegno e rigore. Sono convinto, infatti, che i critici non debbano avere paura della loro specializzazione, perché alla lunga sarà proprio questa dote che farà sopravvivere la loro funzione rispetto all’omologazione di un sistema dell’informazione sempre più invasivo e rumoroso, ma senza più sorprese e desiderio. Viceversa, la scomparsa dalla scena mediatica della funzione critica determinerà un vuoto incolmabile tra pubblico e cinema. Un vuoto che verrà interamente occupato dal marketing e dalla forza degli investimenti. Marketing e investimenti così potenti da inventarsi addirittura una critica “virtuale”, evocando un fantasma (proprio la critica cinematografica) che si vorrebbe invece scomparso. Il punto di arrivo è stato già toccato qualche anno fa e ha un nome: David Manning, il critico virtuale inventato dalla Sony non per far parlare bene dei suoi film, ma per farlo parlare nei modi “giusti” e “utili” all’ennesimo lancio promozionale: tante piccole frasi, tanti aggettivi roboanti, da poter ritagliare e incollare sui flani. Il pericolo per chi fa critica non è l’esistenza di Manning (lui non si interesserebbe mai di Lang o Ghatak), ma di finire col rassomigliargli. 14
Nel chiudere queste righe devo una confessione e qualche ringraziamento. La confessione riguarda un impegno cominciato quasi per gioco (in pratica fare un libro già scritto e disperso) ma che alla fine mi ha sempre più coinvolto, soprattutto perché ha consentito di ricordare parte di una stagione bellissima della mia vita, fatta di amore per il cinema e per la critica i cui segreti e piaceri ancora non smettono di sorprendermi. Il primo ringraziamento è per Adriano Aprà, tra l’altro presente in questo libro con due contributi; è il mio primo maestro, conosciuto all’epoca di “Cinema & Film”, e mi ha insegnato tra le altre cose il culto rigoroso di una passione che deve essere presa sul serio, una lezione di metodo e applicazione che ho fatto mia in tutti i lavori successivi. E un altro ringraziamento non formale va all’amico e al collega più recente, Fabio Francione, a cui devo l’idea e la spinta di mettere mano ai miei lavori, cercando di dargli una forma e una logica accettabili. Egli rappresenta un’altra generazione critica, ci divide la formazione culturale e, spesso, anche il gusto cinematografico, ma in lui riconosco l’entusiasmo, il rigore dell’approccio e il gusto per le sfide da affrontare. (Ottobre 2009)
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ERANO DÉI (1920-1940)
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Metropolis (1926) di Fritz Lang
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LUMIÈRE E LA SCENA PRIMARIA Mary Pickford pianse di emozione la prima volta che si vide sullo schermo. E in effetti, l’immagine cinematografica dell’uomo è diversa da ogni altra immagine dell’uomo: dalla subdola simmetria dello specchio come dalla staticità un po’ lugubre della fotografia. Allo stesso modo, se fra gli spettatori che in una sera del 1895, a Parigi, assistevano alla nascita ufficiale del cinema, ci fosse stato un ferroviere, esso non sarebbe riuscito a trattenere un moto di orgoglio all’apparire della locomotiva. Non perché la locomotiva che entrava sbuffando nella stazione di La Ciotat fosse più vera di quelle che ogni giorno vedeva correre sui binari, ma perché le immagini tremolanti e lattiginose di Lumière erano già storia, e sancivano figurativamente l’importanza del suo lavoro, la naturale capacità del cinema di incarnare l’avventura e il progresso dell’uomo. Non è un miracolo che il cinema al suo apparire riuscisse a provocare emozioni così forti, miracolo è che già all’esordio misurasse e definisse, con la presenza di un treno e un piano sequenza di 35 secondi, la sua capacità espressiva e la sua incontrollabile vitalità. E questo al di là delle intenzioni documentaristiche del suo inventore – che temeva come la peste l’eccessivo entusiasmo del pubblico, l’idolatria delle vedettes, le incognite dello sfruttamento industriale. «Se un giorno la scienza riuscirà a darci l’illusione perfetta della vita, come non pensare che possa in futuro creare la vita stessa?», scrive all’indomani della prima proiezione un anonimo cronista parigino. E ancora: «con il cinema, la fotografia ha smesso di fissare l’immobilità. Quando questi apparecchi saranno venduti al pubblico e tutti potranno fotografare i loro cari in movimento, nelle loro azioni, nei loro gesti quotidiani, con le loro parole a fior di labbra, la morte cesserà di essere un fatto assoluto». Incredibile. Con l’invenzione di Lumière l’uomo già non si accontenta più di conoscere meglio la realtà che lo circonda, ma progetta di penetrare i misteri della vita. Sullo schermo ogni figura, ogni cosa si ammira a grandezza naturale, e l’inquadratura di Lumière è definita così bene che non lascia sfuggire il minimo particolare. Un marciapiedi assolato, la fuga prospettica di un binario, il cielo con un disegno di nuvole. Poi d’un tratto tutto si agita, tutto prende a correre. La locomotiva irrompe dal fondo, avanza in diagonale verso lo spettatore ed esce dal lato sinistro dell’inquadratura per lasciare il favore del campo (l’operatore è già diventato regista) all’umanità che comincia a invadere lo schermo scendendo dai vagoni come da un Vaso di Pandora. Uomini giovani che sorridono incuriositi verso un oggetto che non conoscono (la macchi19
na da presa), un signore in paglietta, militari in divisa e, fra gli altri, superando un attimo di femminile imbarazzo, una giovane signora in abito bianco e ombrellino: da sola, evidentemente in visita in città, attraversa il fotogramma già pieno di mistero, come una vera attrice (e in effetti è la moglie di Lumière prestatasi alla breve apparizione), come un vero personaggio cinematografico. Una semplice inquadratura, quella de L’arrivée d’un train à La Ciotat, eppure basta per delineare uno spazio espressivo e una forma possibile di racconto. Quella del cinema non è stata un’invenzione qualunque: prepotente come una rivoluzione, ha popolato l’immaginario di nuovi concetti visuali e ha reso ai segni improvvisamente consunti dei linguaggi tradizionali la nuova lingua del dato sensibile e diretto, della percezione non mediata e dunque soggettiva e arbitraria. La prima volta di Lumière è già una “scena primaria” in cui il significante (il treno) si moltiplica negli innumerevoli significati dei suoi viaggiatori, delle loro fisionomie, dei loro caratteri, delle loro storie. È significativo che il cinema sia nato insieme ai primi mezzi di trasporto di massa. Il treno avvicina i luoghi, il cinema gli avvenimenti: e tutti e due, insieme, modificano abitudini, idee, scelte di vita. Un’arte fatta di tecnica ma anche di forti suggestioni (il cinema, prima che dagli artisti, è stato inventato dagli ingegneri), un mezzo di locomozione (il treno) nato con la civiltà delle macchine ma grazie alla testarda volontà di alcuni sognatori. Cinema e ferrovia sono stati eventi dominanti di un’epoca durata più di un secolo che ha dato a centinaia di milioni di spettatori, e ad altrettanti viaggiatori, una rappresentazione del mondo che non era più quello che si raccontava (falso) ma quello che finalmente si poteva vedere (nuovo, strano, liberatorio), un mondo in cui a vincere non era più solo l’unilateralità della ragione (dei più forti), ma dove era proprio la ragione a svelare l’ambivalenza e le contraddizioni del mondo. Nella messa in crisi delle leggi fisiche e nella liberazione dell’immaginario, nella sovversione delle dimensioni del tempo e dello spazio, nella vocazione a unire idee e desideri, realtà e fantasia, il cinema ha contribuito non solo ad insegnare il piacere di vedere meglio le cose, ma anche l’esaltazione e il dubbio connaturati nell’atto stesso della visione. Un atto in cui le luci del mondo trovano un senso solo nella camera oscura della mente dello spettatore. Immagini in movimento: mai semplice registrazione e ricalco, ma sempre messa in scena, elaborazione, fuga in avanti. Ombre della fantasia, proiezione realistica di sogni. Giacomo Casanova giudicava una delle più grandi stupidaggini che potesse commettere un amante dire “ti amo” alla donna che sa (è sicura) di essere amata. Il cinema - proprio a partire dall’irruzione sulla scena della locomotiva di La Ciotat - è la sola arte capace di evitare questo 20
rischio, almeno ogni volta che riesce a sconfiggere l’inerzia mentale di chi si accontenta di vedere solo ciò che già conosce. A partire dal primo film di Lumière il cinema (come era già capitato alla pittura e alla musica) denuncia la sua vera e rivoluzionaria natura, deludendo le cautele di chi aveva predisposto per esso il noioso e mediocre destino di “documentare” la realtà, e traccia già i suoi confini più estremi: narrazione, avventura, invenzione. In Linea, nn. 8/9 agosto-settembre 1989
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FRITZ LANG: IL CINEMA INESORABILE E LE GEOMETRIE DEL DESTINO Fra due punti estremi – il cervello e il cuore, ma anche l’innocenza e la colpa, la verità e l’inganno, il sogno e il risveglio – è sempre la retta la linea più breve, non la più facile. Rappresentato geometricamente, tutto il cinema di Fritz Lang, dai capolavori dell’espressionismo alla lunga stagione americana, dagli intrighi noir ai deliri esotici del dittico indiano, dalla mitologia del superomismo all’ossessione metafisica della colpa e del riscatto, sta in questo tracciato inesorabile e brutale, che non ammette scarti o arresti improvvisi, deviazioni o incertezze. Secondo Lang «una storia di odio, assassinio, vendetta, eroismo e sacrificio, deve avere un ritmo necessariamente diverso da una storia che parla di qualcuno che cerca lavoro», e sul set si è sempre comportato di conseguenza. Si racconta ancora lo stupore di Lang, durante le riprese di Le mépris, quando vide Jean-Luc Godard girare una scena con Brigitte Bardot al Chez Fouquet lasciando che si sentissero tutti i rumori di fondo. «Ma perché questa scelta? Perché conservare i rumori reali? Quando tu sei al tavolino con una donna che ami, vedi solo lei, senti solo lei». Per Lang è dunque innanzitutto una questione di metodo e di rigore espressivo, non di soprassalti morali, di scelte possibili, di rinunce o compromessi che alla fine si rivelano quasi sempre ininfluenti. La vita e la morte, il destino, la colpa, il crimine: in Lang c’è sempre un ingranaggio perfetto alla rovescia, dove tutto sembra funzionare a meraviglia e invece si precipita verso la rovina, dove gli uomini e i loro sentimenti agiscono liberamente solo in apparenza, in realtà sono imprigionati in un campo magnetico di attrazioni e ripulse da cui è impossibile sfuggire. «Nella scansione delle inquadrature di tutti i suoi film – ha scritto Lotte Eisner – nulla può arrestare la marcia fatale del destino. Secondo questa rigorosa concatenazione di avvenimenti, ogni scena o inquadratura, la loro durata, il ritmo degli incidenti che vi succedono, gli intervalli che le separano, il valore di una parola, di una frase, tutto ha un proprio significato e tutto è importante. Le impressioni visive e sonore si accumulano per determinare il dramma sul quale piomba l’ananké inflessibile delle tragedie greche. Ogni dettaglio ci avvicina alla catastrofe finale». Nel cinema di Lang la buona causa nasconde quasi sempre un secondo fine, l’altruismo e il senso di giustizia sono valori che nel fondo hanno ben poca nobiltà, e la moralità è solo un accomodamento sociale necessario. Nell’universo figurativo (e umanistico) di Lang, nelle sue parabole narra22
tive, scarne e geniali, l’utopia rivela sempre, alla fine, un riflesso di mediocrità, le vittime, almeno per un attimo, assomigliano ai carnefici, i protagonisti positivi (gli eroi delle saghe nibelungiche come i disperati, infelici abitanti delle metropoli americane) convivono con terrori, angosce, insicurezze e rapacità pre-umane. Il poliziotto è molto più efficace nel tutelare la legge quando smette di pensare agli ideali della sua missione e comincia ad agire guidato solo dal desiderio di una feroce vendetta personale (Il grande caldo), i derubati sono spesso più immorali dei rapinatori (Io sono innocente), gli innocenti che si fingono colpevoli sono colpevoli davvero (L’alibi era perfetto) e nessuna esistenza è tanto grigia e irreprensibile da non celare al suo interno un demone impazzito (La donna del ritratto, La bestia umana). Se è vero che i grandi registi assomigliano ai film che fanno, allora Lang non poteva realizzare che il cinema che ha fatto, indipendentemente dal luogo, dall’epoca, dalle circostanze. Dai memorabili film del periodo muto al trionfo del sonoro, dal cuore dell’Europa, sfregiata dall’avvento del nazismo, alla Hollywood degli anni Trenta e Quaranta fino alle persecuzioni maccartiste, dalla censura di Goebbels a quella più subdola, voluta da Eisenhower, dalla vertigine di Babele alle piccole commedie strappate ai compromessi produttivi e finalizzate alla rappresentazione dei vizi più intimi e triviali, il regista di Metropolis e M, il mostro di Dusseldorf ha sempre incarnato un’idea di cinema unica e ossessiva: porre a confronto (e quindi rendere più umano e vulnerabile) il caos dei sentimenti privati, delle contraddizioni esistenziali, degli slanci generosi e temerari, con le impeccabili geometrie della Storia, del Destino, delle scelte inevitabili. Nel cinema (e nella vita) di Fritz Lang niente è mai casuale o arbitrario. Amava molto i western ma solo perché essi – diceva – hanno all’interno una morale resa obbligatoria dalla necessità. «Ogni inquadratura di Lang – ha scritto Truffaut – ogni movimento di macchina, ogni taglio è inesorabile». E a livello di recitazione ogni gesto porta in sé qualcosa di unico e decisivo. È nota la ferocia e la disciplina perfezionista di Lang nel lavoro. «Si dimentica sempre che non sono stati gli déi ad aver creato gli uomini, ma gli uomini ad aver creato gli déi», dice Lang a 73 anni, interpretando se stesso in Il disprezzo di Godard. Questa è una regola che Lang non ha mai dimenticato, neppure quando Goebbels lo convocò nel suo ufficio di Berlino per offrirgli la direzione della cinematografia tedesca. Qualche ora dopo Lang faceva le valigie e passava la frontiera. Destinazione Parigi e poi Hollywood. Non lo fece per un supremo slancio ideale e neppure per eroismo (infatti non se ne è mai vantato), ma semplicemente perché era una cosa necessaria. Una scelta inesorabile e giusta: come il suo cinema, pieno di eroi leggendari che diventano tita23
ni dÊracinÊs, abitato da fantasmi e stregoni che si trasformano ogni volta in piccoli uomini colpiti dal demone del desiderio e della vendetta. Un cinema essenziale, duro, rigoroso in una filmografia attraversata da stagioni difficili, compromessi, cadute. Un cinema, quello di Lang, classico e fedele a se stesso. In Fritz Lang, catalogo a cura di Mario Sesti per la retrospettiva promossa dall’Assessorato alla Cultura del Comune di Roma - Edizioni Carte Segrete, Roma 1990
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CECIL DE MILLE E L’ONNIPOTENZA Leggendario e discusso, spesso per partito preso, tagliato fuori dalla ”politique (e génération) des auteurs”, Cecil B. DeMille è stato sempre sottovalutato dalla critica specialistica. Non è un caso che su DeMille e sulla sua opera esista una bibliografia imponente e una relativamente scarsa letteratura critica. Definire DeMille “autore leggendario” è anche un modo per metterlo tra parentesi, relegarlo fra i tanti luoghi comuni della storiografia cinematografica o per citarlo en passant nelle ricognizioni socio-economiche o, peggio, nelle agiografie su Hollywood e i suoi miti. Il risultato più appariscente è che il cinema di Cecil DeMille è stato studiato e normalmente presentato come fenomeno spettacolare/produttivo, come calzante esempio dell’industria cinematografica espressa alla sua massima potenza, come convincente fusione del piacere dello spettacolo con il relativo valore economico del film, e viceversa viene poco considerato dal punto di vista delle forme linguistiche e narrative utilizzate, delle molteplici innovazioni apportate nella fase della messa in scena, di quella capacità assolutamente personale di coniugare rappresentazione e spettacolarizzazione di emozioni ingenue e universali. Ulteriore riprova è che si parla quasi sempre di “cinema alla DeMille” (con tutta la genericità che una tale definizione comporta), quasi mai di cinema di DeMille. Come se il cinema di DeMille, identificato col fenomeno della standardizzazione del linguaggio cinematografico e dell’affermazione dei codici hollywoodiani, non avesse in sé anche elementi autoriali, sviluppi tematici importanti e autonome ricerche espressive. È vero che un autore come DeMille ha operato in un contesto storico e in una logica produttiva fortemente condizionati dal mercato, in una dimensione cioè in cui i concetti stessi di “bellezza” e “realismo” erano semplici opzioni in funzione del risultato, erano “valori aggiunti” che dovevano servire a rendere più piacevole il prodotto o a meglio mascherare gli artifizi e gli apparati tecnici che rendevano possibile (e più credibile) lo spettacolo; ma è altrettanto vero che DeMille ha dedicato sin dai primi film un’attenzione particolare alla qualità e alla specificità linguistica ed espressiva di quei “valori aggiunti” resi possibili dal cinema. Per lui non si trattava solo di rappresentare storie universali, ma anche di rappresentarle con un mezzo e con un linguaggio nuovi, con potenzialità espressive immense ma anche con condizionamenti e limiti specifici. È un aspetto del cinema di DeMille che avrebbe meritato ben altra attenzione. 25
DeMille proveniva dal teatro (il padre, autore preferito di David Belasco, personaggio di punta del teatro americano di fine ‘800; il fratello William, a cui si affianca giovanissimo) e i suoi primi film da regista risentono di questa originaria impostazione. Ma è solo l’inizio, perché DeMille si pone immediatamente il problema del nuovo linguaggio e della necessità di interagire con esso (la molteplicità dei punti di osservazione, la luce, il taglio e la composizione dell’inquadratura, e dunque l’economia dello spazio, la dialettica del campo visivo, il tipo di recitazione degli attori). Lo fa, evidentemente, ancora senza mediazioni teoriche, solo attraverso l’apprendistato e l’uso inizialmente istintivo e poi sempre più metodologico di una personalissima tecnica di regia, e lo fa soprattutto con una presenza ossessiva sul set, con un’attenzione maniacale per tutto ciò che accadeva in fase di preparazione o ripresa. I risultati si vedono. Sin dai primi film gli attori di DeMille non si accalcano più in un angolo dell’inquadratura - secondo l’uso, molto diffuso all’epoca, di chi era abituato ad utilizzare solo l’arco ristretto del proscenio - ma si dispongono in modo tale da valorizzare anche lo sfondo, la profondità di campo, il paesaggio. Ed è DeMille per primo, non i critici che hanno studiato la sua opera, a rilevare la novità: «Liberarsi finalmente dai confini del palcoscenico. Solo l’orizzonte come limite del palcoscenico, e il cielo come impalcatura per cambiare scena. Nessun limite in altezza, nessun vincolo di rispettare lo spazio scenico. Questa la grande novità e libertà del cinema». Era appena l’inizio, e per DeMille era già un fatto di onnipotenza, già ragionava in termini di kolossal, e cioè di dimensioni, di superamento dei limiti, di nuove opportunità da mettere a frutto, di libertà creative da sondare. Ancora. DeMille ha utilizzato per i suoi film quasi sempre dei testi letterari, dei drammi teatrali, ma non si è mai posto, nemmeno per un momento, il problema del rispetto filologico di quei testi, si è posto semmai il problema contrario, di come superarli liberandoli da una serie di vincoli oggettivamente estranei alla logica visiva del cinema. Siamo nel 1916, DeMille è praticamente agli inizi della carriera, ha ultimato The Trail of the Lonesome Pine e già rivendica l’autonomia del linguaggio cinematografico rispetto al testo e al materiale profilmico: «Gli autori, come anche i lettori - scrive lamentano spesso di quanto i film deformino o massacrino i romanzi da cui sono tratti. Talvolta sono lamentele più che giustificate. C’è in effetti, nella natura dell’uomo, come una tendenza che ci spinge ad apportare quelli che noi crediamo ingenuamente dei miglioramenti all’opera di un altro. Ma per lo più, queste lamentele nascono da un disprezzo profondo per il cinema e per il pubblico per il quale i film vengono realizzati. Un romanziere si serve delle 26
parole, con tutto il potenziale di suggestione e concisione che le parole hanno. In una frase può dipingere e caratterizzare tutto un personaggio, rivelare tutto il mistero di una vita. Ma un regista non può filmare questa frase: è necessario allora inserire nel film una scena nuova, che non c’era nel romanzo, ma che permette di far comprendere il background del personaggio o un elemento dell’azione che altrimenti sarebbe rimasto oscuro. Io dico che l’osservazione rituale: “Ma questo nel libro non c’è!”, è in realtà un omaggio reso allo scrittore e al regista». C’è poi il problema luministico - tipico e specifico elemento del linguaggio cinematografico - che DeMille affronta con serietà e con il contributo decisivo dei suoi operatori Whickoff e Struss. «Quando lavoro - scrive - io compongo una scena esattamente nello stesso modo che se quella scena dovesse essere disegnata o dipinta. Lo faccio, non spostando la gente arbitrariamente o casualmente nello spazio utile davanti alla macchina da presa, ma guardando dentro l’obiettivo». Vale a dire che per DeMille l’inquadratura, nei suoi elementi minimi, viene costruita a partire da una distribuzione precisa ed “espressiva” dei corpi e delle forme da inquadrare, in funzione dell’equilibrio delle luci e delle ombre, degli spazi esistenti fra gli oggetti, delle lontananze e delle prospettive. «Noi dipingiamo con le luci», scrive ancora DeMille all’inizio degli anni Venti, e conseguentemente, nei suoi film, viene spinta fino alle estreme conseguenze la ricerca espressiva sulla luce artificiale, utilizzando i tesori ereditati dalla fotografia artistica o ancora meglio dalla pittura («un’illuminazione alla Rembrandt o alla Vandyke» o, più semplicemente, «un effetto Corot» sono le abituali indicazioni date ai cameramen): e quindi chiaroscuri e controluce, effetti di fumo e sfondi neri, luci dal basso e ombre spioventi, invece della semplice illuminazione uniforme delle superfici come all’epoca era uso fare. E ancora, l’utilizzazione puramente espressiva e ritmica del piano americano, introdotto già con The Heart of Nora Flynn (1916), con il personaggio e l’oggetto da lui guardato contenuti nella stessa inquadratura, per superare la stucchevole necessità del montaggio campo/controcampo, dettaglio/campolungo; il rapporto molto aperto e collaborativo con gli attori; l’uso assai anticipatore del colore (in Joan the Woman, 1916) o della musica di accompagnamento (di cui DeMille curava personalmente la scelta e le partiture) o delle didascalie, quasi mai impiegate per spiegare i comportamenti dei personaggi, ma quasi sempre per spostare in avanti la storia, per ridurre al minimo i “passaggi” narrativi ritenuti inutili e così via. Il discorso è ancora più evidente quando dalle scelte di regia si passa ad analizzare le strutture narrative, le grandi rappresentazioni storico-religiose. 27
Nel cinema di DeMille non ci sono soltanto temi ricorrenti (come può sembrare) o valori morali da ribadire come ipotesi di un progetto unitario, c’è soprattutto un modo personale di raccontare e ambientare storie sempre diverse e sempre uguali. Le storie assolute ed esemplari di eroi ed eroine coincidono nelle loro cadenze e nelle loro soluzioni con le vicende esistenziali di donne e uomini che quotidianamente devono confrontarsi con le sfide del destino. Santa Giovanna o la casalinga che introducono e concludono il film sono due aspetti dello stesso discorso, uno complementare all’altro, una eco dell’altra. Più vicine a Propp che a Esopo o Fedro, le fabule demilliane confermano i loro valori di base, che però, con la stessa logica, potrebbero tranquillamente venire ribaltati e negati. Gli eccessi del lusso di Sansone e Dalila o il barocco kitch di Cleopatra, o le orge e le crudeltà inaudite e sempre un po’ compiaciute (donne marchiate a sangue, uomini umiliati a morte), gli amori e i tradimenti inevitabili, formano un teatro morale in cui tutto diventa ammissibile, e dove non c’è quasi mai spazio per condanne e anatemi, ma solo una messa in scena “neutrale” e talvolta cinica dei vizi e delle debolezze umane. È un atteggiamento laico, d’autore, che passa indifferentemente dal teatro filmato degli esordi ai primi kolossal storici, dai “drammi mondani” alle epopee religiose. Come ha scritto Jacques Lourcelles (cfr. Présence du Cinéma, nn. 24/25, 1967) l’insegnamento biblico e i temi del castigo e della colpa ispirano indifferentemente anche i film demilliani sulla coppia e sui pionieri, le saghe in costume come le commedie leggere. È sempre un problema di inadeguatezza personale o morale rispetto alla propria condizione esistenziale: coppie infelici perché malassortite, eroi ed eroine predestinati al martirio perché non in sintonia con le ragioni del loro tempo e del contesto in cui vivono. I conflitti sentimentali o di classe o razziali non nascono mai per caso ma sono sempre in funzione di un disegno già tracciato. A metà fra melodramma e tragedia, kolossal e teatrino di sentimenti, DeMille è invincibilmente attratto dagli uomini che ad un certo punto della loro esistenza mettono in gioco se stessi, chiamati a misurare la loro vita su valori che appaiono sempre un po’ eccessivi rispetto alle loro possibilità: e il loro destino, infatti, è spesso il sacrificio estremo, il dono dì sé. Credente sui generis, per DeMille questo è anche un modo per vivere Dio e la fede, un rapporto con la religione visto attraverso il prisma della sua fantasia personale e della sua concezione del lavoro sul set. In questo senso, al di là dei valori di merito e dei giudizi anche negativi che si possono esprimere su molti dei suoi film, DeMille è un autore moderno soprattutto per la capacità di compromettersi totalmente con le ragioni, i valori e i limiti del suo cinema, di cui si ritiene artefice e responsabile assoluto. 28
A cavallo dei secoli e dei millenni, attraversando le regge babilonesi e gli accampamenti indiani, i Grand Hotel fastosi e le case di correzione femminili, rappresentando i templi della cristianità e i bordelli della borghesia, per DeMille è sempre stato un problema di felicità e sofferenza, e di come sia possibile rappresentare tali sentimenti sullo schermo. Con il suo cinema si può partire dalla Bibbia o, indifferentemente, dalle strutture sovradimensionate del kolossal, ma si arriva sempre al lusso sfrenato o alla prosaicità della realtà quotidiana. Credo sia per questa modernità un po’ indiretta e trasversale che mentre la critica ha trascurato gli aspetti autoriali del cinema di DeMille, un autore spettacolare e popolare come Steven Spielberg ha riconosciuto in questo cinema un punto di riferimento insostituibile per la sua opera. La contiguità fra questi due autori non può essere riferita solo al modo pragmatico e disincantato di utilizzare materiali narrativi/espressivi molto riconoscibili, popolari e, quindi, inesauribili (i temi biblici come i fumetti anni ‘4O e ‘5O o i cartoons più amati dal pubblico infantile), ma soprattutto nel modo di porsi, altrettanto diretto, nei confronti dei gusti e delle attese del pubblico, non inseguendo mai le mode ma semmai imponendole. In questo senso i film di DeMille e di Spielberg si assomigliano proprio nelle loro istanze di base, come progetti estetici e come finalità produttive. Più ingenui e rozzi, di presa sicura nel disegno narrativo ma imperfetti e schematici nella tessitura minuta del racconto e nel gioco dei contrasti, i film di DeMille sono in ogni caso immediatamente riconoscibili, hanno una cifra stilistica forte e indelebile: il loro è più un marchio di fabbrica (“cinema di DeMille” appunto) che non un “touch” alla Griffith o alla Lubitsch. Più ricercati, consapevoli e sapienti, ma altrettanto diretti e chiassosi, i film di Spielberg non si omologano semplicemente alle superproduzioni correnti proprio perché non assomigliano a nessun altro modo di “fare” spettacolo, proprio perché sfuggono ad ogni regola mediologica che non sia quella della stretta specificità del cinema, della inesauribile potenzialità dello schermo. È in questa specificità che sia DeMille che Spielberg, a diverso livello, superano l’intermediazione della critica per cercare il confronto con il pubblico. Se è vero che il bisogno di cinema ha quasi sempre coinciso con il suo consumo, ci sono autori, e DeMille e Spielberg sono certamente fra questi, che hanno dato corpo e forma a quel “bisogno” di cinema indipendentemente dal tipo di consumo esistente, semplicemente sostituendolo con la loro esperienza, incarnando loro stessi, con il loro lavoro, i loro gusti e il loro mondo creativo, le ragioni del pubblico, spesso anteponendosi al pubblico o inventandosi addirittura un pubblico. È l’idea di onnipotenza sempre presente 29
nel cinema di DeMille e da cui non si può prescindere. L’idea di un cinema né completamente classico né completamente moderno, sicuramente atipico, atemporale, che ha o che manifesta una grande sicurezza, che non si arresta davanti a nulla, che fa vedere sempre tutto, senza paura e ritegni. Un cinema senza dissolvenze, né ellissi narrative, né fughe o deviazioni più o meno abili e astute. Un cinema che offre e mantiene quello che promette. Onnipotenza dunque nei riguardi del pubblico, ma anche nei riguardi dei temi, dei materiali, delle forme espressive utilizzate. A proposito di DeMille, Spielberg ha confessato una volta di non essersi mai ripreso dallo shock subito vedendo da bambino, la scena sconvolgente della catastrofe ferroviaria di Il più grande spettacolo del mondo, una scena di distruzione e catarsi, di morte e resurrezione, in cui grazie al cinema tutto si distrugge e tutto risorge. Un’immagine che per Spielberg deve essere stata quasi una specie di “scena primaria”, che difatti racconta di aver cercato di ripetere più volte con i trenini giocattolo regalatigli dai genitori e che non cessa di evocare in quasi tutti i suoi film, come anche nella scena iniziale di Indiana Jones e l’ultima crociata, con il piccolo Indi che vede materializzarsi all’improvviso, nel deserto dello Utah, trasportato da un treno in corsa prima del disastro, proprio il circo equestre filmato da DeMille in Il più grande spettacolo del mondo. Il circo e il cinema come forme estreme di un immaginario che lega il pubblico al massimo dell’illusione (l’assoluta libertà della fantasia) e al massimo della costrizione (il cerchio chiuso dell’arena e della platea, della famiglia e della tribù, dell’educazione sociale e dei doveri morali). Libertà e costrizione, cioè i princìpi essenziali del loro cinema, così apparentemente effimero eppure così rigorosamente logico, eccessivo eppure necessario. Un cinema che in DeMille (come anche in Spielberg) si pone sempre un po’ come sfida (osare un poco di più, andare sempre un poco più oltre) e come affermazione (verificare e ribadire un contatto naturale e tutto istintivo con le attese del pubblico), ma anche come possibilità di ripetere anche un po’ ossessivamente i sentimenti primari della curiosità e della meraviglia. Ha raccontato ancora Spielberg in un’intervista: «Sono nato in Arizona, in un posto dove l’aria è purissima e dove c’è la fortuna di godere meravigliose notti stellate. Ricordo che una notte, da bambino, mio padre mi ha svegliato: erano quasi le tre di mattina. Siamo andati su una collina dietro casa e abbiamo disteso in terra una coperta. Ci siamo sdraiati e, sopra di noi, abbiamo ammirato una pioggia favolosa di meteoriti. Era uno spettacolo straordinario. Da quella volta, la mia testa è rimasta un po’ fra quelle nuvole, in mezzo a quelle stelle». È un ricordo che assomiglia molto a quello confessa30
to da DeMille nella sua autobiografia: «Quando avevo undici anni, ogni sera mio padre ci leggeva un brano dell’Antico Testamento, uno del Vangelo e spesso anche un episodio della storia americana, oppure un brano di Tacheray, Victor Hugo o qualche altro autore classico. Aveva una voce forte e molto bella, ben modulata, un grande senso drammatico. Voleva fare l’attore. Con lui ogni cosa che leggeva sembrava vera». Ecco, la Bibbia, l’astronomia e la fantascienza, il passato e il divenire, la realtà, lo spettacolo, il cinema, cioè un mezzo che consente allo spettatore di vedere cose impossibili (o proibite), che fa sembrare vere anche le fantasie. Nei kolossal come li intendeva e realizzava DeMille non è mai stata una questione di dimensioni ma di scelte espressive. Non un cinema semplicemente grandioso, volutamente sovradimensionato, ma un cinema capace di far assomigliare il più possibile l’emozione del pubblico immerso nel buio di una sala cinematografica allo stupore di un bambino sotto un cielo carico di stelle. In Segno Cinema (“Sotto un cielo di stelle”), n. 47, gennaio-febbraio 1991
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LUIS BUNUEL: LA COSCIENZA DELL’IRREALTÀ Realista visionario, moralista anarchico, miscredente mistico, pessimista senza disperazione: suggestive e sempre insoddisfacenti queste e altre definizioni date di Luis Buñuel e del suo cinema, nel cercare di dare forma e confini ad una indeterminatezza estetica ed espressiva che è vano, e forse controproducente, delimitare e decifrare. Come la lettera rubata di Poe, il mistero del cinema di Buñuel è di essere cinema pochissimo misterioso, un corpus estetico e linguistico che si definisce proprio nell’impossibilità di definire l’indefinibile o, più precisamente, nell’inutilità di distinguere nei suoi film il reale dal fantastico, l’istinto più naturale, vitale e segreto degli uomini dalla ragione e dalla logica («Le immagini, come quelle del sogno - dice Buñuel non riflettono mai la realtà: la creano»). Dunque, tentare di decifrare la personalità di un autore come Buñuel o la natura del suo cinema (complesso, ondivago, provocatorio ma sempre coerente) secondo i parametri tradizionali della contraddizione o dell’ambiguità, può essere riduttivo perché significa in qualche modo rinviare il momento di un’analisi più materialistica, in cui le opere di Buñuel vengano prese per quello che realmente sono, non elementi funzionali ad un assioma estetico e ideologico, ma un modo di avvicinare e rappresentare la realtà senza schemi e supporti linguistici precostituiti. In Buñuel il punto più estremo di surrealismo è stato raggiunto non con le deliranti fantasie di Le Chien andalou, ma nella realtà degradata e nella follia di Las Hurdes. In questo senso nel suo cinema le “contraddizioni”, le “rotture”, gli “scandali normativi”, sono luoghi ricorrenti di un itinerario consapevole, sono elementi di un tutto, ma sono soprattutto loro stessi, i testi, il corpus dei film, i segni di ogni possibile chiarimento e approfondimento. Dal surrealismo al manifesto politico, dal documentario alla fiction, dall’invettiva blasfema all’apologo morale, in Buñuel c’è sempre la compresenza di materiali spuri, appartenenti a campi semantici ed emotivi diversi. Peculiarità del suo cinema è di non rendere mai manifesti i caratteri opposti, e comunque di non considerarli mai irreversibili, ma viceversa di fare convivere e interagire, con una giustapposizione mai sottolineata, la natura e il senso più intimo dell’uno e del suo contrario. Fondendo insieme l’assurdo con il quotidiano, lo scandalo con la norma, la forza prorompente dell’irrealtà e la misura oggettiva della ragione e della logica, Buñuel non normalizza i contrasti, ma li rende invece vitali, li dilata, li esaspera, dona loro ulteriore slancio, vigore e potenzialità espressiva. È da qui che nasce il senso liberatorio di un cinema che ha in sé la capacità di porre 32
sempre il sogno (e l’incubo) all’interno di un disegno narrativo in cui anche le stranezze e le anomalie più estreme si spiegano e si motivano con gli accadimenti più naturali, e dove la realtà rappresentata appare ambigua, vulnerabile, pronta sempre ad essere contraddetta e superata. Quelle filmate da Buñuel sono zone di realtà “certe”, sociologicamente e narrativamente riconoscibili (il mondo dei diseredati e dell’alta borghesia, i mendicanti e gli aristocratici, i prelati, i massoni, i miscredenti, i tutori della legge e i banditi, gli analfabeti e i filosofi). E in questo universo, “certo” e insieme inaffidabile, dove, per esemplificare, i folli si esaltano nella beatitudine e i santi tradiscono in ogni momento la loro perversione, Buñuel riafferma di film in film una cifra d’autore indelebile: per capire il mondo e le sue leggi non si può fare a meno del sogno, del mito, dell’irrazionale, di un po’ di follia. E in questa utilizzazione ossessiva degli stessi materiali e procedimenti, la sua filmografia, pur piena di rotture e scarti laterali, trova una continuità di fondo e dunque una proficua ipotesi di lettura. Il sacro è visto come una dimensione esistenziale in cui si svelano meglio i sintomi e le patologie, la promiscuità dei diversi è la riconferma di un’unitarietà in cui si compongono e scompongono sviluppi inattesi e combinazioni di segno uguale e contrario. In questo procedere, Buñuel non si limita ad allineare spunti narrativi e soprassalti emotivi, ma li accumula e moltiplica, quindi in qualche modo li annulla. In termini linguistici, la singola inquadratura e la sequenza, il dettaglio e l’insieme, costituiscono poli autonomi e corrispondenti di una stessa possibile lettura e/o interpretazione: la metafora o il simbolo, il materiale onirico e la rappresentazione oggettiva non si sovrappongono ma sono elementi che alludono sempre a “qualcosa d’altro”, qualcosa che determina dubbi o incute inquietudini, che comunque mette a disagio anche parlando di cose “estreme” e quindi “lontane”. Interessante non è dunque indagare l’anomalia di un cinema che anomalo non è, ma capire semmai la meccanica di un procedimento che riesce ad essere “realistico” sovvertendo ogni pratica di realismo. Se la coscienza della realtà è sempre pre-supposta e quindi vissuta, necessariamente, con quotidianità e disattenzione, il momento successivo della percezione costringe a ripercorrere esperienze ed emozioni, a rivalutare osservazioni prima trascurate, a superare infine lo stato di emotività facendolo coincidere con un altro successivo, più controllato e razionale. Scoperta la discriminante realtà/irrealtà: l’irrealtà che stimola e dilata il momento riflessivo, l’emotività chiamata a confrontarsi con la ragione, la situazione “abnorme” (irreale) che si presenta attraverso stereotipi e convenzioni, tutto questo determina un 33
atteggiamento vigile (“critico”) rispetto alla materia proposta, al di là dell’arbitrarietà di partenza e del soggettivismo più sfrenato. Quindi, la percezione della realtà come coscienza dell’irrealtà, come razionalizzazione delle emozioni più estreme: se gran parte del cinema di Buñuel non è soltanto questo, è però soprattutto questo. L’apparente “eccentricismo”, le “anomalie”, le “provocazioni”, il surrealismo, sono quasi sempre la disarticolazione di un frammento isolato della realtà rispetto al contesto cui quel frammento appartiene. La realtà rappresentata in film come Bella di giorno o Tristana o anche Estasi di un delitto non è mai astratta, né espressionisticamente deformata, è semplicemente dislocata fuori delle normali attitudini percettive e interpretative. Buñuel, con le sue provocazioni (narrative, stilistiche, espressive), stimola la coscienza e la disattenzione dello spettatore, e questa semplice operazione, che risale alle origini del cinema (Lumière), riesce ad essere di per sé dirompente proprio perché “naturale”, apparentemente fuori da ogni “progetto”, quasi involontaria. Parallelamente a questo processo di sterilizzazione della realtà, il cinema di Buñuel rifiuta lo statuto della narrazione come elemento centrale su cui fondare il processo comunicativo con lo spettatore. I personaggi e le situazioni dei suoi film sono “riconoscibili”, come abbiamo visto, nei loro dati sociologici, ma anche, linguisticamente, come oggetti-stereotipi di un “intreccio” sempre inteso come pura convenzione. Nei personaggi buñueliani, come nell’evolversi delle situazioni, tutto si svolge secondo un processo che può apparire a volte illogico e trasgressivo, ma che è comunque ineluttabile. Séverine, protagonista di Bella di giorno (forse il film più esemplificativo alla luce di questo discorso) o Tristana, protagonista dell’omonimo film, sono poste fuori di ogni possibile dialettica: immerse in un tempo e in uno spazio illusori (il tempo e lo spazio della loro immaginazione: senza nostalgie per il passato, senza attese per il futuro), compiono azioni separate da un momento psicologico o da una riflessione che in qualche modo le motivi. Esse non sono chiamate a compiere delle azioni, ma semplicemente a rappresentarle. Il loro itinerario è prevedibile solo nella circolarità a cui sono condannate, nell’ineluttabile vertigine di dover comunque ritornare al punto di partenza o di non poter riuscire a bruciare i ponti alle spalle. Quasi appunto che l’impasse, il girare a vuoto, la prevedibilità degli accadimenti (o la prevedibilità di ogni possibile colpo di scena) servisse in qualche modo ad accentuare il loro distacco emotivo e, quindi, a provocare effetti di volta in volta più profondi e laceranti. In questo senso è significativo l’uso della memoria e del flash-back nel cinema di Buñuel: mai tradizionale, mai impiegato come “rimando a...” o 34
come soluzione che serva a spiegare alcuni passaggi della storia. In film come Bella di giorno o La via lattea o Il fascino discreto della borghesia, il flash-back o il flash-forward, o comunque la dimensione onirica e fantastica, oltre ad aver un tempo e uno spazio del tutto autonomi, rimangono elementi linguisticamente e stilisticamente ambigui nel loro porsi come antitesi espressive del “presente rappresentato” o del “passato evocato”, nella sovversione e nel ribaltamento di ogni elemento temporale, di ogni procedimento di causa/effetto. Anche qui Buñuel fonde la metafora con il realismo, non ne dissocia i diversi statuti espressivi, non ne valorizza dialetticamente i contrasti: decontestualizza semplicemente il dato reale e sottolinea l’ambiguità della metafora. Le immagini non sono, così, mai omologhe all’oggetto che rappresentano, ma il senso (il loro fine demistificatorio) supera la forma che le costituisce, definisce e motiva (la loro strutturazione tradizionale). L’ambiguità, quindi, non come valore in sé, ma come iterazione di un equivoco interpretativo, come un possibile tramite fra simbolismo e demistificazione del simbolo stesso. Voler interpretare i film di Buñuel, dunque, significa spesso giungere a scorgere nel “film” il “non-film”, con un’operazione certamente arbitraria che non soddisfa mai del tutto, non concilia, non ripaga. Nei rapporti con lo spettatore tutto si risolve nel rinvio ad un individuale e soggettivo prolungamento interiore. Che, da solo, è un gran bel risultato. Insomma, qualsiasi “interpretazione” del cinema buñueliano è puntualmente rimessa in gioco dal valore di scambio dei vari piani espressivi messi in campo (affermazione/ negazione, sogno/realtà, libertà/costrizione ecc.) e dalla realtà rappresentata, che ogni volta irride (e insieme conferma) anche la più estrema delle fantasie. «I sogni non si approvano né si giudicano, li si sogna, semplicemente», dice Luis Buñuel, e in questa frase c’è, evidentemente, anche la definizione di un modo di vivere e intendere il suo cinema. Così come i suoi film, pieni di lucidi incantesimi e inquieti risvegli, Buñuel è realistico e utopico insieme: rappresenta storie e fatti di cronaca (ma niente, si sa, è più politico della cronaca), e non si stanca di evocare sogni (ma niente, si sa, è più realistico del sogno). In Cinema & Film (“Belle de jour come coscienza dell’irrealtà”), n. 4 - autunno 1967; poi in Cinecritica, n° 15 - ottobre/dicembre 1989
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HENRI ALEKAN: LO SGUARDO DEGLI ANGELI Il cinema non è l’arte del bianco e nero, è invece l’arte del grigio, dell’infinita gamma di colori e sfumature possibili fra il bianco lattiginoso e sfuggente della dissolvenza e il nero ambiguo di una “notte americana”. Lo ha detto e dimostrato il grande Henri Alekan con più di 50 anni di carriera da direttore della fotografia spesi soprattutto a provare la fondatezza di un partito preso estetico: è sempre più vera una luce ricreata in teatro di posa che non una luce inseguita in esterni e poi forzatamente corretta con filtri e riflessi. Una lezione antica, imparata lavorando con Jean Cocteau (La bella e la bestia, 1945) e Marcel Carné (La vergine scaltra, 1949), e mai più rinnegata, neppure sui set di Wyler (Vacanze romane, 1953) o Wenders (Lo stato delle cose, 1982), di Losey o Robbe-Grillet. Racconta la leggenda che un giorno, liceale in vacanza a Villefranche-surMer, Alekan assistette alle riprese di un film americano. «Un prodigioso dispiegamento di mezzi tecnici - ha ricordato in un’intervista - trasformava ogni sera il porto della città in una grande magia. Passai cinque notti in bianco e furono le notti che decisero la mia vita». La differenza è che l’impegno di Alekan nel cinema è stato soprattutto di affrancarsi il più possibile dalla dovizia dei mezzi messi a disposizione dalla tecnica e dalle produzioni miliardarie e di ottenere invece il prodigio della luce e del tono giusto solo con quello che era messo a disposizione. «Per modellare bene la luce – ha detto - non è vero che occorrono strumenti scientifici, bastano delle buste di cellophane. E le ombre si fanno anche usando il tulle e la carta. Gli unici autentici miracoli li fa sempre la pellicola, che è passata negli anni da 12 a 400 ASA e molto oltre». Che vuol dire raggiungere il massimo del realismo con il più dichiarato degli artifizi: in questo Henri Alekan è davvero un maestro irraggiungibile. Lo sa bene Wenders che per Il cielo sopra Berlino ha quasi costretto l’ottantenne Alekan a tornare per lui sul set. «Solo Alekan - ha ammesso Wenders - avrebbe saputo ricreare l’universo magico degli angeli, esseri che non conoscono il mondo fisico e neppure i colori». Lo sguardo degli angeli e il colore del bianco e nero. Un battito di ciglia in primissimo piano a riempire l’obiettivo, qualcosa che sta nell’aria, sospeso sullo schermo, e forse già non c’è più. Il bianco e il nero del cinema, e fra l’uno e l’altro l’infinita gamma di grigi di Alekan. In Dolce vita, anno II, n. 14, novembre 1988
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L’EFFETTO MANOEL DE OLIVEIRA Classe 1908, Manoel De Oliveira comincia a fare cinema nel 1929, ma, a parte gli addetti ai lavori, pochi fuori del Portogallo se ne sono accorti fino a metà degli anni Sessanta (Acto da Primavera e A caça) e poi all’inizio degli anni Ottanta, quando il clamoroso successo del suo Francisca (1981) lo fa diventare autore di culto. È sempre negli anni Ottanta che il cinema di De Oliveira assume la sua definitiva struttura formale, e che i suoi film cominciano a parlare con un ritmo “diverso”, scandito e solenne, a raccontare storie narrativamente essenziali (anche se ispirate a drammoni d’amore borghesi), ad esprimersi con una teatralità accentuata e, infine, ad essere segnati dalla saudade e dal rimpianto. Uno spostamento estetico notevole e quasi impensabile in un autore partito dal naturalismo estremo (Douro, faina fluvial, 1929) e dal documentario (Famaliçao, 1941). È con Acto da primavera (1963), lungometraggio girato con dei contadini che in un villaggio recitano la passione di Cristo, che De Oliveira resta colpito dalla staticità ieratica dei protagonisti di quella rappresentazione popolare, e cambia radicalmente il suo modo di girare. «Il partito preso di moltiplicare i piani ravvicinati - scrisse all’epoca Jean-Claude Biette su “Cahiers du Cinéma” – opera una fusione di stoffe monocrome, di visi, di capigliature, di frammenti di cielo e di piante, che assicura una continuità musicale dove l’armonia riveste il canto». E con questo accorgimento stilistico il film ottiene dal pubblico una «comunione totale e insieme un distanziamento pagano». La corona di spine, i chiodi, la lancia nel fianco del Cristo, il sangue, trovano nel contesto naif della messinscena una forza sconvolgente, pari alle inquadrature di Hiroshima, delle guerre, dei campi di sterminio nazista. Da allora i fondali dipinti diverranno una regola nel cinema di De Oliveira (come i trasparenti nei film di Hitchcock), e la parola (o meglio, il profluvio verbale dei protagonisti) sarà l’elemento centrale di un cinema estremo che rifiuta per scelta “l’oscenità del mostrare”. Il melodramma sembra a De Oliveira il genere ideale per raccontare l’anima più profonda e aristocratica della società portoghese, e nei suoi film il calore delle passioni viene sottolineato sia dagli elementi naturali (il vento, l’acqua, il fuoco), sia dall’inevitabile evolvere dei destini umani (desiderio, morte, tradimento). È la stagione più felice di De Oliveira, scandita da capolavori come O Passado e o Presente (1971), Benilde, ou a Virgem Mae (1975) e, appunto, Francisca. Oggi De Oliveira è un Maestro riconosciuto e per consentirgli di realizzare il suo kolossal, Le soulier de satin, si sono addirittura mobilitati i Ministri della cultura francese, Jack Lang, e portoghese, 37
Coimbra Martins. Giustamente, perché Le soulier de satin, è un’opera-testamento per molti aspetti, non certo per l’età di De Oliveira (che ha tutta l’intenzione di continuare a lavorare a lungo), e neppure per le sue dimensioni (sette ore di durata, 85 personaggi), ma perché mette il punto, nel segno della perfezione formale, a una lunga fase creativa. Le soulier de satin racconta gli anni mitici della storia dell’occidente a cavallo del ‘400 e ‘500, l’epoca delle grandi scoperte e delle navi dei Conquistadores, il momento in cui il vecchio e il nuovo mondo si incontrano e gli imperi coloniali vivono il loro trionfo. Su questo sfondo di radicali trasformazioni geografiche, storiche, culturali, Manoel De Oliveira costruisce il suo film forse più grande e definitivo, ispirandosi all’omonimo poema di Paul Claudel. La trama del film è praticamente irraccontabile, per la moltitudine dei personaggi e i labirinti dell’intreccio. In estrema sintesi è una storia di continenti e di imperi, di grandi viaggi e umane dannazioni, vista attraverso l’infelice vicenda d’amore di Don Rodrigo, nobile cavaliere spagnolo, e Donna Prodezza, giovane moglie del vecchio Don Pelagio, governatore di un piccolo protettorato africano. Un amore maledetto segnato dal destino (sul punto di seguire il suo amante, Donna Prodezza offre simbolicamente alla Vergine la scarpa di raso del titolo: andrà incontro al male, ma lo farà “zoppicando”). Un amore ostacolato da avventurieri e pirati, assedi e battaglie, disobbedienze e rinunce: più che un amore un desiderio inestinguibile, un sogno inaccessibile. Ma la storia è solo il supporto di un’opera che è ricca come un tesoro, traboccante di stelle e pleniluni («notti con le stelle/lustrini rapidi sul tuo vestito frangiato di infinito», Claudel), di deserti e oceani, palazzi reali e campi di battaglia, e in cui i personaggi (dovere dell’epoca e del rango) non si limitano a spostarsi da un paese all’altro, ma affrontano continenti (l’Africa, l’Europa, le Americhe). Opera gigantesca e anomala, dove il classico “più classico” assomiglia all’avanguardia più smodata, interamente giocata sull’accumulazione e sulla percezione visiva, Le soulier de satin è una festa dell’immagine, una “magna charta” cinematografica che misura l’amore e la sete di potere, ma anche il cosmo, la terra degli uomini e il mondo degli dei (che più volte scendono in campo), e dove il fedele trova il suo Dio, il laico trova conferma nell’imponderabile e nel dubbio, il romantico la provvisorietà dei sentimenti, e così via. Tutto questo raccontato con lo stile consueto di De Oliveira, severo e rigoroso, metodico e rituale. La narrazione è suddivisa in capitoli e siparietti, separati da titoli e didascalie. La centralità della macchina da presa, bloccata a delimitare uno spazio fisico e un campo visivo assolutamente astratti e idealizzati, all’interno di situazioni ed eventi che si svolgono “prima e dopo”, e sempre altrove, da cui giungono solo echi e accennate reazioni. Movimenti di 38
macchina limitati al massimo, quasi sempre piccoli spostamenti laterali, mentre la profondità di campo è misurata dai personaggi che, di volta in volta, si avvicinano e si allontanano dall’obiettivo. Una recitazione classica, priva di emozioni che non siano quelle della parola e del verso, con gli attori che pronunciano i loro lunghi monologhi restando immobili, quasi in stato di trance e spesso guardando ostentatamente in macchina, ad eleggere l’occhio dello spettatore come privilegiato interlocutore. Uno stile di regia che naturalmente attira le accuse di sempre. Cinema teatrale, teatro filmato. Niente di più falso. Quello di De Oliveira è cinema al cento per cento della sua potenzialità espressiva. In teatro l’occhio dello spettatore si sposta, sceglie, privilegia. Nell’inquadratura di De Oliveira, fissa e reiterata, lo sguardo dello spettatore non ha scampo ed è costretto a non perdere nulla. Il risultato è che il campo visivo delimitato dalla focale – in cui tutto avviene e tutto il resto è escluso – moltiplica e dilata il senso espressivo ed emotivo dell’immagine. Importanti non sono mai i personaggi inquadrati e neppure le parole che dicono, ma i pensieri che stanno dietro e muovono tutto. Tra l’altro, Le soulier de satin è anche il film in cui De Oliveira affronta più esplicitamente (quasi ironicamente) la dialettica teatro/cinema. Mostrando il teatro con i suoi orpelli e i suoi trucchi scenici (fondali, dipinti, praticabili girevoli, boccascena, ecc.) e sovrapponendogli il cinema con il set pieno di luci, i macchinisti che in abiti moderni si mischiano agli attori in costume. Le soulier de satin è probabilmente il film della piena maturità espressiva di De Oliveira, per la smagliante bellezza delle immagini, per la gamma dei colori (la pittura di Rubens prima di tutto), per la perfezione della presa diretta, per la maestosa scansione dei tempi narrativi, ma soprattutto perché porta all’estremo limite l’idea teorica che sostiene tutto il suo cinema. Cinema monocorde e monotono, ma che ad entrarci “dentro”, nei suoi ritmi misteriosi e nel suo respiro, diventa una fonte inesauribile di emozioni e scoperte. Cinema formalisticamente bloccato, ripetitivo, certo, che però sa utilizzare, prodigiosamente, pittura, scultura, musica, danza, canto. Cinema classico, ma anche cinema moderno per le provocazioni che impone e le reazioni che determina. A 77 anni De Oliveira ammette di essere ancora alla ricerca di cosa sia quello strano “poissonne” (pesce femmina) che è il cinema, «un animale sopravvissuto ad epoche e a ingenuità» (le invenzioni di Méliès, gli entusiasmi del cinéma-direct, le strattonate delle avanguardie). Un cinema che ha fatto tanta strada e ne farà altrettanta, verso i suoi limiti più insondati, esattamente come insiste a fare, perfetto e totale com’è, il cinema di De Oliveira. In Reporter, 3 settembre 1985 39